Urgenza di agire

I nostri missionari e missionarie che operano nei paesi dell’Africa subsahariana con ospedali, dispensari, orfanotrofi e altre iniziative di sviluppo, continuano a lanciare drammatici appelli per salvare il continente dalla pandemia dell’Hiv/Aids. Parlano di moribondi al ciglio delle strade, di orfani in aumento, di scomparsa di un’intera generazione, soprattutto la classe dirigente e produttiva, di fantasmi ancestrali alla ricerca del colpevole. Siamo di fronte a un dramma che distrugge il tessuto sociale, economico e culturale di interi paesi, già minati da povertà, carestie, malattie, annullando ogni possibilità di costruire un futuro e coinvolgendo nella tragedia l’intera umanità.
Senza contare che l’Aids sta mettendo a rischio il loro lavoro di evangelizzazione e di formazione di comunità cristiane. «Siamo stanchi di procurare bare e impartire benedizioni funebri – dicono -. Ci stiamo impegnando in iniziative di educazione alla prevenzione, di attenzione e cura delle gestanti, perché nascano bambini senza il virus, di lotta contro i pregiudizi, la paura e l’emarginazione».
Tale appello è stato raccolto e concretizzato nel giugno 2004, con la costituzione del comitato «Salute Africa», per volontà degli Istituti dei missionari e missionarie della Consolata, l’ospedale Koelliker, le associazioni Amici Missioni Consolata e Impegnarsi Serve Onlus. Scopo del comitato è lanciare programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids, nell’ambito di una Campagna la cui chiusura è prevista per la fine del 2006, ma che potrà essere prolungata, se le condizioni lo richiederanno.
Il 2004 doveva servire a preparare le basi e gli strumenti di tale Campagna; invece si sono già concretizzati alcuni risultati, sia in termini di diffusione, sensibilizzazione e apertura di segreterie in varie regioni d’Italia, sia sotto l’aspetto economico, con la raccolta di fondi che hanno già finanziato diversi progetti.

Una delle più importanti iniziative della Campagna è stato il convegno «Pandemia Aids: Africa chiama Italia», organizzato a Torino il 1° dicembre scorso, giornata mondiale dell’Aids, per far conoscere la malattia dell’Hiv nella sua complessità e gravità, affrontando ed esaminando le variabili di ordine economico, etico, giuridico, sanitario e politico che influiscono sul suo dilagare, e trovare contemporaneamente risposte concrete anche dall’incontro tra esperti africani e italiani, che dedicano la loro professionalità alla lotta contro la diffusione.
In questo numero monografico della rivista Missioni Consolata troverete gli estratti del convegno uniti ad altri documenti, testimonianze, riflessioni e previsioni sull’argomento. Potrete inoltre documentarvi sulle attività già svolte e sulle iniziative in programma della Campagna e su tutti gli strumenti a disposizione per prendee parte in prima persona, ciascuno secondo le proprie possibilità.
Abbiamo parlato delle sciagure che affliggono l’umanità, come le guerre e le nuove schiavitù: di fronte a questo genocidio strisciante, che minaccia l’umanità e, soprattutto, il continente africano, non possiamo tacere, sia come missionari che come cristiani. Anche in coloro che sono colpiti dalla sindrome di immunodeficienza Cristo continua la sua passione, morte e risurrezione: «Ero malato e…». Dipende da noi la capacità di riconoscerlo e servirlo nei nostri fratelli e sorelle colpiti dalla pandemia.

Silvia Perotti




ISLAMLe donne di Allah

Erano alla ricerca di un’identità e di un ruolo. Hanno trovato un universo ordinato, dove uomini e donne hanno uno spazio e compiti ben delimitati. I diritti negati o ristretti sono «compensati» dalla mancanza di confusione nei ruoli e dalla certezza delle regole islamiche. Le storie di Nadia, Aziza, Chiara, Barbara, Maryam, Nura. Senza dimenticare che «non è tutto oro ciò che luccica».

