Solo Perrier e San Pellegrino (diario minimo dal Brasile)

A Campos do Jordao, Cortina tropicale fra le montagne che dividono San Paolo da Rio de Janeiro e Minas Gerais, la signora che mi ospita è arrivata in elicottero: Sandra Papaiz, proprietaria della grande fabbrica ereditata dal padre, sbarcato dal Friuli negli anni Cinquanta, ascolta i commenti sul nuovo papa degli amici che si preparano alla cena nella casa dalle verande di legno coperte da fiori. "Finalmente toerà la messa in latino…". È una signora insolita: proprietaria della fabbrica attorno alla quale è cresciuta la cittadina di Diadema, centomila abitanti nei gironi di San Paolo. Ha sconvolto i compagni di golf diventando assessore di un municipio governato da un braccio destro di Lula, Pt, Partito dei lavoratori. Per vent’anni, Sandra ha visto Lula, allora sindacalista, insultare il padre, sbracciarsi in cortile con l’altoparlante. Ed oggi, da donna pratica, si è resa conto che il continente Brasile dalle gambe molli aveva bisogno di un uomo così.
Come ogni America Latina, il Brasile rappresenta due società parallele. Nelle città mostro (San Paolo, 21 milioni di abitanti) si sfiorano, ma non si mescolano mai. I problemi restano lontani: per gli uni, produrre, esportare; per gli altri, mangiare una volta al giorno. Il continente che ha i piedi nell’acqua della foresta umida, con bacini giganteschi alle spalle di ogni metropoli, soffre la sete. Il cacao del nord est diventa legna secca. Migliaia di contadini senza lavoro assediano le città. I fiumi dell’Amazzonia, avvelenati dagli sbarramenti delle dighe, fanno marcire le foreste sepolte sott’acqua e attorno ai grattacieli nessuno beve dal rubinetto. Solo acque minerali. Navi cisterna ogni giorno. Impossibile gustarne il sapore nei ristoranti dove gli stranieri vanno a pranzo. Il cameriere rifiuta la richiesta di acqua brasiliana. "Solo Perrier e San Pellegrino, signore. La nostra clientela beve così".

Un mattino i giornali annunciano la buona notizia. L’occhio di un satellite scopre che le favelas di Rio e San Paolo hanno smesso di allungarsi. La buona notizia è che nei terreni attorno possono crescere i palazzi dei nuovi quartieri giardino. La cattiva notizia è che le favelas si spostano verticalmente verso discariche sterminate dove dal mattino alla sera donne e ragazzi frugano per recuperare qualcosa da vendere o qualcosa da mangiare, scarti che l’appetito del popolo delle acque straniere non ritiene ormai commestibili. Quattro milioni di vagabondi sopravvivono nella capitale industriale del paese, migliaia di ragazzi con l’Aids vagano sui marciapiedi impestati da cinque milioni di automobili. Per fortuna, c’è la maggior concentrazione di elicotteri privati del mondo. Nessuna persona sensata va al lavoro in automobile, ripetono i vacanzieri di Campos do Jordao. Autostrade cittadine a sei corsie paralizzate dal mattino alla sera. Appuntamenti che gonfiano ritardi imbarazzanti, ma nessuno si imbarazza: "Siamo a San Paolo…", è il sorriso del signore arrivato un’ora dopo. Nel cucinone di don Julio Lancellotti, prete di strada, la cena è un po’ di verdura. La sua rete di Case della Vita raccoglie adolescenti alla deriva col sangue avvelenato dall’Aids. Sono tornati stanchi da un pomeriggio di preghiera che i preti amici di don Julio hanno organizzato attorno alla cattedrale per ricordare cinque barboni uccisi e bruciati da squadre della morte. Per la magistratura sono poliziotti in libera uscita. Non muoiono solo barboni: quattro ragazzi al giorno restano senza vita nelle discariche. Sempre colpi d’arma da fuoco. Le ragazze e i ragazzi di don Julio stasera hanno gli occhi che si chiudono sulla minestra. Magliette colorate, pettinati con cura, dita sporche di biro. Con il prete guardiamo Porta a Porta, parla il Socci che distribuiva miracoli nelle dirette di Excalibur: sta ricordando di aver presentato un anno fa il libro del cardinale Ratzinger: "Dallo spiritualismo profondo e costruttivo. In America Latina è facile fare della sociologia dimenticando la dottrina della chiesa". Anche don Julio allarga l’orecchio. Sospira e alza gli occhi verso la tavola ormai vuota. "Di questi ragazzi, due o tre moriranno i prossimi mesi. Facile, dice il signore della Tv di Roma".

Il mondo della disperazione e della ricchezza esibita a volte si toccano. Il condominio dove abita il signor Daniel Dantas la cui professione consiste nel mettere d’accordo affari e politica, sembra un gigantesco mobile dai cassetti aperti in modo diverso: terrazze più larghe, terrazze più corte. Vogliono dire piscine piccole e piscine grandi. Ne è orgoglioso. Chiacchieriamo mentre una figlia bambina nuota nella vasca e il cameriere serve il caffè. Sposto i rami delle piante verdissime che separano la terrazza dalla realtà e mi affaccio su una favelas della quale non vedo la fine: su e giù per le colline di Morumbi. "Paraisopolis", spiega Dantas con allegria. "Città del paradiso. Centomila abitanti, forse di più. Qualcuno vuole costringerli ad andare via. L’altra sera sono bruciate due strade. Povera gente, mi spiace, ma un posto così bello sepolto da lamiere e cartoni, è una vergogna che dovremo risolvere". Ascolta le nostre chiacchiere Carmita, figlia grande. "Lavora anche il sabato", sorriso del padre orgoglioso. Spiega che il posto è nuovo: sta per essere aperto lo shopping centre più "in" della città, Villa Daslu. Proprio "villa" perché la proprietaria è italiana: Eliana Tronchesi. "È lo show room delle meraviglie". Entro in un cortile abbracciato dalle logge di un palazzo rinascimento fiorentino. Attraverso salotti dove, per distrazione, al posto dei libri la biblioteca accoglie giornielli di Bulgari, tanti Armani, creme di bellezza americane, abiti appena sfilati a Parigi. Al piano di sopra salotti per uomini. Naturalmente, tutto falso: dai tappeti all’architettura che ricorda le colonne di Pompei, Califoia. Prezzi: da capogiro. Col prezzo di un orologio don Julio potrebbe mantenere per mesi i suoi venti ragazzi. C’è sempre una graziosa padrona di casa che offre il caffè, o una tartina, due dita di champagne, sulle poltrone delle stanze infilate a binocolo, una dopo l’altra. Non vorrei si pensasse ad una villa modello Fiesole. Se l’architettura ha brutalizzato nella banalità l’armonia fiorentina, la dimensione spaventa. Villa Daslu è lunga come Versailles. Sul tetto del magazzino, in fondo a un cortile secondario, due piattaforme aspettano gli elicotteri delle signore che hanno fretta. Ecco la città del futuro: falso rinascimento assediato da una disperazione disperata. Vite e lingue diverse, babele nelle stesse strade.

Fra quarant’anni, avverte un rapporto Onu, metà della popolazione del mondo sarà urbanizzata. San Paolo, o Città del Messico, mostri invivibili, si moltiplicheranno a macchia d’olio ovunque. Le differenze sociali esploderanno. Immondizie, agenti armati attorno alle zone rosa. Fuori, gli stracci, milioni di stracci. Nel 1933 Levi Strauss, professore all’università di San Paolo, aveva previsto la follia di cento chilometri di palazzi: avrebbero distrutto la foresta dell’altopiano trasformando il rio Pinheiro dove Levi Strauss, Braudel e il nostro Ungaretti andavano a pescare, in una fogna che ammorba ricchi e poveri: vapori nauseabondi. "Li respireranno assieme, notabili e diseredati in qualcosa finalmente uguali".

Maurizio Chierici

Maurizio Chierici




OBIETTIVI SVILUPPO DEL MILLENNIO Tutti a scuola (2)

Il diritto allo studio è l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio numero due: l’istruzione primaria è il ponte che permette alla persona di fare le proprie scelte e diventare parte integrante e attiva della società e del mondo.

Banchi di scuola per tutti, a Nord e a Sud, al freddo e al caldo, in campagna e in città, nel deserto e nelle baraccopoli. Perché l’istruzione è il punto di passaggio necessario per offrire a tutti le stesse possibilità, per dare gli strumenti ai bambini di oggi di costruire il proprio futuro o, quanto meno, di avere qualche carta in più per diventare protagonisti attivi della loro vita.
Il traguardo numero due degli «Obiettivi di sviluppo del millennio» (vedi riquadro), dichiarati come priorità dell’agenda internazionale da 189 stati membri delle Nazioni Unite durante il Millennium Summit del 2000, sottolinea l’importanza dell’alfabetizzazione universale, perché tutti i bambini del mondo possano imparare a «leggere, scrivere e fare di conto», come si diceva una volta.
Sono molti i paesi dove il diritto all’istruzione è ancora negato e i bambini non hanno la possibilità di frequentare gli «studi dell’obbligo», come vengono chiamati.
Secondo i dati del 2000, 104 milioni di bambini in età scolare non andavano a scuola: di questi, il 57% apparteneva al mondo femminile e il 94 per cento viveva nei paesi in via di sviluppo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nel sud dell’Asia). Questo per la piaga del lavoro minorile, o dei bambini soldato, o della povertà che impedisce alle famiglie di pagare l’iscrizione, o i libri e i quadei necessari allo studio, o la divisa da indossare.
Spesso infatti, non sono le strutture che mancano: la maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha le scuole necessarie per garantire questo diritto dell’infanzia: nonostante ciò, solo in un quarto di queste nazioni i bambini raggiungono un livello base di istruzione.

Esperienze vissute

Le ragioni per non frequentare la scuola o abbandonarla prima del tempo possono essere diverse, a volte intrecciate con altre difficoltà della vita che rendono difficile guardare al futuro; ci si accontenta di tirare a sera e sopravvivere fino a un nuovo giorno.
Il Tanzania può essere un buon esempio per capire come, a volte, la presenza di scuole e anche di aiuti da parte del governo, ancora non basti per portare i bambini in classe. Il governo tanzaniano, per permettere l’accesso all’istruzione anche ai nuclei familiari più disagiati, ha eliminato le rette, lasciando da pagare alle famiglie solo 10 euro l’anno.
Ma nel paese una persona su tre vive al di sotto della soglia della povertà e, nonostante l’iniziativa del governo, tre bambini su dieci non hanno la possibilità di andare alla scuola primaria: anche quei 10 euro fanno la differenza.
Altre volte la difficoltà è legata alle esperienze vissute dai bambini, che rendono difficile un ritorno alla normalità e quindi anche ai banchi di scuola: nel caso degli ex bambini soldato, per esempio, è spesso difficile ritornare a studiare, rientrare in una classe, in mezzo ai compagni di scuola, dopo tutto quello che hanno visto e vissuto e che continua a tornare nella loro mente.
Altre volte ancora un male ne porta con sé un altro e bambini con la vita già segnata dal virus dell’Aids si vedono negare l’accesso a scuola. È successo per esempio in Kenya, a Nairobi, dove il nuovo anno scolastico iniziato a gennaio ha lasciato fuori da alcune scuole elementari i bambini sieropositivi, ai quali non è stata permessa l’iscrizione: le classi «erano piene».

Diritto per sopravvivere

La negazione di questo diritto ai bambini è grave e porta con sé conseguenze per tutta la vita. L’istruzione primaria di base è la chiave della sopravvivenza in diversi contesti e situazioni, ogni giorno: senza di essa, viene negata la possibilità di esercitare diversi lavori, non si possono contare i soldi, non si possono leggere istruzioni, percorsi da fare, strade dove andare, pericoli da evitare. Non si possono leggere le spiegazioni di un medico, contare le pastiglie, capire le medicine da prendere e a che ora, capire cosa viene proposto di fare e fatto firmare.
Sapere leggere, scrivere, contare può determinare il corso della vita di un individuo. Se ne sono rese perfettamente conto alcune mamme in Ecuador, che a Logarto, nella provincia di Rioverde (zona dell’entroterra) hanno protestato a viva voce per la chiusura della scuola, avvenuta all’inizio di quest’anno. La maestra se ne era andata; ed essendo una struttura con un unico insegnante, come accade spesso, le lezioni erano state sospese.
In questo paese, ma non solo, spesso l’istruzione dei bambini è legata alla buona volontà dei loro maestri, che devono fare chilometri di strada per raggiungere la scuola, che raccontano di banchi vuoti, perché le famiglie a un certo punto dell’anno scolastico non possono più fare a meno dei loro figli per il lavoro nei campi.
Altre volte invece, gli insegnanti ci sono, vorrebbero esserci anche i bambini e lo vorrebbero anche i genitori, ma i banchi sono vuoti e le lezioni interrotte, perché la povertà, complice la natura, ha avuto la meglio. Come è successo a ottobre dello scorso anno fra le comunità indios in Paraguay: 8 mesi di siccità hanno portato alla chiusura di 50 scuole. La maggioranza dei bambini era partita con la famiglia verso le montagne, per procurarsi cibo; i pochi rimasti avevano troppa fame ed erano debolissimi, certo non in grado di concentrarsi e seguire le lezioni.

