COLOMBIA – Intervista: “Servire la comunità è servire se stessi”

Non è un indios nasa; eppure da oltre 20 anni serve la comunità indigena del nord del Cauca di cui, pur essendo un «bianco», ne è leader indiscusso: è Gilberto Muñoz Coronado, il primo alcalde (sindaco) di Toribío. Appartiene al Movimento civico, il partito indipendente che raccoglie i voti ed esprime la coscienza politica indigena.
Oggi, Gilberto è cornordinatore del Cecidic, il Centro educativo che raccoglie più di mille studenti, dal primo anno della scuola elementare fino all’università. Nel mese di settembre dell’anno passato è stato sequestrato nel Caguán da gueriglieri delle Farc, insieme all’attuale alcalde di Toribio e ad altre autorità indigene. Gli chiediamo una testimonianza su questa sua esperienza di prigionia.

Che cosa l’ha spinta ad andare tanto lontano, in una zona «ad alto rischio» come il Caguán, e che sentimenti ha provato durante la sua detenzione?
Ero stato invitato dalle nostre autorità indigene a partecipare a un processo di formazione della comunità di Altamira, una piccola riserva indigena, i cui abitanti sono tutti originari delle nostre zone, di Toribío e di San Francisco. Hanno mantenuto la cultura, parlano la lingua della gente di qui. Sono pochi, circa 260 persone, ma vivono in un territorio molto grande, per cui è facile smarrirsi e perdere unità. Il nostro compito era far loro sentire l’appoggio della comunità di origine e aiutarli a crescere in un processo comunitario.
Questo dà certamente fastidio alla guerriglia, che nella zona vuole essere l’unica signora e padrona. Il primo e intenso sentimento che ho provato è stato quello di essere tenuto prigioniero in un territorio in cui, istintivamente e da sempre, mi sento più libero: la natura, la campagna.

Era preoccupato prima di partire?
Mi preoccupava sapere che anche l’attuale alcalde fosse parte del nostro gruppo. La guerriglia vede i sindaci come parte della struttura statale e li tratta come nemici. Da parte mia c’era la consapevolezza di offrire un servizio. Ascoltando il padre Antonio Bonanomi e l’equipo misionero ho imparato che bisogna spendere bene la vita che abbiamo ricevuto. Se si può fare qualcosa per qualcuno che ne ha bisogno, non dobbiamo tirarci indietro; la nostra esistenza è troppo breve per viverla egoisticamente.
Nella selva sono stato riportato all’essenzialità della vita. Avevo da mangiare, sopravvivevo. Molte volte ci affanniamo per cose futili, quando a troppa gente manca l’essenziale per vivere.

Come sono stati i rapporti con i suoi sequestratori?
Quelli che si occupavano direttamente di noi erano ragazzi, alcuni avevano meno di 20 anni, l’età dei miei figli. A loro ho chiesto che cosa li aveva spinti a imbracciare un fucile; in questo senso c’è stato un po’ di dialogo fra noi.
Ho avuto modo di parlare anche con alcuni comandanti, cercando sempre di non esprimermi come singolo, ma come portavoce del processo di una comunità, facendo anche rilevare alcune delle loro contraddizioni più evidenti. Ho detto loro che, in fin dei conti, abbiamo un programma simile: lottare per la giustizia sociale; ma ci divide il metodo. Mentre essi si definiscono «esercito del popolo» (bella ironia), vogliono conseguire la giustizia maltrattando contadini e indigeni. Noi non accettiamo questo modo: il nostro programma ci impone di difendere la gente.
Quando mi liberarono dissi al comandante del reparto che ci aveva in custodia che non coltivavo nessun risentimento per quanto mi era successo.
Ho scoperto a mie spese una faccia della Colombia occulta, che non avevo mai conosciuto in maniera così diretta. La vita del guerrigliero è dura, vi sono persone che per anni vivono sotto una tenda, in balia di pericoli e intemperie. Posso anche rispettare chi si sceglie una vita di questo tipo e lotta con coerenza per quello che desidera. Però, bisogna lavorare non per distruggere, ma per creare coscienze, e queste si creano con il lavoro e l’impegno di tutti, non con la coercizione e la violenza. Questa è una verità che vale per tutti gli attori del conflitto armato.

Cosa ha imparato da ciò che le è accaduto?
Il lato positivo è stato far emergere un sentimento straordinario da parte della gente; ci siamo sentiti appoggiati a livello nazionale e internazionale, da persone che ci hanno teso la mano non solo perché, «poverini», eravamo in una situazione difficile, ma anche perché hanno toccato con mano la bontà del progetto che rappresentavamo. Per non parlare della gente di qui, della nostra comunità. C’è un senso di unità, di appartenenza nella comunità indigena che non si riscontra in altre realtà. Penso alle guardie indigene che sono venute a reclamare la nostra liberazione, armate solo della loro chonta, il bastone del comando; non hanno guardato le ore di lavoro che perdevano o i rischi che correvano per arrivare fino a dove eravamo e tirarci fuori di lì.
L’insegnamento è che bisogna continuare, rendendosi conto, però, che quanto si è ottenuto è frutto del lavoro di tutti e che chi impara a servire l’altro finisce con il servire se stesso.