NADIA: EX-FEMMINISTA, EX-COMUNISTA

Nadia ha 40 anni. È un’insegnante d’italiano, ex femminista, ex comunista.
Ha incontrato l’islam attraverso Yassin, un giovane algerino immigrato in Italia cinque anni fa. Lui le ha parlato della sua terra, della sua religione, le ha prospettato un universo ordinato, piuttosto semplice, organizzato per scale di valori e ruoli ben determinati, dove la figura femminile e maschile ha una connotazione, uno spazio e dei compiti ben precisi. Un’identità, insomma, riconoscibile sia all’interno della famiglia, sia nella società (islamica, s’intende).
Nessun dubbio, dunque, nessuna confusione, niente più crisi esistenziali. Neanche quando lei, abituata per decenni a rivendicare i propri diritti di donna libera, se li è visti negare o restringere all’ambito delle mura domestiche e delle poche attività religiose.
Foulard beige e un lungo soprabito celeste la proteggono dagli sguardi maschili, che potrebbero ferirla nella sua dignità più profonda. «In questo modo – afferma con severa dolcezza – la donna è tutelata e non rischia di essere ridotta ad oggetto sessuale».
L’esperienza di Nadia non è singola: altre donne, anche molto giovani, sono attratte dall’islam. Confusione nei ruoli tra maschile e femminile, identità sessuali traballanti, vuoto ideologico e spirituale, profonde insicurezze personali e caratteriali, trovano per loro una risposta e una risoluzione. Per alcune, l’adesione all’islam è anche una sorta di reazione allo sfruttamen- to per fini commerciali che l’Occidente attua nei confronti dell’immagine femminile attraverso l’ambiguo e discutibile richiamo sessuale.

AZIZA: LA «PRINCIPESSA» TIMIDA

Aziza ha 26 anni. Ha iniziato ad interessarsi all’islam quando, verso i 15, ha conosciuto un gruppo di ragazzi maghrebini. Torinese d’adozione, proviene da una famiglia pugliese molto cattolica. Timida, un po’ impacciata, con lineamenti poco aggraziati dietro a un enorme paio di occhiali e a un hijab che le nasconde i capelli – peraltro già molto corti. Ha imparato l’arabo classico e il dialetto marocchino, ha letto molti testi islamici, ha visitato alcuni paesi arabi e ha fatto il pellegrinaggio sacro, lo hajj, alla Mecca.
«Indossare il velo è stata una mia scelta – sostiene – per essere più coerente e rispettare la shari ‘a, la legge islamica». Forte è il suo desiderio di adeguarsi al «gruppo», di corrispondere anche esteriormente alle «regole», di essere accolta e accettata all’interno della comunità islamica locale. Di compiacere forse il «padre», quella figura maschile che, nella sua storia personale, ha abbandonato la famiglia quando lei era ancora piccina.
Nella piccola moschea ricavata da un magazzino, al centro di Torino, dove lei si occupa dei bimbi immigrati e dei figli delle coppie miste educati secondo i precetti coranici, tutti la stimano e le vogliono bene. E come non volergliene con quell’aria mite e disponibile e con quella voce che pare uscire a fatica dalla sua gola avvolta nel foulard?
Ha trovato la sua identità, Aziza, che aveva perso durante un’adolescenza un po’ buia e solitaria. Ha scoperto il suo ruolo e un mezzo per superare i momenti di agitazione e tristezza.
«La mia famiglia non vedeva di buon grado questa mia scelta, avrebbe preferito sapermi come altre ragazze che si divertono, che frequentano le discoteche e si vestono in un certo modo. Anch’io esco, vado al ristorante o al cinema, ma tutto entro certi limiti. Non comprendo come molti giovani possano distruggere le loro vite con droghe, alcornol, musica assordante, corse in autostrada a folle velocità…».
«Adesso mia madre e i miei fratelli hanno accettato e mi rispettano, come io ho sempre fatto con loro senza pretendere che seguissero le mie orme».
Eri cattolica praticante prima di convertirti all’islam? «Ritornare all’islam, vuoi dire? Sai, siamo tutti musulmani, alle origini, anche se molti hanno abbracciato altre fedi o non ne hanno neanche più una. Nella sura “al-Nasr” si legge che molta gente del Libro (gli ebrei e i cristiani, ndr) si convertiranno all’islam. Andavo a messa con mia madre, ma non ero a mio agio lì, in chiesa. Avvertivo una sensazione di vuoto interiore, di insoddisfazione, come se quella non fosse la mia strada. E, quando ho preso a frequentare gruppi di amici arabi e a leggere il corano, ho capito che quello era il mio posto».
I musulmani della tua comunità come ti considerano? «Come una di loro, un’italiana entrata nell’islam. Mi rispettano molto. Gli uomini addirittura esagerano: mi trattano come una principessa».
Sei felice? Sorride e risponde con un allegro «al-hamdu li-llah», «grazie a Dio», alla maniera araba.
Vuoto esistenziale da colmare, profondo richiamo verso una dimensione spirituale, ma anche motivazioni sentimentali sono alla base di un certo successo dell’islam fra le donne in tutta l’Europa.

