DOSSIER TRAPIANTI La legislazione italiana (2)

Il silenzio-assenso

UNA QUESTIONE DI VOLONTÀ

In Italia, la legislazione in tema di trapianti parte dall’articolo 32 della Costituzione. Su una materia tanto delicata la normativa deve essere chiara. Anche per evitare che incomprensioni ed incertezze frenino la cultura della donazione e la crescita della medicina dei trapianti.

Nei paesi in cui la pratica dei trapianti ha raggiunto un notevole grado di sviluppo, si è percepita la necessità di una appropriata regolamentazione giuridica, che cerchi di dipanare le molteplici questioni nodali che tale attività comporta e crea.
Per quanto riguarda l’Italia, la legislazione in materia ha conosciuto, ovviamente, una notevole evoluzione lungo un arco di tempo di circa mezzo secolo.
L’articolo 32 della Costituzione afferma che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», ma allo scopo di rispettare la volontà del singolo, ha stabilito che «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Partendo anche da questi presupposti nasce la legislazione italiana in materia di trapianti.

La prima legge ad hoc (n.235 del 3 aprile 1957), Trapianti con l’uso di parti di cadavere, consentiva solamente riscontri diagnostici ed autopsie. Il prelievo da cadavere delle coee e del bulbo oculare era consentito quando il soggetto aveva dato in vita l’autorizzazione, e poteva comunque effettuarsi solo dopo aver accertato la morte, trascorse 24 ore dal decesso.
Il Dpr n.300 del 20 gennaio 1961 (ed i successivi Dpr n.1156/1965 e n.78/1970) arricchì l’elenco delle parti prelevabili da cadavere, rendendo anche possibile il prelievo di ossa, muscoli, tendini e vasi sanguigni.
Una legge particolarmente innovativa fu quella del giugno 1967 nella quale si estese la possibilità di prelievo da vivente a scopo terapeutico, limitando però tale possibilità al solo rene e sancendo rigidamente la gratuità dell’atto.
La materia, a fronte anche dell’evolvere di una crescente sensibilità sociale, sempre più attenta alle esigenze della collettività, è stata riordinata con la legge n.644 del 1975. Tale legge ha aperto la strada al trapianto di quasi tutte le parti del corpo, escludendo encefalo e gonadi, e rendendo ammissibile il prelievo «qualora l’estinto non abbia disposto contrariamente in vita, in maniera non equivoca e per iscritto». Nonostante questa modifica, analogamente a quanto avveniva in molti paesi europei, permaneva purtroppo un duplice criterio di accertamento della morte: il «criterio cardiaco» e quello «cerebrale», facendo sorgere spesso incomprensioni con i parenti del defunto e rendendo le opposizioni al prelievo molto frequenti.
Per ovviare a questi dilemmi, venne istituita una Commissione di tre medici, cioè un medico legale, un anestesista-rianimatore ed un neurologo, con il compito di accertare l’exitus secondo questi nuovi parametri.
La successiva legge n.198 del 1990 semplifica le indicazioni sul luogo del prelievo per agevolare il reperimento degli organi da destinare al trapianto terapeutico. Tali operazioni possono ora verificarsi presso le strutture pubbliche ospedaliere anche senza preventiva autorizzazione, ferme restando le licenze del ministero della sanità. I medici autorizzati ad effettuare il prelievo delle parti di cadavere ed il successivo trapianto devono essere diversi da quelli della commissione che accerta la morte.
Le difficoltà e le questioni correlate alla duplice definizione di accertamento della morte sono state invece superate con la legge n.578 del dicembre 1993. Viene ammessa un’unica definizione di morte, quella cerebrale, che si identifica con la «cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».

La legge del 1° aprile 1999, n.91 appare la conclusione logica di questo lungo iter legislativo. Stato, regioni e territorio collaborano in sinergia per rimuovere gli ostacoli che, in vari modi, frenano la cultura della donazione e la crescita della medicina dei trapianti.
La costituzione di strutture tra loro cornordinate come il Centro nazionale trapianti (Cnt), la Consulta tecnica, i Centri regionali e locali sono necessari per evitare, come finora troppo spesso è accaduto, che sterili complicazioni e interminabili iter burocratici determinino la perdita di organi idonei all’espianto.
Gli obiettivi dell’atto normativo sono contenuti nell’articolo 1: «La presente legge disciplina il prelievo di organi e tessuti da soggetti di cui sia stata accertata la morte ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n.578, e regolamenta le attività di prelievo e trapianto di tessuti e di espianto e trapianto di organi». Una disciplina, quindi, che si occupa del prelievo di organi da cadavere a scopo solo terapeutico (art. 6) ed esclude la materia della donazione da vivente. Altri elementi qualificanti della legge sono: la regolamentazione di ogni aspetto giuridico correlato al prelievo e al trapianto e la necessità di accrescere l’informazione a tutti i livelli, non solo tra gli addetti ai lavori.

Il punto, comunque più dibattuto e oggetto di un lungo e tortuoso cammino parlamentare, è stato l’articolo 4 che regolamenta la dichiarazione di volontà in ordine alla donazione: «I cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte, e sono informati che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione».
È la formula del cosiddetto «silenzio-assenso» scelta dal legislatore come forma di manifestazione della volontà dei cittadini di donare o meno gli organi, e si pone quale elemento qualificante della legge stessa. Il prelievo, cioè, non è possibile nel caso vi sia un esplicito dissenso del defunto in vita o il rifiuto dei parenti fino al secondo grado; altrimenti vige la formula del consenso presunto.
Scrive Ignazio Marino: «Attualmente il principio del silenzio-assenso non è ancora in vigore e fino all’emanazione dei decreti attuativi previsti, valgono delle norme transitorie per cui si possono verificare i seguenti casi: il soggetto ha espresso in vita la volontà positiva di donare gli organi, in questo caso i familiari non possono opporsi alla donazione; il soggetto ha espresso volontà negativa alla donazione, in questo caso non c’è prelievo d’organi; il soggetto non si è espresso, in questo caso il prelievo è consentito solo se i familiari non si oppongono» (1).
Una materia così complessa non ha potuto trovare, purtroppo, una risoluzione esauriente e definitiva in questa, seppur ricca, normativa. Alcuni dei problemi sollevati necessitano di ulteriori approfondimenti, altre questioni devono ancora essere affrontate, quali, ad esempio, il trapianto di rene da donatore vivente (già oggetto della legge n.458 del 1967) e della legge n.2483 del 16 dicembre 1999, che ammette il prelievo, sempre da donatore vivente, di parte di fegato a scopo di trapianto.
Una tematica così delicata ed in continuo divenire necessita di un’appropriata e attenta legislazione che si proponga di risolvere i quesiti sempre nuovi e incalzanti di ordine medico, politico-sociale, economico ed etico.

Enrico Larghero

(1) S. Privitera e coll., La donazione di organi. Storia etica legge, Città Nuova, Roma 2004, p. 40

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Testimonianza (3)

Un trapiantato di cuore

"IO E IL MIO NUOVO CUORE STIAMO BENE INSIEME"

Dall’«alito freddo della morte» al «gusto della vita»: dolore, sofferenza
e rinascita dei trapiantati.

Parlando con alcuni trapiantati, ci scambiamo spesso le nostre sensazioni. Come è facile capirsi quando si è percorso lo stesso cammino, quando si sono provati gli stessi sentimenti, le stesse paure, le stesse speranze. Gli altri possono sforzarsi di capire, ma bisogna aver sentito l’alito freddo della morte che ti sfiora, che ti passa così vicino da farti venire i brividi, per riuscire a comprendere fino in fondo. Me ne sto accorgendo ora, quando osservo gli altri trapiantati, i giovani soprattutto. Abbiamo tutti le stesse sensazioni, la stessa voglia di assaporare attimo dopo attimo il gusto della vita. Quanti pensieri strani e contrastanti, quante emozioni nuove, quante speranze si affollano nelle nostre menti stanche. Noi trapiantati siamo una grande famiglia, siamo stati tutti fratelli nel dolore, nella sofferenza e nella rinascita.
La verità è che non c’è scelta: o si lotta o si soccombe. Io semplicemente ce l’ho messa tutta. Ho dato tutto ciò che mi era possibile dare. Ho scavato in fondo a me stessa chiamando a raccolta tutte le mie forze. Non avrei potuto fare di più. Non ho mai perso di vista ciò che volevo ottenere, e se per raggiungere il traguardo finale è stata necessaria anche una buona dose di pazienza, che per una impulsiva come me è sinonimo di costrizione, non ho disdegnato nemmeno quella. L’obiettivo era chiaro, e non potevo permettermi di mancarlo: dovevo sopravvivere. E l’ho raggiunto.
Non so nulla del mio donatore, né voglio sapere. Voglio che resti il mio cavaliere sconosciuto. La scelta che ha fatto quando era ancora in vita, confermata dalla decisione difficile e coraggiosa dei suoi familiari, mi basta per sapere che doveva trattarsi di una splendida persona, e il fatto di portare nel mio petto una parte di una persona così speciale mi rende estremamente fiera e orgogliosa. So che, ovunque sia, mi sta guardando. Mi ha passato il testimone e io non lo deluderò mai: correrò per me e per lui. Grazie a lui ho già vinto una volta, e ogni mia conquista futura sulla vita sarà anche sua.
Penso spesso alla persona che me l’ha donato. Nei momenti di felicità riconquistata mi metto una mano sul «nostro» cuore e gli sussurro un grazie.

