TAV – inchiesta Parola di prete

TAV – la chiesa

DAVIDE CONTRO GOLIA

"La chiesa deve stare con il suo popolo".
Sono almeno una decina i preti che si sono schierati a fianco
delle popolazioni della Val di Susa.
Un atto di coraggio che ha suscitato dibattito, fuori e dentro la chiesa.

 

 

Faceva una strana impressione leggere il numero de "La Valsusa" del 17 novembre 2005, il giorno dopo l’imponente Marcia NoTav.

La Valsusa è il settimanale della curia valsusina, decisamente schierato con il popolo valsusino contro la devastazione rappresentata dal progetto dell’alta velocità. Schierandosi a fianco della gente, il giornale si discosta apertamente dalle posizioni del vescovo Badini Confalonieri e del cardinale di Torino Severino Poletto. E quella copertina del 17 novembre lo esprime chiaramente.

Sotto alla grande foto della folla in marcia con bandiere e striscioni, in una colonna, l’articolo di fondo del direttore. don Ettore De Faveri, e a fianco, su due colonne «La parola del vescovo sul Tav».

Il primo racconta la sua trepidazione pensando che la manifestazione non possa riuscire come si sperava («Verranno, non verranno?»), e poi il suo rincuorarsi vedendo la gente da ogni parte a riempire la piazza di Bussoleno. E la sua gioia finale che si esprime con «La valle ha mandato il suo messaggio lungo 8 chilometri. Lo ha mandato a Torino, a Roma, a Bruxelles».

Il vescovo, invece, ribadisce che «La chiesa non ha il compito di schierarsi con una parte o con l’altra in questioni di scelte tecniche, politiche o economiche».

 

LA PAROLA A DON ETTORE, DIRETTORE DELLA VALSUSA

 

Don Ettore, prima delle grandi manifestazioni NoTav, i valsusini erano considerati “una popolazione a basso tasso di ribellione”. Infatti in questa valle hanno fatto più o meno di tutto: autostrada, dighe, centrali elettriche… La vicenda Tav li ha cambiati?

«È vero. C’è stato sempre un alto grado di accettazione da parte dei valsusini, proprio per la storia, la geografia di questa valle che è un luogo di movimento, di transito. È nel nostro Dna l’apertura a tutto quello che consente l’incontro tra i popoli. Contestazioni ci sono state per l’autostrada. Ci si è opposti all’elettrodotto, vincendo. Ma non in maniera così massiccia. La protesta è esplosa negli ultimi anni, il problema è iniziato nell’anno 1990, presentazione del primo progetto. È la protesta del popolo. Definirla NoTav è riduttivo.

Una sorpresa che non ci aspettavamo. Che la regione, che l’Italia non si aspettava. Con le sue cifre, questa protesta non si può ignorare. Dicono: è l’Italia che deve decidere; oggi, su Repubblica lo dice Fassino. “Decidere con il consenso della popolazione”, un bell’artificio. La valle non sta dicendo un no assoluto: propone delle alternative. Perché vengono negate, senza discussione?

La valle ha il sacrosanto diritto e anche il dovere di opporsi alla distruzione del suo territorio. È un grido di allarme. Attenzione, qui si sta sbagliando. I rischi sono altissimi. Sempre stamattina leggevo che l’assessore regionale alla salute (Mario Valpreda) dichiara che amianto e uranio sono “governabili”. E sono stato colpito che proprio alla vigilia della grande marcia del 16 novembre, ci sia stata la conferenza dell’Arpa che minimizzava i problemi. La signora Bresso (presidente della regione Piemonte) dice che protestiamo perché siamo poco informati».

In realtà, i valsusini protestano proprio perché sono molto, molto bene informati sul progetto Torino-Lione.

«Infatti. È un NO critico, responsabile. Basato sui fatti».

È una lotta anche per la collettività, per l’Italia, altro che particolarismo.

«Si cerca di fare questo gioco: localismo contro interessi generali. Ma bisognerebbe chiedersi quali sono gli interessi generali. Noi ce lo chiediamo e abbiamo il diritto di esprimerci. Quando in piazza ci sono 50.000 persone e forse di più, tutta gente normale, gente comune con partecipazioni da altre regioni».

Questo movimento che sta raccogliendo solidarietà e appoggio da tutta Italia, è una cosa meravigliosa…

«Io l’ho chiamato un miracolo. Il miracolo valsusino. Per riprendere un’immagine biblica, senza forzare il senso delle sacre scritture, è come Davide contro Golia. Mi pare che la fionda di Davide sia riuscita a fermare, a squinteare, a creare problemi a Golia, a chi pensava di venire qui con le ruspe a spianarci. Ed ecco un’altra offesa al popolo valsusino è questa… non chiamiamola militarizzazione».

Perché no?

«Questo uso massiccio della forza pubblica… I cittadini che manifestano il loro pensiero non devono sentirsi per questo controllati. Il bello della manifestazione del 16 novembre, con quella marea umana e non c’è stato un solo danno, a una sola cosa. È stata una protesta civilissima. Esemplare per tutta l’Italia».

E la risposta è stata: arriviamo il 30 novembre e apriamo il cantiere. Noi civili. Loro arroganti.

«Dicono che se non si sbrigano perdono i finanziamenti europei».

Non è vero. È una menzogna, come i verdi, con Monica Frassoni, continuano a ripetere. Quest’opera viene costruita con le menzogne. L’ultima è questa dei finanziamenti europei. Il potere sta usando prima il muro dell’omertà e poi la disinformazione.