A che punto siamo

Gli esempi che si possono fare sono numerosi e spaziano da un continente all’altro, a sottolineare l’importanza dell’Obiettivo di sviluppo del millennio stabilito. Secondo le analisi della Banca mondiale, che ha valutato il panorama scolastico in 155 paesi in via di sviluppo, solo in 37 venivano completate le scuole primarie e, sulla base dell’andamento fino agli anni Novanta, si poteva prevedere il raggiungimento di tale risultato in altri 32. Ma gli altri?
Se le cose non cambiano e le iniziative non accelerano i cambiamenti e miglioramenti della situazione, non raggiungeranno l’obiettivo, anche perché in alcuni casi non solo la situazione è definita ferma, «stagnante», ma addirittura peggiorata negli ultimi anni.
Le regioni dell’Asia dell’Est e Pacifico, Europa e Asia Centrale, America Latina e Caraibi sono sulla buona strada e potrebbero arrivare alla meta entro il fatidico 2015.
Facendo esempi più precisi, se continuano con lo stesso ritmo e caratteristiche, hanno buone possibilità di successo Cina, Russia, Bulgaria, Laos, Brasile e Messico. Ma le altre tre zone geografiche identificate, che contano 150 milioni di bambini in età da scuola primaria, rischiano di fallire.
L’Africa sub-sahariana è quella con maggiore ritardo (meno del 50% dei bambini raggiunge l’obiettivo) e dal 1990 sono pochi i progressi registrati. Il cammino dell’Asia del Sud è troppo lento: poche iscrizioni e pochi cicli di studio terminati. Nel Medio Oriente e Africa del Nord la situazione è sostanzialmente ferma agli anni ’90, nonostante il numero di iscrizioni a scuola sia relativamente più alto rispetto alle altre due regioni.
Da ricordare infatti, come l’obiettivo da raggiungere sia il completamento degli studi, perché la sola iscrizione alla scuola non rappresenta una garanzia sufficiente: in Madagascar per esempio, nonostante una percentuale molto alta di iscrizioni, otto studenti su dieci non completano il ciclo primario di istruzione.
Di fatto dunque, se le cose continuano così, i bambini di oltre la metà dei Paesi in via di sviluppo non potranno completare la scuola elementare entro il 2015.

* Siti Inteet:
http://www.millenniumcampaign.it
http://www.developmentgoals.org
http://www.developmentgoals.org/Education.htm
http://www.unmillenniumproject.org
http://web.worldbank.org
http://www.peacereporter.net

Box 1

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

Box 2

OBIETTIVO N°2

Garantire in tutto il mondo un livello di istruzione primaria

Raggiungere in tutto il mondo un livello di istruzione primaria. Gli obiettivi del millennio in questo campo sottolineano come l’istruzione sia sviluppo: apre le porte alla possibilità di scegliere e fornisce nuove opportunità alle persone; fornisce i mezzi per contrastare la povertà e il diffondersi delle malattie, offre a tutti la possibilità di far sentire la propria voce e le proprie aspirazioni nella società, partecipando in modo attivo alla vita pubblica.
Entro il 2015 la meta da raggiungere è il diritto allo studio: garantire a tutti i bambini, maschi e femmine, ovunque siano nati, la possibilità di frequentare e completare i corsi di scuola primaria

Valeria Confalonieri




Battitore liberoAmbiente: a proposito di bugie

Su MC del marzo 2005 ho letto la recensione, molto critica, che Paolo Moiola fa del libro “Le bugie degli ambientalisti. I falsi allarmismi dei movimenti ecologisti”. Un’altra rivista missionaria, Mondo e Missione, sul numero di agosto/settembre 2004 ospita un contributo dei suoi autori (non è precisato se si tratti o meno di un estratto dal medesimo) e presenta la pubblicazione come “Un’inchiesta che, prendendo le mosse dal magistero della Chiesa, propone una chiave di lettura “fuori dal coro” sul tema della salvaguardia dell’ambiente e smaschera ipocrisie e falsità portate avanti da una parte del movimento ecologista…”.
Cosa dire, forse bisognerebbe proprio leggerlo… eppure ho scelto di non farlo. Leggo molto, purtroppo ho molto tempo per farlo sui mezzi pubblici che uso quotidianamente, per scelta, al posto dell’auto, ma i due articoli sopra citati sono stati sufficienti a convincermi dell’inutilità, almeno per me, di un tale testo! Per quel che può valere la mia opinione, mi permetto, invece, di invitare alla lettura di un altro libro, davvero molto valido, già da voi in citato: “Futuro sostenibile” (ed EMI) di Wolfgang Sachs. Ottima la vostra iniziativa di intervistarlo! Da decenni mi occupo di ambiente per passione, più di recente anche per lavoro (in un comune), ed alcuni anni fa, quando di sostenibilità non si parlava così tanto come oggi (purtroppo se ne parla molto ma in concreto si fa poco!) ho regalato questo libro al mio assessore all’ecologia perché ne tenesse in considerazione i principi nelle scelte politiche dell’amministrazione.
Detto questo (era la cosa che davvero mi premeva segnalare), se può essere di qualche interesse per vostri lettori, vi propongo qualche considerazione che motiva la scelta sopra espressa. Ovviamente gli argomenti sono estremamente complessi e la sintesi obbliga a semplificazioni che rendono ancor più difficile cercare di farsi ben comprendere. Ci provo.
1. La Terra starebbe benissimo anche se fosse un deserto inospitale come gli altri pianeti che conosciamo. Perché la nostra specie possa sopravvivere, siamo noi “umani” ad aver bisogno che l’ambiente conservi certe ben definite caratteristiche.
2. E’ difficile anche per gli addetti ai lavori e gli scienziati avere un’idea precisa dei fenomeni ambientali sia a scala planetaria sia a scala locale. A maggior ragione questo vale per chi non ha la possibilità di accesso diretto agli studi scientifici.
3. Di fatto è più il desiderio di profitto di pochi che l’esigenza del bene pubblico ad orientare le scelte degli stati, compresi gli investimenti nelle ricerche e nella divulgazione dei loro risultati.
4. Alcune delle affermazioni degli autori del libro “inquisito”, compresa qualcuna fra quelle criticate da Paolo Moiola, per quanto ne so io sono vere, ma descrivono solo una parte e non tutta la realtà. Condivido l’affermazione che la creatività e la tecnologia umane “contribuiscano” a definire le risorse, ma non bastano! Lo dimostra proprio l’esempio del petrolio: Mathis Wackeagel (ideatore e divulgatore dell’indicatore “Impronta ecologica”) di recente a Milano ha osservato che “E’ scorretto parlare di paesi produttori di petrolio, più giusto sarebbe definirli “liquidatori di petrolio” visto che si limitano ad estrarlo e venderlo; a produrlo davvero sono stati processi naturali in tempi infinitamente più lunghi rispetto a quelli in cui lo stiamo consumando”. La migliore tecnologia risulterebbe quindi inutile in assenza della risorsa naturale.
5. Con tutta la nostra creatività non potremo mai far a meno di alimentarci, bere, respirare. E ci sono anche modi diversi per farlo: che producono differenti livelli di benessere. Per aiutarci a ricollocare nel giusto ordine di priorità le nostre esigenze essenziali, può essere illuminante provare a verificare per quanto tempo riusciamo a resistere trattenendo il fiato!
6. Senza addentrarmi in complesse problematiche planetarie sull’effettivo stato dell’ambiente, mi limito ad un’osservazione molto semplice: ci rifiuteremmo categoricamente di acquistare un paio di scarpe sporche e usate ma riteniamo accettabile che l’acqua che beviamo contenga una quantità, definita per legge, di sostanze nocive (ma non abbastanza!). Nota di colore: alcune derivano, fra l’altro, dagli scarichi dei nostri servizi igienici!
7. La questione ambientale dunque non è un fatto di tutela della natura fine a se stessa ma una necessità per la nostra salute e per vivere meglio. E’ anche una questione di giustizia e di rispetto della dignità umana. Tutela dell’ambiente e tutela dei diritti umani sono molto più strettamente connessi di quanto si possa superficialmente pensare. Con soddisfazione rilevo che anche il mondo religioso da qualche tempo se ne sta occupando sempre più di frequente (MC compresa).
8. La prima necessità, in questo come in tutti gli ambiti della nostra vita, risiede nella corretta informazione. Che non si fa semplicemente accusando il mondo ambientalista, dimostrandone oltretutto una conoscenza quantomeno incompleta. Specie se limitata a quanto ne appare sui mezzi di comunicazione di massa. Anche in campo ambientale è semmai proprio di questi ultimi la responsabilità nel presentae, spesso superficialmente, solo gli aspetti più eclatanti, sbagliando nel ritenerli i soli interessanti per il pubblico. Sarebbe invece doverosa una molto più capillare, quotidiana e competente informazione. Capace di suscitare l’interesse di tutti, perché non sia lasciato ai soli “ambientalisti” l’onere di occuparsene. Dopo di che… siamo in una democrazia e, se le scelte andranno comunque in una direzione che non ci piace, non ci resterà che impegnarci ancora di più per convincere chi non la pensa come noi sulla necessità di modificarle.

Giovanni Guzzi




KIRGHIZISTAN Alla scoperta della via della seta perduta

In equilibrio instabile tra passato e futuro, schiacciato tra il colosso cinese e quello russo, il Kirghizistan conserva intatto, come ai tempi di Marco Polo, il fascino dell’antica Via della seta, dove miti, leggende e storia si mescolano con l’armonia degli astri.

«Noi kirghizi siamo un popolo che vive di miti e leggende; ogni villaggio, montagna, fiume, lago può raccontarti la sua epopea». Sheeren, la ragazza conosciuta durante una visita all’Università del Kirghizistan, si bea al sole, sotto una delle poche statue di Lenin sopravvissute all’ubriacatura liberista degli anni del post-comunismo in Urss.
Lo sguardo bronzeo del padre della Rivoluzione d’ottobre, continua a sfidare fiducioso il futuro, volgendosi verso i monti Ala-Too (montagne colorate), che sovrastano Bishkek, capitale dello stato. Di fronte a lui, gli autobus carichi di passeggeri, procedono lentamente, mostrando sulle fiancate pubblicità di prodotti occidentali: Seven Up, pellicole Fuji, elettrodomestici Philips, automobili tedesche.
È qui, tra queste evidenti contraddizioni di una società ancora nostalgicamente aggrappata al passato e al tempo stesso proiettata verso un domani alquanto incerto e precario, che inizio il mio viaggio lungo il tratto meno conosciuto e battuto della Via della seta: quello che da Bishkek giunge fino alla leggendaria Tash Rabat, l’ultimo caravanserraglio a disposizione dei mercanti, prima di varcare le soglie del Celeste Impero e raggiungere la città di Kashgar.

La Via della Seta

La Via della seta, che nell’immaginario collettivo viene vista come un’unica grande «autostrada», in realtà è un groviglio di sentirneri, che si intersecano, si allontanano, si uniscono, lungo 7.000 km.
Stalin ricordava che «la rivoluzione non si fa con i guanti di seta». Sbagliava. Per 17 secoli, lungo l’arco di 14 dinastie, la Via ha rappresentato la più importante fonte di comunicazione tra il mondo orientale e quello occidentale. Grazie a questa forma di primitiva globalizzazione, il buddismo ha varcato i formidabili contrafforti himalayani, per dilagare in Cina, Corea e Giappone, l’Islam è giunto in Asia Centrale, nuove culture sono sorte, altre sono deperite, calpestate da eserciti inarrestabili.
Solo l’arrivo in America degli europei, nel xvi secolo, ha decretato il definitivo declino della Via della seta: la necessità di solcare le infide acque dell’oceano ha dato impulso alla navigazione e i mercanti europei si sono accorti che, con le nuove navi, si risparmiava tempo e fatica, il viaggio era più sicuro e la quantità di merce trasportabile, maggiore.
Ma il fascino emanato dalla Via è resistito. Viaggiatori, scrittori, turisti più o meno preparati, hanno continuato a percorree i suoi segmenti o l’intero tragitto.
La Rivoluzione del 1917, prima, e quella iraniana del 1979, poi, hanno interrotto questo via vai di stranieri, concedendo solo l’apertura di qualche limitata porzione, piccoli assaggi di un tragitto che riserva emozioni a non finire.
Il tratto kirghizo, quello che mi accingo a coprire, è stato completamente chiuso durante il periodo sovietico, a causa della delicata posizione geografica, a ridosso del confine cinese, in cui si veniva a trovare. Solo verso la metà degli anni ’90, dopo l’indipendenza del Kirghizistan, il nuovo governo (formato dalle vecchie autorità sovietiche abilmente riciclatesi), ha riaperto, piano piano, la via al turismo di massa e individuale.
Questa nuova politica ha, inoltre, permesso la fioritura di piccole e discrete bed & breakfast a Bishkek che, con 15-20 euro a notte, permettono di limitare la spesa dell’alloggio nella città, altrimenti piuttosto dispendioso (40-100 euro per un albergo di media categoria).
Bishkek
Inizio la visita di Bishkek nel Museo di storia, indispensabile, se non altro, per capire quale sia l’attuale percorso politico del paese. Dei tre piani di cui si compone l’edificio, il secondo, dedicato a Lenin, è chiuso ufficialmente per restauro; ma Sheeren insinua che verrà presto smantellato. Il primo piano è occupato, per metà da una mostra permanente dello scrittore locale At Chinghiz Aitmatov, leggenda vivente nazionale, l’altra metà dal presidente Askar Akaev (vedi riquadro). Solo il terzo piano ripercorre velocemente la storia del paese, dalle origini alla Rivoluzione comunista.
Attraverso Panfilov Park, frequentato da bambini e da coppie di sposi che vengono a farsi fotografare sulla ruota panoramica, per entrare nel Museo di Mikhail Vasilievich Frunze, il personaggio politico kirghizo più conosciuto all’estero e il cui nome ha identificato la città sulle cartine geografiche fino al 1991.
Nato nel 1885, Frunze nel 1917 guidò le Guardie rosse alla presa del Cremlino. Otto anni dopo, divenuto troppo scomodo per Stalin, morirà durante un’operazione chirurgica. Il Museo ingloba la sua casa natia; almeno così affermano le guide; ma Shereen, che sul rivoluzionario sta scrivendo una tesi, ritiene improbabile che la vera dimora sia potuta sopravvivere a 110 anni di sconvolgimenti storici. La cosa che più mi colpisce è che nessuna delle foto in esposizione ritrae Frunze con Stalin. Anzi, nessuna foto ritrae Stalin.
Prima di abbandonare le comodità della capitale, mi immergo nell’Osh bazaar, un brulicare di venditori dispersi in un bailamme di colori, suoni, risa, dove con pochi som (1 som vale 25 centesimi) è possibile comperare spezie, frutta, verdura, carne. I som¸ invece, non servono per scattare fotografie, a differenza di quanto accade nei mercati di Bukhara o Samarcanda, più avvezzi al turismo.