Con il trapianto ho imparato a volermi bene. E poi io e il mio nuovo cuore stiamo bene insieme. Ci siamo piaciuti subito. Sin dal primo momento ho sentito che faceva parte di me. Non l’ho mai considerato un estraneo.
A volte si fa sentire, quando sono troppo stanca, troppo stressata o agitata. Lui batte un colpo più forte, talvolta anche più di uno, e mi mette in guardia: «Guarda che stai tirando troppo la corda. Non hai il cuore di Hulk». Allora cerco di darmi una calmata. In fondo è lui che comanda, come sempre del resto. E io gli obbedisco volentieri: lui sicuramente sa meglio di me cosa sta succedendo là dentro.
La malattia e il trapianto hanno modificato troppo la mia vita e il mio modo di pensare. Oggi vedo il mondo con occhi diversi. La lotta per la vita mi ha cambiata, mi ha messa alla prova. Ho l’impressione di essere un’altra persona. Mi sento profondamente diversa. Rinata e rinnovata nel corpo e nella mente.
Forse a volte è necessario perdere qualcosa di prezioso per rendersi conto di quanto valesse e per poter assaporare il piacere di riconquistarlo.

Cristina Bono


(*) da: Cristina Bono, Con il cuore in sospeso. Diario di un trapianto, Bollati Boringhieri, Torino 2000

Cristina Bono




DOSSIER TRAPIANTI Testimonianza (2)

Un trapiantato di rene

"IL MIO BELLISSIMO RENE"

Un giorno i reni smettono di funzionare ed inizia la schiavitù della dialisi. Un calvario che si chiude con un trapianto. E con esso l’occasione di nascere una seconda volta.

Tutte le volte che accarezzo il mio fianco destro, dove ha trovato sede questo «bellissimo» rene, stento ancora oggi, a distanza di quasi 7 anni, a credere in questo miracolo di cui sono testimone.
La vita, la mia, di giovane donna che a trent’anni si accingeva a conquistare il mondo, un possibile grande amore e ad accogliere i figli che Dio mi avrebbe voluto donare, questa vita è stata infranta da una crudele ed ingiusta sentenza: dialisi per insufficienza renale cronica, provocata da un reflusso vescico ureterale bilaterale.
Occorrerebbe un libro per raccontare tutte le mie vicissitudini, al termine delle quali vi era una sola speranza, il trapianto, la possibilità di una seconda vita. Non avrei mai pensato che mi sarebbe capitata l’occasione di rinascere una seconda volta. Una grande occasione!

Ho trascorso l’esistenza, prima del miracolo, tra le inquietudini e le serenità di una ragazza che, osservando il proprio corpo, si torturava all’idea di non avere i capelli lisci piuttosto che ricci, di non pesare qualche chilo in meno, di non avere gli occhi azzurri. E intanto maturavo, attraverso le esperienze e le conoscenze che mi formavano il carattere e la personalità.
Nonostante non abbia mai fatto uso di droghe, di alcornol o quant’altro di nocivo, nonostante tutto questo, un bel giorno i reni, i miei reni hanno deciso di non funzionare più.
Quindi? Dialisi. E che cos’era, dov’era, com’era? Possibile che non sapessi a trent’anni cosa fosse la dialisi? Eppure era così, non la conoscevo e non conoscevo il mondo che ruota attorno ad essa, invisibile e muto, un mondo che viene filtrato attraverso una macchina e a te restituito sotto forma di precaria vita in attesa. Attesa che la dialisi giornaliera finisca per fare posto a quella del giorno dopo, e poi del giorno dopo ancora e poi ancora… fino a quando?
Fino a quando non realizzi che, per riprendere a vivere, qualcun altro dovrà lasciare questa dimensione terrena. Ed è proprio allora che la tua vita cessa di esistere ed insieme ai tuoi reni, anche il tuo cuore, la tua essenza viene filtrata… come le emozioni, i desideri, le speranze. Attraverso quel filtro ti rispecchi e rivedi la vita che avevi e che ora non hai più. Naturalmente ti imponi di non pensare e non desiderare il trapianto a discapito della vita di un tuo fratello, ma poi il calvario aumenta e il desiderio di un organo che funzioni e ti liberi dalla schiavitù della dialisi si insinua nel tuo cuore, portandoti ad invocare quasi con disperazione il trapianto. Ti imponi allora un calmo e rassegnato silenzio e ti avvii lungo la strada dell’accettazione. Cosa dovevo comprendere, che significato dovevo leggere in quell’esperienza non voluta e subita?
Ad esempio questo: il trapianto è l’occasione di nascere un’altra volta con la consapevolezza che questa volta la vita ti è donata direttamente da Dio perché te la sei conquistata con la rassegnazione, ma anche con l’amore e la passione per quel po’ di vita che ti resta.
Qualcuno ci lascia, qualcun altro è rimasto per custodire. Si nasce e si muore e il miracolo si compie tutte le volte.

Oggi «accarezzo» questo rene nuovo che mi aiuta a comprendere più profondamente la vita. A volte, disorientata, rifletto sulla mia vita, cercando di capire il perché di questa mia esistenza, chi sono, dove sono e perché ho potuto essere ancora…
Il trapianto è una sensazione meravigliosa; non ho i capelli lisci, gli occhi azzurri, ma mi sento meravigliosa, più di prima ed ogni giorno di più.
Accudisco questo rene nel nome del mio donatore al quale è stata interrotta la vita terrena per completare il suo percorso nell’amore di Dio.
Donate, in nome dell’amore, perché in principio fu la vita e da allora non fu mai interrotta… ed il mio rene trapiantato ne è una testimonianza.

Giuseppina Rossi, architetto

Giuseppina Rossi




DOSSIER TRAPIANTI Testimonianza (1)

Un trapiantato di fegato

"AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO"


Un vescovo riflette a voce alta sul suo percorso terreno. Che un trapianto

di fegato ha contribuito ad allungare. Con felicità di tutti.

È importante, anche se accade spesso solo in età matura, rendersi conto che la propria vita spirituale, culturale e fisica deve essere custodita e curata perché è dono di Dio da donare agli altri, senza mettere però da parte la saggia consapevolezza che «siamo tutti utili, nessuno è necessario».
E così un’epatopatia trascurata, un’Hcv aggressiva, un’iperattività continua ed altri fattori contingenti, mi hanno portato alla decisione, guidato da amici medici, di ricorrere a quello che vedevo come un surplus di grazia, un dono che molte persone (anch’io) hanno preventivato o i parenti permettono: il trapianto di fegato.
Ero controllato, consigliato e seguito da alcuni professionisti del settore nell’isola di Ischia, dove svolgo il ministero pastorale anche se il paziente scalpitava e continuava imperterrito la sua missione, secondo l’indicazione biblica «zelus domus tuae comedit me» (lo zelo della tua casa mi divora).
E così tra Giubileo 2000, visita pastorale 2001-2003 inframmezzata dalla visita del papa a Ischia (2002) e il lavoro ordinario diocesano senza soluzioni di continuità, sono arrivato alla fase terminale per fare il pre-olt di controlli clinici per il trapianto all’Ospedale delle Molinette di Torino e susseguente chiamata secondo l’ordine di prenotazione.
Le motivazioni che mi hanno guidato in questo periodo sono state: il dovere di continuare a servire la chiesa, la cura degli altri ma anche di se stessi («Ama il prossimo tuo come te stesso»), l’obbedienza ai medici nella consapevolezza però di un compito affidatomi che poteva essere in scadenza. Il tutto vissuto con grande serenità di spirito.
Questa serenità partiva certamente dalla fede, ma anche da una buona dose di… incoscienza non avendo mai affrontato un’operazione chirurgica. Comunque ripetevo a me e agli altri le parole di san Paolo «Ho combattuto la buona battaglia (nonostante varie sconfitte), ho conservato la fede, altro non mi resta che…» e così ero spiritualmente pronto all’eventuale tramonto della mia giornata terrena, dopo 64 anni di esistenza pienamente vissuta.
Ho affrontato così l’impegnativo trapianto di fegato nel reparto del dottor Mauro Salizzoni e della sua équipe di medici ed infermieri/e, apprezzando l’alta competenza e professionalità coniugate a tanta umanità.
La degenza è stata per me abbastanza lunga: quasi un mese, vivendo le varie vicende di sofferenza, difficoltà e contrattempi fisici con ottimismo, anche se ero «disorientato nello spazio, nel tempo e nelle persone» durante il periodo post-operatorio.
E così dal 5 dicembre al 31 dello stesso mese, pur ricevendo numerose visite, mi confortava l’eucaristia quotidiana e la santa messa ricominciata la sera della vigilia di Natale, sul tavolino della mia stanzetta di terapia semintensiva che mi sembrava una cattedrale.
Il giorno dopo scrissi alla mia gente di Ischia questa lettera:

«Carissimi, questo Natale è un insieme di gioia e sacrificio, di tenerezza e sofferenza. È il primo Natale che passo lontano “da casa” e da voi tutti dal giorno della mia venuta ad Ischia, sei anni or sono.
Invece del tepore della nostra cattedrale c’è la corsia anonima di un ospedale, invece dei nostri suggestivi presepi, il freddo luccichio di una grande città addobbata per l’occasione di queste feste, al posto di strade profumate di salsedine in riva al mare, i grandi viali gelati con le Alpi lontane, invece delle nostre case isolane e dei giardini con luci multicolori, i grandi palazzi dell’antica capitale della Sabaudia. Avverto una grande nostalgia ma Natale è Natale, è l’incarnazione di Gesù nel mondo, è l’inizio della nostra redenzione.
Natale è la contemplazione di un Dio che, per amore dell’uomo, ha assunto il volto di un bambino che Maria, madre dolcissima, avvolse in poche fasce, lo depose in una mangiatornia di legno, rivestita di paglia.
Ma Natale è anche sacrificio e sofferenza perché il legno della mangiatornia evoca il futuro lavoro del carpentiere di Nazareth e soprattutto il legno della croce dove Dio ha sofferto l’abbandono totale.
Questo è il Natale che sto vivendo… Sarà per me un vero Natale, perché misto a gioia, attesa, sacrificio e sofferenza, nell’attesa di una realizzazione di speranza, con pieno abbandono alla volontà di Dio.
A voi tutti auguro tutto il bene di questo mondo mentre la lontananza acuisce l’affetto per tutti.
Mi accorgo di volervi sempre più bene».