«Vero. Si danno già le risposte, senza ascoltare le domande. C’è mancanza di rispetto. Come il blitz notturno al Seghino, la beffa… Non si vuole ascoltare, e non c’è rispetto per la Valle. Non ascolto e rispetto, ma azioni prestabilite. E se penso anche all’uso massiccio dell’esercito non vorrei pensare anche… provocatorio. Invece, bisognerebbe cogliere questa occasione per una seria riflessione sul giusto modello di sviluppo, sulla crescita…».

Fare marcia indietro, ammettere di aver sbagliato…

«E bisogna raccogliere tutti gli elementi. L’opposizione di tutto un territorio è un elemento che non può essere ignorato».

La devastazione dell’ambiente provocata da 15 anni di cantieri, un inferno di rumore e polvere 24 ore al giorno, priverà gli abitanti non solo del sonno e della salute, ma anche del contatto con la natura. La natura sarà sconvolta. Sarà impossibile contemplare. Non pensa che ci sarà anche un danno spirituale, quindi?

«Certamente. Un danno profondo, intimo. Abbiamo il diritto di contemplare la bellezza che Dio ci ha dato. Il diritto di camminare nei boschi, camminare sulle nostre montagne. E ci dicono che ne avremo dei vantaggi!».

Sì, qualcuno si è inventato anche che aumenterà il valore degli immobili!

«Sì, aumenterebbe il Pil locale… c’è proprio tutta una costruzione della bugia o comunque della non-verità».

Nella religione cristiana, la natura è considerata sacra oppure no?

«Uomo e Creato hanno la stessa origine e quindi per tutti e due valgono le stesse regole. Non possiamo trasformare la natura danneggiandola. Dobbiamo custodire il Creato, seguendo il principio che le trasformazioni sono per il bene dell’Uomo. Invece la storia dell’umanità è piena di trasformazioni del Creato a danno dell’Uomo. Siamo lontano da Dio quando facciamo questo.

Offendere il Creato è offendere Dio: questi sono veri peccati! Qui l’apporto delle comunità di credenti potrebbe essere importante. Qualcuno ha timore ad entrare nel merito. Ma, alla luce della parola di Dio, il rapporto Uomo-Creato, è un tema che ci appartiene totalmente».

Dobbiamo aprire questo discorso.

«Ci dicono che la chiesa non deve dare soluzioni tecniche. È ovvio. Ma esiste una premessa a tutto il discorso: la relazione degli uomini con il Creato e quindi con Dio, ripeto l’Uomo e il Creato hanno la stessa origine. Il Creato esce dalla mano, dal cuore, dal pensiero di Dio. Non possiamo fae quello che vogliamo secondo logiche economicistiche di sviluppo, di crescita…».

L’emergenza ambientale è planetaria. Sarebbe meraviglioso, un miracolo forse, se nascesse proprio un movimento planetario di difesa del creato. Potrebbe nascere un movimento di unificazione delle fedi religiose intorno al concetto di difesa del Creato? Tutti viviamo sulla stessa Madre terra. A tutti è stato dato il giardino dell’Eden.

«Non conosco bene la teologia su questo punto. Ma, come diceva lei, tutti viviamo sulla Madre Terra e da questo punto di vista tutti quelli che hanno questo riferimento possono ritrovarsi uniti e anche portare un contributo che supera le altre divisioni. Tutti siamo in una relazione fondamentale con Dio, ma non sulle nuvole. Qui, sulla Terra. Il Dio in cui crediamo, che veneriamo è il Dio che testimoniamo vivendo nella casa in cui ci ha posti. E noi la stiamo rovinando».

Don Ettore, non è che qui c’è la mano dell’Antagonista, di Satana?

«La tentazione di inseguire il progresso a ogni costo è sicuramente una tentazione di Satana: il mito della crescita infinita, l’idolo del denaro… E si rende un luogo invivibile, gli abitanti infelici… Bisogna fare una premessa grande sulla crescita sostenibile, sul vero sviluppo prima di parlare di progetti tecnici, ci vorrebbe una politica coraggiosa».

Anche la chiesa dovrebbe essere coraggiosa. Invece, il nostro vescovo, il nostro cardinale si astengono…

«Forse dovremmo aiutarli. Anche con Missioni Consolata, la vostra rivista. La chiesa piemontese potrebbe dare un contributo alla discussione sui temi che ci appartengono, la vita, il bene. Che non si pensi che c’è un “silenzio-assenso” della chiesa. La chiesa deve stare con il suo popolo, con i suoi poveri. E questi sono poveri, perché non hanno il potere».

Una cosa bella, che dà molta fiducia ai valsusini è proprio vedere i suoi sacerdoti alle marce, che si esprimono. È incoraggiante. Il pastore si occupa del gregge. Questo progetto è talmente devastante che porterà anche dei danni psicologici alle persone. La perdita del senso del futuro. La speranza. Non avere speranza nel futuro, è mortale.

«Non si può non ricordare quel bellissimo racconto di Peguy: la Fede è come una cattedrale, la Carità è come un ospedale. Ma se non si sveglia ogni mattina la piccola virtù della Speranza non serve a nulla. Ogni mattina devo potermi svegliare con la speranza. La mancanza di speranza uccide la vita».

Questa protesta significa che c’è ancora speranza. I valsusini sono portatori di speranza e quindi di vita.

«Sì. Questa gente ama la vita. È un popolo profondamente informato e non è affatto vero che è plagiato o strumentalizzato. Dal popolo viene un messaggio forte. E la chiesa deve sostenere questo messaggio. Coltivare spazi di riflessione. Dare spazio alla gente che non può più esprimersi se non con la protesta. Raccogliamo la loro sofferenza, i loro pensieri. E coltiviamo la virtù della speranza».

 

LA PAROLA A DON SILVIO, PARROCO DI CONDOVE

 

Appena iniziamo a parlare, don Silvio sottolinea l’amarezza di tutto il popolo valsusino. L’amarezza del non sentirsi ascoltato da chi avrebbe il dovere di farlo.

