DOSSIER ANZIANI “Io, settantenne molto arrabbiata”

La pensione, le ricette, le medicine, i prezzi: lo sfogo di una pensionata come tante.

Io sono una pensionata con il «super minimo», dove però di super c’è soltanto il nome. Nella mia situazione ci sono tantissime signore vedove e, ogni volta che ci incontriamo, concludiamo che non possiamo più andare avanti così. Il nostro Presidente dice che ha abbassato le tasse, ma a chi? Ai pensionati medio-alti o agli industriali abbassando l’Irpef del 3-4%, per noi cittadini normali il reddito non è aumentato di certo, anzi è vero il contrario.
Vorrei parlare, per esempio, dei problemi della sanità, che dobbiamo quotidianamente affrontare. Per poterci curare noi anziani, affetti da osternoporosi, artrosi, ecc. dobbiamo spesso ricorrere a terapie alternative, per evitare di ingerire dei medicinali antinfiammatori che ci rovinerebbero lo stomaco. Possiamo farlo, ma a nostre spese per almeno il 50%.
Nelle Asl hanno tagliato diverse prestazioni terapeutiche e sono aumentati i costi del tichet sulle ricette mediche. Prima si pagavano 2.000 lire per la prescrizione di 2 farmaci, oggi si pagano 2 euro per la prescrizione di un solo farmaco. Per fare alcune terapie strumentali di fisioterapia: biodinamica, radioterapia, occorre spendere dai 100 ai 200 euro. E che dire dei farmaci salva-vita? Hanno tolto le pastiglie per la pressione, per la labirintite. Per farla breve: per curarci dobbiamo comprare le medicine al banco. I costi si aggirano sui 500-600 euro all’anno.
Ma il signor Presidente ci consola dicendoci di mettere da parte gli scontrini di cassa della farmacia perché abbiamo diritto alla fiscalizzazione detraibile del 19%. Ci consiglia, inoltre, di fare la dieta, così ci passano tutti i malanni. Noi anziani vogliamo rispondere al Presidente, che tagliando lo stato tutte le risorse per curarci, a noi rimangono pochi spiccioli per tirare avanti… fino a fine mese.
La nostra pensione non ce l’hanno aumentata in base al costo della vita, al passaggio dalla lira all’euro e all’indice Istat. Senza dimenticare, voglio sottolinearlo con forza, che a noi la pensione non ce la regala nessuno: per essa abbiamo lavorato e versato i contributi. •

Grazia Sergi




DOSSIER ANZIANI Vivere da anziani costa molto

In Italia per invecchiare bene occorrono soldi e cioè pensioni adeguate alle numerose necessità. Che tra l’altro aumentano in misura considerevole per gli oltre 2 milioni di anziani non autosufficienti.

Parlare e scrivere di loro: degli over 65. Tanto se ne parla, tanto se ne discute. Tanti sono intorno a noi, tra noi, tantissimi sono prossimi a quell’età. In Italia, infatti, il 18% della popolazione ha più di 65 anni.
Il 90% delle donne e l’80% degli uomini nati in Italia raggiungono e superano la soglia anagrafica dei 65 anni.
Lo scorso marzo, a Roma, si è concluso il Forum sulla Terza Età, che ha visto relatori della classe politica, amministrativa, universitaria e medica. Un’indagine svolta su fronti diversi dalla quale è emersa l’importanza, nell’età geriatrica, della qualità della vita, dell’autonomia con buoni rapporti interpersonali, dell’essere attivi, socializzando in relazioni amicali presso strutture religiose, sedi para-universitarie, centri sportivi.
Sono stati intervistati in questo studio 1.500 anziani e ben il 51% ha sottolineato come la condizione di benessere sia l’attività. Fare le cose che piacciono, ma che spesso sono negate in una quotidianità fatta di doveri, responsabilità familiari, professionali e problematiche economiche.
Sì, perché fare le cose che piacciono implica la necessità di un’adeguata copertura pensionistica. Il 28% degli anziani intervistati considera peggiorata la propria condizione economica rispetto ai precedenti 5 anni. A mio avviso, in questo senso è assolutamente necessaria da parte della classe politica al governo una rivalutazione ed un adeguamento economico delle pensioni d’anzianità.
Vivere la maggior età costa molto. Costa l’autonomia domiciliare; costa l’alimentazione corretta; costano i molti farmaci in fascia «C»; costa la presenza di un supervisore che spesso, anche se si è autonomi, si assume per facilitare la propria quotidianità; costa la comunicazione (telefoni, cellulari, telesoccorsi); costano gli ausilii (apparecchi acustici, lenti visive, attrezzature ortopediche, protesi e cure odontorniatriche, modifiche strutturali nel proprio domicilio per evitare cadute a terra ed eliminare barriere architettoniche).
Insomma, invecchiare è un impegno anche economico.

Fondamentale è il ruolo informativo del medico di base, davanti ad un paziente ultrasessantacinquenne che si mostra molto presente, coraggioso e intraprendente nel percorso terapeutico.
Nella tipologia caratteriale che il medico di base affronta quotidianamente (parlo nelle vesti di medico di famiglia), l’over 65 è il paziente che ha più fiducia nel parere del proprio curante e che richiede spiegazioni semplici e precise sulla propria situazione clinica.
Di fronte all’anziano il comportamento sanitario deve essere quanto mai attento perché la Terza Età è spesso sinonimo di pluri-patologia. Patologie non spesso invalidanti, ma che si sovrappongono e quindi si potenziano, per le quali il curante deve fare una classificazione e impostare una terapia efficace e facile da gestire.
Più difficile è approcciarsi con le patologie invalidanti dell’anziano: difficile per il soggetto, per la famiglia, per il mondo sanitario. Occorre allora affrontare i rapporti interpersonali all’interno della famiglia che si vorrebbe presente e unita nell’obiettivo di cura dell’anziano; occorre dare all’anziano un luogo adatto, cornordinare i progetti assistenziali, infermieristici, medici, socio-sanitari.
Mi riferisco a quel 20% della popolazione anziana che è disabile: sono oltre 2 milioni le persone non autosufficienti nel nostro paese. La letteratura medica definisce anziano fragile il soggetto con più di 65 anni, che presenta un’aumentata vulnerabilità a eventi avversi con grave rischio e potenzialità di non auto-sufficienza.
Ora la medicina generale con le «unità valutative geriatriche» identifica l’anziano fragile attraverso tests clinici e neuro-psicologici, permettendo allo stesso soggetto di accedere ad una rete di servizi capaci di prendersene carico (servizi domiciliari e residenziali). Identificare la sua fragilità e risolverla, questo è l’obiettivo.
Penso, ad esempio, ad anziani soli e disalimentati con rischio di cadute e osternoporosi. Allora i servizi sociali programmeranno i pasti a domicilio, si programmerà una fisioterapia e ausilii a domicilio. Penso a pazienti vasculopatici con tono dell’umore depresso: bisogna monitorare i controlli vascolari ed approntare una terapia farmacologica.
In conclusione, si tratta di mettere in atto le opportune strategie di prevenzione, cura e programmazione sanitaria affinché sulla «Terza età» non pesi mai un atteggiamento fatalistico e passivo. •

Emilia Valerio, medico di base e geriatra




DOSSIER ANZIANI La difficile ricerca della felicità

Come il Prodotto interno lordo non può bastare a misurare la ricchezza di una società, così la speranza di vita non basta a misurae la salute. Fin dove benessere e felicità coincidono? Riflessioni a voce alta, senza risposte certe.

Gli ospedali erano pieni in quest’ultimo inverno. Erano pieni di anziani con polmoniti, insufficienze respiratorie e cardiache. Più degli altri anni.
Gli ospedali sono pieni di anziani, così come lo sono le vie della città, le piazze dei paesi, i bar dei borghi nelle campagne, le chiese; e quando non si vedono è perché sono chiusi nelle loro case, gli anziani, nei luoghi che li ospitano, nelle case di riposo, negli ospizi e lo sono di più al nord che al sud. Nella nostra società sempre più vecchia.
La storia ci ha portato ad invecchiare; quella storia che, seguendo vie tortuose, ha trasformato le culture, le ha mischiate fra loro, ne ha create di nuove anche e specialmente intorno al Mediterraneo. Eppure continuiamo a stupirci nel vedere barche piene di giovani attraversare le acque del nostro mare. Ci stupiamo a vedere file di pulmini pieni di giovani fare la spola fra l’Ucraina e le nostre terre. Ci allarmiamo a vedere le nostre strade invase da giovani venditori senegalesi di borse fabbricate da moltitudini di giovani cinesi. E ancora: giovani venditori di caldarroste cingalesi, giovani filippini con accendini e binocoli. Ci stupiamo nel vedere giovani peruviani raccogliersi nelle piazze nelle ore libere dai lavori domestici nelle case dei nostri vecchi.
«La parte più povera del Mediterraneo – anche questa è una contraddizione del nostro mare – avrà più giovani, e quella più ricca più vecchi».
Così scrive Predrag Matvejevic nel suo «Breviario Mediterraneo», una raccolta di pensieri che smuove la nostra anima e risveglia la nostra voglia di viaggiare e capire, anche solo e semplicemente il mare che ci circonda.
Non sono i nostri genitori ad invecchiare, non sono i nostri nonni. Siamo tutti noi, il nostro paese, la nostra Europa che invecchiamo, lamentandoci però dei giovani stranieri che arrivano a riempire quegli spazi che lasciamo vuoti.

Sono medico e forse vi dovrei parlare delle demenze vascolari, degli ictus cerebrali, delle neoplasie, delle insufficienze respiratorie, delle insufficienze renali, dei nostri vecchi che cadono e si fratturano. Forse dovrei darvi dei numeri, raccontarvi della prevenzione, delle cure, della riabilitazione. Magari potrei raccontare una storia, ma sarebbe una delle tante che ciascuno di noi vive o ha vissuto con i propri cari.
Invece di tutto questo, voglio proporre soltanto una riflessione.
Vi sono studi che indicano che, superato un certo livello di ricchezza, il benessere complessivo delle società, non aumenta ed anzi tende a diminuire.
Le conclusioni di World Values Survey – una ricerca sulla soddisfazione della propria esistenza, realizzata tra il 1990 e il 2000 in oltre 65 stati -, indicano che il denaro e la felicità hanno la tendenza a conciliarsi fino a un reddito annuo (a persona) di circa 13.000 dollari (a parità di potere d’acquisto del 1995). Oltre quel reddito le entrate aggiuntive indicano solo modesti aumenti della felicità.
Gli psicologi sono molto chiari non solo nel definire il range di ricchezza entro il quale ci si sente felici, ma anche nel descrivere che cosa effettivamente contribuisce alla soddisfazione nella vita. Gli studi suggeriscono che le persone felici tendono ad avere relazioni solide e appaganti, buona salute e un lavoro soddisfacente. Nelle frenetiche società industriali questi fattori sono sempre più causa di tensione, e la gente spesso usa il consumo come surrogato di fonti genuine di felicità (1).
Si riscopre così un filone antico della ricerca economica, quello che contesta l’efficacia del Prodotto interno lordo come misuratore del benessere sociale (perché, per esempio, non calcola i costi dell’inquinamento o della criminalità).
Daniel Kahneman dell’Università di Princeton, il primo professore di psicologia ad aver vinto un premio Nobel per l’economia (nel 2002), ha annunciato il National well-being account, un indice della felicità da inserire fra i parametri che misurano il grado di sviluppo di un paese, a fianco di reddito, indebitamento, disoccupazione.
Il governo britannico, informa il Financial Times, è peraltro già all’opera. Il Cabinet Office ha pubblicato un rapporto intitolato «Life Satisfaction» che conclude che la ricerca della gratificazione individuale è sicuramente così importante da giustificare un intervento diretto dello stato per favorirla. Non solo denaro, ma servizi per l’infanzia, attenzione per gli anziani, campagne per favorire la solidarietà e il riscatto dei diseredati.
L’idea di benessere come traguardo personale e politico è sempre più un luogo comune che compare ovunque: dalle riviste divulgative alle pubblicazioni ufficiali delle organizzazioni multinazionali, come «The Well-being of Nations» dell’Ocse (2001) e «Ecosystems and Human Well-being» del Millennium Ecosystem Assessment (2003). Anche la Camera dei comuni canadese ha usato quel termine all’interno del «Canada Well-being Measurement Act», approvato nel giugno 2003.
Le definizioni del concetto variano, ma tendono a concentrarsi attorno ad alcuni temi:
• le basi per la sopravvivenza, che comprendono cibo, alloggio e mezzi di sussistenza;
• la buona salute, sia personale che in termini di ambiente naturale sano;
• le buone relazioni sociali, che comprendono l’esperienza della coesione sociale e la rete sociale di sostegno;
• la sicurezza, intesa come sicurezza delle persone e delle proprietà;
• la libertà, che comprende la capacità di raggiungere il potenziale di sviluppo.
In buona sostanza, il termine «benessere» indica un’elevata qualità della vita, nella quale le attività giornaliere vengono svolte senza condizionamenti e con minor stress. Le società orientate al benessere danno più importanza all’interazione con la famiglia, gli amici, la natura e sono più attente ad appagare la creatività che ad accumulare beni. Esse enfatizzano lo stile di vita in armonia con la salute: la propria, quella degli altri e quella del mondo naturale; hanno una visione del vivere molto più profonda rispetto a buona parte delle persone.