Ora, grazie al dono ricevuto, ho ripreso a pieno ritmo il lavoro pastorale e con scarsa obbedienza agli amici medici che mi dicono di «lavorare di meno, per durare di più». Non ci riesco e mi affido alla vostra preghiera e alla loro pazienza esprimendo a tutti la mia gratitudine.

P. Filippo Strofaldi


padre Filippo Strofaldi




DOSSIER TRAPIANTI Lo stato dell’arte

UN’ATTESA LUNGA TRE ANNI

Rene, fegato e cuore sono gli organi più trapiantati. Ma ci sono anche polmoni, pancreas, intestino. Nel mondo sono 500 mila le persone che si sono sottoposte a trapianto. Tra i molti in attesa, ogni giorno ne muoiono 9.
Ed è proprio la scarsità d’organi disponibili uno dei fattori che maggiormente limita l’espansione di questa straordinaria tecnica terapeutica.

Il trapianto ha segnato il passaggio dalla chirurgia demolitiva (asportazione di un organo malato) a quella sostitutiva (sostituzione dell’organo malato con uno sano). Il trapianto può essere omologo (della stessa specie) o eterologo (tra specie diverse); rispetto al donatore, «ex vivo» (da donatore vivente, come nel caso del rene) o «ex cadavere» (come nel caso del cuore, del polmone, etc.); può essere infine a seconda del materiale usato, «naturale» o «artificiale».
Nell’ultimo ventennio farmacologia e tecniche chirurgiche, unite all’evoluzione delle conoscenze dell’immunologia e dell’istocompatibilità, sono state determinanti nel garantire un progresso rapido e continuo in questo campo.
Oltre quarant’anni fa, quando è iniziata l’avventura dei trapianti d’organo, venivano utilizzati solo organi espiantati da consanguinei viventi e da cadaveri con cuore non battente.
Attualmente, più dell’80% dei pazienti che vengono trapiantati ritornano ad avere una soddisfacente qualità di vita e si sottraggono a terapie invalidanti come l’emodialisi, si salvano da malattie come la cirrosi epatica e le cardiopatie. In tutto il mondo, oltre mezzo milione di persone è stato sinora sottoposto a trapianto.
La scarsità d’organi disponibili ha raggiunto ormai livelli di crisi, divenendo l’unico vero fattore limitante ad ogni ulteriore espansione di questo straordinario strumento terapeutico. Ancora oggi, 9 pazienti in attesa di trapianto muoiono ogni giorno. Nell’Europa occidentale vi sono, ad esempio, circa 40.000 pazienti in attesa di trapianto di rene, mentre il numero di donatori è stabile intorno a 5.000. Sul fronte della donazione, la Spagna continua a guidare la classifica dei paesi europei più «generosi». Ma il secondo posto conquistato dall’Italia, considerando che siamo partiti con dieci anni di ritardo rispetto ai cugini spagnoli, è senza enfatici nazionalismi, sicuramente motivo di grande soddisfazione.
Il numero dei donatori per milione di abitanti è in continua ascesa. L’Italia, nel 2004, ha continuato infatti, a scalare la classifica europea con 21,1 donatori per milione di abitanti, dietro alla Spagna con 34,6 donatori. Il numero dei trapianti effettuati è salito da 2.756 nel 2003 a 3.216 nel 2004, con un incremento del 16,7% e una sopravvivenza ad un anno superiore alle medie europee. Risultati grazie ai quali l’Italia è anche il terzo paese al mondo, dietro Usa e Spagna, con la maggiore attività nel settore. Per quanto riguarda il tipo di organo, il trapianto di rene è in assoluto il più realizzato in Italia come all’estero; seguono i trapianti di fegato e quelli di cuore.

Ecco alcuni dati. Nel 2004 sono stati realizzati 1.745 trapianti di rene. A guidare la classifica con 104 interventi a testa sono l’Azienda ospedaliera di Padova e l’Ospedale Molinette di Torino.
I trapianti di fegato sono stati 1.016. Le Molinette di Torino ne ha realizzati 145, altri 99 sono gli interventi dell’Azienda ospedaliera di Pisa ed 88 quelli degli Ospedali riuniti di Bergamo.
Gli interventi di trapianto di cuore sono stati 353. In testa, l’Ospedale S.Matteo di Pavia con 51 trapianti, seguito dall’Azienda ospedaliera di Bologna con 43, il Monaldi di Napoli con 36 trapianti e il Niguarda di Milano con 33.
I trapianti di polmone sono stati 82; per il pancreas si sono registrati 94 interventi ed infine 7 i trapianti di intestino effettuati.
Ma dalla fotografia «scattata» dal Centro nazionale trapianti il 5 maggio 2005 emergono anche alcune zone d’ombra. Le liste di attesa restano, infatti, ancora troppo lunghe: sono 6.554 i pazienti in attesa di un rene, 1.460 quelli in attesa di fegato, 636 in attesa di cuore, 210 in attesa di pancreas e 254 di polmone.
Sempre nel 2004, l’attesa media per ogni trapianto si è attestata intorno ai 3 anni. Ma ci sono pazienti che aspettano un trapianto da più di dieci anni…
Nonostante un leggero calo, il numero delle opposizioni alla donazione (29,4% nel 2004) è ancora alto.

Attualmente è infatti ancora in vigore il principio del consenso o del dissenso esplicito, come previsto dall’art.23 della legge n.91 del 1° aprile 1999. Se un cittadino in vita non si esprime, è prevista dalla legge la possibilità per i familiari (coniuge, convivente more-uxorio, figli, genitori) di opporsi al prelievo.
Il settore dei trapianti, ha spiegato l’ex ministro della salute, Girolamo Sirchia, richiede una valida organizzazione ogni giorno dell’anno ed una stretta collaborazione fra diverse équipe mediche, possibile solo dove il sistema sanitario è efficiente.
I molteplici problemi connessi con la donazione di organi richiedono un approccio sempre più globale alla questione. A prima vista sembrerebbe che, essendo il fine chiaramente terapeutico, dopo aver garantito la condizione di accertamento di morte e la sopravvivenza del donatore vivente, il problema etico sarebbe diventato semplice e di facile soluzione.
In realtà, con l’aumento delle richieste, la scarsità dei donatori, la qualità degli organi suscettibili di trapianto, i problemi etici si sono moltiplicati.
Ad esempio, il consenso informato del ricevente, la libertà del donatore e dei parenti, il diritto della società a prelevare gli organi dai cadaveri, a prescindere dal consenso esplicito; ed ancora la liceità di certi trapianti che possono influenzare l’identità del ricevente; la legittimità del trapianto sperimentale; e infine la determinazione dei criteri con cui assegnare gli organi da trapiantare. Sullo sfondo, i grandi interrogativi della bioetica, in tensione tra eterni dilemmi morali e rivoluzionarie scoperte della tecnologia.
Ogni vicenda di trapianto, ora più che mai, fa storia a sé con il suo inenarrabile intreccio di sofferenze e di speranze.

Enrico Larghero


ORGANI E PATOLOGIE:

Cuore
• cardiopatia ischemica
• coronaropatia
• cardiopatie dilatative
(es.miocardiopatia)

Fegato
Tutte le malattie che provocano
insufficienza epatica cronica:
• negli adulti, soprattutto epatite
cronica e cirrosi
• nei bambini, atresìa biliare
congenita

Polmone
• enfisema
• fibrosi cistica
• sarcoidosi
• fibrosi polmonare interstiziale

Rene
Tutte le patologie che provocano
insufficienza renale cronica:
• glomerulopatie
• tubulopatie
• rene policistico

Pancreas
• diabete mellito
• pancreatite cronica
• tumori

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Storia e introduzione alla problematica

TRAPIANTI,
DALLA LEGGENDA ALLA REALTÀ

Il mito dell’eterna giovinezza o la possibilità di prolungare la vita e restituire la salute attraverso la sostituzione di organi o tessuti malati con organi e tessuti sani ha stimolato la medicina e da sempre anche la fantasia popolare.
La storia dei trapianti ha origini nella leggenda, in Cina. Si narra che nel III secolo a.C. un chirurgo, Pien Chi’ao, scambiò i cuori di due soldati addormentati. Nel II secolo d.C. sempre un chirurgo cinese Ua T’o realizzò trapianti di visceri utilizzando per l’anestesia sostanze vegetali.
In Occidente, invece, la nascita dei trapianti viene fatta risalire dalla tradizione al III secolo d.C. quando J. da Varaquine nella Leggenda aurea narra che i santi Cosmo e Damiano sostituirono la gamba cancrenosa del loro sacrestano con l’arto di un etiope deceduto il giorno precedente. Francois Rabelais nel 1552 immaginò nel suo surreale Pantagruel un autotrapianto totale di testa; in particolare, nella ricostruzione del cranio di un nobile moscovita ferito in duello, si utilizzarono addirittura frammenti del cranio di un cane.