I sacerdoti, invece, sono vicini alla gente?

«La maggioranza dei sacerdoti è vicina alla gente, è vicina al problema. Di sacerdoti che partecipano alle marce, che si espongono siamo una decina.

Ieri, nella riunione di tutti i sacerdoti con il vescovo, ho proposto di portare il nostro contributo come chiesa a livello di preghiera e di riflessione. Vivere come credenti questo problema che si presenta come molto grave. Noi parroci temiamo per l’ambiente e per la salute. Temiamo che non ci siano le condizioni di vivibilità. Una valle stretta, già piena di infrastrutture.

Si realizzi il potenziamento della linea esistente, senza il megatunnel. Siamo anche preoccupati per le falde acquifere. Vedi la galleria Enel di Pont Ventoux, che avrebbe dovuto essere operativa dal 2000, ma non può entrare in funzione perché non riescono a gestire le perdite dalle falde».

Come intendete dare appoggio ai vostri fedeli?

«Certamente vogliamo farlo. Ma c’è una discussione sul come. Il vescovo non vuole che si intervenga esplicitamente, nel dire NoTav. Ma di fare interventi di preghiera per il bene della Valle. Dice che dobbiamo essere sacerdoti per tutti, sia quelli a favore sia quelli contro il Tav».

Il fatto è che i valsusini sono tutti contro…

«Sì, idealmente si può dire così. Auspicherei molto di fare un programma di interventi, come la veglia di preghiera a Foresto. Vorrei che diventasse una catena, che ci fossero tanti incontri. E credo che dovrà intervenire anche la forza di Dio per aiutarci. Non vorrei che si arrivasse a scontri violenti. La cosa bellissima è stata la correttezza con cui si è svolta la marcia del 16 novembre».

Sarebbe possibile celebrare delle messe, messe collettive, proprio nei luoghi dei sondaggi. Per esempio, nella chiesa di Venaus, il paese dove dovrebbero iniziare i lavori del megatunnel?

«Come ha ribadito ieri il vescovo, il sacerdote è collaboratore del vescovo e deve agire in comunione con lui».

Questa è proprio una regola?

«Altroché. Noi sacerdoti, se non siamo uniti al vescovo non possiamo fare niente. Proprio a livello sacramentale.

Cosa significa “a livello sacramentale”?

«Che se si spezza questo legame con il vescovo io non posso più celebrare la messa, non posso più essere parroco di una comunità. In quanto rappresento il vescovo in quella comunità».

Cosa è vietato a un sacerdote?

«Esporsi con dichiarazione con scelte di campo».

Ma lei come può non sentirsi contro questa devastazione, lei è anche un valsusino, vive in questa valle…

«Esatto. Io come valsusino posso dire quello che penso, ma non posso servirmi del mio ministero per far valere una certa idea, non posso nella mia predicazione esprimermi contro il Tav. Nella messa io aggiungo un’intenzione di preghiera che è “preghiamo per questa valle, per la grave situazione in cui si trova, chiediamo a Dio che ci aiuti a superare questo problema”. Non posso pubblicamente esprimermi contro il Tav e a favore del potenziamento della linea attuale, perché – come dice il cardinal Poletto – “noi non siamo dei tecnici”».

In realtà in questa valle siamo diventati tutti dei tecnici, ci hanno obbligato a diventarlo. Ci siamo informati molto bene sul progetto e sulle sue conseguenze. La protesta nasce proprio dall’informazione e non dalla non-informazione come vuol far credere la regione.

«Io confido molto nell’aiuto dall’Alto, da Dio, dalla Madonna del Rocciamelone. Che succeda qualcosa che li convinca che è una follia. Che è un delirio di onnipotenza. Queste grandi infrastrutture che stravolgono l’equilibrio della natura».

Ci sono emergenze ambientali su tutto il pianeta. Io sono convinta che in tutto questo ci sia la mano dell’Antagonista, l’antagonista del Creatore. Satana. Ma molti non vogliono pronunciare questo nome.

«No, no, io nelle mie omelie lo pronuncio. Molti temono di passare per retrogradi, di essere del medioevo, ma io credo che il Maligno stia operando proprio per distruggere il Bene e distruggere l’Uomo».

Allora in questo momento è importante credere.

«Sì, credere in Dio. E nei miracoli».

Paola Rando

Paola Rando




TAV – inchiesta Un progetto da oggi al… 2018 (almeno) (2)

TAV – articolo 2

UNA MENZOGNA LUNGA 53 CHILOMETRI

Le popolazioni della Val di Susa sono il simbolo di coloro
che vogliono vivere nel rispetto dell’ecosistema.
Nonostante la militarizzazione del territorio,
il movimento No-Tav rimane pacifico, consapevole, preparato. E deciso.