La riflessione che propongo, senza dae una risposta, è allora questa.
Così come la ricchezza (misurata con il Prodotto interno lordo, Pil), oltre ad un certo reddito non produce automaticamente più benessere inteso come «felicità», anche la salute (misurata come «speranza di vita» o «età media»), oltre ad un certo livello non produce più benessere.
La riflessione potrebbe essere ancora più profonda ed arrivare a proporre una ipotesi ancora più contraddittoria; oltre ad un certo livello di età media della popolazione, la sofferenza degli anziani ed il costo della società per alleviarla potrebbe portare ad una regressione del benessere ed addirittura della ricchezza.
Mio figlio, se Dio lo vorrà, avrà due genitori anziani a cui accudire; i miei genitori hanno 5 figli che possono intervenire. La vecchiaia mia e di mia moglie, sarà più felice di quella dei miei genitori?
Forse, nella nostra società, dovremmo sviluppare il concetto di sobrietà. Sobrietà nei consumi, sobrietà nella nostra domanda di salute, sobrietà nell’uso della natura, sobrietà nel turismo, ed invece concentrarci maggiormente nello sviluppo, questo sì illimitato, dei beni immateriali: la cultura, l’arte, il pensiero, i rapporti e le relazioni umane.
Forse, dopo il medioevo dell’utopia della crescita economica illimitata, dovremo sviluppare un rinascimento del benessere umano, senza però dimenticarci di chi ancora non ha potuto raggiungere il minimo per una sopravvivenza dignitosa. •

(1) Fonte: «State of the World 2004» (Consumi) del Worldwatch Institute, a cura di Gianfranco Bologna, Capitolo 8.



Guido Sattin, medico ospedaliero




DOSSIER ANZIANI Introduzione – I limiti della natura (e della società)

«È difficile – fa dire ad Adriano la scrittrice Marguerite Yourcenar (1) – rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue, e per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta… Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. (…) Avrò in sorte di essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura».
Già, i limiti prescritti dalla natura. Ma quali sono questi limiti, oggi? Si sono spostati molto in avanti per merito della scienza e del progresso tecnico-scientifico, che hanno ridotto la mortalità infantile (dal 200 al 10 per mille rispetto al 1900) e le malattie infettive; hanno trovato cure efficaci per molte patologie; hanno migliorato le condizioni igieniche e sanitarie.

Nel dossier sui giovani (MC, gennaio 2005) avevamo sottolineato la differenza tra i ragazzi del Nord e quelli del Sud del mondo. Anche per gli anziani vale la stessa osservazione. Per dirla in termini più appropriati: si parla di una transizione demografica caratterizzata da alti tassi di natalità e di mortalità a bassi tassi dell’una e dell’altra. Questo passaggio è però diverso o molto diverso a seconda del paese considerato.
In particolare, il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione riguarda i paesi (cosiddetti) sviluppati. Nella maggioranza dei paesi del Sud anziani non si diventa semplicemente perché si muore prima. È sufficiente leggere le statistiche sull’aspettativa di vita, per concludere che la durata della vita dipende molto dalla ricchezza (materiale) del paese dove si vive. Il Giappone è il paese con l’attesa di vita maggiore: 85,23 anni per le donne e 78,32 per gli uomini. Un’età che addirittura si dimezza in molti paesi africani: in Sierra Leone, ad esempio, arriva a 34 anni.
Non è di poco conto anche la differenza in anni (circa 7) tra maschi e femmine rispetto all’attesa di vita alla nascita. Tuttavia, anche qui Nord e Sud del mondo sono divisi. In molti paesi (in Africa, ma anche in India, Bangladesh e in altri) le donne vivono meno degli uomini perché le morti da parto sono ancora molto diffuse. D’altra parte, sulle statistiche mondiali influiscono anche altri fattori (come le guerre, la diffusione dell’Hiv, eccetera). Insomma, oltrepassare i limiti prescritti dalla natura spesso si può, ma non ovunque. E, dove si può, possono subentrare altri «limiti», teoricamente meno problematici perché imposti dalla società, ma non per questo meno importanti dato che influiscono enormemente sulla «qualità» della vecchiaia (2).

Nelle società occidentali si sta assistendo ad un progressivo smantellamento dello «stato sociale», quello che anche in Italia (forse per confondere le idee) viene definito «welfare». In quest’ambito, rientrano le pensioni e l’assistenza medica pubblica.
Lo stato (questo stato) vuole dare sempre meno risorse allo stato sociale. E cerca di giustificare ciò con una serie di ragionamenti. Primo: le spese pubbliche debbono ridursi per consentire una riduzione delle tasse e, di conseguenza, una maggiore disponibilità di reddito personale. Secondo: è dovere dello stato responsabilizzare gli individui, che debbono essere incentivati a stipulare assicurazioni personali (cioè private) sia per garantirsi una pensione per la vecchiaia sia per un’assistenza sanitaria (3). Altra parola molto gettonata in quest’epoca di neoliberismo e pensiero unico è quella di «sussidiarietà»: l’obiettivo è di ridurre quanto più possibile l’intervento dello stato, per esaltare l’individuo e le sue capacità. Detta così sembrerebbe una filosofia ragionevole, ma in realtà essa nasconde la liberazione degli istinti egoistici, con il risultato di aumentare le disparità e l’emarginazione di larghe fasce sociali. E lo stato da attore diventa comparsa, in scena soltanto per fare beneficenza.
Martellante è poi la propaganda contro il sistema pensionistico: «insostenibile», ci ripetono fino all’ossessione (più che sospetta). Sulle pensioni si arrovellano i governi di tutto il mondo, ma soprattutto di quello occidentale (cioè dove le pensioni esistono effettivamente). Nessuno nega che, cambiando la struttura demografica della società (più anziani, meno giovani), non cambi anche il rapporto pensioni/contributi. Tuttavia, sembra che, attraverso la revisione del sistema pensionistico, politici ed economisti perseguano anche altri scopi, soprattutto in Italia, dove il sistema è già stato sostanzialmente riformato negli anni Novanta (4).
Perentoria la definizione che dà il settimanale The Economist (5): «Le pensioni statali furono istituite quando la vecchiaia coincideva con la povertà per la maggior parte delle persone, cui esse offrivano soluzioni patealistiche e collettive». Il giornale inglese, i politici e gli economisti dovrebbero chiedere un parere spassionato ai milioni di anziani italiani che hanno una pensione inferiore a 500 euro al mese (tabella di pagina 24).
Altri ricevono di più, un po’ di più… «Guardi – ci ha detto una signora, mostrandoci il cedolino della propria pensione -, dopo 35 anni di lavoro mi danno 567,19 euro. Capite perché, alla mia età, sono costretta a lavorare ancora?». Certo che capiamo…
«Il welfare – si legge nell’ultimo rapporto di Sbilanciamoci (6) – è una conquista storica che ha permesso maggiore benessere, sicurezza, opportunità. È uno strumento che realizza i diritti sociali ed il principio di eguaglianza (…). Di fronte all’imposizione delle politiche neoliberiste, del dominio del mercato e dell’ideologia del privato e delle privatizzazioni, il welfare rappresenta un’alternativa di civiltà».

Né autunno, né primavera: perché abbiamo scelto un titolo così? Volevamo essere equidistanti sia rispetto alla mitizzazione della vecchiaia («è la più bella delle età dell’uomo») sia rispetto alla sua visione più triste («è la fine della vita»).
Lo scorso fine marzo, i due principali quotidiani italiani hanno parlato ampiamente di anziani, come presumibilmente faranno sempre di più in futuro, considerato l’invecchiamento della società. Nel primo caso, la Repubblica raccontava la vita in una cittadella per anziani costruita nei pressi di Orlando, in Florida, in puro stile statunitense. Nella «Disneyland degli eterni ragazzi – ha scritto Vittorio Zucconi (7) – non ci sono ambulatori, né cimiteri, è proibito ammalarsi e tanto meno morire, non ci sono anziani malati, degenti, assistenze sanitarie, tonfi e sibili di macchine per la respirazione o patologie visibili che possano inquinare il sogno».
Nel secondo caso, il Corriere della Sera raccontava che a Milano su 1.298.778 abitanti ci sono 214.908 persone oltre i 70 anni e 92.000 di queste vivono da sole. «Ogni anno – proseguiva l’articolo (8) – la città diventa più vecchia e i servizi offerti non stanno al passo delle necessità. Anche quest’inverno una decina di persone sono morte in solitudine, in alcuni casi sono passati giorni prima che qualcuno se ne accorgesse».
Già, la solitudine degli anziani. A dare credito alle pubblicità della televisione o delle riviste non esisterebbe. L’importante sono i prodotti da vendere a questa fascia della popolazione: dentiere inamovibili, assorbenti straordinari, creme taumaturgiche per le rughe, pillole miracolose per sprizzare energia e vitalità. Dicevamo: né autunno, né primavera. Intendendo che tra la Disneyland geriatrica della Florida e la solitudine di Milano, magari si può trovare un modus vivendi più consono alla dignità, se non proprio alla felicità, forse più difficile da raggiungere.
Pensioni, sanità, assistenza, solitudine sono questi, dunque, i limiti che determinano la «qualità» della vita della persona anziana nelle società occidentali. Società quasi a «crescita zero» (anche su questo punto occorrerebbe soffermarsi) per le quali, da almeno un decennio, sono fondamentali i flussi migratori. Affermazione quest’ultima che farà rabbrividire qualcuno, ma che, allo stato delle cose, è difficilmente negabile. Sono infatti gli immigrati che garantiscono (o garantiranno) il ricambio generazionale, l’allargamento della base contributiva e – ne parliamo anche in questo dossier (pagina 40) – l’assistenza domiciliare alla popolazione anziana.

Abbiamo iniziato con la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, vogliamo finire ancora con i poeti, che da sempre hanno la capacità di sintetizzare in poche, lucidissime parole l’essenza della vita. Terenzio scrisse che «la vecchiaia è di per se stessa una malattia». Probabilmente era un’esagerazione già a quel tempo (secondo secolo avanti Cristo) e, a maggior ragione, lo è oggi. Forse perché, come scrisse Sofocle, «nessuno ama tanto la vita come l’uomo che sta invecchiando».
Sofocle penserebbe di aver ragione se potesse vedere quanti anziani oggi frequentano i corsi dell’«Università della terza età», una delle poche istituzioni pro-anziani della società modea. Ma, allo stesso tempo, penserebbe di avere torto se potesse vedere quanti anziani frequentano le mense dei poveri, quanti a metà mese non hanno più un euro per campare dignitosamente.