La leggenda della Torre di Burana

Dopo due giorni a Bishkek, imbocco finalmente la Via della seta, dirigendomi a est, verso il lago Issyk Kul. A farmi da guida è Evgenij «Jenia», laurea in ingegneria elettronica e in lingue, ma disoccupato, come il 20% dei suoi connazionali.
La prima meta è la Torre di Burana, la vecchia Balasugun conquistata nel 1224 dai mongoli di Gengis Khan. Nel mezzo di una pianura sconfinata, la torre a tronco di cono si erge quasi a sfidare i primi contrafforti della catena Tien Shan che si elevano all’orizzonte.
A conferma di quanto diceva Shereen, anche questo monumento ha la sua leggenda: quella di una principessa rinchiusa nella rocca dal padre, il quale intendeva salvarla da una predizione che la voleva in pericolo di morte sino al compimento del 18° anno di età. A nulla, però, valsero i propositi regali. La morte giunse puntuale il giorno del 18° compleanno, sotto le sembianze di un ragno, intrufolatosi in un cesto di frutta, il quale morse la fanciulla, uccidendola.
Né io né Jenia siamo riusciti a capire come una persona normale abbia potuto sopravvivere all’interno di un luogo tanto angusto e tetro, ma si sa, le principesse non sono mai state persone normali. Il mito esprime piuttosto la metafora dei pericoli provenienti dall’esterno per il piccolo e indifeso popolo kirghizo. Solo restando entro le pianure e valli delimitate dalle alte montagne della catena Tien Shan, i kirghizi potevano sperare di far fronte alle scorrerie nemiche. E così hanno fatto dal xiii secolo, quando, scacciati dalle steppe siberiane, si sono stabiliti in queste lande.
Issyk Kul
Da Burana costeggiamo il fiume Chuy, rinomato per i canyons di rara bellezza, a cui poeti e mercanti che ne costeggiavano le sponde si sono ispirati per scrivere versi letterari di struggente bellezza. Oggi le sue rapide sono affrontate da esperti raftisti che giungono da tutto il mondo.
Raggiungiamo la città di Balykchy, che si affaccia sull’Issyk Kul (issyk = caldo, kul = lago), il secondo lago alpino più esteso al mondo, dopo il Tititaca. Qui i sentirneri e le rotte marittime intee, provenienti dall’Asia nordorientale, confluivano nel tronco principale della Via della seta. Nel bazaar cittadino, ancora oggi tra i più colorati del Kirghizistan, venivano barattate merci di ogni tipo, per essere poi portate in Mongolia, Siberia e nord della Cina.
La regione di Issyk Kul è stata interdetta agli stranieri per tutto il periodo sovietico. Nei suoi 6.236 kmq di superficie, la marina russa sperimentava i nuovi siluri, e attorno ai 688 km di costa sono sorte città dormitorio per i militari.
Tutto ciò, però, non ha impedito che le acque limpide e calde del lago siano, oggi come ieri, meta del turismo interno. Le stupende spiagge di sabbia che si aprono sulla costa, l’acqua leggermente salata, dovuta ai depositi minerali dei fiumi immissari (l’Issyk Kul non ha emissari), permettono di non far rimpiangere troppo ai kirghizi, la mancanza di uno sbocco marino.
Costeggiamo tutto il lago fino a raggiungere Karakol, dove rendiamo omaggio al più grande esploratore russo dell’800: Nikolai Mikhailovich Przhevalsky. Nonostante fosse cristiano e le sue spedizioni abbiano dato lustro al regime zarista, le autorità comuniste non hanno mai cercato di oscurare i suoi meriti, dedicandogli anche un interessante museo.

Son Kul dove ancora cavalca Manas

Toiamo sulla Via della seta per dirigerci verso un altro lago, più piccolo, ma decisamente ricco di fascino: il Son Kul. La strada che vi conduce lascia senza fiato, per la straordinaria bellezza dei panorami: in pochi chilometri il Mammut (camion delle truppe militari) arranca tra paesaggi alpini che ricordano le valli svizzere, tra desolazioni desertiche afghane, per poi sfrecciare in pianure altaiche.
È durante questa tappa che iniziamo a scorgere le prime yurte e i primi cavallerizzi. Sono le «avanguardie» del fiero popolo kirghizo, quello che non ha mai scordato le sue origini nomadi e battagliere, che ha per patria le steppe, per dèi gli astri del cielo, per compagni i cavalli. Tutto questo si materializza a Son Kul, una perla azzurra incastonata tra chilometri e chilometri di verdi praterie e dolci colline.
Non è difficile immaginare gli eserciti agli ordini di Manas, l’eroe della mitologia kirghiza, scorrazzare tra queste pianure, per poi scontrarsi con i nemici, lancinando l’aria con urla e sibili di frecce, mentre gli zoccoli dei destrieri lanciati all’attacco, fan tremare l’acqua del lago.
A Son Kul non c’è elettricità né acqua corrente; si dorme nelle yurte assieme ai nomadi, sistemazioni spartane, ma sicuramente le più compatibili con l’ambiente.
Da secoli i popoli delle steppe vivono in queste capanne mobili. Marco Polo, ne Il Milione, descrive in modo mirabilmente minuzioso queste dimore: «Le case sono di legname e sono coperte di feltro, e sono tonde, e portanseli dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però che egli hanno ordinato sì bene le loro pertiche, ond’egli le fanno, che troppo bene le possono portare leggiermente in tutte le parti ov’egli vogliono. Queste loro case sempre hanno l’uscio verso il mezzodie…». Nulla è cambiato da allora ad oggi.
Al crepuscolo, sorseggiando kumus e sbocconcellando del nan e kurut, ascoltiamo Chinara e Jazgul, due manaschi che intonano canzoni kirghize. Parlano di amori impossibili, di epiche battaglie, di Manas, delle «Quaranta Madri Tribali», da cui si dice discendano le 40 tribù che formano il popolo kirghizo. Racconti tramandati da secoli, sentiti da migliaia di mercanti che transitavano sulla Via della seta, così come oggi noi li risentiamo. Stesse parole, stesse melodie, che si perdono nelle stesse praterie, rimbalzando sulle acque cristalline del Son Kul.
Emozioni. Le stesse provate nel sentire, il giorno dopo, la nonna raccontare al nipotino come il grande Gengis Khan aveva sconfitto i turchi, passando proprio dove ora è innalzata la loro yurta. E se poi questo racconto non è avvalorato dal corso degli eventi, beh, tanto peggio per la storia. Le leggende non chiedono certo il suo permesso per penetrare nella mente di un popolo.
La sera, mi siedo con Jazgul sotto un cielo stellato che non riesco a definire altro se non «simply great». Stiamo in silenzio per decine di minuti, incuranti dell’aria che a 3.000 metri si è fatta fredda e pungente. Alla fine, Jazgul, accorgendosi del mio disagio di fronte a tanta immensità, inizia: «Quando saprai ascoltare la musica del cielo, le parole che ti provengono dalle stelle e dalla luna, allora saprai di essere in pace con te stesso».
Il ricorso alla sinfonia celeste mi ricorda tanto la teoria della «musica delle sfere» di Pitagora: dopotutto la mente del genere umano non è così diversa…
Naryn
Lasciamo con dispiacere Son Kul alle spalle e puntiamo ancora verso sud, dirigendoci a Naryn. Oramai le yurte sono visibili ovunque, anche dove non dovrebbero esserci: lungo le strade, appena si apre uno spiazzo, ecco un gruppo di yurte-ristorante.
A Naryn, città che prende il nome dal fiume più lungo del Kirghizistan che la attraversa, dormiamo in un yourt-inn alla periferia della città.
Il bazaar di Naryn è stato per secoli uno dei più attivi della Via della Seta, dato che è il primo grosso mercato che si incontra provenendo dalla Cina. Oggi i suoi fasti sono solo un ricordo, ma dopo che Pechino e Bishkek hanno riaperto le frontiere, Naryn sta conoscendo una seconda rinascita

Tash-Rabat: ultima frontiera

L’ultima tappa del nostro viaggio verso sud ci porta a Tash-Rabat. La strada si intrufola tra strette gole, costringendo il Mammut a guadare fiumi, sprofondare in buche, inclinarsi pericolosamente su un costone roccioso. Alla fine, ecco aprirsi di fronte a noi il caravanserraglio di Tash-Rabat.
Qui, a 3.500 metri di quota, le carovane han sostato per secoli, rifocillandosi prima di intraprendere la scalata al passo che porta in Cina. Accanto alla costruzione in pietra, risalente al xv secolo, ma restaurata nel 1984, ci sono delle yurte abitate da nomadi e la piccola fattoria dove vive il direttore del caravanserraglio, Jergobiek Karpiekof, assieme alla moglie Tursun e le figlie. Assieme a loro visitiamo l’edificio: la luce del giorno penetra dai pertugi della cupola, illuminando la sala principale. Da qui si aprono a ventaglio le stanze dei mercanti, le prigioni, le stalle, le mangiatornie. Il tutto in uno spazio alquanto ristretto.
È l’ultima notte che trascorriamo a Tash-Rabat, domani cominceremo il viaggio di ritorno. Mentre me ne sto seduto a gambe incrociate di fronte alla yurta dove sono alloggiato, osservo il cielo rischiarato dalla luna. Aikanish, la figlia più piccola di Jergobiek ed il cui nome significa «Regina della luna», ha appena terminato di cantare una filastrocca.
Ora, solo l’acqua del vicino ruscello fa da sottofondo alle stelle. Fisso la fioritura della Via Lattea lassù, proprio sopra la valle e non riesco a distinguere se il dolce sciabordio è dovuto all’acqua del ruscello o allo scorrere degli astri nell’infinito. Che sia questo il Nirvana?

Box 1

Alla ricerca degli ultimi "manaschi"

Da Bishkek, un viaggio di 13 ore ci ha portato sulle rive delle acque color smeraldo di Son Kul, al centro di un vasto altopiano a 3.500 metri. Attoo al lago, dopo il dissolvimento dell’Urss, che li aveva costretti alla vita sedentaria, sono tornati ad abitare i nomadi, che ne hanno punteggiato di yurte bianche il tappeto verde e, con molta fatica e abnegazione, cercano di far rivivere le loro tradizioni ataviche.
La spedizione a cui mi sono aggregato, è composta da etnologi, antropologi e musicologi, che si prefiggono di studiare e registrare i canti degli akyn, i cantastorie itineranti del Kirghizistan, che raccontano la vita quotidiana, gli amori, le gesta delle tribù locali, per poi metterli a confronto con quelli degli anni ’30, periodo in cui Stalin obbligò i nomadi a stanziarsi nei kolchoz, e annotare le differenze che il tempo e gli eventi politici hanno apportato.
Son Kul è stata scelta per due motivi: per il paesaggio, che ricorda le terre d’origine dei kirghizi nella Mongolia e Yenisei, e per il tipo di tribù insediatesi nelle regioni, considerate le più fedeli alle tradizioni del passato.
«Se è vero che il territorio è uno dei principali elementi che influiscono nella formazione di una società, allora Son Kul è il terreno ideale per studiare il nuovo corso del pathos kirghizo» dice l’etnologa Susan Mat Som, della Malaya University di Kuala Lumpur. In effetti, qui tutto ricorda lo spirito che pervade l’animo di questo piccolo popolo: fierezza e spartanità della vita, libertà di spazi incontaminati in una terra stupenda ma inospitale, assoluto silenzio delle notti stellate.