di Angela Lano

È una corsa, sempre più folle, al mito del progresso e dello sviluppo a ogni costo. È una corsa che si scontra con le risorse della terra e con la vita degli esseri viventi. È questo il vero conflitto di civiltà: l’egoismo rapace e distruttivo dei signori delle multinazionali e delle opere faraoniche e l’ecosistema.
Incontriamo Mario Cavargna, biologo con un master in ingegneria ambientale e in valutazione d’impatto ambientale.
Che possibilità ci sono, ad oggi, di svolgere l’opera del Tav in sicurezza?
"Per quanto riguarda l’amianto, ad oggi il problema è assolutamente irrisolto. Lo studio dei tecnici di Ltf (Lyon Turin Ferroviaire) parla di 1 milione e 150 mila m3 di rocce che possono contenee.
Tecnicamente, la loro proposta è stata: “Faremo dei mucchi da 500-1000 m3”, cioè cumuli grossi come una villetta. Poi ce lo diranno dove e come li porteranno via… Nelle pagine dei progetti relativi a questo tratto, non se ne parla. Addirittura, nella sintesi – che per la valutazione di impatto ambientale è il documento principe -, la parola amianto non viene più citata, probabilmente perché non sanno come fare. L’unica cosa che hanno saputo dire è: “Ma noi prenderemo precauzioni”, “Bagneremo”. Ma bagnare non significa eliminare l’amianto, significa soltanto che lo si fissa per terra. Ma quando l’acqua evapora, con il vento la polvere si risolleva. Altra precauzione: “Noi metteremo degli aspiratori nelle gallerie in modo che catturino la polvere. Poi deporremo tutto in sacchi”. È vero che rompendo la roccia si sollevano delle fibre, ma ciò accade anche quando, all’uscita dalla galleria, si scaricano i detriti, si fanno i mucchi, li si ricarica e li si tiene in stoccaggio. È un problema grave. Un progetto concreto non esiste: sarebbe necessario un capannone di 50 mila m2 che contenesse mucchi di 50-100 m3. Uno spazio abbastanza grande da accogliere l’equivalente di 2.000 villette. Non è semplice. E come li si copre? Con dei teli? Ma in questa valle, il vento, che soffia per metà dell’anno, li strapperebbe! Poi, comunque, questo materiale quando viene ripreso è nuovamente movimentato. Allora deve essere portato in qualche discarica. Ma dove? Quale? Non lo hanno mai detto".
Ma cosa dichiarano le valutazioni di impatto ambientale?
"Sono superficiali, non spiegano dove stoccheranno il materiale in modo definitivo. Lo “smarino”, contenendo rocce amiantifere frantumate, se viene collocato in posti esposti agli agenti atmosferici continuerà a liberare fibre. Non può stare all’aperto. Il danno mortale per la salute dell’uomo è conosciuto (si legga la prima puntata della nostra inchiesta)".
I giornali importanti non parlano di questi danni…
"È già tanto che parlino dell’amianto. Il fatto che si minimizzi o si sposti il problema significa che non si sa come gestirlo. Si cerca di dare l’illusione di avere tutto sotto controllo, perché la linea è quella di andare avanti con l’opera. Tecnici e politici si contraddicono a vicenda. Sono apprendisti stregoni che non hanno seguito bene il corso di magia".
Ma politici ed amministratori pubblici non dovrebbero avere a cuore gli interessi dei cittadini che rappresentano?
"Per favore… Quella del Tav è una “grande opera” con un giro di soldi immenso".

Spiega il teologo Leonardo Boff in Grido della terra, grido dei poveri: "Si è creato il mito dell’essere umano come eroe scopritore e colonizzatore, Prometerno indomabile, con le sue opere faraoniche. (…) Nell’atteggiamento di essere al di sopra delle cose e al di sopra di tutto risiede, a quanto pare, il meccanismo fondamentale della crisi attuale della nostra civiltà. Qual è la suprema ironia ai nostri giorni? Esattamente questa: la volontà di dominare su tutto sta facendo di noi dei dominati e assoggettati agli imperativi di una terra degradata. L’utopia di migliorare la condizione umana ha peggiorato la qualità della vita. Il sogno di una crescita illimitata ha prodotto il sottosviluppo dei due terzi dell’umanità; la voluttà di una utilizzazione ottimale delle risorse della Terra ha portato all’esaurimento dei sistemi vitali e alla disintegrazione dell’equilibrio ambientale".

(continua)

Angela Lano




LETTERE – Anche noi salutiamo padre Stefano

Carissimi missionari,
attraverso Missioni Consolata ho imparato a conoscervi di più e apprezzare il vostro impegno e lavoro nel mondo. Intanto voglio salutare padre Stefano Camerlengo col quale ho fatto qualche pezzo di strada nel Salento, quando lui lavorava a Galatina: auguri per il nuovo incarico.
La vostra rivista è diventata impegnativa e apprezzabile: spero con voi che aiuti a far maturare tanta disponibilità nelle persone perché possiamo collaborare nel dare un volto giornioso e umano a questo mondo.
Mi ha fatto piacere sapere che in Colombia qualcuno sta percorrendo questa strada, pagando anche di persona, perché chi vuole imporre le proprie idee con la forza non tollera chi ama la libertà e la giustizia. Quanto sarebbe opportuno gridare forte forte che i pacifisti, i nonviolenti non sono quelli che urlano nelle piazze (a volte serve anche qualche manifestazione), ma quelli che scelgono di vivere accanto ai più poveri e cercano con loro sentirneri di pace, sviluppo, giustizia. È bello leggere la storia di tante persone che costruiscono strade, ospedali, acquedotti, scuole: questi sono gli operatori di pace e meritano tutta la nostra stima, sostegno, preghiera. Il mondo diventa più triste quando vengono uccisi o subiscono violenza, ma guai se non sentissero la nostra solidarietà, che viene dal vangelo…
Filippo Gervasi (LE)

Filippo Gervasi




Quale economia? (1) Crescita o decrescita?

CON QUESTI CONSUMI NON AVREMO FUTURO

«Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito
in un mondo finito è un folle, oppure un economista».