CHIARA: SOLO CON IL PERMESSO DEL MARITO

Chiara, maestra di scuola nel cuneese, trent’anni, bionda e simpatica, due bellissimi figli piccoli, ha abbracciato l’islam per amore, anche se, assicura lei, suo marito, egiziano, non glielo aveva chiesto.
Perché l’ha fatto, allora? «Ero alla ricerca di qualcosa, a livello spirituale, che mi convincesse. Il cattolicesimo non mi aveva mai entusiasmato. Quando ho conosciuto mio marito ho iniziato a leggere il corano e gli ahadith; ho preso a frequentare la moschea e alcune donne arabe che mi hanno seguito nei miei studi. L’islam ha riempito il vuoto che sentivo dentro».
Ora lei si è totalmente adeguata allo stile di vita e alle idee del marito, dicono le sue colleghe, e a quelle della cultura a cui lui fa riferimento: non può uscire di casa senza il suo permesso e, quando lui è fuori per lavoro, deve andare con i bimbi dalla madre. In casa, a cena, c’è un andirivieni di amici a cui lei prepara continuamente cene…
Ma sembra felice, Chiara, nei suoi grandi occhi azzurri, mentre ci fa vedere come ha imparato bene ad eseguire alcune flessuose danze locali. Già, pare proprio una donna araba!

BARBARA-AISHA:
LA «SECONDA MOGLIE»

Carmagnola (Torino). Case di proprietà comunale. Prima di lasciarci salire nel suo appartamento, Aisha si accerta che non vi siano uomini nelle vicinanze. «Sa, in casa nostra pratichiamo la separazione tra i sessi, e quando ci sono degli uomini io mi ritiro in un’altra stanza» afferma con un sorriso che le illumina il giovane volto incoiciato dallo hijab.
Barbara Farina, 25 anni, è sposata con solo rito islamico ad un sociologo senegalese, ex-imam della moschea di Carmagnola, ed è madre di un bimbo di due anni.
Aisha-Barbara è una «mujahidat-Allah», cioè una «combattente per la guerra santa di Allah». Direttrice di un giornalino chiamato «al-Mujahidah», arrivato al suo terzo numero, raccoglie e pubblica opinioni giuridiche (fatwa), scritti e riflessioni sulla donna musulmana, sulla morale e sul retto comportamento islamico, per aiutare, afferma lei, le altre sorelle italiane nel cammino di fede.
Nel 1994 il suo nome e il suo viso fecero il giro dei mass-media italiani: portavoce di tutte le altre musulmane residenti nel nostro paese, era la prima a rivendicare il diritto di essere ritratta con il velo islamico sulla carta d’identità.
Ma che cosa dell’islam ha attratto lei, ragazza occidentale? «Il senso di giustizia sociale, il rispetto per valori come quello della famiglia e del ruolo della donna, che la cultura europea ha perso. Più leggevo il corano e più sentivo di appartenere a quel mondo, dove fede e pratica sono congiunte indissolubilmente».
Quando è avvenuta la sua conversione? «Ho incontrato l’islam nel 1993, a seguito di un corso di studi orientali all’Ismeo di Milano».
Religiosa praticante e convinta, sogna di andare a vivere in uno stato dove la shari‘a, la legge islamica, sia applicata in tutti gli ambiti dell’esistenza umana, dove ai ladri e ai disonesti vengano mozzate le mani e dove gli adulteri siano duramente puniti. Nell’attesa, indossa la jallabiyya, una lunga veste che le arriva sino ai piedi, si nasconde i capelli sotto lo hijab e, quando esce di casa, si copre il viso con il burqa, un velo nero integrale e il corpo con la abaya.
Corano alla mano, ad un certo punto Barbara- Aisha è entrata nella vita di un’altra coppia, quella di Abdelkader Fall Mamour, il ricercatore senegalese con cui ha contratto, nel 1995, matrimonio religioso, e di Patrizia Venturella, una giovane operaia della provincia torinese, ed è divenuta la «seconda moglie». Fino al momento in cui la «prima» consorte, esasperata, ridotta all’anoressia e all’indigenza, non è scappata portandosi dietro il proprio figlioletto.
Per lo stato italiano, dunque, suo marito era bigamo? «Per la nostra legge no. Un uomo, se può permetterselo, è autorizzato a contrarre matrimonio anche con quattro donne».
E lei è d’accordo con questo? «Sì, se serve per aiutare una donna vedova, con figli e in difficoltà; oppure per dare dei bambini ad un uomo la cui prima moglie è sterile o malata. La poligamia non è ammessa sempre e comunque. Non è un capriccio, bensì una necessità».
Allora, nel vostro caso si è trattato di una necessità? Quale? «Patrizia non era musulmana e mio marito voleva una moglie che potesse condividere con lui la fede, educare islamicamente i suoi figli… e lei non poteva assumersi questo compito. Si era, infatti, avvicinata alla religione e alla cultura di Abdelkader solo per compiacerlo, non perché veramente le interessasse questa realtà. Io fui invitata a casa loro proprio per “educare” Patrizia all’islam e unirla maggiormente a suo marito. Tuttavia, lui capì che io ero la donna giusta e così ci sposammo in moschea. Patrizia, inizialmente, sembrava d’accordo, ma poi decise di andarsene via con il bambino. Da lì a poco sporse denuncia per maltrattamenti».
Barbara parla con slancio, senza fermarsi un attimo. Pare molto sicura del fatto suo e della sua posizione. Ma cosa può averla spinta a convertirsi all’islam prima, e ad insinuarsi all’interno di una coppia già sposata, dopo?
«L’islam protegge le donne, non le lascia sole, anche in caso di divorzio. Eppoi, in Occidente, quanti uomini mollano le mogli per altre donne o le tradiscono di nascosto, e ciononostante si professano monogami? Allora, non è meglio essere sinceri e fare tutto nella legalità?».
La scelta radicale di Barbara può forse trovare una spiegazione nella sua storia personale. Sembra infatti che, quando era piccola, suo padre abbia abbandonato la famiglia per un’altra donna. Questo, secondo Aisha-Barbara, egli fosse stato musulmano e, semplicemente, avesse potuto prendere una seconda moglie.
In realtà, neanche nelle società islamiche le cose funzionano sempre così: molte mogli vengono, infatti, facilmente ripudiate e messe per strada insieme ai loro figli. E per loro questo significa miseria, disperazione e, spesso, prostituzione.