Nelle società nomadi kirghize, gli akyn occupano tradizionalmente un posto di riguardo, accanto agli sciamani. Ma, mentre questi ultimi sono parte integrante di uno specifico clan e prendono parte a tutte le attività sociali a esso collegate, i cantastorie ne sono al di fuori. Nomadi tra i nomadi, sono sempre stati elementi super partes, quindi le persone più adatte per suggellare rapporti tra le diverse tribù, divulgare notizie, mediare matrimoni, sedare liti e, nei tempi passati, chiamare alla guerra.
Prima dell’introduzione della lingua scritta, a opera del governo sovietico, gli akyn erano anche delle biblioteche viventi. A loro erano affidate le memorie storiche e mitologiche dell’intero popolo kirghizo, mentre ai più capaci veniva dato il compito di tramandare il testo dei testi per eccellenza: l’epopea di Manas, il leggendario eroe guerriero che portò questo piccolo popolo a ritagliarsi un territorio in cui vivere libero e pacifico. L’intero racconto di 550 mila strofe, supera in lunghezza qualsiasi altra mitologia e per la completa declamazione occorrevano ben 13 giorni di estenuanti performances. I pochi akyn che raggiungevano un tale livello di sapienza (e onore), venivano fregiati del titolo di manaschi, cantori di Manas.
Oggi, la trasposizione scritta dell’epopea ha dissuaso gli akyn a intraprendere il faticoso ed estenuante processo di memorizzazione, tanto che i manaschi attuali possono declamare al massimo qualche decina di migliaia di strofe.

Dopo una settimana di registrazioni, veniamo a sapere che nella regione stanno girando due tra i migliori akyn del paese. Ci dirigiamo verso il luogo indicato e, appena superata l’ennesima collina, giungono alle nostre orecchie le melodie, un poco malinconiche, di una canzone tradizionale accompagnata dalle note di un liuto.
Appena giunti ci aspetta una sorpresa: uno dei due akyn è una ragazza, Orozkavieva Chinara, che gira assieme a Macsaz Moldagauizv. Jacques Charreaux, musicologo del gruppo, che sta preparando un programma per la radio francese sullo sviluppo della cultura musicale dei popoli delle steppe, è entusiasta: «L’era post-sovietica, oltre a rinnovare la metrica di alcuni canti, ha introdotto una vera rivoluzione nella tradizione dei cantastorie: la voce femminile».
A mano a mano che Chinara e Macsaz continuano la loro esibizione e Mambetova Jazgul, la nostra guida, ci traduce il significato delle parole, ecco delinearsi nella nostra mente, tra le steppe, migliaia di soldati a cavallo che urlano per incutere timore all’avversario, ma anche per esorcizzare la propria paura. Poi gli scontri, cozzi cruenti e crudeli, come solo i duelli all’arma bianca e all’ultimo sangue possono essere. Uomini calpestati dagli zoccoli dei cavalli, zolle di terra sollevate che ricadono sui corpi dei caduti, clangori di lame che si incrociano, sibili di frecce…
Poi, improvvisamente, lo stornello cambia e con esso lo scenario. Il canto d’amore di Ailanash per il suo uomo che mai più toerà, si perde nell’immensità delle pianure, senza che nessuno riesca a raccoglierlo. I cavalli che pascolano tranquillamente sulle alture sembrano non accorgersi del dolore della fanciulla. Solo uno si avvicina e chiede alla ragazza di salirgli in groppa: è il destriero cavalcato dall’amato e solo lui potrà ricongiungere i due. Ailanash si ritrova a librare nel cielo, con i capelli al vento. Andrà a raggiungere l’amore e, come lui, si tramuterà in stella.

Per ore e ore, Chinara e Macsaz continuano a declamare versi accompagnandosi con il liuto. «Molte canzoni le abbiamo composte noi, ascoltando la sera i racconti degli anziani: storie di quotidianità che a molti passano inosservate, ma che in realtà rappresentano testimonianze di una tradizione che, prima o poi, sappiamo che scomparirà, soppiantata dai miti dell’agiatezza della città» afferma con voce pacata Chinara qualche sera dopo, mentre mangiamo nella yurta.
È fiera di cantare assieme a Macsaz Moldagauizv, attualmente il più giovane akyn, che sta imparando a memoria l’epopea di Manas. Dall’età di 7 anni, suo nonno, manaschi anche lui, gli ha insegnato passo per passo come cantilenare le strofe. Gli chiedo cosa significa essere manaschi e come si diventa. «Solo chi ha un albero genealogico puro kirghizo può sperare di diventare manaschi. Ma non basta: un manaschi deve saper amare il suo popolo e le tradizioni più di sé stesso e della propria famiglia. E ancora non basta: oltre a tutto questo, un manaschi deve essere cosciente che sta per diventare colui che tramanda il ricordo del più grande eroe dei kirghizi, quindi deve sentire su di sé tutto il peso di tale responsabilità. Quando un manaschi canta le gesta di Manas, diviene lui stesso Manas».
Poi indica il tunduk, l’intelaiatura tonda di legno rosso, peo centrale in cui si innestano le pertiche di sostegno laterali e attraverso cui defluisce il fumo del focolare domestico: «Senza tunduk non ci sarebbero yurte; senza Manas non ci sarebbero i kirghizi. Manas è il supporto del tunduk, della nostra casa, della nostra famiglia, delle nostre tradizioni».

L’ aria gelida della notte rende limpida la volta celeste. Le stelle sembrano cristalli luminosi lanciati dalla mano di un gigante, chissà, forse proprio da Manas…
Nel sacco a pelo, sento Macsaz intonare un’ultima melodia.
«Le truppe dei Kara Kyrgyz si unirono nella battaglia.
Nessuno dei guerrieri si ritirò.
Tutti si unirono alla battaglia.
I resti delle yurte formarono una montagna.
I corpi delle persone vennero accatastati
per formare montagne.
Uomo, tu dormi su quelle montagne».

Piergiorgio Pescali




DOSSIER KOSSOVOLa sfida continua

Incontro con padre Teodosio

La presenza di preti e suore a Pec e Decani, culle della civiltà serba e slava, trascende il significato religioso: è una lezione per tutti i popoli che vogliono resistere all’ingiustizia, all’odio, alla barbarie. Ma fino a quando durerà?

Un ricordo speciale meritano gli incontri avuti nell’antico patriarcato ortodosso di Pec e con padre Teodosio, vescovo ausiliare del Kosovo, nel monastero di Decani.
In questi due luoghi la sensazione di spiritualità è di una intensità che ammutolisce. Sono vere e proprie «culle» non solo della storia e cultura serba, ma due tesori e patrimoni dell’umanità. Sarebbe un crimine imperdonabile all’Occidente, se si permettesse la loro distruzione.
I 148 luoghi religiosi, tra chiese e monasteri ortodossi, attaccati o distrutti dal marzo 1999 a oggi, non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Dalle conversazioni avute con le anziane suore incontrate a Pec e dalle parole del padre di Decani ho raccolto amarezza e pessimismo circa il futuro di quei luoghi. Tutti danno quasi per scontato l’arrivo di altri assalti e violenze nei prossimi mesi e la condanna alla distruzione di questi due antichi luoghi sacri.
Pec e Decani sono importanti non solo per i credenti, ma hanno pure un forte significato di identità di un intero popolo: quello serbo in particolare e quello slavo in generale. La presenza di queste figure rimaste in questi luoghi, accanto al proprio popolo, condividendone le sofferenze e il destino, si traduce, in tante persone ivi incontrate (anche laici e non praticanti) in un forte sentimento di identità nazionale e di resistenza patriottica all’oppressione e ingiustizia.


Non è facile per noi occidentali, ormai così lontani da valori e sensazioni interiori, comprendere quanto sia importante la cultura nella vita e nel tessuto sociale del popolo slavo. Preti e monaci restano accanto al proprio popolo non solo per sostenee la fede religiosa; il loro ruolo ha un significato molto più vasto per la popolazione che vive nel contesto attuale del Kosovo.
«Lei ha detto che è venuto qui perché la ritiene un’azione per la giustizia e la verità – mi spiega padre Teodosio -. Ebbene, noi siamo qui, nelle nostre dimore, nella nostra terra, con il compito di resistere contro la sopraffazione, la violenza, l’odio, l’ingiustizia. Per impedire che quando toeranno, e presto toeranno, possano distruggere tutta la magnificenza e la storia millenaria che lei stesso ha visto e ha sentito nella visita al monastero.
Nella loro opera di distruzione, essi non lasceranno solo pietre e macerie, ma dovranno anche lasciare nella terra le nostre vite. Essa resterà seminata di sangue libero e giusto. Solo così non riuscirà loro di estirpare le radici della storia e dell’identità del nostro popolo serbo, che in queste terre ha la propria genesi, da oltre 800 anni, e che tanto ha dato e pagato in sofferenze per la libertà di tutte le popolazioni.
Solo in questo modo, un giorno il nostro popolo potrà ritornare e riprendere il suo posto nei propri focolari, nelle proprie case e nella propria terra. Se noi non resistiamo e scappiamo di fronte all’ingiustizia e alla violenza, non ci potrà più essere futuro per un intero popolo, perché nella cenere delle distruzioni, non ci sarebbero più neanche le nostre radici, la nostra identità, la nostra storia.
Si vive una volta sola. È vero, qui noi siamo dei prigionieri, ma restiamo uomini liberi, perché siamo nel giusto e quindi liberi dentro l’anima, come penso sia lei, che è venuto sino a qui per testimoniare attraverso la solidarietà, anche un atto di giustizia e verità, sfidando la violenza, la sopraffazione, l’oppressione.
Adesso siamo fratelli; le nostre strade sono comuni. Come ha potuto vedere, siamo soli, isolati; eppure da oggi siamo già meno soli di ieri, perché lei è venuto ed è qui con noi, circondato e minacciato insieme a noi. Grazie di essere venuto.
Vada in pace e serenità, questa gente non la dimenticherà mai più, e se può, torni presto, prima che sia troppo tardi, per poterci ancora vedere. Saremo qui fino all’ultimo per testimoniare la giustizia, la verità, la dignità, la libertà di esistere per ogni essere umano… e per la pace.
Arrivederci, perché so che toerà».


Il mattino della ripartenza, tra saluti, abbracci forti, stretti, caldi di una umanità vera, sincera… provo ancora dei brividi sulla pelle e dentro l’anima. Altrettanto commovente è l’immagine della gente che, nell’ora in cui si forma il convoglio settimanale, si mette sul bordo della strada e, senza rumori o clamori, aspetta in silenzio che il convoglio si muova: allora alza semplicemente la mano per salutare, non qualcuno in particolare, ma semplicemente chi parte, chi esce, chi va via.
In quei volti e quegli occhi di donne, uomini, ragazzi non ci sono nemmeno lacrime, c’è come un vuoto: il vuoto colmo di tutta l’ingiustizia subita, le menzogne e le falsità sentite, le difficoltà, il senso di solitudine, la stanchezza di vivere.
Chi parte prova la sensazione di lasciare qualcuno dietro di sé. Anzi, chi se ne va si sente peggio di chi resta, perché è come lasciare indietro amici, compagni, fratelli prigionieri, con radici e condivisioni comuni, frammenti di vita vissuti pienamente nei suoi aspetti più intensi, duri e profondi.
Ho sentito, quel mattino, di lasciare «lì dentro», in quella prigione a cielo aperto, una parte di me… pensando già a quando ritornare.


«Non è importante cosa o quanto lei ha portato. Per noi la cosa più bella e importante è che lei sia venuto, e che siamo qui, insieme» ho sentito ripetere in vari incontri.
Non sono righe intrise di retorica o tragicità. Le scrivo con fredda lucidità e massimo realismo, benché vengano dal profondo del mio essere. Ho ancora negli occhi e nel cuore i loro visi, parole, sguardi, dolore, il loro annichilimento e stanchezza di vita, ma anche l’instancabile ricerca della speranza, di un futuro vivibile, la loro grande dignità.
Queste esperienze restano scolpite nella mia coscienza e mi danno forza per restare al loro fianco e non lasciarli soli nella loro battaglia per la verità e giustizia calpestate.
Questa relazione di viaggio è stata faticosa, non tanto per le difficoltà materiali, ma per la fatica dell’anima, che in questi anni è stata messa sempre più a dura prova dalle realtà che incontro, conosco, condivido e dalle immense ombre di tristezza e stanchezza. Ombre che, come nebbia avvolgente, assediano pensieri, emozioni, speranze, fino a cambiare le sensazioni quotidiane. Ma la coscienza della lotta per la giustizia e la verità, è sempre più forte e lucida.
I versi del poeta partigiano crornato Ivan Goran Kovacic (1913-1943) sono più eloquenti delle mie parole:

«Di colpo il vento
mi portò dal villaggio
l’odore dell’incendio
e in quell’odore rivissi ogni ricordo:
le vendemmie e le nozze e le danze, le veglie, i funerali, i lamenti;
ciò che la vita semina
e la morte raccoglie.
Ma dove sono
le brevi giornie d’un tempo:
il riverbero dei vetri,
il nido della rondine,
lo stridere di una chiave
dentro la serratura,
un raggio di sole
che indora la porta di casa».

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSerbi del Kossovo, palestinesi d’Europa

Presente e futuro del Kosovo: aspetti politici

Dopo 5 anni di amministrazione Onu, la situazione economica è catastrofica, la pulizia etnica anti-serba continua, i kosovari albanesi parlano di indipendenza e «Grande Albania», con la prospettiva di una nuova guerra balcanica.
Intanto prosperano le mafie d’ogni tipo.