Ha scritto Alex Langer, il compianto ambientalista altornatesino: «Io mi chiedo se è vero che vogliamo stare meglio, quando quotidianamente facciamo di tutto per stare peggio. Cioè, facciamo una cosa sola: obbediamo ciecamente al mercato, al furore tecnico-economico che domina il mondo. Lavoriamo di più, più in fretta, più ansiosamente. Per che cosa? Già chiederselo è un miracolo, perché non c’è più tempo per chiederselo».
Il problema è posto: il bene collettivo e la felicità individuale sono in relazione diretta con la crescita economica? La risposta, almeno in Occidente, è quasi sempre stata «sì». Poi, davanti ai fallimenti del mercato, alle diseguaglianze sempre più forti, al degrado ambientale, alcuni studiosi hanno iniziato a ribaltare i termini del problema e a parlare di «decrescita» come proposta per uscire dal tunnel cieco dell’economicismo.
In tempi di esaltazione della «crescita», è normale che il termine opposto porti con sé una sensazione di negatività.
Scrive Serge Latouche in Obiettivo decrescita: «Pianificare la decrescita significa rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”. Il bene e la felicità possono realizzarsi a un minor prezzo. La saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni. La riscoperta della vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali».

Paolo Moiola




Quale economia? (1) La spesa pubblica non è una iattura

Una serie di organizzazioni italiane (ben 36, sia cattoliche che laiche) hanno scritto
una «finanziaria alternativa», che guarda ai diritti, alla pace, all’ambiente.
Cifre e obiettivi messi nero su bianco
ovvero quando i sognatori diventano concreti.

Tutti sanno cosa sia la finanziaria, ma pochi vanno al di là di un vago «stabilisce più o meno tasse». In realtà, con la finanziaria si decide una parte del futuro immediato di ognuno di noi (sanità, scuola, ambiente, famiglia, ecc.) e del paese nei confronti del mondo (spese militari, cooperazione internazionale, ecc.). Esattamente un anno fa scrivemmo un elogio della campagna «Sbilanciamoci», che studia numeri e proposte per una finanziaria «a favore dei diritti, della pace e dell’ambiente»; quest’anno dobbiamo ripeterci ed anzi ampliare i complimenti. Il lavoro fatto dalle 36 organizzazioni promotrici (sia cattoliche che laiche) è la dimostrazione che i sogni – diritti per tutti, pace, preservazione dell’ambiente – potrebbero tradursi in realtà concrete, se soltanto politici ed amministratori lo volessero.
Rimandando i lettori alla fonte originale per il dettaglio delle varie voci di spesa, per noi è importante ricordare alcuni dei principi su cui si fonda la finanziaria approntata da Sbilanciamoci.

Privilegi ed egoismo. «Nel dibattito politico di questi anni il tema della leva fiscale è stato strumentalizzato in modo ideologico e populista al fine di perseguire l’obiettivo della riduzione indiscriminata dell’imposizione fiscale identificata come un “male in sé”, una gabella “estorta” dallo Stato “inefficiente e sprecone”. Tanto più grave è ciò in quanto a farsene portatore è proprio chi questo Stato sta gestendo in maniera fallimentare, il ceto dirigente responsabile primo del dissesto della finanza pubblica, dello scadimento dei servizi, dell’appropriazione personale delle risorse pubbliche, della legittimazione dei peggiori comportamenti opportunistici.
Le imposte non sono mai buone o cattive in sé, ma lo sono solo e in quanto sono lo strumento che permette di far funzionare le nostre istituzioni e garantire ai cittadini quei servizi e quelle prestazioni che rafforzano la coesione sociale, lo sviluppo, il godimento dei diritti fondamentali anche da parte delle classi più disagiate. Senza risorse – e dunque senza un adeguato prelievo fiscale – non può esserci un Welfare che funziona ed adeguato alle esigenze dei cittadini, non possono darsi politiche di sostegno allo sviluppo e di aiuto alle regioni più povere, non possono essere messi nelle condizioni di operare i comuni – e più in generale gli enti locali e le regioni – nell’offerta dei servizi essenziali alla comunità e al territorio. Al contrario di chi attacca le tasse – e che ha in mente solamente i privilegi dei più ricchi e l’egoismo sociale – noi difendiamo il principio della contribuzione fiscale, come un principio di civiltà, di coesione comunitaria e di solidarietà».

La società non è un’impresa. «Ritorna oggi con forza una richiesta di equità e sicurezza sociale, di giustizia e regole cui non si può non dare risposta; il primato di un’economia deregolamentata e senza anima sociale è al capolinea; ci sono questioni di fondo che vengono poste: è la società che si deve comportare come un’impresa, o è invece quest’ultima che deve essere responsabile incorporando nelle sue valutazioni anche l’impatto sociale ed ambientale delle proprie azioni? O più in generale: è il mercato una produzione sociale – e quindi dalla società dipendente – o è la società ad essere subordinata al primo?
È in crisi questo modello di sviluppo, energivoro, consumistico, individualista, che può sopravvivere solo su una appropriazione sregolata di risorse, di produzione di diseguaglianze; ci sono dei limiti a questo sviluppo che sono dati da un ambiente che non si può massacrare, da una coesione sociale che non si può distruggere, da beni comuni dai quali dipendono la nostra sopravvivenza, che non potranno mai essere ridotti a merce. Gran parte del peso di questo nostro modello di sviluppo ricade sul Sud del mondo, al quale viene impedito di trovare la strada al proprio futuro, e sulle future generazioni, che rischiano di pagare con conflitti, povertà e degrado i nostri comportamenti.
In questo contesto si colloca la crisi del modello industriale che abbiamo sin qui conosciuto; per quanto ci riguarda possiamo propriamente parlare della scomparsa dell’Italia industriale. E non si tratta tanto dei cinesi che fabbricano più a buon mercato. Ci sono responsabilità specificatamente italiane di imprese che non puntano più sulla qualità, il lavoro, l’innovazione; di imprese che preferiscono puntare sui mercati finanziari e non sugli investimenti produttivi, che preferiscono risparmiare precarizzando il lavoro e non investire puntando sulla qualità e formazione dei lavoratori. È la logica del “mordi e fuggi” dei casinò finanziari, che il governo Berlusconi ha alimentato al massimo con le sue misure che – riguardandolo in prima persona – hanno indotto ogni imprenditore a credere che fosse ormai arrivato il momento di “prendere i soldi e scappare”. A partire dal sempre minore tasso di legalità e deontologia. Oppure le responsabilità di un settore pubblico che non fa più ricerca, che non ha più una politica industriale, che non fa programmazione, che non dà vere regole, che non pensa al welfare come strumento anche di sviluppo e coesione sociale.
Invece è proprio il ruolo del settore e dell’intervento pubblico che bisogna rilanciare. Dopo più di un ventennio di sbornia ideologica di mercato, liberismo e privatizzazioni, l’intervento e la spesa pubblica possono essere strumento di una vera economia diversa: la ricerca, il welfare, l’uso della leva fiscale, la programmazione, il controllo dei mercati e la reale regolamentazione della concorrenza, possono essere gli strumenti di un’economia sostenibile; non si tratta ovviamente di statalismo, ma di una sfera pubblica che attinge dalla dinamica del protagonismo degli attori sociali».