MARYAM E NURA:
COL VELO, SERENE E FELICI

Arcevia delle Marche, fine agosto 1998, campeggio estivo dell’«Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia» (UCOII). Tra le tante donne presenti spiccano alcune italiane convertite all’islam, mogli di musulmani maghrebini o egiziani. Concordi nell’esprimere una totale e «non condizionata» libertà nella scelta religiosa da loro compiuta, hanno anche evidenziato un’adesione a princìpi religiosi e sociali islamici che ben oltrepassano l’ortodossia per sconfinare, come per molte altre persone ivi presenti, in un integralismo di vedute e di prospettive. Non a caso, infatti, tra i testi di lettura proposti dagli stand comparivano saggi di Sayd Qutub, l’ideologo dei Fratelli Musulmani.
Dal rumoroso gruppo di signore sedute in circolo si fa avanti un’italiana, Maryam, giovanissima e timida moglie di un ragazzo tunisino, coinvolta dall’amica Nura a spiegare la sua conversione all’islam e di indossare lo hijab. Tuttavia quest’ultima, toscana ventinovenne, è più sicura di sé e più decisa a prendere la parola al posto dell’altra: «Molti ci domandano se siamo state costrette a convertirci sposando i nostri uomini. Ma come avremmo potuto fare una scelta tanto importante, senza essee sinceramente convinte? Per quanto mi riguarda, già da tempo ero alla ricerca di un ideale morale, spirituale. Il cristianesimo non dava alcuna risposta ai miei dubbi: così, quando ho conosciuto mio marito e la sua religione, è stato come trovare la soluzione alla mia ricerca, quella strada che avevo inseguito per anni».
E lo hijab, il velo che ora indossa? «Io non do molta importanza all’abbigliamento: mi sono avvicinata all’islam a partire da Dio ed è per rispettare le sue regole che metto il velo. Nessuno mi ha costretta a farlo».
Cos’ha significato l’islam nella sua storia personale? «Aver trovato certezze, forza interiore, un senso nella mia esistenza. Ho sconfitto paure che mi trascinavo dietro da anni, come quella della morte. Grazie alla fede in Dio e alla speranza del paradiso, le ho superate e riesco ad affrontare la vita quotidiana, i problemi che ne derivano, le difficoltà, con più sicurezza. Mi sento serena. Felice».

PER SCELTA
O PER AMORE?