La storia scientifica dei trapianti inizia invece nel 1902, quando un chirurgo francese, Alexis Carrel, mette a punto a Lione una tecnica efficace e sicura per suturare le arterie e i vasi sanguigni, dimostrando in questo modo di poter collegare un organo estraneo, alla circolazione di un organismo ricevente. Per tale contributo, nel 1915, primo e finora unico chirurgo, otterrà il Premio Nobel. Lo stesso prestigioso riconoscimento fu assegnato cinquant’anni più tardi all’inglese Peter Medawar, le cui scoperte segnarono una seconda tappa fondamentale nella storia dei trapianti. Lo scienziato, dagli studi di anatomia, orientò le sue indagini sulle reazioni immunitarie dell’organismo dopo un innesto di cute in pazienti gravemente ustionati durante i bombardamenti di Londra della II guerra mondiale. Pose in questo modo le basi della compatibilità genetica tra individui consanguinei e quindi dello sviluppo dell’immunologia dei trapianti e del correlato problema del rigetto, cioè a quel complesso di reazioni biologiche in base al quale l’organismo tende a rifiutare l’organo trapiantato, riconoscendolo come estraneo.
Jean Dausset, allievo di Medawar, proseguì queste ricerche, dimostrando che un trapianto aveva maggiori possibilità di riuscita se il sistema anticorpale dei donatori era il più possibile simile a quello del ricevente, ponendo così le basi per i successivi studi sulla «compatibilità». Tali ricerche condussero l’équipe del professor Murray ad eseguire, il 23 dicembre 1954, a Boston il primo trapianto di rene fra gemelli omozigoti. L’identità genetica tra donatore e ricevente permise di evitare la reazione di rigetto determinando l’esito positivo dell’intervento, anche in assenza dei molti farmaci immunosoppressori, scoperti ed applicati nella pratica clinica solo successivamente.
Negli anni seguenti furono eseguiti un gran numero di trapianti da donatore vivente con risultati sempre più soddisfacenti. Nel 1963 Hardy compie il primo trapianto di polmone.
Nello stesso anno, dopo lunghissima sperimentazione, il chirurgo americano Thomas Starzl eseguì a Denver il primo trapianto di fegato, anche se il paziente morì, purtroppo, nel giro di poche ore. Si dovettero attendere alcuni anni per raggiungere una sopravvivenza sufficientemente lunga e considerare affidabile tale trapianto.
Nel 1966, Kelly e Lillehei furono gli autori del primo trapianto di pancreas a Minneapolis e l’anno successivo, a Città del Capo, Christian Baard eseguì il primo trapianto di cuore polarizzando in quell’occasione l’attenzione di tutti i mass media e dell’opinione pubblica mondiale.
Questo intervento rappresentò una «pietra miliare» e fu proprio in tale circostanza che si diede avvio ad un ampio dibattito sulla donazione degli organi. Nel 1968, un Comitato della Harvard Medical School, stabilì i criteri per la definizione del concetto di «morte cerebrale», che saranno da quel momento in poi universalmente condivisi.
I successi ottenuti determinarono una ampia diffusione della pratica dei trapianti, ingenerando nuove aspettative per l’umanità. Il problema principale, tuttavia, rimaneva legato al rigetto, fino a che la scoperta della molecola della ciclosporina, con la sua applicazione dal 1979, rivoluzionò la terapia immunosoppressiva. Durante gli anni ’80, Thomas Starzl, associando la ciclosporina agli steroidi, migliorò radicalmente le possibilità di successo dei trapianti di rene, fegato e cuore. Le percentuali di sopravvivenza, a un anno dall’intervento, passarono dal 20 al 70%!
L’ultima frontiera nella storia dei trapianti è quella aperta nel 1998 a Lione da Jean-Michel Dubeard con il primo innesto di mano e di avambraccio, creando i presupposti per una nuova e futura disciplina.

Nonostante i successi dal punto di vista clinico, biologico, farmacologico e chirurgico, un problema ancora da risolvere è legato alla carenza di donatori e di organi disponibili. Gli scienziati si sono orientati verso possibili soluzioni alternative e avveniristiche, come gli organi artificiali (emodialisi, cuore artificiale), gli xenotrapianti (trapianto da animale a uomo) e le cellule staminali (potenzialmente in grado di riprodurre qualunque tessuto) che non hanno però finora dato risultati soddisfacenti in termini di applicabilità, di aumento della sopravvivenza, di qualità della vita, ma sollevando, al contempo, scottanti problematiche bioetiche.
Un nuovo scenario si è quindi aperto davanti all’uomo: una possibilità di ridare vita a chi non ha più speranza, ma anche di ingenerare altre occasioni di sofferenza e di morte, quando i criteri morali, relegati in secondo piano, non sono considerati in tutta la loro importanza e complessità.

Enrico Larghero

Enrico Larghero




Viaggio tra gli esclusi dal boom economico

Aiutare È glorioso!

Deng Xiao Ping è il padre della celebre frase: «arricchirsi è glorioso!»,
da molti interpretata come il via libera al capitalismo cinese attuale.
A Derge, nel Sichuan, qualcuno crede che la vera gloria consiste nell’aiutare
i più sfortunati.

Bisogna salire sugli altipiani del Sichuan, quasi al confine con il Tibet, per conoscere la Cina che non cresce del 9,5% all’anno, non utilizza elettrodomestici e non chatta su internet. Salire fin quassù è utile anche per capire il «sistema socialista con caratteristiche cinesi», come amano ripetere i vertici del Partito comunista cinese.

UNA REGIONE «NORMALE»
La città di Derge si trova nella regione del Kham, la parte centrale della provincia tibetana, ed è abitata dalla fiera popolazione dei khampa, che tanti problemi in passato ha dato sia all’etnia han, i cinesi, sia al governo centrale di Pechino, smanioso di avere la zona del Tibet tranquilla e senza rivolte.
I khampa sono uomini fieri dallo sguardo torvo, vestiti con giacche di simil pelle (anche qui la plastica globalizzante imperversa), dalle lunghissime maniche che vengono utilizzate come scialle da avvolgere intorno al busto. Girano armati con un lungo coltello ben in vista; il loro sorriso è caratterizzato dallo scintillio di due denti d’oro, di solito i canini.
Nei primi anni di occupazione del Tibet (i cinesi parlano di liberazione), i khampa diedero vita a dure rivolte armate che però vennero facilmente stroncate dall’esercito cinese, accorso a riportare la calma. Sono quindi diversi anni che le ribellioni hanno cessato di prorompere, con evidenti vantaggi un po’ per tutti.
L’esplosione di benessere, almeno per il 10% della popolazione cinese, ha alimentato un volano economico che ha raggiunto anche questa zona. Al posto dei carri armati dell’esercito popolare ora arrivano i turisti, sia occidentali che cinesi. Quello che viene descritto sulle guide turistiche vecchie al massimo di un paio d’anni come un piccolo villaggio è in realtà una città che nel giro di pochi mesi ha visto la crescita di palazzi, centri sportivi, luoghi d’interesse storico inventati, strade, centrali elettriche… Tutto grazie all’arrivo di visitatori da tutto il mondo.
In quest’ottica, il Tibet e la regione confinante del Sichuan stanno trovando una fortissima valorizzazione economica da parte delle autorità cinesi, che da buoni affaristi, hanno capito che lo sfruttamento commerciale di queste zone rappresenta una miniera d’oro inesplorata.
La cultura tradizionale tibetana risulta in questo contesto spacciata. Ad esempio, l’architettura tipica in legno è ormai completamente travolta dalle imperversanti mattonelle bianche dei palazzoni cinesi di nuova costruzione, e anche la lingua locale versa in condizioni critiche: sono ormai pochi i bambini capaci di utilizzare il tibetano, essendo il cinese ormai imperante. Le caratteristiche culturali tibetane resistono se portatrici di soldi.
In questo caso il governo centrale tende addirittura a enfatizzare tali risorse, rendendole a volte grottesche, perché palesemente pensate in ottica turistica. Non sono pochi i monasteri che hanno perso il loro clima di mistero per essere trasformati in pure attrazioni turistiche.
Mentre la cultura tradizionale sta scomparendo, in compenso sono in arrivo moltissimi soldi, e con essi un numero sempre maggiore di coloni dell’etnia han, i cinesi. Ma è difficile capire fino a che punto i khampa traggano vantaggi materiali da questo grande fermento economico-turistico. Moltissimi non abbandonano la vita nomade; altri si accontentano di aprire un negozietto di souvenir made in China. La passione per gli affari non appartiene ai khampa e questo spiega anche la ragione del massiccio afflusso di cinesi dalle pianure.