Ugo Pozzoli




COLOMBIA – Lungo è il cammino (2)

Il progetto di vita della comunità nasa della Colombia nasce dalle radici di una storia secolare. Oggi è un segno di alternativa in mezzo al conflitto.

Ezequiel Vitonas ha gli occhi neri e lo sguardo profondo. Dietro ai baffi, si apre un viso largo, un po’ sognatore, marcato dalle fatiche di una vita non facile, spesa in buona parte a guidare verso il futuro la sua gente. Come il profeta visionario dell’antico testamento di cui porta il nome, Ezequiel si affanna da anni a coniugare il vecchio e il nuovo, ricercando i valori tradizionali che hanno alimentato spiritualmente la vita della comunità e adattandoli ad un mondo che cambia a velocità supersonica. Come rispondere all’avanzare inarrestabile della globalizzazione e della modeità?
Quest’uomo poco più che cinquantenne, ex sindaco di Toribío, oggi consigliere maggiore dell’associazione dei cabildos indigeni del nord del Cauca (Acin), è stato, di fatto, il «ministro degli esteri» del progetto nasa. Ma, pur avendo viaggiato in Europa, Nord America e Asia al fine di promuovere la causa indigena, Ezequiel ha sempre dedicato molto tempo alla formazione della comunità, partecipando a un’infinità di piccoli seminari e grandi assemblee per informare e orientare la gente in merito al processo organizzativo indigeno.
È stato proprio in occasione di uno di questi piccoli incontri in cui, per la prima volta, sono entrato in contatto con l’organizzazione della comunità che mi apprestavo a servire come membro dell’équipe missionaria del Cauca. Il tema trattava del «progetto di vita», la miglior finestra per poter entrare e sbirciare all’interno di un mondo differente, che affonda le sue radici nella storia ancestrale e nel mito.

Un progetto di vita

Il progetto di vita comunitario è lo strumento orientativo che, raccogliendo l’esperienza del passato, analizza la situazione congiunturale, ne raccoglie l’impatto che essa ha sulla comunità e ne orienta la proiezione futura. Il progetto di vita non è un piano di sviluppo, ma ne rappresenta lo spirito: uno spirito in grado di influenzare le decisioni di ordine politico e socio-economico, secondo criteri che mirano al benessere di tutta la comunità.
Sebbene la leadership di alcuni membri più preparati della comunità sia un fatto indiscusso e accettato, il progetto di vita vuole anche essere uno strumento politico alternativo. Il progetto comune stimola infatti a un coinvolgimento popolare reale in opposizione alla «politiqueria» clientelare dei partiti tradizionali o alla demagogia di altri movimenti, in cui si spacciano per comunitarie decisioni prese da un pugno di leader animati il più delle volte da interessi personali o di clan. In questo senso il processo indigeno del nord del Cauca presenta elementi sorprendenti che vale la pena analizzare visto e considerato che fatti recenti lo hanno portato prepotentemente alla ribalta davanti all’opinione pubblica colombiana e internazionale.
Vi sono due modi di raccontare chi sono i nasa, da dove vengono e come vivono: il metodo storiografico, che si basa sull’analisi scientifica dei documenti, e la visione del mondo tradizionale, piena di immagini mitiche, che interpretano in modo narrativo gli aspetti e i fatti più salienti della realtà. Questi due modi di «fare storia» sono complementari e raccontano entrambi, seppur in forma diversa, l’epopea di un popolo che sin dalle sue origini ha saputo sopravvivere resistendo, inizialmente al potere coloniale spagnolo e successivamente alle mire espansionistiche del governo colombiano che, dopo la rivoluzione bolivariana, conquistò il potere ai danni della corona di Spagna.
Nel progetto di vita la storia nasa viene rilette perché non sia solo parte del patrimonio culturale, ma anche fonte di ispirazione per le scelte presenti. Personaggi reali, come la cacicca Gaitana, Juan Tama, Manuel Quintín Lame, rivivono attraverso le narrazioni storica e mitica delle loro gesta, ispirando e rafforzando la comunità nasa nelle lotte di oggi.
Questa presa di coscienza della propria identità sta aiutando la gente a vincere l’attitudine un po’ passiva, di sottomissione all’autorità costituita, che caratterizza l’indio andino, facendo sì che il singolo possa sentire come suo il benessere della collettività, assumendo in prima persona i costi della resistenza e del conflitto. Grazie a tale presa di coscienza, il movimento indigeno ha potuto passare da una strategia di difesa e sopravvivenza a una strategia di proposta e alternativa.
Non è stato un cammino semplice quello che ha condotto gli indigeni del Cauca a lottare per il recupero della terra, della cultura, dell’identità e dell’autonomia e a creare un’organizzazione che, a livello locale, nazionale e internazionale potesse dare forza, continuità e visibilità alla loro azione.
Molto è stato il sangue versato in questo processo, frutto di fortissime pressione estee a livello ideologico, politico ed economico, nonché, talvolta, di contraddizioni intee alla comunità stessa, imputabili alla fragilità di singoli o gruppi.
La gente, a ogni buon conto, è andata avanti; morto un leader immediatamente se ne incontrava il sostituto capace di continuare a seguire il programma del suo predecessore. Il processo organizzativo, animato da un progetto di vita ispiratore, ha saputo far fronte alle tante difficoltà, così come si spera saprà reggere l’urto delle minacce che affliggono oggi la comunità.