Dalla conoscenza della situazione sul campo emerge un dato di fatto: le divisioni intee alle comunità delle enclavi. All’opera di frammentazione e disgregazione di tali comunità non sono estranee le forze di occupazione: ciò rende loro tutto più semplice; ma tutto è più complicato per chi vuole resistere.
In una situazione di miseria e sfacelo totale dal punto di vista sociale, bastano poche centinaia di euro o banali facilitazioni e agevolazioni, per dividere e spaccare la gente.
Una delle cause che spacca in due le comunità delle enclavi, per esempio, è l’imposizione di rappresentanti indicati dalla Kfor: una parte rifiuta di riconoscere chi non è indicato o eletto direttamente dalla gente (vedi riquadro), altri accettano con rassegnazione per non indispettire gli occupanti e non aggravare ulteriormente la situazione di vita quotidiana.
Le comunità del Kosovo nutrono grande sfiducia anche verso i propri rappresentanti ufficiali presso l’Amministrazione temporanea del Kosovo, come i due Ivanovic (Milan e Ivan) e la stessa Rada Trajkovic, leaders del Consiglio nazionale serbo del Nord Kosovo. In ogni colloquio avuto, nessuno ha mostrato convincimento o adesione a queste figure. Si sente chiaramente l’assenza di una vera e riconosciuta leadership sul campo, che riesca a dare indicazioni e prospettive positive e costruttive, per far uscire il popolo serbo kosovaro da una situazione di annichilimento e totale sconfitta.
Ancora più profonde sono le distanze e l’estraniamento dai partiti politici di Belgrado, la dimostrazione si è avuta con il totale rifiuto a votare nelle elezioni dello scorso anno e nelle precedenti l’affluenza era stata la più bassa storicamente.
Un altro umore palpabile nelle enclavi è la profonda ostilità verso la comunità internazionale, ritenuta colpevole di tutto quanto è successo, più responsabile persino dell’estremista albanese. Questo, tra l’altro, nel 1998 era stato praticamente debellato, sia politicamente che militarmente: ma poi è stato assunto e diretto dalle centrali estere e la partita è stata capovolta, portando il Kosovo nell’abisso sociale e umano in cui è ora.
In ogni dove, qualsiasi persona con cui si parli, lavoratore o contadino, rappresentante di comunità o religioso, risuona lo stesso ritornello: «Siamo soli, ci hanno abbandonato tutti, si sono dimenticati di noi».
Non è una cantilena retorica né una piaggeria, ma una lettura della posta in gioco, fatta da uomini semplici, ma «coscienti e intelligenti» della propria situazione, legata ad eventi e dinamiche inteazionali da cui dipendono il presente e, soprattutto, il loro futuro.

I «Guardiani del Ponte»

La città di Mitrovica è in una situazione molto particolare e diversa, per molti aspetti, dal resto del Kosovo. Prima di tutto, qui si stanno concentrando migliaia di serbi molto determinati, che non vogliono abbandonare la propria terra e vivere da profughi lontani. Anche numericamente rappresentano una realtà non facile da addomesticare. In secondo luogo, la città ha alle spalle una zona ancora controllabile e sicura, che la unisce alla Serbia. Inoltre, la popolazione è molto unita e determinata a resistere fino in fondo ai futuri assalti che verranno.
Secondo l’Osce (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) e l’Unmik, la popolazione riconosce e ha nei «Guardiani del Ponte» una valida e radicata forza di autodifesa. Si tratta di un’associazione di volontariato civile costituita dopo i bombardamenti Nato del 1999, per proteggere la comunità della parte nord di Mitrovica e impedire le incursioni degli estremisti albanesi attraverso il ponte sul fiume Ibar che unisce le due parti della città.
Più volte la Kfor ha cercato di smantellare questa associazione. Ma, nonostante le indagini e tentativi di criminalizzarla, essa è circondata dalla totale solidarietà della popolazione, che la rende impenetrabile alle infiltrazioni di investigatori che vogliono scoprie le strutture intee e il funzionamento.
Alcuni suoi esponenti ufficiali, che si definiscono membri dell’«Associazione dei cittadini di San Dimitrije», hanno dichiarato che l’obiettivo è la protezione dagli attacchi degli estremisti albanesi contro la popolazione civile e l’assistenza umanitaria per i più poveri. Stime ufficiose dell’Osce e dell’Unmik, ritengono che i militanti a tempo pieno siano 400-500, con una capacità di mobilitazione rapida di 4-5000 persone.
Nell’incontro avuto con un esponente dei Guardiani del Ponte, è emersa con lucidità la lettura della situazione e delle prospettive future, insieme alla determinazione, per nulla emotiva, di lottare per la propria sopravvivenza come popolo. La loro coscienza politica (non in senso di partiti) e di identità nazionale indica in Mitrovica quella che sarà l’ultima trincea della resistenza del popolo serbo kosovaro, per impedire l’annientamento nel Kosovo pulito etnicamente.
La loro forza di mobilitazione ha portato al ponte migliaia di persone, notte e giorno, per protestare contro l’arroganza verso la popolazione civile da parte delle truppe Kfor, prima quelle americane, poi quelle tedesche. Dopo giorni di assedio, per non aggravare ulteriormente una situazione già ad altissima tensione, l’Unmik le ha sostituite con un contingente francese.
Altrettanto fondamentale è stata la mobilitazione dei «Guardiani» durante le violenze del marzo 2004, impedendo alle orde degli estremisti albanesi di assaltare la zona nord, in una vera e propria battaglia campale durata tre giorni lungo il fiume Ibar e attorno alla città.

Rischio effetto domino

L’indipendenza entro la metà del 2006 è ormai una scadenza «ufficiosa», neanche più nascosta. Se ne discute in istituzioni locali e inteazionali e tra la gente. A luglio dello scorso anno, lo pseudo-parlamento di Pristina ha votato alcuni emendamenti alla costituzione federale della provincia, tra cui il diritto a indire un referendum per l’indipendenza.
Il problema per tutti è come farla passare e accettare senza combattimenti e altro sangue. Un evento del genere potrebbe risvegliare forti sentimenti patriottici, di dignità e identità nazionali nella stessa Serbia; tali sentimenti potrebbero saldarsi a quelli della resistenza dei serbi kosovari, gettando benzina su una situazione che le forze inteazionali denunciano ad alto rischio conflittuale, capace di far precipitare i Balcani in una nuova spirale di guerra.
Così verrebbero stravolti tutti i disegni di pacificazione armata pianificati in questi anni di occupazione da parte della Nato e delle forze occidentali. Si riproporrebbe uno scenario di «instabilità regionale», autentico rompicapo per la «comunità internazionale». Non è in gioco solo il Kosovo, ma tutta l’area balcanica.
Tale avventura provocherebbe un effetto domino. A nord coinvolge la Serbia meridionale, dove recentemente è stato deciso di dispiegare ulteriori forze dell’esercito serbo, per il susseguirsi di atti provocatori del cosiddetto Esercito di liberazione del Presevo, Medvedja e Bujanovac. Questi «liberatori», oltre a chiedere apertamente la secessione di tali regioni dalla Serbia e l’unificazione col Kosovo albanese, sembrano essersi legati all’Armata nazionale albanese, che a sua volta mira alla costruzione della «Grande Albania».
Anche nella provincia del Sangiaccato, sono ormai migliaia i serbi e i rom che, sotto minacce e violente pressioni da parte degli estremisti albanesi, stanno lasciando la città di Novi Pazar e villaggi circostanti; qui, tra l’altro, dopo numerose e violente dimostrazioni degli estremisti, è stato concordato il ritiro dalla città dell’esercito serbo.
Ma «l’instabilità regionale» coinvolge anche la Macedonia: in molte aree del paese è ancora in vigore il coprifuoco e, da anni, la minoranza albanese cerca la secessione e l’unificazione con il Kosovo e l’Albania.
Un eventuale ribaltamento del «giocattolo Kosovo» potrebbe coinvolgere anche la Grecia, dove dall’anno scorso si è formato un partito della minoranza albanese che rivendica il nord del paese come territorio albanese e predica la separazione.
Non bisogna dimenticare la zona a sud del Montenegro, abitata in grande maggioranza da albanesi. Questi, l’anno scorso, hanno ottenuto una serie di agevolazioni giuridiche, economiche, doganali, linguistiche, evidente riscossione del sostegno dato dall’ex Uck a Djukanovic, attuale presidente montenegrino. Di fatto, per potersi affermare, il presidente ha stipulato patti non solo con la mafia pugliese (come risulta da incriminazioni e mandati di cattura emessi dalla procura di Bari), ma anche con la mafia albanese, indicata dalla Dea (Agenzia antidroga statunitense), come strumento operativo di controllo economico e militare dell’Uck.

Europa-USA: strategie diverse

È evidente che, sotto la cenere di quell’area, la posta in gioco è molto alta e va ben al di là dei diritti della comunità serba e non albanese della regione kosovara. Perciò i negoziati, che in questo 2005 dovrebbero definire lo «status finale» del protettorato Kosovo, contengono aspetti e implicazioni politiche estremamente delicate: esse riguardano i futuri assetti geostrategici di tutta la regione balcanica, cui sono coinvolti pienamente i rapporti tra l’Europa e il gendarme americano, insieme alle loro rispettive mire e interessi.
Per questo appaiono sempre più marcate le contraddizioni tra le strategie Usa da una parte e quelle di Germania e Francia dall’altra. Esse emergono sia negli aspetti politico-amministrativi della regione che nella sponsorizzazione di alleati locali privilegiati. Ma anche negli aspetti di investimenti economici e processi di ricostruzione mire e obbiettivi strategici appaiono diversi.
Non meno diversificati si rivelano gli approcci alla situazione e alle problematiche concrete dal punto di vista militare, come nel caso scoppiato a Mitrovica, nel marzo 2004: dopo giorni di violenza, le leali relazioni instauratesi con il contingente francese, hanno impedito alle forze fasciste albanesi di conquistare la parte nord della città, permettendo alla comunità serba di dispiegare le misure difensive e ricacciare al di là del fiume Ibar gli assalitori.
Il ruolo e le funzioni della Kfor e dell’Unmik, reggenti del «protettorato» Kosovo, sono chiari e precisi agli occhi di tutti: se da un lato sono la garanzia minima all’esistenza fisica delle enclavi, dall’altro rappresentano solo un processo di transizione all’indipendenza, prospettiva ormai pubblica e dichiarata di tutte le forze politiche albanesi kosovare.
In virtù di tale funzione, il rapporto con le comunità serbe e non albanesi è fondato sul concetto di pace armata: o queste accettano lo status quo, seppur illegittimo, o il ricatto di lasciare campo libero alle bande criminali e fasciste albanesi.
È chiaro che i rapporti di forza sul campo non sono solo a sfavore, ma proprio non esistono minimamente; e il fatto di restare a vivere nelle enclavi è una forma di resistenza civile a una situazione di fascismo e razzismo legittimati, in quanto tutto parte da una motivazione fondata sulla base etnica.
Finora la Kfor non ha permesso di distruggere definitivamente le ultime comunità serbe rimaste; ha impedito gli attacchi finali ai due monasteri di Pec e Decani, difendendoli più volte con le armi. Tuttavia, essa resta una forza straniera di occupazione e il «garante» de facto del processo di pulizia etnica perpetrata dal marzo ’99 ad oggi dalle bande criminali dell’Uck, per spianare la strada verso l’indipendenza.

Le risoluzioni del 99

In una situazione internazionale, dove i padroni del mondo stabiliscono, in base ai propri interessi, non solo ciò che è bene e ciò che è male, ma anche quali popoli devono vivere e quali devono morire, è terribilmente complesso trovare, oggi, una soluzione realistica e praticabile.
La popolazione serbo kosovara e non albanese chiede il ritorno dell’esercito e della polizia serbi. Ma è evidente che la Serbia di oggi, in ginocchio economicamente e socialmente, genuflessa ai dictat della Nato, non abbia la forza né la volontà di imporre tale ritorno. Il governo non va al di là di qualche dichiarazione di circostanza a uso elettorale e per mantenere la pace sociale; mentre le forze progressiste e patriottiche sono troppo deboli per farsi vettori di un progetto così grande.
L’obiettivo su cui dare battaglia politica può essere solo l’applicazione della Risoluzione 1244 dell’Onu del 1999, che sancisce la sovranità federale della Serbia Montenegro sulla regione, la presenza della polizia e dell’esercito serbo a garanzia e protezione della legalità costituzionale di tutte le etnie e il diritto al ritorno delle centinaia di migliaia di profughi di tutte le minoranze costrette a fuggire e profughe.
Oggettivamente questa è l’unica possibilità, in alternativa al piano di «cantonizzazione», opzione ormai apertamente sostenuta anche all’interno della «comunità internazionale», come definitivo seppellimento di ipotesi di sovranità e diritti nazionali: obiettivi validi ormai non solo per la Serbia e il Kosovo, ma per qualsiasi popolo o paese «renitente» o «resistente» all’ordine mondiale targato Usa.
Per quanto l’applicazione delle Risoluzioni Onu, data la situazione attuale, possa sembrare irreale, il problema Kosovo non riguarda solo la Serbia, ma deve richiamare la responsabilità di quella Comunità internazionale che lo ha causato. Le forze dei paesi occidentali, che si dicono impegnate nel difendere gli interessi dei popoli, dovrebbero almeno sostenere questa battaglia, come risarcimento morale e politico per non essere state capaci di impedire la guerra di aggressione e distruzione della Jugoslavia.