SOPRAVVIVA… CHI PUO’
Lo sviluppo economico promosso dal governo in questa regione non si traduce in miglioramento dello stato sociale. Gli altipiani del Sichuan rispecchiano quanto accade nel resto del paese. Mentre le riforme economiche ultraliberiste hanno portato al 9,5% annuo la crescita economica della Cina, lo stato sociale è praticamente assente.
È convinzione comune tra gli stessi cinesi che 1 miliardo e 300 milioni di abitanti siano troppi da accudire con un welfare state efficiente. Da qui la scelta per una drastica selezione naturale: chi può sopravvive, gli altri affondano.
Tale prospettiva è vista con sdegno dalle autorità cinesi che amano ricordare la teoria marxista dell’accumulo: «Un’economia di mercato necessita di un periodo di forti disuguaglianze sociali, nel quale si accumula il capitale da investire negli anni successivi per la crescita economica; cosa che tutti i paesi capitalisti occidentali hanno fatto, anche il tuo» mi dice un combattivo signore di Shanghai.
È veramente difficile sfiorare i dolenti tasti economico-sociali con i cinesi che hanno raggiunto un minimo di benessere e che campano, forse, sulle disparità insite nella società.

NON SOLO TURISTI
La strada verso Derge sale tra mille tornanti. Il bus, stracarico di persone e bagagli, sembra debba rompersi da un momento all’altro. Il motore urla, si ferma, riparte. In discesa l’autista si lancia in folli sorpassi, che lo costringono poi ad attaccarsi ai freni per non finire nei burroni che costeggiano la pista. L’odore di acciaio in fusione che proviene dai tamburi del bus mi fa tornare in mente vecchie lezioni di fisica sulla deformabilità dei corpi soggetti a calore…
Meglio non pensarci e guardare fuori dal finestrino il panorama, segnato anche dai resti di alcuni camion usciti di strada, che hanno seguito le leggi fisiche della dinamica… A 4 mila metri, in mezzo ad altipiani mozzafiato, uomini e donne mietono il grano a mano. La loro piccolezza e magrezza contrastano con l’immensità dei campi: un mare dorato, dove quei piccoli esseri umani sembrano naufraghi alla deriva.
In questa zona opera la Ong italiana «Asia onlus», impegnata in progetti di sviluppo e cooperazione in campo sanitario e scolastico.
Il compito delle Ong occidentali in Cina è particolarmente difficile. Viste con sospetto dal governo comunista, devono innanzitutto dimostrare di lavorare senza alcun fine politico e nell’esclusivo interesse della popolazione locale. È facile ipotizzare che in questa zona «calda» della Cina tali condizioni siano richieste più che altrove.
Asia onlus opera da molti anni in collaborazione sia con le autorità comuniste, sia con la popolazione locale che beneficia dei suoi progetti. «La politica non ci interessa; ciò che importa è aiutare, per quanto possiamo, la gente bisognosa, soprattutto i più piccoli» spiega Wolfgang, un volontario tedesco che, insieme alla fidanzata Gina, utilizza le ferie per controllare i progetti in svolgimento nella zona del Sichuan.
Derge, descritto sulla Lonely planet come «villaggio tradizionale», è una vera città con palazzoni e traffico congestionato.
In posizione dominante sorge un grande monastero buddista, sede anche della più antica stamperia tibetana. È un patrimonio culturale preziosissimo quello che viene custodito nelle silenziose stanze del monastero: migliaia di matrici incise a mano su assi di legno, alcune risalenti al 1500.
I turisti non mancano: occidentali con zaino in spalla e comitive di cinesi; questi ultimi sono la punta di diamante del benessere nazionale, simili in tutto al classico turista europeo o statunitense, che ovunque vada cerca i comforts lasciati a casa sua.

IL VESTITO NON FA IL MONACO
Wolfgang e Gina mi accompagnano in visita al monastero. Il silenzio dei vicoli è rotto dal canto urlato e ritmato di decine di bambini, ammassati sotto una tettornia che li ripara dal sole, seduti su panche di fronte a un monaco che fa loro da maestro. Hanno davanti a loro dei quadei rettangolari scritti in caratteri tibetani. Ripetono a memoria la lezione e il maestro-monaco detta il tempo.
Sono piccoli, con i capelli rasati quasi a zero, vestiti con abiti da monaci anche se non lo sono. Molti di essi sono orfani e le condizioni economiche non permettono loro di avere vestiti differenti.
Wolfgang mi spiega che gli alunni sono 101 e il ciclo di studi previsto per loro è di sei anni. Mi mostra un libro in cui sono riportate le schede personali dei bambini. Lo schema si ripete tragico per tutti. Famiglie poverissime e numerose, madre o padre malati o indebitati: condizioni di vita che non permetterebbero ai bimbi nessun tipo di istruzione.
La mia guida mi spiega il dramma di molte famiglie: i debiti contratti sono dovuti a motivi di salute. «Il sistema sanitario cinese è completamente privato. In caso di malattia, appena giunti in ospedale bisogna pagare una tassa che molti non possono permettersi. Per questo i più poveri ricorrono ai prestiti» conclude Wolfgang, che è medico e da molti anni viaggia in queste zone per conto di Asia onlus.
Anche il sistema scolastico è privato. Consapevoli che le forti ingiustizie sociali alimentano rivolte in tutto il paese, le autorità cinesi stanno tentando di porre rimedio. Da poco è entrata in vigore la nuova legge riguardante il sistema scolastico, universale, ma ci vorrà molto tempo prima che diventi operativa. Sono necessarie molte risorse economiche per migliorare una drammatica situazione precaria.
Il progetto scolastico di Asia onlus nel monastero di Derge è portato avanti grazie alle adozioni a distanza. Con 300 euro annuali per bambino, l’organizzazione italiana provvede, in collaborazione con i monaci del tempio, la formazione scolastica tradizionale di base, due pasti giornalieri e un tetto dove ripararsi.
Ma la situazione non è rosea. In un incontro tra Wolfgang e il lama del monastero, quest’ultimo ha esposto la situazione con dura sincerità: i finanziamenti scarseggiano e la scuola rischia di chiudere, con conseguenze prevedibili per i bambini. Il medico tedesco assicura il monaco che la sua associazione è solida e che, nel 2006, il progetto potrà essere ampliato ulteriormente.

COPIANDO L’OCCIDENTE
Un aspetto interessante del lavoro di Asia onlus in Cina è l’affidamento dei progetti a personale locale capace e responsabile. Ne è un esempio Sonam, una bella ragazza tibetana, 30 anni, inglese fluente, che cornordina i progetti nella zona del Kham.
La sua è una storia di organizzazione dal basso e di altruismo. Consapevole di avere raggiunto la tranquillità economica e di possedere un forte strumento di emancipazione, la conoscenza della lingua inglese, un bel giorno ha deciso di inventarsi una scuola gratuita.
Ha affittato una stanzetta in un palazzone di nuova costruzione, ha comprato libri, quadei, sedie e banchi. I bambini sono accorsi numerosi e la scuola gratuita d’inglese è un successo. Fin troppo forse, perché Sonam insegna tutti i giorni due ore. Chi può paga una retta minima, gli altri, la maggioranza, non spendono nulla. I genitori dei piccoli sono molto riconoscenti a Sonam e quando la incontrano per strada sembra non la vogliano più lasciare andare via.
La conoscenza dell’inglese in Cina può rivelarsi uno strumento fondamentale per uscire dalla miseria. Economia informale, altruismo, cooperazione tra le autorità comuniste cinesi, comunità locali e Ong inteazionali appaiono come un’alternativa auspicabile all’attuale turbo-capitalismo cinese.
Se è vero che il nuovo «sistema socialista con caratteristiche cinesi» ha strappato dalla fame 200 milioni di cinesi in 20 anni, è parimenti credibile che stia scaraventando un numero imprecisato di esseri umani in condizioni di vita disastrose.
Passeggiare per le strade di Shanghai, per esempio, può dare un’idea dell’immensa forbice sociale che si sta aprendo nel paese: disperati che dormono nudi per strada, affamati che strisciano per avere una moneta in elemosina. E tutto in un clima di opulenza sfacciata, di luccicanti Ferrari e botti di champagne. Si dice che la Cina copi e ingigantisca tutto quello che proviene dall’Occidente. È un vero peccato che copi anche le cose peggiori.
(fine prima puntata – continua)

Giacomo Mucini




Viaggio in Caquetà

Un paese esagerato
Racconto di un’esperienza nella foresta amazzonica: incontri, sapori, colori e… missionari nel bunker.