Non c’è tempo da perdere. La finanziaria 2005 del governo Berlusconi non contiene nulla di quanto propone la controfinanziaria di Sbilanciamoci. Ma un obiettivo importante questa l’ha ottenuto: dimostrare, conti alla mano, che una gestione alternativa dei soldi pubblici è possibile. E sempre più impellente.
Pa.Mo.

Paolo Moiola




ECONOMIA – Quale economia? (1) Incontro con Serge Latouche


QUALE ECONOMIA? (prima puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.

Incontro con il prof. Serge Latouche

SCHIAVI DEL MERCATO E DELLE SUE LEGGI

 

Francese, sociologo dell’economia ed epistemologo delle scienze sociali, Serge Latouche è stato professore universitario a Lille e a Parigi. Nei suoi lavori, l’economia è vista ed interpretata fuori dai consueti schemi, ormai consunti dalle contraddizioni e dai fallimenti di cui il mondo è pieno.
Esperto di rapporti Nord/Sud, Latouche ha incentrato la propria ricerca sul fallimento dello sviluppo (Il pianeta dei naufraghi), sulla deleteria uniformazione planetaria al modello occidentale (L’occidentalizzazione del mondo), sul recupero della società veacolare e del concetto di dono (L’altra Africa. Tra dono e mercato).
Da qualche anno in pensione, Serge Latouche ha oggi un’intensa attività di saggista e conferenziere.

Professore, siamo in un periodo storico di guerra continua e di recessione economica. Come siamo arrivati a tanto? Questo non è altro che il fallimento della globalizzazione neo-liberista?
«Molti pensano che questa sia una situazione nuova, ma di fatto è nuova solo apparentemente, perché da sempre il capitalismo porta alla guerra, come le nuvole portano la pioggia o l’uragano. Recentemente ho pensato a Giovanni XXIII, che è stato di certo un bravo papa, ma che nell’enciclica Populorum Progressio su un punto si è sbagliato. Papa Giovanni ha scritto: lo sviluppo è il nuovo nome della pace, mentre avrebbe dovuto scrivere: lo sviluppo è il nuovo nome della guerra».
Ecco, la guerra e lo sviluppo. C’è un nesso di causa ed effetto?
«Lo sviluppo economico esiste, nella sua prima accezione, dalla cosiddetta rivoluzione industriale inglese del 1750. Poi si è esplicitato nel secondo dopo guerra: la parola fu usata dal presidente Truman nel 1949. Da quel momento si è visto che l’economia capitalista (per fare il suo nome) è una economia periodicamente in crisi. Così, per superare queste fasi, deve sempre mettersi in guerra.
Tutte le fasi dello sviluppo sono collegate ad un conflitto. Un tempo c’erano le guerre coloniali, devastanti per i paesi che le subivano. Poi ci furono le due guerre mondiali, certo più complesse, ma pur sempre fatte per l’appropriazione di materie prime e sbocchi.
Oggi siamo alle guerre per il petrolio e tra poco a quelle per l’acqua, elemento necessario e prezioso ma sempre più raro. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno già bisogno di importare miliardi di metri cubi di acqua dal vicino Messico, paese che pure non ha molte risorse idriche.
Gli scienziati del Pentagono hanno detto chiaramente che per questo modo di vivere le guerre sono un ingrediente indispensabile».
Secondo lei, è lecito parlare di «impero americano»? E se la risposta è sì, quanto durerà e come finirà, se mai finirà?
«La parola “impero”, che è di moda, è un po’ ambigua, perché si pensa sempre all’impero romano…».
Il paragone è quello, è vero…
«…ma un progetto come quello dell’impero romano non è possibile e non interessa gli Stati Uniti e le imprese transnazionali, perché un impero vero dovrebbe prendere in carico tutte le popolazioni, mentre l’amministrazione e i cittadini americani non vogliono assolutamente questo».
Al contrario, vogliono prendere le risorse degli altri stati…
«Vogliono che gli altri paesi siano sottomessi al potere americano e per fare questo devono avere una-due guerre permanenti, ma non vogliono costruire un impero, nel vero senso della parola. Non sono interessati a diffondere la vita americana concreta, ma soltanto la dominazione ideologia e il controllo sul mondo. In questa logica si può parlare di imperialismo, e quello americano è più forte che mai…».

Come si inserisce l’elemento terrorismo in questo contesto storico?
«Terrorismo è una parola molto facile da strumentalizzare, che fa impressione sulla popolazione perché c’è una realtà del terrorismo.
D’altra parte, questa logica politico-economica genera sempre più derelitti e, di conseguenza, carne da terrorismo».

