Ricerca… di se stessi

«Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d’estate siano tanti…
Soprattutto, non affrettare il viaggio fa che duri a lungo per anni…».
I versi di Costantinos Kavafis, preludio di Viaggio a Itaca, l’ultimo libro di Anita Desai, caratterizzano la vita della scrittrice indiana, premio Grinzane 2005 «una vita per la letteratura».

Il viaggio è fondamentale, ma deve essere inteso come pellegrinaggio. Un pellegrinaggio non necessariamente fisico, ma all’interno di se stessi» afferma la signora Desai, nata nel 1937 a Mussorie (India) da madre tedesca e padre bengali. Lei stessa pare continui a cimentarsi in questo «pellegrinaggio», da quando iniziò a scrivere per comprendere il caos della vita (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000).
Nell’introduzione di Notte e nebbia a Bombay (Einaudi 1999 – premio Grinzane 1993) racconta che «l’idea di quel libro è stata come un granello di sabbia che è entrato nel guscio di un’ostrica e poi è cresciuto, ben radicato nell’inconscio… Volendo essere più precisa riguardo a quell’iniziale granello di sabbia, devo dire che prese vita prima di me, con l’incontro tra mio padre, giovane che dai fiumi e dalle risaie del Bengala andò a studiare ingegneria in Germania, e mia madre, una giovane berlinese, nata negli anni ’20… A un certo punto anch’io faccio la mia comparsa in questa storia e raccolgo intorno a me il mio personale mucchietto di ricordi. La seconda guerra mondiale, per esempio, che fece da sfondo alla mia infanzia, per lontana che fosse dai campi di battaglia europei… Le atrocità, in quel periodo, in India avvenivano su un altro fronte… ed ebbero fine nel 1947 con l’indipendenza dell’India. Un momento che avrebbe dovuto essere glorioso e invece si rivelò tragico, perché coincise con la partizione di India e Pakistan, accompagnata dalla migrazione forzata di milioni di persone e da orrendi massacri».
Questo romanzo, che racconta le tristi vicissitudini di un ebreo tedesco, da 50 anni residente a Bombay, vuole essere soprattutto «una meditazione sopra la guerra e i danni che procura allo spirito umano, che è in grado di sopravvivere solo in condizioni di pace».

L a Desai ha iniziato il suo «pellegrinaggio», tradotto in scrittura, esplorando dapprima il mondo femminile, contesto esclusivo in cui visse fino al baccalaureato. In Chiara luce del giorno (1980 – Einaudi 1998), ambientato nella travagliata India degli anni ’40, famiglie borghesi indù abitano nella vecchia Delhi, vicino a ricche e colte famiglie musulmane, vivendo i conflitti dell’epoca, filtrati dalle emozioni e sentimenti di Bim, una donna forte e coraggiosa, professoressa di storia in grado di fronteggiare le gravi difficoltà della famiglia. Con la sorella Tara frequenta la scuola missionaria anglicana, ricordando: «Le aristocratiche missionarie che gestivano quella scuola grigia e austera… erano tutte anziane e nubili – avevano fatto voto di castità anche se non indossavano la veste monacale – oltremodo frenetiche, disponibili e piene di risorse. Lasciati i prati e le siepi, le canoniche e le feste di beneficenza della loro fiduciosa e donchisciottesca giovinezza, avevano vissuto esperienze che avrebbero piegato chiunque e che invece esse avevano saputo sopportare, restando a galla come barche sulla cresta delle onde (guerre e bombardamenti, disordini e rivolte, carestie e siccità, alluvioni, incendi e usanze locali) per poi ritirarsi, non tra canoniche e feste di beneficenza, ma a dirigere una severa e rigida scuola delle missioni, sostenute dalla propria fiducia e baldanza e da una fede intatta».
L’autrice mi ha confermato di aver rievocato, con queste immagini, le sue insegnanti della Queen’s Mary Higher Secondary School da lei frequentata in gioventù.
Quindi Anita Desai, madre di quattro figli ed affermata scrittrice internazionale nonché docente di scrittura creativa al Massachussets Institute of Technology (Usa), è cresciuta parlando indù e tedesco, ma la sua lingua letteraria è sempre stata l’inglese, appreso con eccellenza in una scuola missionaria.
Anche il suo «pellegrinaggio» con la scrittura è arricchito da questa formazione che le permette di descrivere con maestria e acume situazioni e personaggi, tratteggiati da un occhio critico e disincantato.
In uno dei suoi primi romanzi, Il villaggio sul mare (1982 – Einaudi 2002), tensioni e conflitti vissuti all’interno di semplici famiglie di pescatori indiani, la cui vita si illumina giorniosamente in occasione delle feste tradizionali, sono appesantiti dall’arrivo minaccioso dell’industria con tutte le incognite e, forse, l’inutile distruzione invece della promessa ricchezza.
Nel romanzo In custodia (1984, Tartaruga 1990), la Desai comincia ad esplorare il mondo maschile, lasciando le donne come personaggi marginali. Ma che donne! Informo la scrittrice che la mia presentazione di questo romanzo su Missioni Consolata (gennaio 2000) fu intitolata «La mafia delle donne». Con calma, la Desai conferma: «Altre persone mi hanno chiesto perché le donne di questo romanzo sono così orribili. E io ho risposto che questa è la reazione di donne trattate male e relegate solo nel ruolo di figlie, mogli e madri, senza la possibilità di partecipare alla vita attiva del mondo maschile, come appunto avviene in India. Attualmente, però, in certe fasce della popolazione la situazione comincia a cambiare».