La signora colombiana emigrata in Italia, insieme alla quale abbiamo condiviso la traversata dell’oceano, ci aveva guardati stupita e incredula dopo aver saputo la nostra destinazione: «In Caquetá?». Per lei, che conosce bene quelle terre, avrebbe fatto meno effetto un soggiorno a Baghdad.
Florencia, Caquetá, la porta dell’Amazzonia. Fare turismo da queste parti è facile, soprattutto per quanto riguarda la preparazione del bagaglio; nella valigia serve mettere solo una cosa: l’incoscienza. Qui uno straniero passa inosservato come un marziano a Firenze, fare una foto ci mette a disagio tanto quanto passeggiare nudi per le vie del centro di una qualsiasi delle nostre città; tutti ti guardano e si chiedono: «Perché?».
La stazione di Florencia si anima di buon’ora; ogni partenza è una storia e ogni viaggiatore è un attore: mille romanzi tutti diversi. Avendo tempo, ci si può fermare, osservare mondi lontanissimi in ogni persona; ma bisogna partire e recitare anche noi la nostra storia.

SGUARDO DAL FINESTRINO

La scelta del mezzo su cui viaggiare offre tre opzioni: la chiva, tradizionale autobus coloratissimo, privo di finestrini e porte, dove si può caricare qualsiasi bagaglio personale e dove può capitare di avere come vicino di viaggio un maiale o una pecora; la jeep, che però è molto scomoda se ti capitano i posti laterali; il piccolo pulmino, il mezzo che abbiamo scelto noi.
L’eccitazione della partenza pare coinvolgere tutti, sembra una gita. Senza rendersene conto, si diventa parte di un gruppo e la solidarietà fra gli occupanti del veicolo si avverte a pelle, senza bisogno di parole. In queste zone, il viaggio è sempre molto pericoloso: è facile non arrivare a destinazione.
Sono stato fortunato, il passeggero che mi è toccato vicino non è un maiale, né una capra: è un giovane costeño (abitante della costa; termine usato abitualmente per indicare gli afro-colombiani) dalla pelle scura e dal fisico possente. In compenso viaggio con un gallo da combattimento chiuso in una scatola di cartone sotto al sedere!
Il primo posto di blocco ci aspetta subito fuori l’abitato di fronte a una grande caserma. Qui i militari sono più rilassati, rispetto a quelli incontrati nel resto del viaggio: avere una caserma alle spalle, con tanti commilitoni pronti a contrastare eventuali assalti della guerriglia, penso dia sicurezza e, di conseguenza, renda più sereni. Controllo dei documenti e perquisizione, infatti, sono veloci e non infastidiscono più di tanto. Ognuno riprende il proprio posto e, senza alcun commento, si riparte verso sud.
Qui, non è il mezzo di trasporto che ti permette di arrivare: è la strada, la cui terra rossa cambia ogni giorno, vive, si muove: il tuo arrivo dipende dal suo umore. Oggi che la strada è buona, si guida sul fango, in controsterzo, tanto che non posso fare a meno di dire al conducente: «Usted maneja mejor que Montoya!». Una leggera smorfia, a significare «si fa quel che si può», è la risposta. Le condizioni della carreggiata sono davvero pessime, ma mi dicono che oggi siamo fortunati, perché la pioggia, arrivata durante la notte, ci ha risparmiato la polvere.
Fisso il cruscotto del veicolo: balla che pare staccarsi da un momento all’altro; guardo le mani dell’autista girare vorticosamente a sinistra il volante, mentre la logica lo vorrebbe nel senso opposto, ma così si deve fare per restare sul tracciato. Mi viene da fare quattro conti e concludo che i danni al veicolo saranno sicuramente maggiori di quanto incassato dai viaggiatori trasportati.
Scoprirò in seguito che in Colombia si aggiusta tutto con poco o niente e che il milione di chilometri per una autovettura non è cosa impossibile, né rara.
Il percorso è abbastanza omogeneo, si viaggia in un continuo saliscendi, fra verdissime colline disboscate per far posto al pascolo, le mucche però sono molto magre e ce ne vogliono due per fae una delle nostre. Ogni tanto si incontra qualche gaucho, il cavallo e il cavaliere sono una cosa sola, né bestia, né uomo.
Attraversiamo qualche villaggio. Le case sono di legno e qualche mattone; le grondaie dei tetti in lamiera hanno legato all’estremità un recipiente e un tubo di gomma porta acqua da qui a un serbatornio più grande. Non mancano piccoli negozi e bar per la sosta, la pipì e una cerveza.
Incrociamo un grande autocarro: la motrice è molto vecchia, America anni ’50, sono sicuro che non ha servosterzo… Lo guida un ragazzino: qui si cresce in fretta.
Più avanti, dopo molta strada e tanto niente, sul ciglio, un vecchio vestito di bianco, sombrero sulla testa, fa segno all’autista di fermarsi. Insieme a lui sta una minuta figura contorta; è una piccola vecchia vestita con uno straccetto, incapace di salire a bordo: ha le gambe storte e anche le braccia sono colpite da handicap. Sembra un piccolo passero ferito, incapace di volare, e quei due scalini sono invalicabili. Ma la mano del costeño è grande, la sua forza capace di sollevare tutto il bus e il suo cuore sa amare senza pietà. La prende da terra come una foglia e la fa sedere vicino a noi.
Al secondo posto di blocco la procedura di controllo è uguale alla prima. Si scende tutti, perquisizione, verifica documenti e qualche domanda. I militari qui sono più tesi; sono tutti giovanissimi, armati di mitra. Alcuni stanno rinchiusi in piccoli rifugi fatti di sacchi verdi riempiti di sabbia, sono tutti molto seri. La guerriglia può colpire in ogni momento; già troppe volte ha attaccato e ucciso come si uccide in battaglia, perché qui siamo in guerra, guerra civile.
A qualcuno i militari chiedono, dopo avergli preso il documento, di ripetere a memoria il numero dello stesso. Un passeggero non lo ricorda e subito gli intimano di impararlo. Guardano il mio passaporto, se mi fanno domande non saprei cosa dire, spero solo di non essere loro antipatico per non maledire il giorno che sono partito dall’Italia.
Avanti ancora… Ormai siamo alle porte di Cartagena del Chairá, ma prima di arrivare ecco un altro posto di blocco. Giù tutti e di nuovo perquisizione con documenti alla mano. Tutti in fila: uomini, donne, vecchi e giovani; i ragazzi in divisa ci devono dire se possiamo passare, oppure no. Anche questa volta sembra tutto a posto, ma mi accorgo che fanno togliere un bagaglio dalla corriera e si portano dietro il mio amico nero. Lui non dice niente, segue rassegnato quei bambini-soldato, il suo viaggio finisce lì. Noi ripartiamo, con un posto vuoto e tante domande in testa, che non avranno mai risposta. Ciao, costeño dal cuore grande.
Paese… «normale»
Mi pare che siamo nel 2005. Non so quanti anni siano passati da quando, anche nel nostro mondo, si parcheggiavano i cavalli anziché le automobili. Cartagena è un luogo dove il cavallo parcheggiato, legato per la briglia a un albero, è cosa normale anche per il cavallo.
Sono normali anche le tracce di recenti battaglie, i colpi di mitra sui muri, se si è già messo in conto di essere morti, di averla anticipata la morte e di vivere ogni giorno un giorno di più.
Lì ho visto tre foto nelle mani di padre Victor Iacovissi e ho letto un foglio che le accompagnava. Le fotografie mostravano i corpi senza vita di tre vittime della guerriglia passate per le armi, sfigurate e sporche di sangue e il foglio, con la grafia di mani senza pietà, giustificava la sentenza: ladro, prostituta e spia.
Ho capito dov’ero! Ci dovrebbe essere per tutti un momento in cui si capisce veramente che non esiste violenza giustificabile e nulla che valga la morte di un uomo. Io l’ho capito a Cartagena del Chairá.
La casa dei missionari della Consolata è attigua alla grande chiesa. Vi si accede attraverso un grande portone di legno, che conduce all’interno di un grande giardino quadrato. Tutto intorno la costruzione a un solo piano, che forma un intero isolato nel paese in riva al fiume. Si avverte subito un senso di pace e protezione; ci si sente a casa, forse per l’ospitalità vera che si respira e, forse più, per la presenza delle anime buone degli uomini che l’hanno costruita e che ci hanno vissuto, aiutando tutti senza distinzioni.
Non avevo idea, prima di questo viaggio, di cosa significasse essere missionari e quale fosse il loro mondo. Ho imparato, o almeno penso di aver capito, quale sia la cosa più bella, utile e grande del loro agire. Non sono le innumerevoli opere delle quali si sono resi artefici, come scuole, orfanotrofi, ospedali e tutto quello che aiuta la gente a vivere, crescere ed evolversi. Non sono gli aiuti in denaro, cibo, medicine e altro genere; né il conforto che sanno dare ai poveri, disperati, emarginati.
La cosa più grandiosa che sanno fare è semplicemente il vivere donando se stessi agli altri, senza chiedere nulla in cambio. La loro vita è un esempio benefico di un’alternativa possibile ai nostri piccoli mondi fatti di egoismi, paure e superficialità.