Note:
(1) Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi.
(2) Federazione nazionale pensionati Cisl, Anziani 2003-2004. Realtà ed attese, Edizioni Lavoro, Roma 2004.
(3) Ivan Cavicchi, La privatizzazione silenziosa della sanità, Datanews Editrice, Roma 2003.
(4) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2004, Roma 2003.
(5) Numero del 16 febbraio 2002.
(6) Sbilanciamoci, Cambiamo finanziaria 2005, Roma 2004. MC ne ha parlato sul proprio numero di gennaio.
(7) Su la Repubblica del 27 marzo.
(8) Sul Corriere della sera del 26 marzo.

BOX 1
Speranza di vita alla nascita
(in anni – dati del 2002)

Paesi europei 78

in Africa:
Angola 39
Zimbabwe 37
Lesotho 35
Sierra Leone 34

in Asia:
Afghanistan 43
Cambogia 56

in America Latina:
Haiti 53

Box 2

ITALIA

Popolazione anziana (*)

italiani sopra i 65 anni 11.200.000 19,2%
di cui non auto-sufficienti 1.970.000

vita media per gli uomini 78 anni
vita media per le donne 82 anni

tasso di natalità 9,3 per mille abitanti
nel 2002; era
11,7 per mille abitanti
nel 1980

(*) rilevazione Istat, 2003

Pensioni (importi medi mensili) (*)

pensioni di 137,18 euro 1.847.940

pensioni di 399,66 euro 5.449.145

pensioni di 582,64 euro 3.300.295

(…) (scaglioni intermedi)

pensioni di 3.916,26 euro 45.434

N. totale di pensioni 14.412.240

(*) dati Inps al 1 gennaio 2003 (foiti da Fnp-Cisl)

Paolo Moiola




ISLAM – “Incontri” di civiltà

In tempo di tensioni e diffidenze tra mondo islamico e Occidente,
è bene ricordare i contributi della cultura araba dei secoli migliori al nostro sviluppo culturale e scientifico, per scongiurare un paventato «scontro di civiltà».

Chi non ha mai sentito parlare degli hammam, i bagni turchi dove passare qualche ora prendendosi cura del proprio corpo? Chi non si è mai tinto i capelli con la henna, un colorante naturale, o non ha mai acquistato prodotti di bellezza e profumi dalle fragranze orientali? O cucinato usando spezie, o arredato la propria casa con qualche pezzo di artigianato orientale? Chi non usa, qualche volta, durante le conversazioni con gli amici, termini come ramadan, imam, hijab, salam, shari‘a, jihad?
Ebbene, questo e altro ancora, ormai parte integrante della nostra quotidianità, si chiama «contaminazione o prestito culturale» e ci arriva dal mondo arabo-islamico. Proprio da quella realtà composita e vasta che, in questo periodo storico, a causa della manipolazione dei media e degli pseudo-esperti da salotto tv, incute paura a molti.
Eppure, nonostante gli sforzi di tanti «seminatori di discordia» e di sfrontata ignoranza, questo mondo continua a incuriosirci. Nelle librerie dominano i saggi sull’islam e sui paesi arabi, mentre nelle scuole molti insegnanti e studenti richiedono corsi di approfondimento sulla civiltà arabo-islamica.
L’attenzione è forte e a vari livelli. Ma forse sono proprio gli avvenimenti inteazionali degli ultimi anni (attacco alle Twin Towers, guerre in Afghanistan e Iraq) ad accendere curiosità e interessi su tematiche che spaziano dalle tradizioni popolari a quelle letterarie e filosofiche.
L’Europa non è nuova alle «mode islamiche». Molte delle nostre abitudini consolidate da generazioni (colori preferiti per abiti estivi o invernali, pratiche igieniche e bellezza come taglio corto dei capelli per l’uomo e depilazione per la donna), dei nostri cibi, delle discipline che studiamo (chimica, matematica, algebra, filosofia greca, medicina, botanica, agronomia, astronomia…), sono giunte a noi dal medioevo attraverso la colta e raffinata civiltà arabo-islamica.
«La contrapposizione tra mondo islamico e Occidente – spiega Michele Vallaro, docente di Lingua e letteratura araba presso l’Università di Torino – è storia recente, non antica: il vero scontro era tra gli imperi, non tra i popoli. E oggi, questi ultimi sono accomunati da un passato di prestiti culturali, linguistici, scientifici e di usanze. Le abitudini quotidiane dell’Europa dall’viii secolo in poi, per esempio, furono completamente rivoluzionate da un eclettico artista iracheno, trasferitosi nella Spagna musulmana: Ziryab. Egli infatti introdusse l’uso della forchetta, l’ordine delle portate a tavola, creò mode nell’abbigliamento che si diffusero rapidamente divenendo patrimonio di tanti paesi».
L’occupazione araba della Spagna, durata 8 secoli, ha lasciato una grande eredità scientifica e culturale. Taluni storici considerano la Spagna islamica come il più importante centro culturale del mondo di quei tempi. L’attività intellettuale è il tratto dominante dell’élite andalusa: musica, poesia, giochi di spirito, amore per le scienze, per i libri e la pratica religiosa, avevano molto spazio.
Dai colti e raffinati arabi dell’Andalusia medioevale giungevano in Europa mode, innovazioni tecnologiche e scientifiche, opere letterarie. Anche gli studi filosofici hanno beneficiato dell’apporto islamico: i commentari in lingua araba di Averroè (Ibn Rushd) alle opere di Aristotele furono tradotti in latino e in ebraico ed esercitarono un grande influsso sul pensiero cristiano nell’Europa medioevale. Le «influenze arabe» nella Divina Commedia di Dante Alighieri sono oggi ampiamente riconosciute.
L’introduzione delle cifre arabe (notazione posizionale) e la risoluzione delle equazioni di 3° grado, si devono ai viaggi che Leonardo Fibonacci da Pisa, vissuto nel xii secolo, fece nel mondo arabo.
Agli arabi si devono anche importanti innovazioni in materia urbanistica, come la creazione del sistema fognario, bagni pubblici, costruzione di vie di comunicazione; l’introduzione della «noria» in agricoltura permise una miglior irrigazione dei campi e la coltivazione di piante come l’albicocco, melanzana, carciofo, asparago, riso, canna da zucchero, fino ad allora sconosciute.
La stessa lingua araba, nel medioevo, era considerata lo strumento della comunicazione scientifica internazionale. Essa era sinonimo di raffinatezza ed erudizione, e veniva utilizzata sia dai musulmani che dai cristiani ed ebrei che vivevano in paesi sotto dominio islamico.
Quanto alle moschee erano luoghi frequentati non solo per pregare, ma anche per riunioni e attività educative e culturali.
Vediamo alcuni ambiti specifici.

Filosofia
Durante il periodo della conquista araba in Spagna furono tradotti in arabo, per la prima volta, le opere dei filosofi greci: a seguito di questo grande lavoro si sviluppò un notevole interesse per la filosofia, nonostante l’avversione delle autorità religiose islamiche.
Tra le figure di spicco del mondo della cultura, Ibn Rushd, passato alla storia occidentale con il nome di Averroè, medico e filosofo arabo nella Cordova del xii secolo (1126-1198), esercitò un’enorme influenza sia sul pensiero cristiano e filosofico dell’Europa medievale sia su quello islamico, grazie alle traduzioni delle opere di Aristotele, a loro volta tradotte in latino e in ebraico.
La storia di Averroè è stata narrata nel film Il destino, del regista Youssef Chahine, premiata al Festival di Cannes nel 1997.
«Come aveva fatto per le altre discipline, anche in campo filosofico la civiltà islamica si era impegnata in una grandiosa opera di recupero: il crollo dell’impero romano aveva lasciato sussistere ben poco del pensiero classico e l’Occidente del primo medioevo conosceva appena i nomi dei grandi filosofi greci. In Oriente, al contrario, il movimento di traduzione dal greco all’arabo (per lo più per intermediario del siriaco) aveva salvaguardato un ingente patrimonio intellettuale, che era andato ad arricchire la cultura araba e a foirle un ulteriore motivo di attrazione su quella europea.
In questo campo, tuttavia, a differenza di quanto era avvenuto per la cultura materiale o le varie scienze, i rapporti tra islam e Occidente dovevano creare molti problemi e difficoltà: il pensiero filosofico, infatti, era difficilmente separabile nel medioevo da quello religioso.
Tuttavia, se si vuole combattere un avversario, lo si deve, per quanto poco, conoscere; nasce così l’esigenza di studiare e approfondire le idee altrui: in questo modo, quasi inavvertitamente all’inizio, l’Europa incomincia poco a poco a rendersi conto di quanto possa ricavare dal pensiero musulmano. Il patrimonio più propriamente e originariamente islamico viene pur sempre rifiutato, è vero, ma non si deve ignorare ciò che in questo patrimonio è rappresentato dalla cultura greca rielaborata dai musulmani»1.
In questo modo si scoprono le figure degli studiosi e commentatori di quella filosofia: al-Kindi, al-Farabi, al-Ghazali, ibn Sina (Avicenna) e Ibn Rushd (Averroè). Gli ultimi due saranno collocati da Dante Alighieri tra gli «spiriti magni» del Limbo nella sua Commedia.

Scienze
In campo scientifico e tecnologico innumerevoli furono le innovazioni introdotte dagli studiosi arabi: matematica, astronomia, astrologia, medicina, agronomia, botanica e chimica furono oggetto di importanti «rivoluzioni». I testi prodotti influenzarono a lungo l’Europa, e giunsero a grandi come Copeico e Galileo.
Harun al-Rashid, califfo della dinastia degli abbasidi (786-813), si dedicò a portare la cultura nella sua corte e nelle città dell’impero arabo-islamico, che si estendeva dal Mediterraneo all’India. La sua opera fu poi proseguita dal figlio al-Mamun, che a Baghdad fondò un’accademia chiamata Bayt al-Hikma (Casa della saggezza), dove venivano tradotte le opere filosofiche e scientifiche greche e studiate materie come algebra, geometria e astronomia. Inoltre, a lui si deve la costruzione della prima grande biblioteca dopo quella dei tempi di Alessandria.
In questa stimolante e dotta epoca visse il grande matematico al-Khwarizmi, che fu tra gli studiosi della Casa della saggezza. Dal titolo del suo più importante e famoso lavoro, Hisab al-jabr w’al-muqabala, ci è giunta la parola «algebra»: fu il primo libro sull’argomento e venne tradotto tre secoli dopo, facendo conoscere all’Occidente la numerazione araba e lo zero. Da al-Khwarizmi deriva l’italiano «algoritmo».
Tra le altre figure di spicco ricordiamo ‘Abd al-Wafah (997), che sviluppò la trigonometria, la geometria della sfera e scoprì le variazioni del moto lunare; Omar Khayyam (1123), grande matematico (risolse le equazioni di 3° e 4° grado) e rinomato poeta; al-Battani, che quantificò la durata dell’anno solare e misurò la circonferenza della terra.
E ancora: Ibn al-Haytham (1039), pioniere dell’ottica: il suo Thesaurus opticus fu copiato da Ruggero Bacone, Leonardo da Vinci, Keplero e tanti altri; Gabir ibn Hayyan (813), figura di passaggio tra l’alchimia e la chimica; Abu Bakr al-Razi (935) classificò le sostanze chimiche nelle categorie minerali, animali e vegetali; al-Maghriti (1007) dimostrò il «principio di conservazione chimica della massa», di cui Lavoisier, molti secoli dopo, se ne aggiudicò il merito.
Il contributo scientifico dei musulmani si estese anche in campo botanico, zoologico, storico, archeologico, geografico, astronomico, artistico, architettonico, calligrafico, musicale, urbanistico, delle scienze naturali e sociali.

Biblioteche e amore per i libri
Dai cinesi i musulmani appresero la tecnica della fabbricazione della carta; poi la trasformarono in industria. Già nell’800 essa era molto diffusa nella comunicazione scritta e veniva utilizzata dai bottegai per avvolgere gli alimenti.
I libri venivano trascritti dai «copiatori» o warraqin: le loro edicole ante litteram erano sparse qua e là nelle città. Per ciò che concee le librerie, a fine 800 Baghdad ne aveva oltre 100: le principali erano veri e propri centri culturali, frequentati dalle élite colte dell’epoca!
Quanto a biblioteche ne sorgevano tante: nel 1200, sempre a Baghdad, ce n’erano 36 pubbliche e altre private. Al Cairo, la Khinzana al-Kutub vantava oltre 1 milione e 600 mila manoscritti, quella di Cordova 40 mila, mentre la vaticana ne racchiudeva un migliaio. Insieme ai libri e biblioteche troviamo sistemi di classificazione e consultazione, enciclopedie, glossari, ecc.
A chi obietta che tutto ciò era patrimonio di una minoranza di ricchi intellettuali, ricordiamo che scuole e università erano invece molto diffuse. L’università al-Azhar del Cairo venne fondata nel 970: è la più vecchia del mondo.