Un altro mondo è possibile

Negli ultimi anni e a prezzo di grandi sforzi e sacrifici, i nasa hanno saputo recuperare le proprie terre occupate ingiustamente da potenti terratenientes (latifondisti) e farsi riconoscere una certa autonomia da parte dello stato colombiano (con diritti garantiti dalla nuova costituzione del 1991).
Questi indiscutibili successi non hanno però significato la fine della lotta che continua aspra sia sul fronte interno che su quello esterno alla comunità. L’impatto della modeità con il relativo stravolgimento dei valori tradizionali crea confusione e contraddizioni nella gente, colpendo strutture come quella familiare, che rappresentano l’ossatura comunitaria. Nuovi modelli di vita turbano il tessuto della società tradizionale, creando conflitti generazionali, stratificazione sociale e, nel singolo, una situazione di smarrimento, che genera dubbi e scoramento, soprattutto nei più giovani.
Purtroppo questa situazione di cambio epocale avviene nel contesto di un conflitto armato che da più di 40 anni provoca una situazione di insicurezza e non permette alla comunità di compiere liberamente le sue scelte. Forze governative (esercito e polizia) si scontrano con i guerriglieri delle Farc, in una guerra che è soprattutto una lotta per il possesso del territorio indigeno e che miete molte vittime fra la popolazione civile.
Il controllo delle ricchezze naturali (iniziando dai bacini idrici per finire ai minerali preziosi), nonché del flusso enorme di denaro che proviene dalle coltivazioni illecite (coca e papavero da oppio) sembrano essere tra le vere cause di una guerra che si maschera dietro nomi di facciata come «politica di sicurezza democratica», «lotta al terrorismo», o «insurrezione popolare».
Inoltre, il Trattato di libero commercio (Tlc) che gli Stati Uniti vogliono imporre a vari paesi latinoamericani, fra cui la Colombia, non ammette l’esistenza di sacche di territorio nazionale autonome, che vogliano rimanere al di fuori della logica di mercato capitalista. Di qui la necessità da parte dei belligeranti di assumere un controllo globale della zona, a prezzo dei diritti inalienabili di chi la abita.
Di fronte alla violenza e all’aggressione operate da entrambi gli attori armati, il movimento indigeno ha scelto di rappresentare una terza via che non vuole essere una pilatesca fuga dal conflitto, ma una vera e propria alternativa.
Alteativa è la parola che marca e definisce il processo indigeno contemporaneo: essa nasce dalla consapevolezza che un altro mondo è possibile, non più prigioniero delle logiche di mercato, che il neoliberismo sfrenato del presidente Uribe Velez cerca di imporre a tutto il paese e a tutto vantaggio delle classi più abbienti; ma un mondo più rispettoso delle diversità culturali, del diritto di un popolo al territorio e a crescere e svilupparsi secondo criteri e modelli culturali propri e non imposti dall’esterno.
Di fronte alla guerra gli indigeni hanno scelto di affermare la sovranità sul proprio territorio, mantenendo una posizione di equidistanza pacifica dalle parti in conflitto. La loro sicurezza è affidata alla guardia indigena, migliaia di giovani e adulti che, armati di un solo bastone, si pongono come scudo umano fra i belligeranti, a difesa del territorio e della sua popolazione.
Questa scelta ha avuto vasti echi a livello nazionale e internazionale e d è valso alla guardia indigena del nord del Cauca il conferimento del premio nazionale per la pace 2004, premio che quattro anni prima era stato conferito al progetto nasa.
Alteativa, infine, è stata la parola d’ordine della grande mobilitazione indigena nel mese di settembre 2004, con una marcia di tre giorni dalla cittadina di Santander de Quilichao a Cali, capitale del dipartimento del Valle del Cauca (circa 70 chilometri).
Organizzata in collaborazione con altre forze democratiche, questa mobilitazione ha dato voce a 65 mila persone che hanno voluto gridare, in modo totalmente pacifico, il loro disappunto. I temi della protesta erano: la denuncia della continua violazione dei diritti umani da parte di tutte le forze belligeranti e la condanna delle manovre politiche per cambiare le norme costituzionali che garantiscono alle minoranze i loro diritti.
È stato anche espresso il dissenso in merito agli accordi inteazionali, come il trattato di libero commercio e l’Area di libero commercio delle Americhe (Alca), che tendono a privatizzare il paese, convertendone le risorse in elementi della macchina produttiva gestita dalle multinazionali.