Sta dicendo che il fenomeno si riprodurrà sempre di più?
«Naturalmente. È evidente che sarà così. Da questo punto di vista Bush ha ragione quando dice che siamo partiti per una guerra lunghissima, infinita. Perché la difesa del modo di vivere occidentale presuppone un’ingiustizia globale, sempre più forte che genera risentimento, povertà, miseria, e dunque un terreno favorevole al terrorismo».

Cecenia, Palestina, Iraq: il terrorismo suicida ha fatto scuola. Come si arriva a sacrificare la propria vita?
«Il terrorismo è sempre esistito, ma quello di oggi è effettivamente diverso. Come francese, ricordo la guerra in Algeria. Allora si parlava di terroristi algerini, ma erano gruppi costituiti per uccidere gli altri.
Al massimo, c’erano dei rischi da correre, ma non c’era la sicurezza di autodistruggersi. Oggi il kamikazismo è sistematico e, al medesimo tempo, più difficile da combattere. È stata creata una disperazione mai vista su scala planetaria e purtroppo sta allargandosi».

Lei ha analizzato i danni prodotti dall’«americanizzazione del mondo». Ma come si spiega che l’american way of life abbia avuto tanto successo?
«Questo non è un gran mistero. Dal cinema di Hollywood alla pubblicità, dai McDonald’s alla Coca-Cola tutto lavora per valorizzare l’american way of life. E poi, da che mondo è mondo, gli schiavi vogliono imitare i padroni…».

D’accordo, ma gli europei non sono così poveri. Eppure una parte di essi è attratta dall’american way of life…
«Per forza, da molto tempo noi facciamo parte della “megamacchina” americana. La gran parte delle imprese transnazionali sono americane e naturalmente si vede soltanto quella che è la punta dell’iceberg…».

Lei parla di «megamacchina». Il libro omonimo inizia così: «Siamo imbarcati su un bolide che marcia a tutta velocità ma ha perso il guidatore»…
«La “megamacchina” è l’organizzazione planetaria, che attraverso la combinazione di tecniche economiche e scientifiche, sociali e politiche, ha imposto il proprio dominio sul mondo, trasformando tutti gli aspetti della vita, anche quelli culturali.
Attraverso la globalizzazione, infatti, l’economia è entrata nella cultura o, peggio, ha preso il posto della cultura, con effetti distruttivi sulle culture tradizionali e sulle identità locali».

Il concetto è chiaro. Ma chi sta dietro la «megamacchina»?
«La “megamacchina” è anonima e senza volto, ma i suoi rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Forum di Davos, Camera internazionale del commercio (potente organismo di cui non si parla mai)».

Oggigiorno, sembra che le crisi economiche siano sempre più lunghe e soprattutto sempre più frequenti… Gli economisti spiegano che i cicli ci sono sempre stati. I politici dicono che l’occupazione comunque aumenta, dimenticando di precisare che i nuovi occupati sono quasi totalmente lavoratori precari (loro dicono «flessibili»), sfruttati e sempre malpagati.
«Il problema della crisi economica generalizzata è che non ci sono più sbocchi: con la mondializzazione l’ultima frontiera è saltata. Fabbrichiamo sempre più beni di consumo, ma chi può comprarli?
Questa contraddizione ha potuto essere gestita per 50 anni, perché c’erano lo stato sociale nei paesi del Nord e una politica di sfruttamento dissennato della natura e dei paesi del Sud. Oggi la mondializzazione ha rotto questo modo di organizzazione e necessariamente la crisi è più forte.
D’altra parte, non dimentichiamo che il modo di vivere degli occidentali non è più sostenibile. Finora è stato possibile soltanto perché due terzi dell’umanità hanno accettato di vivere al di sotto del minimo».

Lei ha parlato dello «stato sociale». Secondo lei, perché si sta procedendo al suo smantellamento?
«Lo stato sociale è stato scalzato dalla mondializzazione del mercato. Attenzione, però. Gli stati non spariscono. Sparisce soltanto la loro possibilità di regolare l’economia, mentre resistono ed anzi si rafforzano gli strumenti repressivi in mano loro.
Naturalmente questo smantellamento è stato incentivato dalle imprese transnazionali e dai sostenitori della “megamacchina”, di cui abbiamo detto.
Se il progetto di un impero mondiale americano è destinato allo scacco, il progetto di controllo sociale rimane. Lo si vede anche in paesi, come la Germania e la Francia, che si sono opposti a Bush. Anche quei paesi attuano una politica intea di repressione e di controllo della popolazione, perché l’insicurezza e la crisi sono nel cuore di questo sistema economico e sociale».

Si è molto parlato negli ultimi anni dei movimenti civili e della società civile a livello mondiale (da Seattle a Porto Alegre) che lottano per un mondo diverso da quello in cui viviamo. Secondo lei, hanno un futuro o è una moda passeggera?
«Hanno un futuro di sicuro, perché anche da noi questo sistema diventa sempre più insopportabile. Ormai anche al Nord c’è distruzione dell’ambiente, c’è disuguaglianza, c’è povertà. Non è necessario andare al Sud…».

Dunque, i movimenti civili e mondiali hanno un futuro perché propongono un’idea diversa?
«Sì, hanno un futuro perché la protesta continuerà e sarà imponente. Nonostante gli stati siano diventati repressivi (con le leggi, con le forze dell’ordine, ecc.), questi movimenti continueranno a crescere».