Medicina
Con i musulmani la medicina raggiunse alti livelli e gli ospedali furono una realtà diffusa ovunque e accessibile a tutte le classi sociali. Il primo, destinato ai lebbrosi, venne edificato a Damasco nel 707: le «fatture» venivano pagate dal califfo. In seguito Baghdad arrivò a vantare una sessantina di nosocomi.
Tra i più grandi medici arabi ricordiamo ar-Razi (925), che istituì la specializzazione dell’ostetricia e diede la prima descrizione scientifica di vaiolo e morbillo; al-Zahrah (939), che compilò un trattato di chirurgia, divenuto famoso, in cui spiegava come effettuare varie operazioni e descriveva numerosi strumenti chirurgici. Egli si occupò anche di odontorniatria e di «estetica odontorniatrica», correggendo irregolarità dentali.
Ibn Sina (Avicenna 980-1037) è conosciuto in tutto il mondo grazie alle sue opere scientifiche: il Qanun fi at-Tibb (Canone di medicina) è il testo più noto e utilizzato fino al xvi secolo: sono illustrati 760 rimedi medico-farmacologici. Venne tradotto in latino da Gherardo da Cremona nel xii secolo e rappresentò per secoli la maggiore guida medica.
Ibn Nafis (1288) ebbe il merito di definire con precisione il meccanismo della circolazione sanguigna, ma nei manuali di medicina tale scoperta venne attribuita, nel 1628, all’inglese Harvey.
Agli arabi si deve, inoltre, la costruzione dei primi ospedali psichiatrici: quello del Cairo risale all’872. Anche in campo farmaceutico erano molto preparati. Inoltre, i sufi, i mistici dell’islam, erano molto ferrati nelle cure psichiatriche e psicologiche e si avvalevano di metodi «modei».

Vita quotidiana
La vita quotidiana del bacino mediterraneo fu rivoluzionata da innovazioni e sperimentazioni in moltissimi ambiti. La società urbana fu strutturata in modo da rendere la vita di tutti i giorni più confortevole: nelle città gli arabo-islamici crearono il sistema fognario, migliorarono le condizioni igieniche, edificando bagni pubblici e hammam, questi ultimi oggi di nuovo molto noti nelle nostre città. Svilupparono le vie di comunicazione, grazie a grandi strade commerciali.
In tema di rapporti sociali, l’etichetta era molto apprezzata: a tavola si mangiava con le posate, introdotte dalla Spagna musulmana, e il cibo era tagliato a piccoli pezzi; aglio e cipolla non erano molto apprezzati, perché producevano odori sgradevoli e imbarazzanti; era considerato riprovevole portare le dita alla bocca per eliminare i residui di alimenti presenti nei denti.
La pulizia personale era molto accurata: ci si lavava quotidianamente facendo largo uso di profumi; gli uomini si radevano e le donne si depilavano. L’abbigliamento era ricercato e all’«ultima moda».

L’eclettico Ziryab
Un personaggio in particolare merita attenzione in fatto di novità: ‘Abul Hasan Ali ibn Nafi, popolarmente noto come Ziryab. Musicista, cantante, poeta, di origini irachene, ma residente in Spagna, fondò una scuola di musica, innovando l’arte musicale dell’epoca, inventò il liuto a 5 corde; introdusse l’uso del dentifricio, deodoranti per le ascelle, nuovi look per i capelli e la rasatura per gli uomini; diede vita a una sorta di istituti di bellezza, dove s’imparava l’arte dell’acconciatura, dell’estetica e della moda stagionale.
Ebbe un ruolo determinante anche nella diffusione tra gli andalusi del consumo di vino, che, a causa del grande successo popolare, venne dichiarato «lecito», nonostante la proibizione del Corano.
Nell’Andalusia musulmana come nella Sicilia fatimide, le abitudini arabo-islamiche si diffusero rapidamente. Vennero erette moschee, i cui minareti, successivamente, forse influenzarono architettonicamente i nostri campanili.
Quanto alle abitazioni, esse venivano costruite con criteri arabeggianti: ampi spazi, prevalente utilizzo del colore bianco, cortili e porticati interni dalle pareti rivestite di azulejos (piastrelle colorate di azzurro), abbelliti con fontane e piante.

«Nel 1919 un sacerdote spagnolo, Miguel Asín-Palacios, dotto islamista e docente all’Università di Madrid, pubblicò i risultati di una sua lunga ricerca: La escatologia musulmana en la Divina Comedia. In sintesi, lavorando su testi arabi fino ad allora quasi sconosciuti in Occidente, Asín-Palacios rilevò la somiglianza tra numerosi elementi simbolici presenti nella Commedia dantesca e certi racconti arabi sull’aldilà, in particolare quello del miraj, l’ascensione al cielo di Maometto. Arrivò addirittura ad affermare che lo spirito stesso della Commedia è di ispirazione musulmana»2.
«Nella tradizione culturale dei paesi islamici era particolarmente diffuso, in varie versioni, il Kitab al-Mi’rag, racconto del viaggio ultraterreno del profeta; diffusione testimoniata dalle numerose miniature persiane e turche su tale viaggio. Solo nel 1949 lo studioso italiano Enrico Cerulli pubblicava nella Biblioteca Apostolica Vaticana per la prima volta l’edizione nei testi francesi e latino del Libro della scala di Maometto, che alla corte del re Alfonso x il Savio fu dapprima tradotto in castigliano dal medico ebreo Abraham e in seguito ritradotto in francese e latino dal notaio senese Bonaventura (maggio del 1264). A Firenze la traduzione di Bonaventura giunse forse tramite Brunetto Latini, che era stato per un certo periodo ambasciatore alla corte di Alfonso x. Pare infatti che, recentemente, sia stato scoperto che il titolo si trovi menzionato in una lista di libri formanti la sua biblioteca.
La traduzione dal latino in italiano del Liber scalae Machomethi avvenne solo molto più tardi, alla fine del xx secolo, essendo sorto da noi un interesse alla cultura islamica, interesse suscitato dagli immigrati provenienti dai paesi di cultura e religione islamica»3.

note
1 – Da: Maometto in Europa, Ed. Mondadori 1982
2 – Da: www.airesis.net/IlGiardinoDeiMagi/Giardino% 201/
GiordanoBerti1.htm
3- Da: www.dismec.unige.it/testi/cosmo/poeta.htm
4 – Da: www.arab.it

Bibliografia
G. B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine, Paideia 1972
Maometto in Europa, Mondadori 1982
Europa islamica, Ist. geografico De Agostini, Cde 1991-2000
Il libro della Scala di Maometto, Se 1991
Avicenna, Il poema della Medicina, S. Zamorani editore 1996
Stefano Allievi, Islam italiano, Einaudi 2003

BOX 1

Scontro di civiltà
Intervista a Paolo Branca, docente di lingua araba alla cattolica di milano


Angela Lano




GHANA – Voglia di crescere

Col permesso dei 3 nipoti, figli di mio figlio, sono tornato dagli altri 83, lasciati nella missione di Abor (Ghana). Ho seguito spesso padre Peppino Rabbiosi, comboniano, nelle visite ai villaggi. Nei momenti in cui riuscivo a essere solo con me stesso ho fatto qualche riflessione.

Ero già stato l’anno scorso ad Abor (Ghana) «Nella casa del Padre mio» (In my Father’s House), dove sono 83 bambini, dai 4 ai 17 anni, con alle spalle storie molto tristi (cfr M.C. giugno 2004, p.17). La nostalgia e il loro desiderio che tornassi hanno avuto la meglio.
Anche questa volta avrei tanti episodi da raccontare. Voglio citae uno per tutti. Daniel, 4 anni, è leader nato, intelligenza decisamente superiore alla media. Sono ormai sulla macchina che mi porterà all’aeroporto di Accra. La commozione è tanta, sia per chi resta che per chi… sta partendo. Il bimbo si stacca dal gruppo dei compagni e viene ad appoggiare le mani sulla portiera. Contrariamente alle sue abitudini di vulcano perennemente in eruzione, non dice una parola. Nei fari illuminati, che sanno sempre essere i suoi occhi, leggo la tristezza di ciò che sta accadendo. «Ti affido il coro» riesco a mormorare.
Avevo aiutato a preparare un paio di canti gregoriani per una funzione. Daniel aveva bevuto ogni mio movimento e, con l’innata predisposizione musicale, non perdeva occasione per improvvisarsi direttore del coro. Era uno spettacolo vedere la serietà con cui affrontava l’impegno.
Ora lì, appoggiato all’auto, mi guarda e mi fa capire di non preoccuparmi. Il coro è in buone mani.

Morire a 10 anni…
Domenica mattina, in uno sperdutissimo villaggio africano, del Ghana in particolare, ma potrebbe essere in mille e mille altri posti.
Qui internet non è ancora arrivata. L’elettricità si ferma molto prima. Non ci sono strade. Solo un piccolo sentirnero, arduo anche per i fuoristrada più attrezzati, che nella stagione delle piogge diventa impraticabile. Un acquitrino fangoso che isola ancor più la gente che vi abita.
Poche, poverissime capanne formano questo villaggio che sembra dimenticato dal mondo. Solo un missionario si avventura periodicamente fino a qui. Viene a celebrare la messa, a portare un poco di conforto, a parlare di un Dio buono e misericordioso. Viene a infondere speranza e a combattere la rassegnazione passiva.
È una messa molto speciale. Non perché è celebrata all’aperto, frasche come tetto a proteggere dal solleone, ma per la straordinaria partecipazione. Bambini e adulti che arrivano da altri villaggi lontani chilometri e chilometri. Il rito è un susseguirsi di preghiere e canti ritmati dalle percussioni. Tutti pregano convinti. Tutti cantano. Tutti accompagnano i canti, che sembra non debbano finire mai, con battiti cadenzati delle mani. Molti danzano.
È come se la partecipazione si fosse materializzata in qualcosa che svolazza sulle nostre teste. Ancora più palpabile, poi, è il pathos che si respira quando padre Peppino, durante l’omelia, pronuncia piangendo queste parole: «Dopo la messa daremo l’ultimo saluto a Kofi».
Kofi era un bambino di 10 anni. È morto per un ipotizzato banale mal di pancia. Nessuno ha pensato che potesse trattarsi di qualcosa di più serio. Nessuno ha tempo di curarsi di un bambino che si lamenta per un mal di pancia. E quando i dolori si fanno più lancinanti e nessun rimedio conosciuto, sia esso somministrato o imposto come esorcismo agli spiriti del male, è in grado di alleviarli, la tragica conclusione.
Kofi è stato subito inumato. Nessuno chiederà l’autopsia. Al missionario non resta che piantare una croce sulla piccola tomba appena fuori il villaggio e pregare con tutti coloro che, nella lunga processione, avevano portato la croce fino qui.
Kofi aveva solo 10 anni. Il mondo corre, si affanna alla ricerca di sempre nuove tecnologie, si spinge alla scoperta di nuovi mondi. Ma in qualche parte di questo mondo, in qualche paese meno fortunato, ci sono ancora bambini che muoiono a 10 anni per un ipotizzato, banale mal di pancia. Tanti! Troppi! Per quanto tempo ancora?
all’improvviso una scuola
Accompagno padre Peppino in visita a uno dei tanti villaggi della sua sterminata parrocchia, ai confini con il Togo. È sempre difficile arrivarci. Dopo un’ora di… non strada, padre Peppino parcheggia il pick-up sotto un maestoso mango, nei pressi di un ruscello putrido, che si perde nella palude. Una canoa ci viene incontro. Con quella attraversiamo questo guado, scortati da ogni sorta di piccoli volatili (mosche, moscerini, zanzare…). Una canoa dalla precaria stabilità e che, con una ciotola, deve essere svuotata in continuazione dall’acqua che imbarca.
Camminiamo nella savana per tre quarti d’ora, fino a raggiungere un altro acquitrino. Una seconda canoa, simile alla precedente, ci traghetta verso un sentirnero seminascosto da sterpaglie inaridite dall’arsura inclemente.
Sono circa le 7 del mattino; ma il sole comincia già a picchiare duro; tra poco la colonnina di mercurio supererà i 40 gradi. Camminiamo di buona lena nel nulla per altri 45 minuti, mentre cominciamo a sentire in lontananza i tam-tam che ci danno il benvenuto.
All’improvviso, una piacevole, inaspettata, quasi surreale immagine si materializza: su un enorme spiazzo appare un complesso scolastico animato da centinaia di bambini nella tradizionale uniforme. Una scuola, che va dalla matea alla media inferiore, dove sembrava solo savana. La folla di bambini che la popola testimonia la presenza di tanti piccoli villaggi nascosti. Povere capanne, ma arricchite da una importante presenza per la crescita delle nuove generazioni.
Padre Peppino ha costruito la prima parte della scuola, dedicata ai piccoli. Il governo, fortunatamente, ha accettato di completare la struttura e pagare (forse meglio dire malpagare) alcuni degli insegnanti.
L’Africa ha voglia di crescere: quale mezzo migliore di una scuola?