PADRE VICTOR SI È FATTO IL BUNKER

Credo che certi uomini nascano buoni, allo stesso modo in cui altri nascano con gli occhi verdi. La differenza è che gli occhi verdi non servono a nulla e a nessuno, la bontà sì.
Oltre ad essere un buon uomo, padre Victor è anche un bravissimo cuoco e così il pollo che ci aveva preparato è passato, oltre che dal mio stomaco, anche nella stanza dei ricordi che non si cancellano. Noi, in cambio, avevamo portato un pandoro, un dolce fatto a Verona, che diventa il dolce più buono del mondo se mangiato a 10 mila chilometri da dove viene prodotto.
È incredibile come le cose perdano o, viceversa, acquistino valore cambiando luogo. Un dolce che in Italia costa meno del pane e si mangia solo per tradizione a Natale, senza apprezzarlo più di tanto, qui diventa una squisitezza. Allo stesso modo, le preziose e tanto desiderate foglie di coca, lì perdono tutto il loro valore e diventano solo foglie, come quelle di tanti alberi che fanno ombra e compagnia a meravigliosi pappagalli colorati.
Padre Victor, oltre a essere un bravo cuoco, è anche un grande attore. Recita senza copione le parti di un’opera che non ha sceneggiatura, ma solo un titolo: «Amore». All’altare veste gli abiti del prete sopra la canottiera del contadino che ingrassa i polli col pane. Le tasche delle braghe sono piene di caramelle per i bambini di Cartagena del Chairá, che bussano sempre al suo portone: «Padre Victoooor!».
Verrebbe da pensare che persone disposte a lasciare la propria terra per vivere al servizio degli altri, fra mille sacrifici e privandosi di tutto quello che i più considerano indispensabile per vivere bene, abbiano un rapporto con la morte più facile e sereno. Credo anche che la fede in Dio aiuti ad avere con la morte un rapporto privilegiato. Nonostante questo, padre Victor si è fatto costruire un bunker in cemento armato all’interno della missione, vicino al pollaio, sotto un grande albero di mango, per difendersi in caso di attacco della guerriglia.
Non è passato molto tempo, infatti, da quando i guerriglieri delle Farc, avevano sferrato un attacco alla caserma, a poche decine di metri dalla chiesa, uccidendo tutti i militari che vi stazionavano dentro. La sua non è paura della morte, è difesa ostinata della vita; non c’è tempo ora per morire, con tutto quello che c’è da fare!
La mia insonnia di quella sera, invece, era proprio paura. La stanzetta che mi era stata riservata stava proprio di fronte alla caserma, che i militari avevano da poco ricostruito, e dalle fessure degli stipiti di legno della finestra potevo guardare fuori. La luce dei lampioni rendevano ancora più tetro quello che potevo scorgere e i racconti ascoltati durante la giornata sulle modalità dell’attacco della guerriglia, rendevano l’atmosfera surreale per uno come me, abituato a vedere la guerra in Tv. Un soldato di guardia, mitra a penzoloni sul fianco, camminava lento, avanti e indietro, davanti a quella costruzione grigia in cemento armato, senza porte e finestre, solo piccole feritornie alle pareti.
Per la strada, nessun altro.
Entro nella mia piccola stanza. Qualcuno, passando, aveva lanciato all’interno, prima che io entrassi per andare a dormire, due lattine di birra vuote e io, subito, avevo tradotto in minaccia quel gesto. La paura mi impediva di dormire; la mente produceva solo il peggio che mi sarebbe successo: in quella occasione ho imparato a cosa può servire una bottiglia di aguardiente… E il sonno fu profondo; la mattina arrivò presto.

IL FIUME

La luce sull’acqua del fiume, al mattino presto, subito dopo l’alba, sprigiona energia dentro chi sa vedere il bello; energia inebriante, che ti coinvolge ed entusiasma. La brezza del mattino appoggiata sul fiume si rivelò presto fredda e fastidiosa anche a pochi chilometri dall’equatore; ma l’ebbrezza di quella navigazione a zig-zag lungo il corso del fiume riscaldava a sufficienza per ignorare il freddo.
Risalimmo la strada d’acqua per circa 5 ore: ancora non ho capito se l’arrivo a San Vicente sia stato una liberazione o la fine di una grande gioia. Ora so bene cosa significhi «essere sulla stessa barca». L’ho imparato in mezzo al fiume sperduto in Amazzonia, insabbiato per la poca profondità dell’acqua.
Non so come facesse il pilota dello scafo a individuare, in quelle acque limacciose, il punto profondo dove poter sfrecciare veloce, senza arenarsi. Il fiume, normalmente pieno d’acqua, era in quel periodo più asciutto per le scarse piogge. Sicuramente, vedeva un percorso a noi sconosciuto, che lui aveva già fatto migliaia di volte e che suo figlio stava imparando. Un attimo di stanchezza o disattenzione e la barca, improvvisamente, per via del basso fondale in quel punto, si arenò e il motore si spense. Il silenzio di tutti fu subito la nuova musica e gli sguardi di ognuno verso gli altri un punto di domanda: «Che fare?».
Alcuni dei nuovi passeggeri, imbarcati lungo le sponde del Caguán, misero le braccia in acqua lungo il fianco della barca e sollevarono le mani piene di sabbia. Il motorista si rimboccò i calzoni e scese in acqua per tentare, spingendo, di uscire dal fango. Al motorista si aggiunse un altro passeggero e il pilota; sempre in silenzio, cominciò a far dondolare lo scafo con il peso del corpo per aiutare la corrente del fiume a togliere la barca da quel pantano. Niente da fare.
Pensai subito che, oltre a spingere, bisognava togliere peso all’imbarcazione per farla galleggiare meglio. Non trovai altra soluzione che togliermi le braghe, scendere nel fiume e spingere anch’io. La cosa si rivelò subito divertente anche per gli altri passeggeri che, vedendo un forestiero in mutande spingere la loro barca per toglierla dall’insabbiatura, manifestarono sorridendo la loro gratitudine.
Ho visto l’acqua e la luce; poi sono arrivato a San Vicente del Caguán.

GRAZIE COLOMBIA
Capita a tutti di incontrare persone che non vedremo mai più. Magari ci parliamo anche, per una volta soltanto, e le perdiamo per sempre senza addii. Quel giorno ho perso i miei compagni di viaggio nel più piccolo porto che si possa immaginare, sulle sponde del Caguán, a San Vicente, in Colombia.
Fare paragoni con le nostre realtà, quando si frequentano nuovi mondi, è la cosa più sbagliata. Bisogna osservare senza riferimenti per scoprire bellezze inaudite dove, altrimenti, non le troveremo mai. Ho fatto così e ho visto colori più forti e tutto mi è piaciuto quanto basta per avere la voglia di tornare.
Verso sera, padre Luis ha celebrato la messa e, dato che quando sono arrivato io era quasi finita, l’ho aspettato fuori, seduto sui gradini della piccola chiesa celeste, godendomi quella distanza che mai avevo raggiunto dalla mia casa, oltre l’oceano, lungo il fiume.
Una giovane donna, finita la messa, avvicinò il prete e gli chiese se la poteva confessare, che il giorno dopo si sarebbe sposata. Io la guardai e mi chiesi che peccati potesse aver commesso. Non riuscii a immaginae alcuno e mi dissi che l’unico peccato era quello di essere nata in un meraviglioso paese dove tutto è esagerato.

Francesco Rezzadore




RORAIMA: la festa

L’antropologa

LA FESTA CONTINUA

Lo scandalo del finanziamento illecito ai partiti, che ha colpito il Partito dei lavoratori, nonché il suo leader, il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva, si è ripercosso anche sullo stato di Roraima: le élites locali hanno ironizzato e accusato il presidente di sprecare il denaro pubblico nell’inviare un manipolo di poliziotti federali in quello stato, per garantire la sicurezza e il tranquillo svolgimento della festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol. Così sono rimasti indifesi i villaggi di quell’area e alcuni dei suoi presidi più rappresentativi, come la missione di Surumú e il suo Centro di formazione e cultura indigena.
In questa latitanza del governo centrale, i gruppi tradizionalmente ostili ai popoli indigeni, tra cui anche molti indios corrotti dai politici locali, sono riusciti ad avere mano libera: appena 4 giorni prima dell’inizio della festa, 150 uomini incappucciati e armati hanno bruciato il Centro, la chiesa e l’ospedale. Dietro tali atti ci sono mandanti ed esecutori ben noti: il sindaco di Pacaraima (il maggior risicoltore della regione), Paulo César Quarteiro, di lontane origini italiane e il tuxawa (capo) del villaggio di Contão, Genivaldo Macuxi.
I media locali (giornali e Tv) hanno provveduto a coprire i mandanti e svelare gli esecutori materiali, che si sono assunti tutte le responsabilità. Al tempo stesso, però, hanno fatto di tutto per scagionarli: ripetendo fino alla noia la solita tiritera sull’«inteazionalizzazione» (che cioè, «chi difende i diritti degli indios sarebbero soltanto stranieri, interessati a impossessarsi delle loro terre») e rimproverando alla polizia militare locale di non intervenire contro gli stranieri e ad alcuni organi giuridici di garantire loro l’impunità.