Le motivazioni alla base delle conversioni femminili sono molteplici e ben s’adattano alle tendenze caratteriali e psicologiche di ognuna, al loro background culturale e familiare, alle loro aspettative sociali e interiori.
Fra le intervistate, molte hanno abbracciato l’islam a seguito di matrimoni con uomini musulmani, anche se ciò non rappresenta un obbligo della shari‘a. Si tratta spesso di scelte che, almeno inizialmente, scaturiscono da coinvolgimenti sentimentali ed emotivi, per poi radicarsi più profondamente nella loro vita. Scelte che coronano un desiderio di rivestire un ruolo sociale e personale preciso, di essere accettate completamente dal partner e dal suo ambiente. Di essere amate, insomma.
Spesso, ma non sempre, sono donne semplici, di media cultura, prive di personalità forti e di solide identità; alcune hanno alle spalle trascorsi familiari dolorosi, separazioni dei genitori, padri autoritari, fallimenti matrimoniali… Donne insicure e con una precedente scarsa valorizzazione di sé, hanno ottenuto nell’islam certezze e forza, ammirazione all’interno della comunità e rispetto.
Per alcune, invece, seguire questa via ha significato, al di là delle spiegazioni psicologiche e sociali, «ritrovare» radici lontane, le proprie, da portare alla luce realizzando, in questa esistenza, un «percorso» già inscritto profondamente nella loro storia personale: una sorta di destino o di «karma». E, quindi, il raggiungimento di una dimensione di pienezza spirituale, di superamento di ansie e paure (non ultima quella della morte) e la graduale scomparsa di una sensazione di vuoto e insignificanza esistenziale.
Queste donne si sono dimostrate sicure, volitive, con idee chiare in mente, fortemente motivate nella loro scelta. Persone a cui la religione, anziché limitare gli orizzonti ha spalancato le porte della vita stessa.

BOX 1

L’ISLAM ITALIANO

Si calcola che, in Italia, circa 50 mila (ma la cifra è probabilmente sovrastimata) nostri connazionali abbiano abbracciato la religione islamica. Attraverso la formalizzazione della shahada, la professione di fede islamica, nei circa 250 luoghi di culto presenti sul territorio vengono registrate diverse migliaia di conversioni ogni anno, prevalentemente di uomini.
Ma chi sono le persone che, ad un certo punto della loro vita, si convertono all’islam? In che realtà vanno a inserirsi? Proviamo a scoprirlo.

Questo lavoro sull’islam in Italia si articolerà in quattro puntate: 1) le donne convertite (islam sunnita ortodosso); 2) gli uomini (islam sunnita ortodosso); 3) le comunità islamiche in Italia e l’intesa con lo stato (il «concordato»); 4) sciiti, sufi, baha’i.
Angela Lano

BOX 2

Glossario

LEGGE E PRECETTI

Fatwa: sentenza giuridica, parere autorevole fondato sulla legge coranica ed emesso da un muftî (giudice).

Hadith (plurale: ahadith): i detti e i fatti del profeta, raccolti da vari autori, il cui insieme forma la sunnah.

Hajj: pellegrinaggio. Costituisce uno dei 5 pilastri (arkan) dell’islam: è dovere di ogni musulmano recarsi in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nel corso della propria vita.

Sufi: da sufi, lana: mistica islamica.

Shahada: da shahida, essere testimone, dare testimonianza: formula dottrinale musulmana, per mezzo della quale si attesta che «non vi è altro dio se non Iddio e che Muhammad è il suo inviato».

Shari‘a: la legge sacra islamica, che deriva dal corano, dalla sunnah (la tradizione basata sull’esempio del profeta), dalla ijma’ (il consenso dei dotti, gli ‘ulama’ o i fuqaha’) e dal principio analogico, che comprende i precetti religiosi inerenti ogni aspetto della vita del credente (norme relative al culto, leggi politico-sociali e giuridiche). Il fiqh è la scienza della shari‘a.

PERSONE

Imam: guida del culto islamico (attenzione: non corrisponde affatto al prete o al vescovo cattolico).
Muezzin: colui che invita alla preghiera.

Mujahid (m.), mujahidah (f.): da jihad, sforzo, lotta, guerra santa: colui o colei che si sforzano, o che lottano, anche con le armi, sulla via di Dio e contro gli infedeli.

Shaikh: uomo vecchio e degno di rispetto, capo, patriarca, titolo usato per tutti i regnanti dell’area del Golfo Persico, membro di un ordine religioso, maestro di una confrateita sufi.

ABBIGLIAMENTO

‘Abaya: manto nero che nasconde interamente il corpo femminile.

Burqu‘a: lungo velo nero femminile che lascia scoperti solo gli occhi.

Hijab: velo femminile islamico.

Jallabiyya: lungo abito unisex usato in vari paesi arabi.

Neqab: velo (di solito, nero) che copre completamente il volto della donna.

Angela Lano