«Dacci anche oggi…»
Sanno sempre essere suggestive le messe in Africa. La devozione che senti attorno ti contagia. Ti entra dentro. Ti arriva al cervello. Ti serra la gola. Quanti momenti particolarmente significativi! I canti, che sembra non debbano mai finire, ritmati dalle percussioni, accompagnati dai battiti cadenzati dalle mani e da passi di danza. L’offertorio in cui tutti, a passo di danza, portano la loro offerta in denaro o in natura (banane, manghi, noci di cocco). Il Padre nostro, recitato spesso tenendosi per mano. Braccia protese verso l’alto.
Nei villaggi, all’aperto, questo enorme anello multicolore è ancora più suggestivo. Le parole sono le stesse, ma sembra assumano significati diversi a seconda di chi le pronuncia. A seconda delle situazioni e delle esigenze. Quella richiesta di pane quotidiano, sembra significhi realmente: «Fai che anche oggi possiamo trovare qualcosa da mangiare. Fai che la terra ci sia amica e ricambi le nostre fatiche con raccolti che non facciano più soffrire la fame ai nostri figli».
E quando vedi rivolgersi al Padre celeste bimbi che non hanno mai conosciuto quello terreno, traspare realmente il desiderio di un futuro meno avverso: desiderio di famiglia, di casa, di un riparo sicuro. Sono suppliche che senti trasmettere dalle mani di chi ti sta a fianco. Ti pervadono. Ti entrano nelle vene e, come microonde, si propagano a tutto il corpo molecola dopo molecola.
Ugualmente toccante è sempre per me il momento dello scambio di un segno di pace. Sarà anche per il colore della pelle, decisamente più sbiadito del loro e che non ci fa passare inosservati, ma sono sempre tante le mani che vengono a cercare la mia. Spesso tutte. E sono strette di mano convinte, non di curiosità, di facciata o sola cortesia.
Tale convinzione la leggi negli occhi che cercano e guardano diritto nei tuoi. E mentre pronunci l’augurio di pace, non riesci a non pensare alle loro terre martoriate da continue guerre, scontri tribali, lotte per il potere, dove a fae le spese sono sempre i più deboli e indifesi.
Mentre stringi le mani di donne e ragazze, non riesci a non pensare a quante altre, non molto lontano da lì, sono vittime di soprusi e violenza. Mentre stringi quelle dei bimbi, non riesci a non pensare alle centinaia di migliaia, la cui infanzia è negata da lavori massacranti o, peggio ancora, dall’imposizione di machete o kalashnikov da usare contro fratelli di etnia diversa.
E allora, questa volta, la supplica al Padre celeste parte da te: «Fai che finalmente in queste terre africane sia pace! Fai che la pace possa finalmente regnare, for ever and ever!», come loro stanno augurando a me.

Missionario: chi è costui?
Da ragazzo ero affascinato da testimonianze raccolte in terre di missione. Se a raccontarle erano i protagonisti, il fascino si moltiplicava. La straordinarietà di quei personaggi dalla lunga barba, ai miei occhi di fanciullo andava oltre qualsiasi libro o film d’avventura. Le foto di villaggi, povere capanne di fango e gente che vi abitava, suonavano fantascienza per chi, come me, viveva in una grande città e sembrava straordinaria la vita di campagna.
Ora che ragazzo (almeno anagraficamente) non lo sono più da tempo, ho spesso la fortuna di vivere questo fascino, seppure per un tempo limitato, direttamente con loro: nelle loro missioni, nelle loro terre.
Sì, fortunatamente ho spesso l’opportunità di seguirli nelle visite a sperduti villaggi delle loro… parrocchie: aree spesso grandi come il Piemonte o la Lombardia. Ma mi accorgo che purtroppo, in quei villaggi, poco è cambiato: quelle foto di 50 anni fa, potrebbero benissimo essere state scattate ieri l’altro.
Mi accorgo che la gente continua a vivere in povere capanne di fango; in villaggi senza luce e senza acqua; file di donne, con un secchio sulla testa percorrono chilometri per raccogliere un poco d’acqua; non ci sono strade per arrivare a quei villaggi, molti dei quali non hanno scuole o, dove ci sono, in buona parte non è stato il governo a costruirle.
Mi accorgo della mancanza di un minimo indizio di struttura sanitaria per fronteggiare le conseguenze del vivere in situazioni così difficili e in aree così malsane.
Sì, ben poco è cambiato. C’è forse qualche scolorita e bucherellata maglietta in più a coprire corpi poco abituati a fae uso.
Quanto è stridente il contrasto per noi, abituati a macchine sempre più potenti e costrette a code sempre più lunghe; abituati ai telefonini dalle suonerie più strane e fastidiose, che strillano all’impazzata anche dove gradiresti ci fosse solo silenzio. Raccontare cosa significhi andare in questi villaggi per celebrare una messa dà l’idea di straordinarietà. Qualcosa da farsi una o due volte l’anno, mentre ancor oggi è spesso la quotidianità da affrontare per molti che operano in certe aree.
La straordinarietà continua a essere in quei personaggi, con o senza barba, che con umiltà e semplicità riescono a raggiungere il cuore di migliaia e migliaia di meno fortunati, e realizzano cose grandiose, in aree difficili, in condizioni assurde, con mezzi inadeguati. Personaggi che amo spesso, bonariamente, definire «fuori di testa», per la loro cocciutaggine nel cercare e ottenere l’impossibile: personaggi che rispondono al nome di missionario.

Ewe e invasori sbiaditi
In ogni parte del mondo sono sempre state le guerre a definire i confini provvisori di un paese: l’Africa non fa certo eccezione. La storia ricorda molti imperi africani che si spinsero lontano per conquistare nuove terre. Solo che negli ultimi 3-4 secoli, fece la sua comparsa un’altra sorta di conquistatore, colorito smunto, quasi fosse una focaccia tolta dal foo troppo presto. Un invasore sbiadito, insomma, che, proprio in virtù del colore della pelle, era convinto di essere il più bello e bravo, prediletto dal Creatore (e quando mai Dio disse una cosa del genere, forse in un orecchio a Mosè quando gli consegnò le tavole?).
L’invasore sbiadito, attratto da ricchezze non indifferenti a portata di mano, pretese di imporre le proprie leggi. Impose addirittura la propria lingua. Se ne infischiò degli idiomi e tradizioni millenarie di chi quelle terre abitava. Fece anche di peggio. Si accorse che anche quegli individui potevano rappresentare preziosa merce da esportare.
Di invasori sbiaditi gli ewe ne conobbero diversi: portoghesi, tedeschi, francesi, inglesi. Furono proprio gli ultimi due a spartirsi le loro terre. Inutile soffermarsi sul come e quando, il risultato finale è che, ancora oggi, ben difficilmente tale risultato potrà essere modificato. Non importa se la linea di confine tagliava villaggi e comunità. Tanto l’invasore sbiadito l’aveva già fatto più volte anche a casa propria. E coloro che restarono in Togo, se volevano comunicare con l’invasore, dovettero arrabattarsi a decifrare una lingua definita francese. Gli altri che finirono in Ghana, pur continuando ad abitare un’area definita Togoland e villaggi il cui nome evocava origini togolesi, dovettero arrabattarsi con una lingua totalmente diversa, definita inglese.
Nel corso degli anni, qualche personaggio ambizioso cercò con la forza, senza riuscirci, di riportare tutti gli ewe sotto lo stesso tetto. Ma una volta ottenuta l’indipendenza, è impossibile mettere in discussione decisioni prese dall’invasore e sancite da un organo che, a dire il vero, da tempo annoverava anche persone di colore e tradizione simile agli ewe.
Nonostante l’ingombrante presenza, la fierezza ewe è sempre riuscita a mantenere viva la propria lingua (ora studiata nelle scuole), le proprie tradizioni, i propri canti, le proprie danze. E anche se chi vive in Ghana è convinto quando ne canta l’inno o recita la promessa di rispettae la costituzione, anche se negli incontri di calcio Ghana-Togo il tifo per il paese di appartenenza si fa sentire, ogni ewe si sente prima di tutto un ewe, nonostante che l’invasore sbiadito ce l’abbia messa tutta per cancellae le origini.

Mario Beltrami




TANZANIA – Il piccolo gregge

Veloce visita ai luoghi del primo amore missionario e all’isola minacciata dall’insidia del fondamentalismo, dove la piccola comunità cristiana scopre un nuovo modo di essere presente e testimoniare umilmente il Signore Gesù.

L’aereo ha fatto il suo solito giro attorno al Kilimanjaro. Il cielo limpido, il nevaio a portata di mano, le foreste sottostanti… Una visione che, nei numerosi viaggi di andata e ritorno tra Italia e Tanzania, mai mi era sembrata così limpida, chiara e commovente.
Eccomi ancora, dopo 7 anni di lontananza dal Tanzania, a rivedere vecchi amici e confratelli, luoghi dove ho lavorato, le missioni e la gente: povera, ma serena, soprattutto i bambini. Tanti bimbi, sempre sorridenti, anche quando hanno fame, con quegli occhioni grandi e aperti che esprimono fiducia, amore, accoglienza e voglia di carezze.
Scopo del mio ritorno in Tanzania era quello di fare da interprete a due tecnici del Gruppo «Luciano Brenna» di Mariano Comense, Enrico e Marino, inviati per piazzare alcuni macchinari di falegnameria nel Centro pastorale della diocesi di Zanzibar. Grazie al ritardo dell’arrivo del container destinato a Zanzibar, ho potuto realizzare un sogno che da tempo coltivavo in fondo al cuore: un pellegrinaggio, un tuffo nel passato, ma proiettato nel futuro, cioè vedere le necessità, riprendere contatti, rinnovare l’entusiasmo per la missione e cercare di creare ponti tra comunità e chiese.
La visita al cimitero di Tosamaganga, una preghiera sulla tomba di tanti amici che hanno «combattuto la buona battaglia»: padre Aldo, padre Antonio, suor Adelina… Quanti ricordi, quanti esempi di vita totalmente spesa con grande amore per Dio e il prossimo!
Poi a Mgongo, il centro per i ragazzi di strada tenuto da padre Franco Sordella e padre Giulio Belotti: ai miei tempi aveva 12 ragazzi, ora sono più di 300, tra allievi nella scuola di arte e mestieri, falegnameria, carpenteria, calzoleria, sartoria, scuola pratica di agraria… Tra i primi ragazzi raccolti dalla strada, alcuni sono diventati istruttori e hanno formato famiglie stupende.
Iringa, Mafinga, poi Sadani, la «mia» cara missione dove, assieme a padre Luigi Negro, ho trascorso il periodo più bello, laborioso e fruttuoso della mia vita di missionario.
Padre Silvestro Bettinsoli, il parroco, aveva annunciato la nostra visita, ma non mi sarei mai aspettato un così folto gruppo di persone, vecchi e giovani, dopo la messa domenicale, in attesa del nostro arrivo. E, come al solito, le donne anziane, con un piccolo dono per il loro vecchio parroco: Mariamu, due uova fresche di giornata, sicuramente il suo cibo quotidiano; ma dovevo accettarle, altrimenti si sarebbe offesa.
Il vecchio Petri, il lebbroso, guarito ai tempi in cui suor Gemma Ida lavorava al dispensario, anche lui con qualcosa da offrire: due banane e tre pannocchie di granturco, appoggiate sui moncherini senza dita, sorridente e felice, i suoi occhietti sempre furbi e pieni di ironia: «Vedi – pareva dicessero – anch’io mi ricordo di te; di quando, all’inizio delle piogge anche la malattia si riacutizzava con le sue piaghe, mi preparavi i sacchetti di nylon per i piedi, in modo che il siero rimanesse tra le bende e non sporcasse il banco della chiesa. Ora non servono più, sono guarito; eppure continuo a ricordarti e il mio dono, anche se piccolo, è segno della mia riconoscenza».
La maestra Ngatunga, grassa e sempre sorridente, ora preside della scuola, con un bel pollastrello vivo e ruspante, mi fa vedere la foto di suo figlio Lucio (!), ora nel seminario della Consolata di Mafinga. L’avevo portata d’urgenza all’ospedale per il parto; erano in pericolo di vita, lei e il bambino; ora chissà, forse quel bimbo diventerà missionario come me: i piani di Dio…