Geostrategia occidentale

Odio e terrore sono stati pianificati e programmati come parte fondante del progetto per la pulizia etnica del Kosovo, in vista della costruzione della Grande Albania, da parte delle forze terroriste e secessioniste anti-jugoslave dell’Uck. Ma le loro mire sono diventate funzionali ai piani geostrategici dell’Occidente e dell’imperialismo della Nato, nella sua marcia verso la Russia.
Molto semplicemente e banalmente, non poteva restare una Serbia non allineata e non asservita, nelle retrovie di una Europa orientale, ormai tutta occupata ed egemonizzata dalla Nato e dal Fondo monetario, fino ai confini russi, (escluse Bielorussia e Moldavia). Ciò spiega la presenza della base Usa di Bondsteel, la più grande dai tempi del Vietnam, su terreni confiscati con metodi brutali e per 99 anni.
Cosa ci fanno decine di migliaia di marines? Forse per timore di qualche migliaio di vecchi, donne e bambini delle enclavi, o per assistere «spiritualmente» gli albanesi kosovari che, tra le altre cose, si dichiarano musulmani e hanno costruito una moschea chiamata… Bin Laden? E Camp Goldsmith, l’altra base che stanno costruendo, è forse anch’essa per salvaguardare i diritti, democrazia, libertà?
È evidente a tutti che sono in gioco questioni strategiche, corridoi energetici, risorse, «investimenti», privatizzazioni selvagge e illegali, pezzi di industrie e miniere locali. Altro che genocidi, fosse comuni, diritti, democrazia, libertà.
Come ha scritto F. Battistini sul Corriere della Sera il 28-11-04: «Cinque anni dopo, sono ancora introvabili le fosse comuni denunciate all’epoca. Dal ’99 a oggi, l’Unione Europea ha già speso 2 miliardi e 877 milioni di euro, il più grande investimento mai fatto all’estero, senza contare il costo dei 18 mila soldati della missione Kfor-Nato, senza alcun risultato».
Queste non sono analisi, supposizioni o interpretazioni, ma realtà fatta anche di cifre, dati, atti e fatti documentati e scolpiti nella storia.
Per quei popoli, però, tale storia ha un prezzo di miseria, devastazione umana e sociale, umiliazioni e vessazioni che si protrarranno per generazioni, con una eredità di odio e violenze che non potranno essere placate con buoni propositi, scuse formali o intendimenti compassionevoli. Occorrerà che la «storia» renda giustizia per il popolo serbo e jugoslavo: anche se questo richiederanno altri prezzi da pagare.

Sotto il pugno di Dio

Stando così le cose, non so se esiste un avvenire per i serbi e le altre minoranze perseguitate nel Kosovo. È probabile che quelle decine di migliaia di bambini, donne, giovani che vivono ancora nelle poche enclavi rimaste, dovranno, nella stragrande maggioranza, lasciare le loro case, la terra e la stessa vita. Molti hanno dichiarato che resteranno per resistere e morire, perché è giusto così secondo loro. Rimane una sola alternativa: restare per morire nella propria terra, o abbandonare tutto e vivere da profughi.
A togliere ogni illusione si era aggiunta la nomina a primo ministro del governo di Pristina di Ramush Haradinaj, ex comandante dell’Uck, per il quale il Tribunale internazionale dell’Aja aveva pronto un mandato per crimini di guerra contro la popolazione serba. (L’8 marzo scorso il premier si è dimesso da primo minitro e attualmente è detenuto nelle carceri del Tribunale penale internazionale dell’Aja, ndr).
È un paradosso: il politico che doveva garantire la sicurezza e la vita dei serbi nel Kosovo è tra le figure di spicco dei crimini e della pulizia etnica perpetrati in quelle terre. Egli era comandante dell’unità denominata Cipat, operante nella zona di Decani: sotto il suo comando gli squadroni della morte hanno compiuto centinaia di crimini efferati.
Per l’esattezza, Haradinaj è accusato ufficialmente di aver assassinato direttamente 67 serbi e di avee ordinato l’uccisione di altri 267.
Tra i kosovari è noto anche come «pugno di dio» sia per le capacità pugilistiche che per le sue pratiche intimidatorie di spogliare e pestare a sangue serbi e nemici, attaccarli a dei pali e trascinarli per le strade soprattutto di Pristina.
Nel 2000 ha avuto un conflitto a fuoco con le truppe russe della Kfor, che gli impedirono di assaltare e bruciare le case di un enclave serbo. Dimessa poi l’uniforme, si presentava con cravatte e vestiti firmati dai migliori stilisti occidentali.
Capo dell’Alleanza per il Futuro del Kosovo, da lui fondata nel ’99, alle elezioni di ottobre 2004 ha preso l’8% dei voti, ma è divenuto primo ministro coalizzandosi con la Lega democratica del Kosovo, partito di I. Rugova, beniamino di politici e mass media occidentali, paladino della non violenza e dei diritti umani.
Una bella alleanza: un presunto gandhiano con un criminale assassino accertato, arrivato al potere, tra l’altro, dopo una faida sanguinosa tra i due partiti, con la morte di oltre 70 albanesi appartenenti ai due clan. Poi, grazie probabilmente all’interesse reciproco della spartizione del potere e suoi derivati, è scoppiata la pace e l’unità.
D’altronde l’anno scorso (31-7-04), in un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, l’ex premier kosovaro albanese ed ex compare di Rugova, B. Bukoshi, ha denunciato che il governo kosovaro si basa su strutture e pratiche mafiose ed è totalmente inquinato dalla criminalità. E ha portato una sfilza di dati: ministri che assumono 200 persone della propria famiglia in uffici pubblici; bandi e concorsi senza esami, ma con liste già precostituite di coloro che saranno assunti; riciclaggio di denaro sporco attraverso privatizzazioni ed espropriazioni di beni statali e privati serbi…
Questo è il Kosovo oggi, secondo i dati inteazionali.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVODomande (in attesa di risposte)

Sfido chiunque a dimostrare, dati e documentazioni alla mano, che uno solo dei diritti negati oggi ai serbi e alle minoranze non albanesi del Kosovo, fosse negato prima del marzo 1999 alle varie minoranze che vivevano lì da secoli.
Erano 14 quelle riconosciute prima. Oggi quante sono? Inoltre, non va dimenticato che anche alcune decine di migliaia di kosovari albanesi sono dovuti scappare in Serbia per non essere uccisi, perché considerati jugoslavisti.
Ha detto Dragan, un ex lavoratore della Zastava di Pec: «La democrazia dell’occidente, è una parola vuota, falsa, un linguaggio che non riusciamo a capire. La democrazia l’avevamo prima, perché ognuno aveva il proprio lavoro, la propria terra, le proprie tradizioni e feste, la propria religione e le proprie chiese, diritti e doveri sanciti per tutti. Oggi c’è solo distruzione, odio, violenza, terrore, criminalità. Ecco cosa ha portato qui la democrazia occidentale».

Dov’era il genocidio? Dove sono le fosse comuni, i massacri, gli stupri di massa, le persecuzioni, i diritti negati? Domande a cui, oggi, risponde solo il silenzio da parte di tutti coloro che si sentirono arruolati nella lotta del bene contro il male. Dove naturalmente il bene era la Nato, le bombe umanitarie, politici e mass media occidentali, persino grandi parti del movimento pacifista, che pur con qualche distinguo ritennero «necessario» fermare «demoni», violentatori, assassini… ovviamente rigorosamente serbi.
Oggi che la sbornia collettiva mass-mediatica è dimostrata, è sotto gli occhi di chiunque vuole capire, vuole pensare con la propria testa… dove sono quelle anime candide della politica e della disinformazione, che scrivevano e declamavano in televisione la loro indignazione contro le ingiustizie e la violenza?
Dove sono e cosa dicono o scrivono dei seguenti dati ben documentati: oltre 300 mila profughi di tutte le etnie, ma nella stragrande maggioranza serbi, scacciati dalla propria terra; più di 3 mila desaparecidos assassinati o rapiti, dal marzo ’99 a oggi, e ormai dati per uccisi dalle stesse forze inteazionali; centinaia di migliaia di case sono state bruciate e distrutte; 148 monasteri e luoghi di culto ortodosso, vere e proprie culle non solo della storia del popolo serbo, ma dell’intera umanità, sono stati attaccati o distrutti dalle forze terroristiche dell’Uck, il grande alleato dell’occidente.
Cosa scrivono e dicono di un popolo, quello serbo, obbligato a scappare dalle proprie case e dalla propria terra, per non morire; costretto a sopravvivere in un regime quotidiano di terrore e di apartheid, in campi di concentramento a cielo aperto, circondati e assediati? L’unica loro colpa è l’appartenenza etnica.
Quella regione che dicevano «liberata» è, oggi, indicata da tutti gli esperti investigativi inteazionali come il crocevia e lo snodo di tutti i traffici illegali, dalla droga alle armi, dalla prostituzione al traffico di organi.

Con questo dossier mi faccio «voce», come mi è stato richiesto, di un popolo senza più voce, né giornali, né televisioni, umiliato, vessato, violentato anche moralmente dalle falsità e menzogne della «disinformazione strategica» (annunciata e rivendicata come arma di guerra dallo stesso Pentagono).
Vorrei lanciare un appello-invito a giornalisti, operatori dei mass media, esponenti istituzionali o politici, onesti e liberi professionalmente, che ritengono ancora un dovere fare un’informazione corretta, indipendente, forse anche scomoda, sul campo. Intendo dare una disponibilità completa, organizzativa e logistica a chi voglia incontrare, intervistare, conoscere, domandare e informarsi, senza limiti o preclusioni di alcun tipo, per cercare attraverso documentazioni e testimonianze dirette la realtà storica dei fatti.
Faremo pervenire questo appello personalmente a un elenco di personalità del campo mediatico e informativo e attenderemo anche solo un riscontro e lo renderemo pubblico.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVOSe questa… è vita

Viaggio nelle enclavi del Kosovo

L’enclave di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, è un esempio della situazione dei serbi in Kosovo: senza servizio sanitario, senza lavoro, senza alcun diritto, mentre abbondano provocazioni e vessazioni di ogni genere.

Negli ultimi 6 anni ho seguito costantemente e da vicino le vicende della regione che gli albanesi chiamano Kosovo e i serbi Metohija. La realtà, constatata nel vivo della vita quotidiana sul posto, ha superato qualsiasi analisi, valutazione o cognizione di causa.
Le parole dette da un militare italiano, in una chiacchierata informale, possono dare un’idea della realtà delle enclavi: «Per un mese, dal mio arrivo sul posto, sono rimasto scioccato da cosa vedevo e conoscevo circa le enclavi e la vita in esse…». Parole di un militare, membro di truppe di occupazione straniera.

Viaggio sotto scorta

Sono stato in Kosovo dal 13 al 18 gennaio 2005. Insieme al sottoscritto, invitato dalla comunità dell’enclave di Gorazdevac, facevano parte della delegazione due sindacalisti della fabbrica automobilistica Zastava di Pec e le due responsabili dell’Ufficio adozioni inteazionali dello stesso sindacato.
Abbiamo portato contributi economici raccolti dal Progetto Sos Kosovo, lanciato nel dicembre scorso dall’Associazione Sos Yugoslavia, oltre a doni in dolciumi e vestiario con il contributo del sindacato stesso.
Il viaggio è stato possibile grazie alla scorta della Kfor, che ci ha permesso di andare a visitare e incontrare anche le realtà di Pec e Decani, oltre a Mitrovica, cittadina con la più alta concentrazione della comunità serba.
Il ruolo della scorta, soprattutto nella prima notte, ma anche al ritorno, se ne è andata un po’ per conto suo, lasciandoci spesso lontani e abbastanza indifesi ed esposti a eventuali violenze, se si esclude il soldatino del contingente rumeno, che saliva con noi sul furgone col suo mitragliatore, quasi più grande di lui.
Bisogna dire che l’unica funzione reale è quella di formale deterrente, dato lo spaventoso livello di odio e violenza che viene manifestato lungo le strade da ragazzini e non, al passaggio di macchine scortate, che hanno il significato della presenza di serbi o… amici dei serbi, che porterebbe allo stesso non piacevole risultato se si finisse in mezzo alla gente. Nella normalità accadono soltanto gestacci, minacce, sputi sui vetri o sassi volanti; altre volte, come il novembre scorso, lo stesso convoglio è stato attaccato con bottiglie molotov e, a dicembre, con una sassaiola: in entrambi i casi sono stati distrutti i bus e provocati numerosi feriti non gravi.
La scorta come spesso in questi 6 anni, non è riuscita a impedire nulla e nemmeno a identificare nessuno delle decine di assalitori albanesi. A detta della gente del posto, ogni volta che gli estremisti albanesi attaccano, la Kfor si defila o si allontana, per poi ricomparire quando gli avvenimenti prendono una piega incontrollabile.
A onore della verità, questo finora non è successo nella difesa dell’antico patriarcato di Pec e al monastero di Decani, dove ci è stato detto dell’impeccabile e finora decisivo compito difensivo svolto dal contingente italiano contro le orde criminali per evitae la distruzione.