Nonostante i premi nazionali e inteazionali, che hanno dato al movimento indigeno visibilità e una certa garanzia di sicurezza, gli attacchi, anche violenti, non sono mancati. Proprio in contemporanea con la grande marcia di mobilitazione, il responsabile del settore saitario del Consiglio regionale degli indigeni del Cauca (Cric), Alcibiades Escue, è stato arrestato per ordine della magistratura con la falsa accusa di avere stornato fondi del suo dipartimento per pagare tangenti ai paramilitari. Nel mese di settembre del 2004, quattro leader della comunità, tra cui il sindaco di Toribío e l’ex sindaco e attuale cornordinatore del collegio Cecidic di Toribío (vedi riquadro), sono stati arrestati e sequestrati da guerriglieri delle Farc nel territorio del Caguán, nel dipartimento del Caquetá, dove si erano recati per formare al processo indigeno le comunità nasa emigrate in quella zona.
In entrambi gli eventi si sono attivati canali diplomatici che hanno coinvolto organizzazioni nazionali e inteazionali quali Onu, Unesco, movimenti di difesa dei diritti umani e, nel secondo caso, la stessa chiesa cattolica. Questo sforzo comune ha portato alla liberazione dei prigionieri.
Straordinaria è stata la partecipazione della comunità. Pullman zeppi di autorità e guardie indigene si sono recati a Bogotá per reclamare la scarcerazione del loro leader. Con un gesto che ha commosso la nazione, più di 300 guardie indigene hanno fatto 20 ore di bus e svariate ore di marcia in un territorio sconosciuto per andare a reclamare alla guerriglia l’immediata liberazione dei loro compagni.
Sono segni che fanno ben sperare in vista di un futuro, che si presenta molto incerto, e dimostrano la vitalità di un progetto di vita in grado di coinvolgere la gente al di là degli interessi personali. Ciò che sottostà a tale progetto è il sogno di poter essere una nazione libera, autonoma e identificata con la propria storia e cultura, in uno stato colombiano che sia veramente «una grande casa di popoli», data la sua grande varietà etnica. (cfr Costituzione politica della Repubblica colombiana, art. 7).
La sfida che attende ora il movimento indigeno è molto grande. Si tratta di fare una proposta alternativa concreta insieme a tutte le forze democratiche, sociali e non armate del paese, per poter dare al messaggio un’eco ben più forte di quanto è stato finora possibile. È un compito che non può aspettare.
Le lotte per la vita, la biodiversità, il rispetto dell’identità e della libertà sono necessità da cui dipendono in parte la stessa sopravvivenza della realtà indigena e delle altre minoranze. Il movimento deve mantenersi forte e chiaro di fronte alle ingerenze del governo colombiano e della guerriglia nei suoi affari.
Il presidente Uribe, che in questi giorni cerca affannosamente di confermare il suo mandato per ulteriori quattro anni, avrebbe buon gioco a rendersi amico questo movimento così attivo, addomesticandolo ai suoi progetti. La guerriglia stessa ambirebbe ad avere gli indigeni come alleati, invece che ritrovarseli come oppositori dei loro piani.
Ma ci sono strategie che gli indigeni rigettano completamente, individuando nel trattato di libero commercio e nella politica di «sicurezza democratica» i peggiori rischi a danno della comunità, visto che ne minacciano il territorio e la coinvolgono in una guerra che non le appartiene.
La proposta indigena va, invece, nella direzione di un contributo al miglioramento sociale del paese, a beneficio di tutti. È infatti una grande contraddizione che in una nazione ricca di risorse, com’è la Colombia, 20 milioni di persone, su 44 milioni di abitanti, vivano in situazione di povertà, e altri 9 milioni sopravvivano in stato di miseria estrema.
La scelta dei partners con cui relazionarsi e di chi dovrà poi, di fatto, assumersi la guida di questa grande coalizione democratica è uno dei nodi che si dovranno sciogliere al più presto. L’aprirsi ad altre realtà presenta sempre incognite e rischi e può anche provocare contraddizioni intee, che vanno superate prontamente.
A questo riguardo il lavoro capillare all’interno della comunità rimane fondamentale affinché le scelte e le motivazioni del movimento si arricchiscano della partecipazione e dei contributi di quante più persone possibile.
Lo sforzo di Ezequiel e dei tanti che come lui sognano un mondo veramente differente lascia ben sperare che ciò sia realizzabile.