Finalmente il container è stato sdoganato e così possiamo partire per Zanzibar. Arriviamo nell’isola felice, conosciuta da tanti italiani come fantastica meta tropicale, con i suoi villaggi turistici, spiagge e mari incontaminati, piccole oasi… italiane! E sarebbe davvero un paradiso terrestre, ma c’è anche il rovescio della medaglia.
Zanzibar e Pemba, due isole dell’oceano Indiano, poste al largo del vecchio Tanganika, sultanato arabo fino al 1964, anno della rivoluzione contro gli arabi e dell’indipendenza, hanno alle loro spalle una lunga storia di dominio arabo e musulmano, come tutta la costa dell’oceano Indiano. Erano il centro del commercio degli schiavi dell’Africa Orientale, del legno pregiato, spezie (famosi i chiodi di garofano), avorio.
Da Zanzibar e dal villaggio di Bagamoyo, posto sulla costa a 90 chilometri a nord di Dar es Salaam, era partito il primo missionario medico anglicano, il dott. Livingston, famoso anche per la celebre frase del giornalista Stanley che, dopo cinque anni di ricerca, incontratolo nel villaggio di Majiji, sulle sponde del lago Tanganika, lo salutò: «Doctor Livingston, I presume».
Zanzibar e Pemba, dopo la cacciata del sultano, si erano unite al Tanganika nel 1964, formando così il nuovo stato del Tanzania.
Musulmani per il 99%, avevano sì qualche rigurgito di indipendenza, ma, fino alla distruzione delle Twin Towers, la convivenza tra musulmani e i pochi cristiani era pacifica. Ora alcune frange fondamentaliste stanno provocando disastri, tentando di dividere la popolazione con attentati e altro.
Il vescovo di Zanzibar e Pemba, mons. Shao Augustine, cerca di mantenere la calma, anche se gli hanno bruciato due chiesette e il pulmino, usato ogni mattina per raccogliere gli studenti, in maggioranza musulmani, e portarli a scuola.

Il nostro arrivo a Zanzibar coincide con la fine dell’anno scolastico. Gli alunni della settima classe hanno terminato gli esami di maturità e aspettavano il giorno della graduation, cioè della consegna dei diplomi. Fra i primi della classe, due gemelli: Marie e Peter, figli di padre bianco e madre africana.
Un gruppo di fondamentalisti aveva preso di mira la ragazza perché lasciasse il collegio e la scuola cristiana e si facesse musulmana. Essendo meticcia, dicevano che il padre era arabo e quindi avrebbe dovuto seguire la religione islamica.
Con doni e minacce erano riusciti ad accalappiarla. Era scomparsa dal collegio, senza salutare neppure il suo gemello, e per un mese, nessuno seppe dove fosse. A nulla era valsa la denuncia della madre, tutto era avvolto nel mistero, svelato poi dalla stessa Marie: la tenevano prigioniera perché abiurasse il cristianesimo; avevano perfino progettato di mandarla in Arabia. Ma un giorno, approfittando di un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riuscì a scappare. Si presentò alla polizia; gettò via il velo che le avevano imposto di portare e fece ritorno nel collegio cattolico.
Finalmente libera e felice, era in prima fila, accanto al fratello, per la festa della graduation.
Il gruppo fondamentalista, non potendo rifarsi su di lei, ha promesso al vescovo che si sarebbero vendicati: ecco spiegato il fuoco alle due chiesette e al pulmino.
Marie e Peter, subito dopo la festa, sono stati inviati in terraferma, lei in un collegio cattolico nell’entroterra, lui scelse di entrare nel seminario diocesano di Morogoro. Una storia finita bene, ma quante altre non si concludono così.

Parroco di Pemba è un giovane prete tanzaniano, padre Apollinaris Msaki, un mchaga della zona del Kilimanjaro. Aveva studiato islamologia al Collegio san Pietro a Roma. L’avevo conosciuto a Genova, nella mia parrocchia, dove era venuto a sostituire il parroco durante le vacanze estive.
Volevo salutarlo. In battello raggiunsi Pemba, altro paradiso terrestre, con una natura stupenda e gente accogliente. Almeno così la ricordavo, da quando, nel 1984, ero stato per qualche giorno ospite di alcuni medici italiani del Cuam, che operavano nel piccolo ospedale locale. Notai subito un clima di rigetto: «Un bianco che arrivava, cosa era venuto a fare?» mi sembrava di leggere sugli occhi sospettosi della gente.
E padre Apollinaris me ne diede conferma: anche a lui hanno bruciato due delle quattro chiesette costruite nei villaggi dell’isola; poi gli hanno tagliato i tubi dell’acqua e i fili della luce. La polizia locale, alle sue denunce, rispose: «Cerchiamo, vedremo, non sappiamo ancora niente…» e così di seguito.
La parrocchia di Pemba è una delle prime fondate dai missionari delo Spirito Santo, a metà del xix secolo: con una bella comunità di immigrati da Goa, cristiani di vecchia data e attaccati alla loro fede, hanno cercato di testimoniare Cristo e mantenere la loro fede in un mondo prettamente musulmano e ora fondamentalista.
Oggi, tra discendenti goanesi, impiegati governativi e militari venuti dalla terraferma, l’intera cristianità di Pemba conta circa 200 anime: formano un «piccolo gregge – dice padre Apollinaris -, con la missione di presenza e dialogo, senza possibilità di conversioni, ma molto importante per stabilire, in futuro, buoni rapporti tra musulmani e cristiani».
Ho visitato tutte le piccole comunità di base e ho pregato con loro. Ne ho ricavato un’enorme testimonianza di fede, pazienza, amore: quello evangelico, che arriva a perdonare 70 volte 7, ad amare anche i nemici, a cercare ciò che unisce, a testimoniare Cristo, morto e risorto, a rischio continuo della propria vita.
Testimoni e martiri nel vivere quotidiano, figli di una chiesa lontana, giovane, missionaria, povera di cose materiali, ma ricca di fede e vera carità; una piccola comunità cristiana, come quelle dei tempi apostolici.

Grazie, mons. Shao; grazie, padre Apollinaris; grazie, piccolo gregge di Pemba e Zanzibar. Gesù è con noi, sempre, fino alla fine dei tempi. Ma con voi lo è in un modo più tangibile e vero, perché è il Cristo della croce, dei martiri, della frateità che vince ogni divisione.

Lucio Abrami




A proposito di Così sta scritto – Dalla bibbia le parole della vita (4)

«Si paralizzi la mia destra mi si attacchi la lingua al palato»
(Sal 137/136,5-6)


La rubrica di questo mese è dedicata a una nostra lettrice, Maria Matilde, che ci scrive: «… da quando ero bambina leggo la vostra rivista, che allora aveva quattro paginette in bianco e nero… Volevo rivolgermi a Paolo Farinella che invita a farlo… sono stata allevata da un nonno che conosceva bene la bibbia… Quando voleva insegnarmi l’orrore delle bestemmie mi leggeva un brano che diceva: “Che si secchi la mia lingua, che si paralizzi la mia mano destra, se io offenderò Dio con la parola”… Non avevo mai più pensato a questo, fino a quando mio marito non è stato colpito da un ictus devastante, che lo ha lasciato senza parola e paralizzato nella parte destra. Poiché siamo sposati da 50 anni, posso garantire che non ha mai nominato il nome di Dio invano e che la maledizione biblica non lo riguarda. Vorrei che qualcuno mi spiegasse questo svarione biblico… mio nonno era convinto che anche le virgole della bibbia fossero verità assoluta. I miei saluti più cari… a tutta la redazione, con i complimenti per la rivista che è sempre molto interessante». Firmato: Maria Matilde.

La Parola e le parole
Alla nostra lettrice, cresciuta insieme a Missioni Consolata, abbiamo risposto privatamente, ma riteniamo giusto riproporre pubblicamente la sua domanda che può essere di qualche interesse per altri lettori, dal momento che tocca un testo «delicato» che si presta a interpretazioni equivoche, se non si posseggono gli strumenti adeguati del contesto storico.
Lo scrittore francese, il cattolico Maurice Blondel, soleva dire che i «cattolici hanno tanto rispetto per la bibbia… da non prenderla mai in mano», per sottolineare la grave distanza che separa la formazione dei credenti dal Libro che dovrebbe essere il «codice» della loro vita.
I padri della chiesa descrivevano la bibbia come una «lettera» d’amore spedita da Dio all’umanità (immagine usata anche da Paolo vi, quando, nel 1964, parlò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite).
La bibbia-lettera esprime il pensiero di Dio, ma con parole umane e descrive il suo progetto di mondo e di umanità, ma realizzato attraverso l’uomo, le sue riuscite e i suoi fallimenti. In altre parole, bisogna stare attenti a leggere la bibbia in modo «fondamentalista», cioè alla lettera, perché veramente ne verrebbero fuori molti «svarioni».
È necessario conoscere l’ambiente in cui i singoli testi furono scritti, gli autori, la cultura, le conoscenze, gli usi e i costumi del tempo. Sarebbe assai grave attribuire agli antichi sentimenti e convinzioni di oggi.
La bibbia è prima di tutto, come direbbe san Paolo (Gal 3, 24-25), un «pedagogo», cioè un maestro che accompagna la crescita degli alunni (noi), per cui il suo insegnamento è scritto in primo luogo per i contemporanei, cioè per coloro che immediatamente ascoltano e, in secondo luogo, per tutti i discendenti, quelli che vengono dopo. Sono questi, quelli che vengono dopo, cioè noi, che devono fare la fatica e avere la gioia di capire quello che è accaduto prima e cercare di conoscee le ragioni e dae anche le spiegazioni.
È ciò che stiamo facendo con questa rubrica, dove le conoscenze di uno, che ha studiato e studia più degli altri, vengono messe a disposizione di chi non ha avuto questa possibilità.
Tutto ciò premesso, si tranquillizzi la nostra amica: la malattia di suo marito non ha nulla a che vedere con la bestemmia e la secchezza della lingua e della mano. Anche il papa è stato colpito nella parola e non credo che abbia mai bestemmiato.
La malattia è parte della vita e si evolve secondo leggi naturali che fanno parte della realtà «creata», cioè finita e limitata. Non siamo Dio.
In tutto questo Dio non c’entra nulla, perché nessun padre ama la sofferenza dei figli; ma non c’è padre (e vale anche per Dio) che non sia coinvolto nel dolore dei suoi figlioli, fino a farsene carico, fino a diventare cireneo. Quando la malattia, il dolore, la morte accadono, Dio è «già» lì accanto, presente nell’ictus, nella paralisi, nel limite, nella sua impotenza, per dare la forza di sostenere la croce che la vita comporta giorno dopo giorno (Mt 6,34).
Dio è lì e noi siamo dentro di lui: ci contiene e ci sostiene. Anche quando la tempesta infuria e il mare agitato sembra avere il sopravvento e il Signore pare che dorma, incurante… lui è lì, Presente-assente, che domina ogni evento e guida la nostra piccola barca all’altra riva, verso un compimento di salvezza (Mc 4,37-41).