Situazione sanitaria nelle enclavi

In quella di Gorazdevac, dove sopravvivono circa 760 persone, la sanità è una stanza adibita ad ambulatorio, con la presenza di una dottoressa del posto che vive all’interno dell’enclave. In altre enclavi viene portato un medico sotto scorta una o due volte la settimana per incontrare la gente.
Non vi sono strumenti né macchinari per fare esami. Mancano praticamente ogni tipo di medicine, salvo quando arrivano quelle donate. Nel nostro viaggio abbiamo portato tre scatole di medicinali; erano alcuni mesi che non ricevevano nulla. Ma le nostre medicine non erano specifiche, bensì frutto di una raccolta generica, forse di poca utilità.
In caso di malattia occorre fare una richiesta 72 ore prima alla Kfor (Forza militare di pace in Kosovo), per essere portati sotto scorta all’ospedale di Mitrovica Nord e ricevere cure o fare controlli ed esami. E questo per casi urgenti; per il resto si può aspettare anche mesi.
Ma, non essendoci farmaci specifici né interventi di pronto soccorso, in quei tre giorni di attesa si può anche morire: è successo a vari anziani con problemi cardiaci e a bambini bisognosi di ricovero immediato.
A ciò si aggiungono le drammatiche conseguenze dei «bombardamenti umanitari» con l’uranio impoverito: l’argomento è top secret; non si hanno dati, cifre o numeri. Ma è entrato normalmente nella vita della popolazione kosovara, albanesi e serbi, questa volta in modo unitario e paritario. Per «liberarli» li hanno investiti con centinaia di tonnellate di proiettili «arricchiti di uranio impoverito».
Dalle mappe del Dipartimento delle pubbliche informazioni dell’Onu risulta praticamente uranizzata l’intera area, in ogni suo angolo: l’inquinamento della terra e delle falde acquifere è praticamente ufficiale; tanto che l’uso dell’acqua dei rubinetti è sconsigliata anche solo per lavarsi i denti, figurarsi per dissetarsi o fare da mangiare.
Gli stessi soldati della Kfor hanno l’ordine di non bere acqua fuori dalle loro basi: all’interno viene usata esclusivamente acqua minerale.
Ma a chi non ha soldi per fare scorte di acqua minerale per tutti gli usi e a chi, come i prigionieri delle enclavi, può procurarsela solo periodicamente e in modiche quantità, quale destino gli spetta?
Intanto, si sa ufficiosamente che sia tra i neonati degli ultimi tempi, che nelle stesse nascite di animali, sono centinaia i casi di deformazioni e malattie, legate all’uranio impoverito.
Ha denunciato il padre francescano J. M. Benjamin: «Il 70% della regione del Kosovo e il 30% della Serbia sono contaminati. È scandaloso e riprovevole il comportamento dei mass media di tutto il mondo nei confronti dell’uranio impoverito… Ancora una volta gli organi di informazione si mostrano asserviti ai dettami del potere che, come d’abitudine, rende noto solo quanto conviene ai suoi scopi».

Lavoro e scuola nelle enclavi

L’unica possibilità di lavoro è offerta da piccoli appezzamenti di terra estei alle case, ma interni alla zona protetta. L’enclave, infatti, è formata da due zone. La prima è quella in cui vive la comunità, con le case non distrutte o incendiate, in un diametro vitale di circa 1 km: è la fascia più controllata e vigilata (vi è anche il campo militare della Kfor); da qui nessuno può entrare o uscire senza permesso.
La seconda è formata da campi e boscaglia che circondano il villaggio: anche questa si estende per circa un altro chilometro, con una seconda linea più estea di vigilanza della Kfor; ma è meno controllata e quindi più pericolosa.
In quest’area gli uomini vanno ogni giorno a lavorare un pezzo di terra, con il rischio, come più volte successo in questi anni, di rimanere vittime dei cecchini, di incursioni terroristiche improvvise o delle mine disseminate dall’Uck.
L’economia della comunità si basa esclusivamente su questi orti familiari e sull’allevamento di qualche animale per il sostentamento familiare. Altre entrate sono le pensioni degli anziani (50-60 euro), erorate dalla Serbia, e il sussidio mensile di disoccupazione (60 euro, che scadrà a settembre 2005) degli unici 17 ex lavoratori della Zastava di Pec, che dal marzo ’99 non possono più recarsi al loro posto di lavoro, colpevoli di essere serbi.
Nell’enclave vi è soltanto un piccolo bazar, rifornito periodicamente di prodotti su richiesta, e un bar, dove non vi sono neanche le sedie.
Nell’enclave di Gorazdevac, vi è solo la scuola elementare, con un centinaio di bambini, la presenza di alcuni maestri e un ottimo direttore. L’Unmik (Missione Onu per l’amministrazione ad interim del Kosovo) voleva sostituirlo con uno più «fiduciario» ai suoi interessi ed esigenze amministrative, ma la comunità si è opposta con forti proteste perché restasse nel suo incarico.
La vita dei bambini ruota tutta intorno alle ore passate nella scuola, dove tutto è vecchio e manca ogni cosa, dalla cancelleria alle attrezzature. Il resto delle loro giornate, da 6 anni a questa parte, è in casa o nelle strade sterrate del villaggio; essi non devono assolutamente andare in prossimità delle ultime case, per non rischiare di venire colpiti da eventuali cecchini.
Nell’agosto del 2003, un gruppo di ragazzi dell’enclave era andato a poche decine di metri per bagnarsi in un torrente, quando, dal bosco, fu bersagliato con raffiche di mitra: due ragazzi furono assassinati; altri quattro feriti, due dei quali sono invalidi permanenti.
I ragazzi delle enclavi che vogliono proseguire gli studi delle scuola superiore o l’università hanno una sola possibilità: recarsi nella cittadina di Mitrovica nord. Vi si recano all’inizio della settimana con l’autobus scortato dalla Kfor, dormono presso parenti o nella casa dello studente e rientrano al venerdì. Per gli studi universitari la cosa più semplice è dare solo gli esami senza frequentare.


In balia del razzismo etnico

A riguardo dei diritti c’è poco da dire: chi vive nelle enclavi è di fatto un prigioniero; soprattutto è un essere umano senza nessun tipo di diritti umani, civili o sociali.
In Kosovo, oggi, vige una situazione di apartheid. Chi non è di origini schipetare (albanesi) sopravvive in una sorta di limbo, fondato sul razzismo etnico: sono negati il diritto al lavoro, a essere curati, all’istruzione, alla spesa anche solo per il sostentamento alimentare della propria famiglia, alla libertà di movimento, al diritto del proprio credo religioso.
Persino la continua e provocatoria interruzione della foitura dell’acqua e dell’elettricità, sono usate per rendere impossibile l’uso dei frigoriferi (per affamare la gente, poiché le scorte alimentari marciscono), delle radio e tv, dei telefoni, unico filo virtuale di comunicazione col mondo reale, impedendo praticamente anche una allucinante normalità.
In compenso la Compagnia elettrica kosovara sta mandando a tutte le famiglie serbe ancora presenti le bollette con gli arretrati di tutti questi anni: bollette che arrivano anche a 1.000 euro.

Storie di ordinaria ingiustizia

In pochi giorni siamo stati subissati da centinaia di storie di vessazioni, come quella di un contadino bastonato a sangue, arrestato perché indicato da un albanese come un criminale, in prigione per tre anni, senza avvocati né alcun tipo d’interrogatorio, poi rilasciato e minacciato di morte affinché abbandonasse il Kosovo.
Un’altra storia riguarda una madre di 5 figli, aiutata dalla nostra Associazione. I banditi dell’Uck le hanno ucciso il marito e bruciato la casa. I resti dell’abitazione si trovano, ora, ai lati della base della Kfor, che le impedisce di tornare a viverci per motivi di sicurezza militare. Anche se diroccata, è l’unica cosa che le rimane e tornarvi è meglio che continuare a vivere in case di altri. Ha deciso di piantare una tenda dove c’era la casa e la Kfor dovrà cacciarla con la forza insieme ai suoi bambini.
Altre storie riguardano il comportamento della Kfor. Durante il capodanno degli albanesi, alcuni di loro erano andati verso l’enclave sparando raffiche di mitra e lanciando granate. La gente dell’enclave protestò presso la Kfor perché intervenisse per sequestrare le armi (visto che le enclavi erano state minuziosamente perquisite); ma i soldati, indispettiti, hanno intimato ai serbi di rientrare nelle case e di non insegnare a loro cosa dovevano fare. Durante il capodanno ortodosso, invece, i soldati accorsero e requisirono ai bambini serbi dell’enclave alcuni petardi con cui giocavano… perché disturbavano.
Oppure la storia di un anziano, padre di un giovane che è venuto in Italia in cerca di lavoro e ora è in regola con i documenti. Il figlio lo ha invitato in Italia per rivedersi dopo 5 anni e prima che il genitore muoia. Per andarci avrebbe bisogno del timbro del consolato italiano di Pristina; ma il vecchio non può uscire dall’enclave e andare a Pristina: essendo serbo lo possono ammazzare.
Ci vorrebbero giorni e mesi interi per raccontarle tutte; le storie riportate bastano per dare un’idea della situazione allucinante, da antico Far West, ma che accadono nel 2005.

Attenzione: cambiare la targa!

Prima di avventurarsi per le strade del Kosovo è di norma sostituire le targhe delle auto: una vettura con la vecchia matricola federale sarebbe subito attaccata; gli occupanti potrebbero finire ammazzati.
Lo abbiamo fatto anche noi, pur avendo la scorta armata della Kfor: cacciavite e copia taroccata di una targa kosovara e via, nel regno della democrazia e della civiltà portate dall’Occidente.
E tutto con buona pace di quei «primitivi e caveicoli» cittadini kosovari che, fino al 1999, a qualsiasi etnia autoctona del Kosovo Metohija appartenessero, potevano andare dove volevano e con chi volevano.
Sostituire la targa a seconda delle zone in cui ci si trova è reato in tutti i paesi della terra, come lo era in Kosovo 6 anni fa. Ma, paradossalmente, l’invito è quasi un ordine dato dalla Kfor, altrimenti i soldati non rispondono della vita di chi non lo fa. Anzi, ci sono zone dove si è autorizzati a girare senza targa… Viva il Kosovo «libero»!
A parte i bla bla bla occidentali su libertà e democrazia: è il diritto alla vita stessa che viene negato oggi in questa parte d’Europa. Chi cerca di perseguire anche uno solo di quei diritti ritenuti basilari per una minima convivenza umana in qualsiasi paese del pianeta, in Kosovo rischia di essere assassinato.
Vita quotidiana colma di terrore, angoscia, vessazioni materiali e morali, tensioni devastanti per la psiche dei bambini e degli adulti: questo è oggi la provincia del Kosovo Metohija; questo è il risultato dell’aggressione alla Repubblica federale jugoslava di 6 anni fa, con la «guerra umanitaria» e «bombardamenti etici», per portare in quella regione, dicevano, i «diritti» e impedire le violenze o, addirittura, i genocidi.

Enrico Vigna




DOSSIER KOSSOVO”Tradimento nell’anima – Introduzione

Cos’è un enclave? Un territorio, un villaggio, una ristretta area completamente chiusa, dove si sono rifugiati gli ultimi serbi e non-albanesi che, dopo i bombardamenti del 1999, non hanno accettato di essere cacciati dalla propria terra e scappare in Serbia o altrove. Sono alcune decine di migliaia. Dati ufficiosi parlano tra 80 e 100 mila i serbi e non albanesi rimasti, di cui la stragrande maggioranza di essi è concentrata a Mitrovica e nella sua provincia confinante con la Serbia.
Nelle enclave vivono barricati, circondati da mezzi militari della Kfor (Forza militare di pace in Kosovo, guidata dalla Nato) e spesso da filo spinato, in una condizione di prigionieri e assediati. Nessuno può uscire, se non sotto scorta militare in autobus collettivi e solo per emergenze, pena il rischio di venire ammazzati.
«Qui, chi non impazzisce non è normale» c’era scritto sul muro di una scuola dell’enclave serba di Gracanica… prima che fosse distrutto anche il muro.
Come era la vita… prima del 1999? Ce lo racconta un ex operaio della fabbrica Zastava, Milko. Sono frammenti di avvenimenti e verità, nascoste o falsificate per «formare» una opinione pubblica occidentale consenziente alla «necessità della guerra umanitaria».

«Il nostro vicino di casa era albanese. Per oltre 30 anni abbiamo vissuto da buoni vicini e amici, in tutte le vicende della vita quotidiana. Anche prima del ’99, quando gli estremisti albanesi facevano protestare per maggiori diritti e più autonomia, ogni loro famiglia era obbligata a partecipare in qualche modo alle manifestazioni, sotto le minacce dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) che a quei tempi era clandestino, ma commetteva numerose aggressioni e attacchi, soprattutto contro quegli albanesi che si mostravano indifferenti o distaccati di fronte a tali proteste.
Di fatto nessuno di loro poteva esimersi dal farle, altrimenti gli ammazzavano gli animali, bruciavano i campi o, peggio, attaccavano casa o persone, se sapevano che erano addirittura contrari. Così, per non incorrere in questo, anche i nostri vicini facevano scioperi della spesa o non mandavano a scuola i bambini, non pagavano le bollette e altre cose.
Ma l’accordo tra noi era che, in quei periodi, gli facevamo noi la spesa, badavamo ai campi o alle bestie, se bisognava portarle fuori, gli procuravamo medicine o altre piccole commissioni o fabbisogni giornalieri. Questo per dare l’idea di come era la vita di tutti i giorni; e ciò valeva anche tra le altre famiglie del villaggio. Amici e buoni vicini per 30 anni.