BOX 1
Il progetto Nasa

Il progetto Nasa nasce nel 1980, su ispirazione del padre Alvaro Ulcué Chocué, come un’iniziativa delle comunità indigene di Toribio, Tacueyo e San Francisco. I cinque programmi iniziali – produzione, famiglia, educazione, salute ed evangelizzazione – erano diretti al rafforzamento delle dimensioni spirituale, sociale, politica, economica e culturale della gente. Dopo la morte del padre Alvaro alcuni membri delle tre comunità, sostenuti dall’ equipo misionero guidato dai missionari della Consolata, recuperano idee e progetti del suo fondatore, facendone rivivere il sogno e conseguendone gli obbiettivi che si era prefisso. Oggi, dopo venticinque anni esatti di storia, il progetto nasa è ormai una realtà visibile e consolidata del movimento indigeno colombiano. I suoi programmi nel campo della produzione, etno-educazione, salute, nonché il suo impegno per la difesa, la conservazione e la pace nel territorio gli sono valsi pubblico riconoscimento a livello nazionale ed internazionale. Nel mese di febbraio del 2004, a Kuala Lampur (Malesia), il progetto Nasa ha vinto il «premio equatoriale», conferito dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo (Pnud). I giurati hanno riconosciuto nel piano di sviluppo indigeno lo sforzo di combinare la lotta contro la povertà con il rispetto delle risorse naturali.


Ugo Pozzoli




LETTERE – Chi ascolta gli adolescenti?

Cari missionari,
nel vostro interessante «dossier giovani» di gennaio 2005 ho notato con piacere che accennate al contesto, troppo spesso sciocco e deleterio, nel quale vivono gli adolescenti. Chi ascolta però gli adolescenti quando fanno denunce appropriate? Ecco la nostra piccola storia emblematica.
La minuscola «oasi Bakhita», presso la parrocchia San Martino di Rivoli (Torino) è luogo d’incontro e formazione per adolescenti (12-19 anni), alcuni dopo-cresima altri in preparazione alla cresima (fuori corso), tutti impegnati nel «Comitato un cuore per San Rocco», con l’obiettivo di aiutare il parroco nell’informare, documentare e organizzare azioni di raccolta fondi per il restauro della chiesa di San Rocco in Rivoli, costruita nel 1630 dai rivolesi, come ex-voto per la scampata peste.
Per trasformare la chiesa in concreto simbolo di pace abbiamo organizzato con i ragazzi rosari per la pace, leggendo i messaggi di Giovanni Paolo ii e presentando alcune guerre dimenticate (Missioni Consolata ci è stata utile). Nell’oasi Bakhita sono esposti i versi di Dante: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza».
Al rientro dalle vacanze, i ragazzi hanno segnalato, molto sdegnati, che nel centro storico di Rivoli, all’uscita di un oratorio e non lontano dalla chiesa di San Rocco era stato aperto un sexy-shop. Ne abbiamo discusso e scritto l’allegata poesia, appesa dal parroco alla porta della chiesa e inviata al cardinale di Torino che ci ha risposto, facendo felici i ragazzi.
Purtroppo però il negozio è ancora lì. Quanti genitori, insegnanti, educatori, amministratori pubblici diventano per apatia complici del male, scordando il monito evangelico: «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perdere anima e corpo nella Geenna!» (Mt.10,28).
Silvana Bottignole
sociologa

Siamo un gruppo di teenagers (12-19 anni) di Rivoli, molto dispiaciuti che nel centro storico di Rivoli sia stato aperto un «sexy-shop». Con l’aiuto della nostra educatrice abbiamo scritto questa poesia, che sarà certamente apprezzata da tanti nostri coetanei e da tutte le persone di buona volontà che vogliono bene a Rivoli.

L’apertura di un sexy-shop
nel centro storico di Rivoli
è AZIONE DI GUERRA.
GUERRA contro la CULTURA
perché innesca il degrado.
GUERRA contro i BAMBINI
perché uccide l’innocenza.
GUERRA contro le DONNE
perché ne mortifica la dignità
GUERRA contro tutti gli UOMINI
perché svilisce l’intelligenza ed il cuore.
Il filosofo laico Compte-Sponville ha scritto:
«Tollerare è sopportare un peso:
farlo sopportare agli altri non è più tolleranza.
Tollerare Hitler era farsi suo complice,
quantomeno per omissione, per abbandono;
e questa tolleranza era già collaborazionismo».
Denunciamo chi «uccide l’anima»
con un’azione di GUERRA
nel centro della piccola e signorile RIVOLI.

Un gruppo di giovanissimi
di Rivoli (TO)

Carissimi,
ho ricevuto la vostra lettera con acclusa la poesia… Sono perfettamente in sintonia con voi e mi rammarico che nella nostra società si sviluppi questo tipo di proposte e di pubblicità, proponendo realtà che avviliscono la dignità delle persone, sia adulte che giovani.
Sono pertanto vicino a voi nel condannare questa situazione, anche se non so come, dal punto di vista della legge, sia possibile frenare queste cose. Il nostro dovrà essere soprattutto un impegno per l’educazione della sensibilità delle persone a riguardo di una situazione delicata e veramente avvilente.
Ogni vostra iniziativa, nel rispetto e nel dialogo, finalizzata a far sì che queste realtà non dilaghino, non è che da benedire e da incoraggiare.
Vi assicuro del mio ricordo nella preghiera e vi saluto con una cordialissima benedizione per voi e le vostre famiglie.
Card. Severino Poletto
arcivescovo di Torino

Silvna Bottignole e aa.vv.