Il Salmo nel suo contesto
L’espressione «si paralizzi la mia destra, mi si attacchi la lingua al palato» è la citazione dei vv. 5-6 del Salmo 137 secondo la bibbia ebraica e 136 secondo la bibbia greca, detta dei lxx (settanta).
Il Salmo 137/136 è un lamento collettivo, composto durante l’esilio a Babilonia (attuale Iraq) nel secolo vi a.C., dove i dominatori si divertivano a torturare gli schiavi («nulla di nuovo sotto il sole» direbbe Qoelet 1,9), chiedendo loro di divertirli suonando e cantando per loro i canti che gli ebrei cantavano nel tempio di Gerusalem-me. Era come chiedere di profanare le cose sante per divertire soldati ubriachi. È come chiedere a uno di cantare i canti della messa in una bettola per un gruppo di ubriachi o a un musulmano di leggere il Corano in un postribolo per fare ridere gli avventori.
Cantare i «canti di Sion» (v. 3) in terra straniera per divertire gli aguzzini era equivalente a dimenticare la città santa, sede del tempio del Signore, e la sua distruzione; nello stesso tempo era una forma di «apostasia» dalla fede. I canti venivano accompagnati dalla lira suonata con la mano destra.
Dimenticare tutto questo per avere anche salva la vita non valeva la pena: era meglio che si seccasse la lingua e la destra per impedire lo scempio della memoria di Dio e del suo tempio. Ancora oggi, gli ebrei recitano questo salmo prima del pasto, per fare memoria del dolore della distruzione del tempio, anche quando si è sazi e soddisfatti; e le donne, nel fare la loro «tornilette» personale, lasciano sempre qualcosa fuori posto (ad es. una ciocca di capelli non pettinata, ecc.), in segno di lutto per la distruzione del tempio di Gerusalemme.
Quando un popolo vinceva in guerra contro un altro popolo, osservava rigide leggi allora universalmente condivise: gli uomini validi e le donne giovani venivano deportati in esilio come schiavi (Am 4,2-3); gli uomini deboli e le vecchie venivano lasciati a coltivare i campi; i bambini venivano uccisi, per impedire il futuro di quel popolo.
Poiché in quei tempi nulla si concepiva fuori di un ordinamento religioso, il vincitore consacrava anche la guerra al proprio dio: cose e persone venivano consacrate alla divinità e quindi erano «votate allo sterminio» (Gs 6,17; 7,1; 11,20): il bottino al tesoro del dio vincitore e le persone, dalle donne ai bambini, trucidati in sacrificio di vittoria. Questo è il senso degli ultimi tre versetti del salmo: «Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: “Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta”. Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra» (vv. 7-9). La legge dominante è la legge del taglione: occhio per occhio, morte per morte. La giustizia si placa solo nell’equilibrio della vendetta.
Con Gesù questa legge è capovolta in quella nuova del perdono fino a superare ogni aspettativa: non fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7. Cioè sempre.

Il nonno di Maria applicava le parole del salmista alla bestemmia, cioè leggeva la bibbia nel suo tempo, secondo le esigenze dei suoi giorni, perché la parola di Dio è sempre attuale.
È sempre «oggi».

Salmo 137 (136)

Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
2Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
3Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
«Cantateci i canti di Sion!».

4Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
5Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

7Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: «Distruggete, distruggete
anche le sue fondamenta».

8Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
9Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra



Paolo Farinella




COLOMBIA – Intervista: “Servire la comunità è servire se stessi”

Non è un indios nasa; eppure da oltre 20 anni serve la comunità indigena del nord del Cauca di cui, pur essendo un «bianco», ne è leader indiscusso: è Gilberto Muñoz Coronado, il primo alcalde (sindaco) di Toribío. Appartiene al Movimento civico, il partito indipendente che raccoglie i voti ed esprime la coscienza politica indigena.
Oggi, Gilberto è cornordinatore del Cecidic, il Centro educativo che raccoglie più di mille studenti, dal primo anno della scuola elementare fino all’università. Nel mese di settembre dell’anno passato è stato sequestrato nel Caguán da gueriglieri delle Farc, insieme all’attuale alcalde di Toribio e ad altre autorità indigene. Gli chiediamo una testimonianza su questa sua esperienza di prigionia.

Che cosa l’ha spinta ad andare tanto lontano, in una zona «ad alto rischio» come il Caguán, e che sentimenti ha provato durante la sua detenzione?
Ero stato invitato dalle nostre autorità indigene a partecipare a un processo di formazione della comunità di Altamira, una piccola riserva indigena, i cui abitanti sono tutti originari delle nostre zone, di Toribío e di San Francisco. Hanno mantenuto la cultura, parlano la lingua della gente di qui. Sono pochi, circa 260 persone, ma vivono in un territorio molto grande, per cui è facile smarrirsi e perdere unità. Il nostro compito era far loro sentire l’appoggio della comunità di origine e aiutarli a crescere in un processo comunitario.
Questo dà certamente fastidio alla guerriglia, che nella zona vuole essere l’unica signora e padrona. Il primo e intenso sentimento che ho provato è stato quello di essere tenuto prigioniero in un territorio in cui, istintivamente e da sempre, mi sento più libero: la natura, la campagna.

Era preoccupato prima di partire?
Mi preoccupava sapere che anche l’attuale alcalde fosse parte del nostro gruppo. La guerriglia vede i sindaci come parte della struttura statale e li tratta come nemici. Da parte mia c’era la consapevolezza di offrire un servizio. Ascoltando il padre Antonio Bonanomi e l’equipo misionero ho imparato che bisogna spendere bene la vita che abbiamo ricevuto. Se si può fare qualcosa per qualcuno che ne ha bisogno, non dobbiamo tirarci indietro; la nostra esistenza è troppo breve per viverla egoisticamente.
Nella selva sono stato riportato all’essenzialità della vita. Avevo da mangiare, sopravvivevo. Molte volte ci affanniamo per cose futili, quando a troppa gente manca l’essenziale per vivere.

Come sono stati i rapporti con i suoi sequestratori?
Quelli che si occupavano direttamente di noi erano ragazzi, alcuni avevano meno di 20 anni, l’età dei miei figli. A loro ho chiesto che cosa li aveva spinti a imbracciare un fucile; in questo senso c’è stato un po’ di dialogo fra noi.
Ho avuto modo di parlare anche con alcuni comandanti, cercando sempre di non esprimermi come singolo, ma come portavoce del processo di una comunità, facendo anche rilevare alcune delle loro contraddizioni più evidenti. Ho detto loro che, in fin dei conti, abbiamo un programma simile: lottare per la giustizia sociale; ma ci divide il metodo. Mentre essi si definiscono «esercito del popolo» (bella ironia), vogliono conseguire la giustizia maltrattando contadini e indigeni. Noi non accettiamo questo modo: il nostro programma ci impone di difendere la gente.
Quando mi liberarono dissi al comandante del reparto che ci aveva in custodia che non coltivavo nessun risentimento per quanto mi era successo.
Ho scoperto a mie spese una faccia della Colombia occulta, che non avevo mai conosciuto in maniera così diretta. La vita del guerrigliero è dura, vi sono persone che per anni vivono sotto una tenda, in balia di pericoli e intemperie. Posso anche rispettare chi si sceglie una vita di questo tipo e lotta con coerenza per quello che desidera. Però, bisogna lavorare non per distruggere, ma per creare coscienze, e queste si creano con il lavoro e l’impegno di tutti, non con la coercizione e la violenza. Questa è una verità che vale per tutti gli attori del conflitto armato.

Cosa ha imparato da ciò che le è accaduto?
Il lato positivo è stato far emergere un sentimento straordinario da parte della gente; ci siamo sentiti appoggiati a livello nazionale e internazionale, da persone che ci hanno teso la mano non solo perché, «poverini», eravamo in una situazione difficile, ma anche perché hanno toccato con mano la bontà del progetto che rappresentavamo. Per non parlare della gente di qui, della nostra comunità. C’è un senso di unità, di appartenenza nella comunità indigena che non si riscontra in altre realtà. Penso alle guardie indigene che sono venute a reclamare la nostra liberazione, armate solo della loro chonta, il bastone del comando; non hanno guardato le ore di lavoro che perdevano o i rischi che correvano per arrivare fino a dove eravamo e tirarci fuori di lì.
L’insegnamento è che bisogna continuare, rendendosi conto, però, che quanto si è ottenuto è frutto del lavoro di tutti e che chi impara a servire l’altro finisce con il servire se stesso.

Ugo Pozzoli




COLOMBIA – Lungo è il cammino (2)

Il progetto di vita della comunità nasa della Colombia nasce dalle radici di una storia secolare. Oggi è un segno di alternativa in mezzo al conflitto.

Ezequiel Vitonas ha gli occhi neri e lo sguardo profondo. Dietro ai baffi, si apre un viso largo, un po’ sognatore, marcato dalle fatiche di una vita non facile, spesa in buona parte a guidare verso il futuro la sua gente. Come il profeta visionario dell’antico testamento di cui porta il nome, Ezequiel si affanna da anni a coniugare il vecchio e il nuovo, ricercando i valori tradizionali che hanno alimentato spiritualmente la vita della comunità e adattandoli ad un mondo che cambia a velocità supersonica. Come rispondere all’avanzare inarrestabile della globalizzazione e della modeità?
Quest’uomo poco più che cinquantenne, ex sindaco di Toribío, oggi consigliere maggiore dell’associazione dei cabildos indigeni del nord del Cauca (Acin), è stato, di fatto, il «ministro degli esteri» del progetto nasa. Ma, pur avendo viaggiato in Europa, Nord America e Asia al fine di promuovere la causa indigena, Ezequiel ha sempre dedicato molto tempo alla formazione della comunità, partecipando a un’infinità di piccoli seminari e grandi assemblee per informare e orientare la gente in merito al processo organizzativo indigeno.
È stato proprio in occasione di uno di questi piccoli incontri in cui, per la prima volta, sono entrato in contatto con l’organizzazione della comunità che mi apprestavo a servire come membro dell’équipe missionaria del Cauca. Il tema trattava del «progetto di vita», la miglior finestra per poter entrare e sbirciare all’interno di un mondo differente, che affonda le sue radici nella storia ancestrale e nel mito.