I l tanto contestato manipolo di polizia federale (appena tre uomini, invece dei 150 attesi), sono arrivati all’inizio della festa, dopo la distruzione della missione di Surumú e l’incendio appiccato, il giorno successivo, al ponte sul fiume Urucurí, l’unico accesso via terra all’area indigena.
Questi fatti non hanno bloccato il normale svolgimento della festa; però ne hanno permesso la delegittimazione istituzionale. A parte la presenza di un consigliere personale di Lula, Cesar Alvarez, alla festa hanno partecipato unicamente dei «tecnici» dell’apparato governativo, come il presidente della Fondazione nazionale per gli indios e quello dell’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria.
Si attendeva la presenza di almeno tre ministri: Marina Silva ministro dell’Ambiente, Miguel Rossetto dello Sviluppo agricolo e Marcio Thomaz Bastos della Giustizia, il quale aveva confermato da tempo la sua partecipazione. I timori per la sua incolumità (volantini distribuiti per tutta la città di Boa Vista con minacce di una manifestazione e altre azioni ai suoi danni e di rappresaglie nei confronti delle comunità indigene) hanno impedito a Bastos di recarsi alla festa dell’omologazione di cui egli è stato certamente il maggior artefice.
C’erano invece tanti stranieri, rappresentanti di organizzazioni non governative, che hanno fatto dire ai mezzi di comunicazione che «la festa è solo un’iniziativa degli indios e degli stranieri», fomentando ancora una volta la tesi dell’inteazionalizzazione dell’Amazzonia. «L’area unica – hanno ripetuto i media – è sostenuta da una minoranza indigena, dalla chiesa e dalle Ong, mentre la maggioranza degli indios vuole la demarcazione “in isole”, in quanto solo questa può garantire lo sviluppo delle comunità indigene e, soprattutto, dello stato di Roraima».
Certamente la regione del Basso Cotingo, che vede la presenza stabile dei grandi coltivatori di riso, fornisce spesso uomini, ma anche donne e giovani, alle azioni terroristiche condotte ai danni delle comunità che hanno sostenuto l’omologazione in area continua. Sembra, però, che questi individui si prestino a tali atti per tre motivi principali: ricevono compensi e vantaggi economici, sono ricattati, subiscono le pressioni della Missione evangelica dell’Amazzonia, da tempo presente nell’area (soprattutto nel villaggio di Contão) e da sempre contraria alla demarcazione in area continua.
Tuttavia, dietro coloro che a Roraima si oppongono al riconoscimento delle terre, dei diritti indigeni e alla riforma agraria, ci sono parlamentari locali che godono di notevole rappresentatività a Brasilia; essi vedono nella risicoltura e in altre attività intensive il futuro di Roraima, per cui non hanno nessun interesse alla regolarizzazione delle terre, perché ciò significherebbe un controllo più diretto sul loro uso, che non è mai esplicitamente dichiarato.
Ne deriva una situazione assurda: l’amministrazione locale di Roraima preferisce che non si realizzi il passaggio delle terre federali allo stato regionale e che, piuttosto, rimangano nell’indefinizione, consentendo così che tali terre cadano nelle mani dei grileiros (invasori illegali di terre federali), la mano lunga dei potentati locali, i quali, a loro volta, rappresentano gli emissari delle multinazionali che stanno davvero «inteazionalizzando» il Brasile.
Per esempio, nella regione domina pure un certo Walter Vogel, svizzero. Possiede 12 mila capi di bestiame, due agenzie immobiliari, diversi negozi, piantagioni di acacia mangium per migliaia di ettari, nonché il 40% delle terre coltivabili dello stato (escluse quelle indigene). Spesso i bianchi recriminano: «A Roraima c’è troppa terra per pochi indios»; ma non si sente dire: «Troppa terra per un solo bianco».

I ntanto la festa continua, sotto la guida del grande tuxawa Jacir de Souza Macuxi, che «è stato ricevuto a Brasilia come un capo di stato». Egli si sente erede di Makunaima, il leggendario capostipite di quei popoli indigeni che dalla notte dei tempi abitano quelle terre e le hanno difese con coraggio a prezzo del proprio sangue.
Jacir è commosso, mentre inaugura il monumento che rappresenta la mappa della regione Raposa Serra do Sol, realizzata da Barthó, un artista non-indio. Anche questo costituisce una significativa testimonianza, per dimostrare che la convivenza pacifica tra indios e non indios a Roraima e in tutto il Brasile è possibile e che il processo di riappropriazione delle terre da parte dei suoi più antichi abitanti, dopo 500 anni di soprusi, è ormai irreversibile.

Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria




RORAIMA: la Campagna

La consegna delle firme

LA FORZA DI 44.000 FIRME

«In fretta, in fretta! Il presidente Pera vi sta aspettando!». Antonio Feandes, missionario della Consolata a Roraima (Brasile) e oggi consigliere generale dell’istituto, si asciuga emozionato il sudore; Carlo Maglietta, medico e presidente del «Comitato Roraima», si riannoda precipitosamente la cravatta; Silvia Zaccaria, antropologa, si aggiusta con la mano la chioma fluente; Vincenzo Gaeta, caporedattore di «Famiglia Cristiana», spegne il cellulare. E Francesco Beardi, cornordinatore nazionale di «Nós existimos», dichiara deciso: «Andiamo!». A Roma, il vistoso orologio di Palazzo Madama, sede dell’incontro con il presidente del Senato, segna le 12 e 13. È il 26 luglio 2005.

Marcello Pera accoglie sorridente e interessato i cinque delegati, accompagnati dal pensiero degli amici rimasti in anticamera: tutti attivisti nella campagna «Nós existimos» (Noi esistiamo) in favore dei popoli indigeni, piccoli contadini ed emarginati urbani di Roraima. Il quintetto illustra al presidente le sfide in una regione dove corruzione, violenza e impunità si intrecciano e regnano sovrane.
I missionari della Consolata operano a Roraima dal 1948. Dopo lunga riflessione, scelgono i popoli indigeni, cioè i più poveri dei poveri. A partire da tale opzione, essi passano dalle parole ai fatti, anche a livello internazionale. Lanciano alcune campagne.
– Ecco la campagna per gli Yanomami del 1979-80. Dall’Italia partono tantissime cartoline: sollecitano il presidente del Brasile a creare il «parco yanomami», perché la terra è essenziale per salvaguardare la cultura di un popolo indigeno. L’obiettivo verrà raggiunto nel 1991.
– Segue, nel 1988-89, la campagna «Indios Roraima», realizzata anche a livello europeo: moltissimi cittadini si appellano al Segretario generale delle Nazioni Unite, affinché siano tutelati i diritti dei popoli indigeni e sia salvaguardato l’ambiente amazzonico. La campagna include pure il progetto «Una mucca per l’indio», che si concreta in 10 mila capi di bestiame, oggi 42 mila.
– «Nós existimos» è l’ultima campagna. Lanciata nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2003; rispetto alle precedenti, si caratterizza per due novità. La prima: la campagna nasce ed è cornordinata in Brasile, da realtà locali (missionari della Consolata, Consiglio indigeno, ecc.); in Italia si raccolgono solo le «loro» proposte. La seconda novità: «Nós existimos» è globale; riguarda non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e gli emarginati della città. Insomma, tutti i poveri. E tutti scendono in campo, per la prima volta insieme, in una storica alleanza di oppressi. Queste le rivendicazioni di «Nós existimos»:
– omologazione-riconoscimento della terra indigena di Raposa Serra do Sol in un’area continua, allontanando gli invasori; controllo del territorio e rispetto delle culture ancestrali;
– approvazione del nuovo Statuto degli indios e sospensione del progetto (stralciato dallo Statuto) di estrazione mineraria in area indigena;
– no ad agevolazioni fiscali a latifondisti, coltivatori di riso, acacia mangium e soia; sì a investimenti per una politica agricola familiare e creazione di posti di lavoro in città;
– no alla produzione di «pasta base» per la cellulosa, onde scongiurare l’alto costo ambientale;
– sostegno a indios e non indios, in campagna e città, che vogliono salvaguardare l’ambiente e sviluppo sostenibile;
– lotta alla corruzione a ogni livello; in particolare, punire i responsabili di illegalità politiche;
– regolamentazione della presenza militare in terra indigena.

Q ueste rivendicazioni sono state sottoscritte anche da 44 mila italiani. Grazie alle firme, che padre Feandes e compagni consegnano al presidente del Senato, si è già ottenuto (indirettamente) un risultato positivo: il riconoscimento dell’area indigena «Raposa Serra do Sol» (17 mila kmq), avvenuto il 15 aprile scorso con il decreto del presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva. Una vittoria… dentro un cammino ancora irto di ostacoli.
All’incontro con Pera partecipa pure Enrico Pianetta, presidente della Commissione dei diritti umani del Senato, che in agosto consegnerà al presidente Lula le 44 mila firme. «Tante quante sono gli indigeni di Roraima: una firma per ogni indio» commenta con evidente simpatia la senatrice Emanuela Baio, anch’essa in sala.

Con la consegna delle firme, sulla campagna «Nós existimos» in Italia cala il sipario. Ma, «oltre il sipario», sul palco di Roraima, indios, piccoli contadini ed emarginati urbani recitano ancora a soggetto, rivendicando maggiore giustizia e libertà, in un contesto di sfacciata ricchezza e lacerante povertà. Ma sono incoraggiati da un nutrito «movimento» di forze religiose e sociali locali. È un’altra significativa vittoria…
Siamo grati ai 44 mila «attivisti» italiani. Attivisti: termine un po’ desueto, che è opportuno riscoprire nel suo significato migliore. «Non dobbiamo starcene come automi, senza iniziative proprie, per paura di sbagliare. Non lasciamoci rimorchiare. No, avanti! Camminiamo sempre, per farci santi e salvare tante anime!» (Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata).

Francesco Beardi

Francesco Beardi