LETTERE – Abbracci da Sevilla

Carissimi tutti,
grazie mille per la vostra stupenda rivista che tanto mi aiuta a capire meglio i problemi dell’umanità e ad assumermi la parte di responsabilità che mi spetta. Grazie alla quasi totale comprensione della lingua italiana, posso gustare, mese dopo mese, gli stupendi articoli e il loro contenuto. Sono inoltre felice di potere, a volte, incontrare qualche ex-compagno di noviziato, trascorso alla Certosa di Pesio nel 1969-70, sotto la guida di padre Giuseppe Mina, recentemente scomparso.
Abbracci a tutti da Sevilla, da un ex allievo che per 8 anni ha vissuto la meravigliosa esperienza di essere membro dell’Istituto, ma che il Signore ha incamminato su un’altra strada; ma continuo a collaborare con la vostra casa di Madrid.

Carmona




LETTERE – Ancora tanta gioia dalle adozioni

Carissimo direttore,
non ho mai scritto alla «nostra» rivista, lo faccio adesso per rilanciare quanto affermato dal sig. Manlio Mazza di Torino (marzo 2005, p. 6). L’adozione «a distanza» resta, a mio parere, un atto sublime di sensibilità e generosità: si aiuta un bambino a crescere, studiare, entrare nel mondo del lavoro nella propria terra, senza sradicarlo, accontentandoci di saperlo felice.
A tutti i lettori auguro di provare la stessa gioia del sig. Mazza, che alcuni tuoi «vecchi compagni» vivono già da tempo. Non esitate, dunque, abbiamo la fortuna che il nostro piccolo aiuto può essere gestito direttamente dai nostri missionari, con la certezza che ogni euro arriva integro dove c’è bisogno.
Ciao, Checco, e buon lavoro! Dalle pagine della nostra rivista bombarda i lettori su questo argomento, perché i bambini sono la ricchezza di tutti, non solo di chi li ha messi al mondo. Salutami tutti i «vecchi», per i quali nutro infinita riconoscenza, per il tanto che mi hanno dato e per il poco che hanno ricevuto.

Il «nostro» lettore è stato compagno di padre «Checco» Beardi fino al ginnasio. Grazie per sentirsi membro della «nostra» famiglia missionaria. Da parte nostra continueremo nel bombardamento di… pace.

Francesco Basta




LETTERE – “Avrei tante cose da dire…”

Gentile Angela Lano,
premetto che sono un volontario, praticante e anche ausiliario della Sindone (questo per ovvi motivi, dato che non sono d’accordo col suo articolo di marzo 2005 pag. 28).
Non regge il paragone con la nostra emigrazione verso gli Usa e altri paesi: si trattava di un popolo di religione cristiana, come la maggior parte della gente del paese nuovo; per cui non portava gravi turbamenti al riguardo, non avrebbe picchettato di luoghi di culto completamente diverso; anzi ha collaborato alla costruzione di chiese nuove ecc. Inoltre non esisteva un blocco della nostra religione, come in Arabia, Sudan, Congo, Iran…
Non c’era un abisso totale insuperabile (lo si vede tutti i giorni) di usi e costumi e a cui è sciocco e, anzi, «colpevole» passare sopra, nell’entusiasmo dell’accoglienza: l’ultima disgrazia del crollo della casa occupata da extracomunitari (madre e bimba rumene, morte a Torino il 6-3-2005, ndr) non è forse responsabilità di chi dice, in fondo, «venite, venite»?
Se va avanti così, la cattolicità potrà crollare, infiltrata e circondata da ogni parte dall’islam, che si vede sempre più in tv, su libri, su giornali, su tutto, per un buonismo errato (ci manca solo la Turchia…).
Tante cose avrei da dire ancora, ma forse «non potrai portae il peso».
Guarda che la maggior parte degli italiani la pensa così, e anche C. Biffi ecc.

A lei e alla «maggior parte degli italiani che la pensa così» avremmo anche noi tante cose da dire. Come «ausiliario della Sindone», vorremmo solo invitarla a leggee bene il significato: l’immagine che vi è impressa dovrebbe ricordarle il Cristo «in agonia fino alla fine del mondo» per dirla con Pascal, cioè, che continua a patire e morire in coloro che fuggono dalla miseria, fame, ingiustizie e oppressioni di ogni genere. E quando ci sarà il giudizio dei popoli (Matteo 25), non le sarà chiesto come ha adorato il Cristo nell’«uomo della Sindone», ma se lo ha riconosciuto e servito nell’affamato, assetato, ignudo, malato, profugo, senza tetto… sia cristiano che islamico.