Un progetto di vita

Il progetto di vita comunitario è lo strumento orientativo che, raccogliendo l’esperienza del passato, analizza la situazione congiunturale, ne raccoglie l’impatto che essa ha sulla comunità e ne orienta la proiezione futura. Il progetto di vita non è un piano di sviluppo, ma ne rappresenta lo spirito: uno spirito in grado di influenzare le decisioni di ordine politico e socio-economico, secondo criteri che mirano al benessere di tutta la comunità.
Sebbene la leadership di alcuni membri più preparati della comunità sia un fatto indiscusso e accettato, il progetto di vita vuole anche essere uno strumento politico alternativo. Il progetto comune stimola infatti a un coinvolgimento popolare reale in opposizione alla «politiqueria» clientelare dei partiti tradizionali o alla demagogia di altri movimenti, in cui si spacciano per comunitarie decisioni prese da un pugno di leader animati il più delle volte da interessi personali o di clan. In questo senso il processo indigeno del nord del Cauca presenta elementi sorprendenti che vale la pena analizzare visto e considerato che fatti recenti lo hanno portato prepotentemente alla ribalta davanti all’opinione pubblica colombiana e internazionale.
Vi sono due modi di raccontare chi sono i nasa, da dove vengono e come vivono: il metodo storiografico, che si basa sull’analisi scientifica dei documenti, e la visione del mondo tradizionale, piena di immagini mitiche, che interpretano in modo narrativo gli aspetti e i fatti più salienti della realtà. Questi due modi di «fare storia» sono complementari e raccontano entrambi, seppur in forma diversa, l’epopea di un popolo che sin dalle sue origini ha saputo sopravvivere resistendo, inizialmente al potere coloniale spagnolo e successivamente alle mire espansionistiche del governo colombiano che, dopo la rivoluzione bolivariana, conquistò il potere ai danni della corona di Spagna.
Nel progetto di vita la storia nasa viene rilette perché non sia solo parte del patrimonio culturale, ma anche fonte di ispirazione per le scelte presenti. Personaggi reali, come la cacicca Gaitana, Juan Tama, Manuel Quintín Lame, rivivono attraverso le narrazioni storica e mitica delle loro gesta, ispirando e rafforzando la comunità nasa nelle lotte di oggi.
Questa presa di coscienza della propria identità sta aiutando la gente a vincere l’attitudine un po’ passiva, di sottomissione all’autorità costituita, che caratterizza l’indio andino, facendo sì che il singolo possa sentire come suo il benessere della collettività, assumendo in prima persona i costi della resistenza e del conflitto. Grazie a tale presa di coscienza, il movimento indigeno ha potuto passare da una strategia di difesa e sopravvivenza a una strategia di proposta e alternativa.
Non è stato un cammino semplice quello che ha condotto gli indigeni del Cauca a lottare per il recupero della terra, della cultura, dell’identità e dell’autonomia e a creare un’organizzazione che, a livello locale, nazionale e internazionale potesse dare forza, continuità e visibilità alla loro azione.
Molto è stato il sangue versato in questo processo, frutto di fortissime pressione estee a livello ideologico, politico ed economico, nonché, talvolta, di contraddizioni intee alla comunità stessa, imputabili alla fragilità di singoli o gruppi.
La gente, a ogni buon conto, è andata avanti; morto un leader immediatamente se ne incontrava il sostituto capace di continuare a seguire il programma del suo predecessore. Il processo organizzativo, animato da un progetto di vita ispiratore, ha saputo far fronte alle tante difficoltà, così come si spera saprà reggere l’urto delle minacce che affliggono oggi la comunità.

Un altro mondo è possibile

Negli ultimi anni e a prezzo di grandi sforzi e sacrifici, i nasa hanno saputo recuperare le proprie terre occupate ingiustamente da potenti terratenientes (latifondisti) e farsi riconoscere una certa autonomia da parte dello stato colombiano (con diritti garantiti dalla nuova costituzione del 1991).
Questi indiscutibili successi non hanno però significato la fine della lotta che continua aspra sia sul fronte interno che su quello esterno alla comunità. L’impatto della modeità con il relativo stravolgimento dei valori tradizionali crea confusione e contraddizioni nella gente, colpendo strutture come quella familiare, che rappresentano l’ossatura comunitaria. Nuovi modelli di vita turbano il tessuto della società tradizionale, creando conflitti generazionali, stratificazione sociale e, nel singolo, una situazione di smarrimento, che genera dubbi e scoramento, soprattutto nei più giovani.
Purtroppo questa situazione di cambio epocale avviene nel contesto di un conflitto armato che da più di 40 anni provoca una situazione di insicurezza e non permette alla comunità di compiere liberamente le sue scelte. Forze governative (esercito e polizia) si scontrano con i guerriglieri delle Farc, in una guerra che è soprattutto una lotta per il possesso del territorio indigeno e che miete molte vittime fra la popolazione civile.
Il controllo delle ricchezze naturali (iniziando dai bacini idrici per finire ai minerali preziosi), nonché del flusso enorme di denaro che proviene dalle coltivazioni illecite (coca e papavero da oppio) sembrano essere tra le vere cause di una guerra che si maschera dietro nomi di facciata come «politica di sicurezza democratica», «lotta al terrorismo», o «insurrezione popolare».
Inoltre, il Trattato di libero commercio (Tlc) che gli Stati Uniti vogliono imporre a vari paesi latinoamericani, fra cui la Colombia, non ammette l’esistenza di sacche di territorio nazionale autonome, che vogliano rimanere al di fuori della logica di mercato capitalista. Di qui la necessità da parte dei belligeranti di assumere un controllo globale della zona, a prezzo dei diritti inalienabili di chi la abita.
Di fronte alla violenza e all’aggressione operate da entrambi gli attori armati, il movimento indigeno ha scelto di rappresentare una terza via che non vuole essere una pilatesca fuga dal conflitto, ma una vera e propria alternativa.
Alteativa è la parola che marca e definisce il processo indigeno contemporaneo: essa nasce dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile, non più prigioniero delle logiche di mercato, che il neoliberismo sfrenato del presidente Uribe Velez cerca di imporre a tutto il paese e a tutto vantaggio delle classi più abbienti; ma un mondo più rispettoso delle diversità culturali, del diritto di un popolo al territorio e a crescere e svilupparsi secondo criteri e modelli culturali propri e non imposti dall’esterno.
Di fronte alla guerra gli indigeni hanno scelto di affermare la sovranità sul proprio territorio, mantenendo una posizione di equidistanza pacifica dalle parti in conflitto. La loro sicurezza è affidata alla guardia indigena, migliaia di giovani e adulti che, armati di un solo bastone, si pongono come scudo umano fra i belligeranti, a difesa del territorio e della sua popolazione.
Questa scelta ha avuto vasti echi a livello nazionale e internazionale e d è valso alla guardia indigena del nord del Cauca il conferimento del premio nazionale per la pace 2004, premio che quattro anni prima era stato conferito al progetto nasa.
Alteativa, infine, è stata la parola d’ordine della grande mobilitazione indigena nel mese di settembre 2004, con una marcia di tre giorni dalla cittadina di Santander de Quilichao a Cali, capitale del dipartimento del Valle del Cauca (circa 70 chilometri).
Organizzata in collaborazione con altre forze democratiche, questa mobilitazione ha dato voce a 65 mila persone che hanno voluto gridare, in modo totalmente pacifico, il loro disappunto. I temi della protesta erano: la denuncia della continua violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze belligeranti e la condanna delle manovre politiche per cambiare le norme costituzionali che garantiscono alle minoranze i loro diritti.
È stato anche espresso il dissenso in merito agli accordi inteazionali, come il trattato di libero commercio e l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), che tendono a privatizzare il paese, convertendone le risorse in elementi della macchina produttiva gestita dalle multinazionali.
Nonostante i premi nazionali e inteazionali, che hanno dato al movimento indigeno visibilità e una certa garanzia di sicurezza, gli attacchi, anche violenti, non sono mancati. Proprio in contemporanea con la grande marcia di mobilitazione, il responsabile del settore saitario del Consiglio regionale degli indigeni del Cauca (Cric), Alcibiades Escue, è stato arrestato per ordine della magistratura con la falsa accusa di avere stornato fondi del suo dipartimento per pagare tangenti ai paramilitari. Nel mese di settembre del 2004, quattro leader della comunità, tra cui il sindaco di Toribío e l’ex sindaco e attuale cornordinatore del collegio Cecidic di Toribío (vedi riquadro), sono stati arrestati e sequestrati da guerriglieri delle Farc nel territorio del Caguán, nel dipartimento del Caquetá, dove si erano recati per formare al processo indigeno le comunità nasa emigrate in quella zona.
In entrambi gli eventi si sono attivati canali diplomatici che hanno coinvolto organizzazioni nazionali e inteazionali quali Onu, Unesco, movimenti di difesa dei diritti umani e, nel secondo caso, la stessa chiesa cattolica. Questo sforzo comune ha portato alla liberazione dei prigionieri.
Straordinaria è stata la partecipazione della comunità. Pullman zeppi di autorità e guardie indigene si sono recati a Bogotá per reclamare la scarcerazione del loro leader. Con un gesto che ha commosso la nazione, più di 300 guardie indigene hanno fatto 20 ore di bus e svariate ore di marcia in un territorio sconosciuto per andare a reclamare alla guerriglia l’immediata liberazione dei loro compagni.
Sono segni che fanno ben sperare in vista di un futuro, che si presenta molto incerto, e dimostrano la vitalità di un progetto di vita in grado di coinvolgere la gente al di là degli interessi personali. Ciò che sottostà a tale progetto è il sogno di poter essere una nazione libera, autonoma e identificata con la propria storia e cultura, in uno stato colombiano che sia veramente «una grande casa di popoli», data la sua grande varietà etnica. (cfr Costituzione politica della Repubblica colombiana, art. 7).
La sfida che attende ora il movimento indigeno è molto grande. Si tratta di fare una proposta alternativa concreta insieme a tutte le forze democratiche, sociali e non armate del paese, per poter dare al messaggio un’eco ben più forte di quanto è stato finora possibile. È un compito che non può aspettare.
Le lotte per la vita, la biodiversità, il rispetto dell’identità e della libertà sono necessità da cui dipendono in parte la stessa sopravvivenza della realtà indigena e delle altre minoranze. Il movimento deve mantenersi forte e chiaro di fronte alle ingerenze del governo colombiano e della guerriglia nei suoi affari.
Il presidente Uribe, che in questi giorni cerca affannosamente di confermare il suo mandato per ulteriori quattro anni, avrebbe buon gioco a rendersi amico questo movimento così attivo, addomesticandolo ai suoi progetti. La guerriglia stessa ambirebbe ad avere gli indigeni come alleati, invece che ritrovarseli come oppositori dei loro piani.
Ma ci sono strategie che gli indigeni rigettano completamente, individuando nel trattato di libero commercio e nella politica di «sicurezza democratica» i peggiori rischi a danno della comunità, visto che ne minacciano il territorio e la coinvolgono in una guerra che non le appartiene.
La proposta indigena va, invece, nella direzione di un contributo al miglioramento sociale del paese, a beneficio di tutti. È infatti una grande contraddizione che in una nazione ricca di risorse, com’è la Colombia, 20 milioni di persone, su 44 milioni di abitanti, vivano in situazione di povertà, e altri 9 milioni sopravvivano in stato di miseria estrema.
La scelta dei partners con cui relazionarsi e di chi dovrà poi, di fatto, assumersi la guida di questa grande coalizione democratica è uno dei nodi che si dovranno sciogliere al più presto. L’aprirsi ad altre realtà presenta sempre incognite e rischi e può anche provocare contraddizioni intee, che vanno superate prontamente.
A questo riguardo il lavoro capillare all’interno della comunità rimane fondamentale affinché le scelte e le motivazioni del movimento si arricchiscano della partecipazione e dei contributi di quante più persone possibile.
Lo sforzo di Ezequiel e dei tanti che come lui sognano un mondo veramente differente lascia ben sperare che ciò sia realizzabile.

BOX 1
Il progetto Nasa

Il progetto Nasa nasce nel 1980, su ispirazione del padre Alvaro Ulcué Chocué, come un’iniziativa delle comunità indigene di Toribio, Tacueyo e San Francisco. I cinque programmi iniziali – produzione, famiglia, educazione, salute ed evangelizzazione – erano diretti al rafforzamento delle dimensioni spirituale, sociale, politica, economica e culturale della gente. Dopo la morte del padre Alvaro alcuni membri delle tre comunità, sostenuti dall’ equipo misionero guidato dai missionari della Consolata, recuperano idee e progetti del suo fondatore, facendone rivivere il sogno e conseguendone gli obbiettivi che si era prefisso. Oggi, dopo venticinque anni esatti di storia, il progetto nasa è ormai una realtà visibile e consolidata del movimento indigeno colombiano. I suoi programmi nel campo della produzione, etno-educazione, salute, nonché il suo impegno per la difesa, la conservazione e la pace nel territorio gli sono valsi pubblico riconoscimento a livello nazionale ed internazionale. Nel mese di febbraio del 2004, a Kuala Lampur (Malesia), il progetto Nasa ha vinto il «premio equatoriale», conferito dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). I giurati hanno riconosciuto nel piano di sviluppo indigeno lo sforzo di combinare la lotta contro la povertà con il rispetto delle risorse naturali.


Ugo Pozzoli