N el recente Viaggio a Itaca (1995 – Einaudi 2005) la Desai cerca di raccontare motivazioni, stereotipi e realtà del «pellegrinaggio» di tanti giovani occidentali in India, moda abbastanza diffusa alla fine degli anni ’80. Un preludio è offerto in Notte e nebbia a Bombay, quando Farrock, il dignitoso proprietario di un caffè di terz’ordine, additando un ragazzo bianco ricoperto di stracci, che pretende di essere servito senza pagare il conto, sbotta: «Già avrà preso a calci in faccia i genitori, immagino; genitori ricchi, che hanno regalato al figlio una moto, un’automobile, l’orologio, i soldi, il biglietto per l’India, tutto. E che cosa hanno ottenuto? Una pedata, ciao e via. Eh? È così che vengono, in Afghanistan, in Nepal, in India. Dicono ai genitori che non vogliono un impiego, che non vogliono lavorare. Raccontano loro bugie enormi sugli dèi indù; sostengono di amare il Budda, di volere visitare i templi, vivere negli ashram (centri di spiritualità). Sì certo che visitano i templi e vivono negli ashram; ma badano al Budda o a Rama o a Krishna o a qualunque altro dio? Io so che cosa fanno. Prendono droghe in questi ashram, droghe da quei pandit e da altra gente come loro».
Tutti i giovani occidentali si aggrappano a una presunta «spiritualità» per cercare in India lo «sballo» della droga? In Viaggio a Itaca, Matteo, il giovane protagonista italiano, sognatore e ribelle, è sincero nella sua ricerca di spiritualità in India, perché ispirato dal romanzo Pellegrinaggio a oriente di Hesse, unico libro che pare avere influenzato la sua anomala formazione.
Figlio di un’agiata famiglia, residente in una villa sulle sponde del lago di Como, Matteo conosce e sposa Sophie, irrequieta giornalista, figlia di banchieri tedeschi. Inizia così la loro avventura in India, caratterizzata dalla spassionata e ingenua ricerca di Matteo accompagnato dalla razionalità, che talvolta diviene spietato cinismo della compagna.
È proprio Sophie, però, con il suo disincanto e la curiosità tipica della brava giornalista, che riesce a tratteggiare bene motivazioni e intenzione degli occasionali compagni di «pellegrinaggio» e degli stessi indiani.
Malgrado siano foraggiati dal denaro dei ricchi genitori di Sophie, i due «pellegrini» vivono una vita dura in ashram diversi per stile e conduzione. Partecipano anche a un faticoso e colorato pellegrinaggio verso un tempio, che lascerà in Sophie l’amaro ricordo di una donna nel tentativo supremo di salvare il figlioletto moribondo tanto da farla esclamare: «Al centro dell’India c’è un bambino morto».
Dopo aver soggiornato sulle spiagge di Goa, «il pellegrinaggio attraverso l’India si intrinse del denso e aromatico annebbiamento della marijuana: le si appiccicò addosso e diventò il suo abito. Penetrò in lei e diventò il suo essere… In tutta l’India, in quegli anni, cenciosi mendicanti bianchi, in pyjama sbrindellati e bandana, gironzolavano intorno agli ashram, ai santoni, per il divertimento e l’incredulità degli indiani che composero per loro una canzonetta “dai un tiro, dai un tiro, sentiti svenire”».
Quasi sempre questi giovani occidentali sono oggetto di dileggio da parte dei locali, che ne identificano il parassitismo e la lenta distruzione. Infatti non di rado questi «pellegrini» contraggono malattie mortali. Più volte Matteo e Sophie sono ricoverati in condizioni gravi in ospedali diversi. In uno di questi, un medico indiano capisce la sincerità di Matteo, gli salva la vita e con saggezza lo esorta: «La luce divina può uccidere… gli dèi sono distruttivi in questo paese… Viene in India e non si prende neppure la briga di imparare qualche cosa. Pensa di poter capire questo paese senza studiare nulla? Pensa che la luce divina sia come il bagliore di un lampo? Avrei dato qualunque cosa per andare in occidente a studiare».
Matteo riesce a farsi accettare in un rigido ashram, dove studia con rigore, ma deve anche subire la segregazione, ad esempio durante i pasti, perché ritenuto impuro. Quando Sophie scopre che i santoni dell’ashram sono in combutta con bande di malviventi, raggiunge con Matteo l’ashram retto da una leggendaria Madre, di cui Matteo diviene totalmente dipendente, tanto che «ora capiva per quale ragione perfino i dintorni paradisiaci della sua casa sul lago gli erano apparsi vuoti e terribili, perché non c’era nessuno a mostrargli che erano espressione di una verità eterna ed essenziale».
Sophie, intanto, ha avuto due figli che riesce a parcheggiare dai nonni italiani, per avventurarsi alla ricerca del passato della Madre, che si rivela essere un’altra «pellegrina», figlia ribelle di madre francese e padre egiziano. Laila, l’attuale Madre, nata e cresciuta ad Alessandria d’Egitto, conosce l’India in un negozietto di Parigi e diviene ballerina nel gruppo del famoso Krishna, danzando a Venezia, New York e, infine, approda a Bombay, dove danza per un «santone», che diviene suo maestro di vita.
Nella memoria del maestro, la Madre, che come danzatrice prediligeva la figura del «pavone», riesce, come il magnifico e vanitoso uccello, nelle sue apparizioni serali a incantare i «pellegrini» dell’ashram, taluni, come l’ingenuo Matteo, quasi schiavi. Con la morte della Madre l’ashram si avvia, però, verso l’oblio.

Incontro di culture? Secondo la Desai solo con una ricerca sincera e un amore autentico ci può essere un incontro proficuo. Intanto la scrittrice indiana ha proseguito il suo «pellegrinaggio» in Messico, scrivendo il romanzo The zig-zag way, che il prossimo anno uscirà tradotto in italiano.

Silvana Bottignole

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