Con l’intensificarsi delle violenze e degli assalti, la mia famiglia fuggì profuga in Serbia, ma io rimasi, vivendo nei boschi intorno alla casa, sperando che non la bruciassero. Ma una sera aspettai il mio amico al suo ritorno dai campi, cercando il momento in cui nessuno ci potesse vedere, piché se si sapeva che un albanese parlava con un serbo, rischiava di essere ucciso dall’Uck. Avevo pensato di regalargli la mia mucca prima che venisse rubata dai terroristi.
Quella sera, lo chiamai, ma lui non mi salutò più; mi guardava come fossi un fantasma, uno sconosciuto. Il fratello, che era venuto dall’Albania, mi insultò e minacciò, urlandomi che avrebbero ammazzato tutti i serbi e che sarei dovuto andarmene via subito se non volevo morire. Ma non è stato tanto questo, lui non era un mio amico; è stato guardare negli occhi una persona con cui hai vissuto accanto per 30 anni ed essa faceva finta di non conoscermi. So che forse era per paura o terrore di essere considerato amico dei serbi, per paura di quelli dell’Uck, per salvare la propria famiglia, la propria casa, la terra… Ma in quel momento, quella sera, in quel sentirnero sulle nostre terre, sui nostri campi, che ogni sera percorrevamo insieme per tornare dalle nostre famiglie… quella sera ho pianto.
Ho compreso fino in fondo che nulla sarebbe più potuto tornare come prima, mai più. Non solo perché si stava vivendo una situazione spaventosa, non solo perché quello è stato il tradimento di 30 anni di amicizia, ma perché è stato un tradimento nell’anima. Eravamo sempre stati amici, i bambini cresciuti insieme, feste fatte insieme, aiuti reciproci e questo non lo si potrà più dimenticare.
Ma non si potrà più tornare come prima. Ci hanno traditi, forse per paura del terrore dell’Uck, forse per opportunismo, per prendersi le nostre case e terre, forse, forse, forse… Ma nulla e nessuno potrà cancellare cosa è successo e cosa ci hanno fatto. Noi non lo dimenticheremo mai e neanche i nostri figli».

Sono tornati i tempi drammaticamente descritti dal poeta serbo V. Petkovic Dis (1880-1917) all’inizio del Novecento:
«… I tempi neri della distruzione sono arrivati.
Sono gonfiati la feccia, il vizio, la malvagità.
Il marcio puzzo del declino si è levato.
Tutti gli eroi e i poeti sono morti.
Le tane, i covi e i canali sono scoperchiati,
i sotterranei sono elevati al sole del giorno.
Tutti subdoli, tutti maledetti, tutti piccoli…».

Enrico Vigna




SUDAN – Viaggio in un paese ex cristiano

LA CIVILTA’ NEL DESERTO

Alla scoperta di un pezzo di una grande nazione africana,
ricca di storia e risorse, ma ambita da molti.
E dove il cristianesimo è – ahimè – soltanto un lontano ricordo…

Sudan. Un paese che molti considerano pericoloso. Uno stato canaglia, è stato definito. Il più grande dell’Africa, otto volte più vasto dell’Italia e tra i meno densamente popolati: solo 7 abitanti per chilometro quadrato.
Ho potuto vedere solo una piccola regione, la Nubia, legata alla storia dell’antico Egitto. Rimpiango il cielo, i sorrisi, la dignità della gente e i colori. In Sudan ho visto povertà, una vita semplice ed essenziale, quella del deserto. Forse, quella che amo.

Verso la Nubia

Il primo giorno, a Khartoum, lo dedichiamo al pellegrinaggio sulla tomba del Mahdi, il carismatico condottiero che riuscì a liberare il paese dal dominio anglo-egiziano (per un breve periodo) tra il 1885 e il 1899. Attraversiamo il Nilo sul nuovo ponte costruito dai cinesi, sostiamo nel ricco mercato di Omdurman per fare provviste e cerchiamo, poi, il luogo dove sorge il mausoleo: una cupola argentea in un giardino ombroso. Resto in disparte, osservando i fedeli che sostano in preghiera.
Incontro così una famiglia di profughi dal Darfur, venuta a pregare per la guarigione del figlio, un bimbo febbricitante e smagrito. Solo il padre sa spiegarsi in inglese, mentre la mamma, avvolta in un sari rosso, il viso assorto e la pelle molto scura, tace. Mohammed mi racconta di essere arrivato sette anni fa e di essere tuttora ospite di parenti, perché non ha ancora trovato lavoro.
Rientrando nella capitale, sosto presso l’imponente cattedrale cattolica che non si può fotografare, al pari del palazzo del presidente. Qui incontro un anziano missionario comboniano che, dopo 50 anni di servizio ai poveri, ha deciso di rimanere nel paese. Il governo tollera la presenza di salesiani e comboniani per la loro preziosa opera sociale, per le scuole professionali e i licei, frequentati dai figli delle famiglie più influenti del paese.
In Sudan vi sono centinaia di etnie e moltissimi idiomi. Noi siamo diretti a nord, nella Nubia, dove la popolazione è stata influenzata dall’Egitto, ma anche dalla cultura greca, cristiana e romana e dai primi esploratori europei. Seguiamo il corso del Nilo, sostando nella cittadina di Shendi, un tempo famosa per l’artigianato.
Il tempio di Musawwarat è il più vasto del Sudan. Il clima doveva essere molto diverso, a quel tempo. Nel grande recinto si trovano, infatti, molte rappresentazioni di elefanti, oggetto di culto, e del dio leone Apedemak, rappresentativo della regalità dei sovrani di Nubia. Non lontano, visitiamo un tempio che già dal nome, Naga, ricorda i contatti con la cultura indiana. I rilievi sulle pareti di arenaria sono nitidi, molto belli. Si nota la coppia di sovrani che incontra Apedemak, rappresentato con più braccia con altre divinità: Iside, Amon e alcuni prigionieri dai lineamenti mediterranei e africani.
Davanti al tempio, una curiosa costruzione, sempre in arenaria lavorata in capitelli e archi, denuncia le influenze greco romane, mentre un tempio dedicato ad Amon si trova su una collina, preceduto da una serie di arieti: sepolti da secoli nella sabbia, sono stati recuperati dagli archeologhi tedeschi.
La sera, il vento cala e ci sistemiamo nelle tende, sotto il cielo stellato. La mattina è radiosa, il cielo finalmente limpido. Sono davanti a noi le colline dove svettano le piramidi di Meroe, la capitale del regno di Kush, famosa nel mondo commerciale greco e romano dal 500 a. C. al 350 d. C.
I sovrani, allora, venivano sepolti con ricchi tesori. Ci avviciniamo a piedi e notiamo i danni fatti nel 1834 dall’italiano Ferlini, un avventuriero che utilizzò manovalanza locale per cercare i giornielli delle regine, ora conservati a Monaco e Berlino.
La sera, il cuoco prepara le melanzane fritte, buonissime. Gli autisti riposano; solo Atif, l’egiziano, è intento a fumare il narghilé; originario di Luxor, è arrivato bambino con la famiglia e non ha alcuna intenzione di ritornare in Egitto. «Questo è un paese molto ricco, nel futuro ci sarà grande sviluppo e io voglio approfittae». Poco pratico del deserto, Atif ci creerà problemi con la sua vettura, una Toyota malandata che dovremo lasciare nel deserto, a 50 chilometri dalla nostra meta.

Tracce cristiane

Lasciamo il Nilo e ci inoltriamo nel deserto del Bayuda, seguendo una pista che ci riporterà sulle sue rive, presso la cittadina di Merowe. Rarissime sono le abitazioni e i segni di vita, limitati nei dintorni dei pozzi. Qui, assistiamo a scene bibliche. I greggi devono venire dissetati e l’asino è l’aiuto principale per tirare su l’acqua negli otri di pelle; per il trasporto ci sono anche i dromedari, che, in Sudan, sono snelli ed eleganti, color miele.
Tra insabbiamenti e rotture di balestre, quando raggiungiamo le sponde del Nilo è scesa la sera. La pista diventa difficile da percorrere, per via del limo accumulato durante le inondazioni. A Merowe ci aspettano le feluche e, durante la traversata, si tace, emozionati. Nel cielo stellato sta sorgendo la luna.
Karima è al centro di una zona archeologica importante e ci fermeremo per visitare i dintorni, le piramidi della necropoli di Nuri, della 25a dinastia, e le tombe di Kurru, con i sorprendenti affreschi in stile egizio.
Saliremo all’alba sul gebel Barkal, la montagna sacra, che domina l’abitato e da cui si ammira il Nilo con la fascia verde di coltivazioni. Verso ovest, il gruppo di piramidi più belle e misteriose della Nubia.
Old Dongola fu capitale di un regno cristiano per quasi mille anni. La si raggiunge facilmente da Karima attraverso il deserto, dove piantiamo le tende ai piedi di un’altura pietrosa. In lontananza, si vedono le cupole di fango di una necropoli islamica, dette qubbe. Una missione polacca ha iniziato a scavare nella zona sin dal ’64, riuscendo a portare alla luce splendidi resti di basiliche e monasteri, colonne di granito, capitelli decorati con croci.
Su di una collina, da cui si domina la valle del Nilo, sorge una costruzione massiccia: era un monastero e un’iscrizione attesta che, nel 1317, un re islamico la trasformò in moschea.
I nubiani, discendenti delle popolazioni della valle del Nilo a sud di Assuan, furono influenzati dalla cultura egizia e si convertirono al cristianesimo monofisita nel vi secolo. Solo 8 secoli dopo, i mamelucchi egiziani riuscirono a sottometterli, costringendoli a convertirsi all’islam. «La prima chiesa di Old Dongola fu costruita dal vescovo di Assuan nel vii secolo – mi racconta Stefan, accompagnandomi nel complesso di edifici che formavano il monastero.

Il Nilo

Sono arrivati i cinesi. Anche qui, come in tutti i paesi del mondo, si confermano come i più aggressivi e pronti a sfruttare ogni occasione buona. Siamo sulla via del ritorno, ma la quarta cataratta non la potremo vedere, perché stanno brillando le mine. Un altro mostro ecologico sta sorgendo lungo le rive del grande fiume, una diga che darà energia e sviluppo alle città, distruggendo l’ecosistema e creando un bacino artificiale che coprirà anche i resti delle antiche civiltà.
Il Sudan è molto ricco in risorse naturali: petrolio, oro e altri preziosi minerali; ma la più importante è forse proprio l’acqua del fiume. A Khartoum, il Nilo Bianco, arricchito delle acque di grandi affluenti, si unisce al Nilo Azzurro, che scende dall’altopiano etiopico. Poi il corso è interrotto da una serie di cataratte, difficili da superare con le imbarcazioni e le rive sono abitate da gente che conserva abitudini antiche e coltivano la stretta striscia di terra fertile. Solo a Khartoum è possibile attraversare il Nilo su uno dei due ponti, uno di epoca coloniale e l’ultimo, recente, costruito dai cinesi per smaltire il traffico aumentato negli ultimi anni.
Si parte da Karima che fa ancora buio, per raggiungere il luogo dell’imbarco. Qui incontro Ibrahim, un signore alto e magro che porta con eleganza il tipico turbante bianco e l’abito immacolato. «Ho studiato a Khartoum – mi dice in perfetto inglese – ho due mogli e sette figli. Alcuni vivono e studiano nella capitale. Nel mio villaggio, El Kurru, svolgo la funzione di imam (colui che guida la preghiera)».
Ibrahim è un rispettato commerciante di cammelli, che oggi si mette in viaggio per la regione occidentale del Kordofan, confinante con il Darfur, dove ha intenzione di acquistare un centinaio di capi che rivenderà in Egitto, ad Assuan. «Se riesco, spedirò gli animali su un camion, altrimenti ci vorranno 15 giorni di pista carovaniera per arrivare in Egitto». Mi sorprende quando vuole darmi il numero del suo cellulare: «Chiamami, se ti fermi a Khartoum».
L’ultimo giorno lo passerò a Khartoum. Come in tutte le capitali africane, qui si possono conoscere i vari aspetti del paese. Arrivando dal nord, abbiamo attraversato le periferie dove abitano migliaia di rifugiati in case di fango, basse, prive di acqua e servizi. I mercati sono estesissimi e ricchi di colore. Era l’ora di uscita delle scuole e le studentesse portano divise belle e colorate, sempre con il fazzoletto sul capo, pantaloni attillati e tuniche corte. Sono numerosi i colleges e le università a Khartoum e non ho avuto l’impressione che le donne siano discriminate.

L ascio Khartoum nella notte, con un volo della Lufthansa che trasporta pochissimi passeggeri, come al nostro arrivo. L’equipaggio non si ferma mai in Sudan, è salito al Cairo e ora vi ritorna, direttamente. Ho avuto l’impressione di lasciare un paese blindato, assediato da stranieri che vedono nelle ricchezze potenziali del paese un motivo per cercare di inserirsi e fare affari.
Arrivare in Sudan non è facile, per ottenere il visto ci vuole tempo e pazienza. Proibita la telecamera, non si può fotografare il palazzo presidenziale e altre strutture (come i ponti). Lo stesso accadeva anni fa in Iraq, durante una mia visita in cui, come qui, avevo apprezzato le doti di gentilezza, ospitalità e civiltà della popolazione. Spero che un domani questo paese non debba diventare bersaglio di una guerra «preventiva»: troppi sono gli interessi puntati su un territorio poco popolato e ricchissimo di materie prime.

Claudia Caramanti