lettera firmata




LETTERE – Lavaggio del cervello

Gent. don Farinella,
scrivo per manifestarle la mia stima e apprezzamento per gli articoli pubblicati su Missioni Consolata. In particolare condivido appieno le sue affermazioni riguardanti il sig. Berlusconi, apparse su «Battitore libero» di marzo 2005.
Ciò che più rattrista e indigna è il lento ma inesorabile lavaggio del cervello mediatico a cui parte della popolazione italiana si è lasciata sottoporre, negli ultimi 20 anni, dalle sue tv commerciali, con i risultati che lei bene esprime nel suo articolo.
Grazie di cuore a lei e a voi tutti di Missioni Consolata, Paolo Moiola in testa, per essere voce nitida, lucida e critica in un momento di così grande disorientamento morale e civile per il nostro caro paese.
Da più di 10 anni accompagnate il mio cammino di crescita cristiana nella chiesa, quello di mio marito e di nostro figlio Emmanuele, 18enne, studente impegnato, serio e appassionato catechista, ottimo musicista.
Contrariamente a quanto scrive un sacerdote delle nostre parti (… Sassuolo è terra di ceramiche e ricchi industriali), io credo che la vostra rivista sia «davvero» per famiglie che desiderano crescere nella luce di Cristo e del vangelo.
Lettera firmata
Modena

Anche noi della redazione ringraziamo per l’incoraggiamento a continuare nel nostro impegno di essere, alla luce del vangelo, una coscienza critica della società in cui viviamo.

lettera firmata




Ricordando Romero

Lunedì 24 marzo 1980, mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, fu assassinato mentre stava celebrando l’eucaristia nella cappella di un ospedale, insieme agli ammalati. Cadde sull’altare, mescolando il suo sangue al vino che stava offrendo per il sacrificio eucaristico. Fu ucciso perché si era schierato e identificato con i poveri, gli emarginati, i disprezzati, condividendone le sofferenze, sull’esempio di Cristo, fino a dare la vita.
«Credo di conoscere il vangelo – disse un giorno in un incontro di preghiera comunitaria -; ma sto imparando a leggerlo in altro modo». La radicalità evangelica era la base della sua libertà straordinaria, che lo spingeva ad ammonire i potenti, fino a chiedere ai soldati di disubbidire agli ordini di morte, come fece il giorno prima del martirio, nell’omelia tenuta nella cattedrale, «Fratelli… davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è tenuto a obbedire un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate e obbediate alla vostra coscienza, piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio e di questo popolo sofferente, vi supplico, vi chiedo, vi ordino: cessi la repressione».
Era una morte annunciata. «Se mi uccidono, risorgerò nel mio popolo» aveva detto poco tempo prima.
A 25 anni dal suo martirio, Romero è vivo non solo nella sua gente e nelle chiese dell’America Latina, ma anche in quella universale e in tutti coloro che nel mondo si schierano in difesa della dignità della persona, per la giustizia e per la pace.

Egli sapeva che tale scelta evangelica gli avrebbe procurato la persecuzione, come ebbe a dire in una omelia del 1977: «La persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa. Sapete perché? Perché la verità è sempre perseguitata… Quando un giorno fu domandato a Leone xiii quali siano le note che distinguono l’autentica chiesa cattolica, il papa disse subito le quattro conosciute: una, santa, cattolica, apostolica. “Aggiungiamone un’altra – disse il papa -: perseguitata”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata».
A 25 anni dalla morte, Romero continua a essere un profeta scomodo, non solo ai potenti della terra, ma anche nella chiesa: nell’indirizzare il processo di beatificazione qualcuno cerca di farlo passare come confessore della fede, piuttosto che come martire della giustizia.
Scriveva Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente: «Gli eventi storici legati alla figura di Costantino non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la chiesa è diventata nuovamente chiesa di martiri, come nei primi tre secoli» (Tma 37).
È un’affermazione coraggiosa, che va oltre quella di Leone xiii: non solo la persecuzione è una nota dell’autenticità della chiesa; ma questa è più più libera quando è osteggiata e perseguitata.

La libertà evangelica di Romero è un esempio valido anche per noi, in Italia ed Europa, dove da secoli, i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e libertà.
La perdita di certi privilegi acquisiti, per cui si sente levarsi voci di lamento e vittimismo, è nulla in confronto alla «grande tribolazione» che vivono i nostri fratelli e sorelle in altri continenti, dove i cristiani pagano con il sangue la loro sequela del Signore, la radicalità delle beatitudini, la fame e sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati degli stranieri.
Oggi, piuttosto, esiste un’altra persecuzione, di cui parlava Ilario di Poitiers nel 360, all’inizio dell’era costantiniana: «Ora combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… che non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma s’impossessa del nostro cuore; non ci taglia la testa, ma uccide l’anima con l’oro e il potere…» (Contra Costantium 5).

Benedetto Bellesi




004-Così sta scritto – Dio li benedisse e disse loro

Il verbo «benedire» e il sostantivo «benedizione», in secoli di pratica cultuale, hanno perso il loro significato originario. Vogliamo tentare di recuperare «una» dimensione biblica, senza pretendere di esaurire tutta la complessità di significato che questi termini hanno.
a) In accadico, kara¯ bu significa pregare, consacrare, benedire, salutare. In arabo, baraka esprime beneficio, flusso benefico che viene da Dio, dai santi, dalle piante, da cui benessere, salute o felicità. In ebraico, la radice brk da cui il verbo ba¯ rak, dotare di forza vitale, e il sostantivo bera¯ ka¯, forza salutare o vitale, ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio.
In Oriente, il termine ginocchio è un eufemismo, cioè un modo attenuato e indiretto per indicare gli organi sessuali maschili; in questo senso vi sarebbe una parentela con l’accadico birku, ginocchio e grembo.
b) Questi cenni etimologici dicono un nesso tra benedire/inginocchiarsi e benedizione/ginocchio, stabilendo un collegamento tra benedire/benedizione e gli organi sessuali maschili. Se qualche lettore si stupisce ora, lo invitiamo a proseguire nella lettura fino in fondo, garantendo che non siamo maniaci.
In base alle loro conoscenze «scientifiche», per gli antichi è l’uomo che trasmette la vita, mentre la donna è solo una incubatrice di seme. Discendenza, infatti, in ebraico si dice «zera’» che il greco biblico traduce con sperma (Gen 12,7; Gal 3,16). Ecco il senso: benedire significa trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo. Questa benedizione è unica: una volta data non può più essere tolta.

Quando si benedice Dio, si usa sempre il participio passato passivo ba¯ rûk, benedetto, perché in Dio la benedizione è uno «stato» permanente della sua persona, mai un augurio: «Sia benedetto!», che indica un compiersi nel tempo. Dio «è» Benedetto. Sempre. È la benedizione stessa.
Quando Dio benedice trasmette la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per rendere partecipi della sua pateità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”» (Gen 1,28), dove il nesso tra «benedire» ed «essere fecondi», cioè generare, è evidente.
Quando l’uomo benedice, trasmette tutta la sua energia di vita a colui che è benedetto. Ora si capiscono meglio le parole di Dio a Caino dopo il fratricidio (Gen 4,10). Dice il testo ebraico: «La voce dei sangui (demê, sic! plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui, cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio, perché futuro e presente sono legati in vita e in morte.
In Genesi 27 si narra la storia di Giacobbe che carpisce con inganno la benedizione al fratello Esaù, il quale implora per sé la benedizione; ma il padre Isacco non può riprendersi tutta la sua capacità generativa che ha trasmesso al fratello, il quale resterà benedetto per sempre (v. 33).
Esaù supplica il padre piangendo: «Non hai conservato per me una benedizione?» (v. 36); «hai dunque una sola benedizione?» (v. 38). Isacco non può più benedire Esaù, perché ha trasmesso tutto il suo seme promessa/premessa del futuro che cova nella sua potenza generativa a Giacobbe.
La benedizione/fecondità patriarcale conduce la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello; il padre lo accompagna con queste parole: «Ti benedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (28,3), che sono l’eco di Dio creatore in Gen 1,28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi”».
c) La benedizione, come atto che trasmette la vita e la capacità di generarla in ogni relazione umana, comprende un gesto, l’imposizione della mano o delle mani, e una parola, che accompagna e spiega il testo. Il gesto senza la parola è solo mimica; la parola senza il gesto è solo suono evanescente. È la stessa dinamica della creazione: «Dio disse… e così fu».
Parola e fatto. Dabar/Lògos. La Parola è il senso dell’avvenimento, che è incarnazione della Parola. Non a caso gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità, di popolo, di popoli sono «le parole» con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che Dio parla agendo e agisce parlando: parola/fatto, cioè dabar.
In sintesi, benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione; in senso spirituale significa generare colui/coloro che si benedice. Altrimenti: chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice.

I l nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e, spesso, le parole si rincorrono a vuoto, approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra «parola» ed «evento» della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri.
La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, presidenti del consiglio, deputati, superiori, parroci, vescovi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza ai loro governati: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio.
Lo stesso vale per la vita di fede: rito e vita stanno insieme, altrimenti i sacramenti sono solo «rituali» amorfi e senza sapore. Inutili. Vuoti. Nel marasma politico che attanaglia il mondo intero e il nostro popolo, in questo momento grave della nostra Repubblica assistiamo a un genocidio delle parole, utilizzate come corpi morti, senza anima e senza vita, perché usate come strumenti per ingannare e camuffare la realtà, piegandola ai propri piccoli e meschini interessi. Oggi in Italia domina la logica dell’utile, non la dinamica feconda della benedizione generante.
Incaati nella storia, i cristiani hanno il dovere e l’onore di rendere testimonianza alla Parola con le loro parole accompagnate da gesti di verità e coerenza, affinché la loro vita e presenza nella storia siano una «benedizione di fecondità», capace di generare quanti incontrano sul loro sentirnero di carne, per ritrovare in ciascuno e in tutti il volto velato di Dio, il quale, benedicendo, ci rende fecondi di vita e artefici di Storia: profeti dell’amore, per amore e con amore.
È la benedizione della tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, che scende feconda e ri-generante su tutti i nostri lettori e le loro famiglie. Amen!

Paolo Farinella