E come singoli possiamo fare qualcosa di concreto? I nostri piccoli gesti quotidiani servono?
«Naturalmente. Ci sono molte cose da fare, ma debbono essere tutte in funzione dell’obiettivo. Dobbiamo partecipare ai movimenti, alle proteste, alla resistenza, già a livello mentale rifiutando di lasciarci colonizzare completamente dalla pubblicità dei media e dal “pensiero unico”. Dobbiamo – come sempre scrivo nei miei libri – “decolonizzare il nostro immaginario” e mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d’essere diversi dall’espansione della produzione e del consumo.
Ogni piccola resistenza, anche apparentemente ridicola (come la mia per internet, il cellulare o l’auto), è utile».

Lei ha scritto che «siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza». Potrebbe chiarire il concetto?
«Prima di tutto dobbiamo sopravvivere. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità.
Poi dobbiamo resistere. Dobbiamo ricordarci che siamo imbarcati su una “megamacchina” che fila a gran velocità senza pilota e che quindi è condannata a fracassarsi contro un muro. Resistere significa allora tentare di frenare, di cambiae la direzione, se è ancora possibile.
Dobbiamo infine pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno: questa è la dissidenza».

Passiamo a qualche proposta che possa aiutare a trovare un’alternativa economica, professore. Una delle parole che lei utilizza di più è «decrescita». Un termine che non esiste in alcun dizionario economico e che metterebbe i brividi in qualsiasi consesso…
«Sì, una delle mie parole d’ordine è decrescita.
Come facciamo noi occidentali a dire ai cinesi: se tutti voi volete una macchina, il pianeta verrà distrutto? È per questo che abbiamo il dovere di dare l’esempio: cominciamo noi a decrescere. Non facciamo come gli americani che a Kyoto dissero che i paesi del Sud devono diminuire le emissioni di gas inquinanti…
I paesi occidentali hanno il dovere di dare l’esempio, cambiando il modo di vivere. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. In ultima analisi, la decrescita è una attitudine naturalmente etica, che ha un valore straordinario, perché dimostra che si può vivere felicemente, consumando molto meno».

Abbiamo parlato delle responsabilità degli Stati Uniti. E dell’Europa che si può dire?
«Noi abbiamo lo stesso modello economico e questo spiega la rabbia degli americani che dicono: noi andiamo a fare la guerra anche per voi, eppure voi fate obiezioni continue.
E, una volta tanto, non hanno tutti i torti. C’è una contraddizione nella posizione europea che continua a sostenere un modello di funzionamento economico quasi eguale a quello americano, ma non vuole accettae tutte le conseguenze».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Se vogliamo veramente costruire un’Europa come potenza autonoma, dobbiamo fare qualcosa anche dal punto di vista economico. Dobbiamo continuare a difendere il modello sociale e creare uno spazio economico autonomo».

Concretamente…
«È assolutamente necessario introdurre delle barriere protezionistiche per non distruggere quel che rimane del modello europeo e avere uno spazio di libertà.
Non c’è autonomia in un sistema completamente globalizzato. Come ha cinicamente detto Henry Kissinger, la mondializzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana».

Dalle sue esperienze in Africa (Congo, Mauritania, Senegal), lei ha tratto uno dei suoi libri più noti: «L’altra Africa, tra dono e mercato». Se dovesse dire due parole sul continente africano, come lo descriverebbe?
«È difficile, perché è un continente di paradossi; un luogo tra i più disperati del mondo, eppure anche un luogo di speranza…
Statisticamente l’Africa non esiste più. Produceva il 2% del prodotto interno lordo mondiale quando scrissi quel libro ed era il 1997. Oggi la percentuale è scesa all’1%.
Settecento milioni di abitanti sopravvivono, ma non tutti sono disperati. Anzi, si vede la gioia di vivere, la speranza. Eppure, consumano molto meno di quanto sarebbe loro diritto».

Se qualcuno le chiedesse di disegnare un possibile futuro, positivo e ottimista, ce la farebbe?
«No, perché non penso ad un futuro, ma a diversi futuri. Sono, da questo punto di vista, più ottimista degli altri, perché credo che non ci sia un altro mondo possibile, ma altri mondi possibili. Lo stesso movimento no-global è un movimento tipicamente occidentale. Mancano i musulmani, mancano i cinesi, che sono più di metà dell’umanità. Ci sono – è vero – anche rappresentanti del Sud, ma quasi sempre sono occidentalizzati.
Per questo, non possiamo dire che il movimento no-global è “la società civile mondiale”. Siamo (anch’io mi ci metto) l’opposizione occidentale all’Occidente».

Scusi, ma dove sta allora l’ottimismo di cui parla?
«Penso al crollo di questo modello, che è già fallito. Penso a tutte le culture e a tutti i popoli che costruiranno questi futuri, tutti diversi, facendo una sintesi tra la tradizione perduta e la modeità inaccessibile».

Paolo Moiola

Box 1

Le spese militari nei primi 10 paesi (2003)

Paesi: Spese Spesa % su totale
militari (a) pro-capite (b) mondiale

Stati Uniti 417,5 1.419 47 %
Giappone 46,9 367 5 %
Gran Bretagna 37,1 627 4 %
Francia 35,0 583 4 %
Cina 32,8 25 4 %
Germania 27,2 329 3 %
Italia 20,8 362 2 %
Iran 19,2 279 2 %
Arabia Saudita 19,1 789 2 %
Corea del Sud 13,9 292 2 %

(a) Spese in miliardi di dollari Usa
(b) Spesa annuale in dollari Usa
Fonte: Sipri

Box 2

La spesa pubblica in Europa (2003): spesa pro-capite (in euro)

Paesi: Istruzione Sanità Assistenza Ambiente Difesa

UE 1129 1.625 1.558 144 429
Francia 1.356 1.918 1.754 208 608
Germania 1.062 2.000 2.049 126 370
U.K. 1.048 1.595 1.619 127 595
Italia 887 1.230 545 149 424

Fonte: Eurostat

Paolo Moiola




Fuori dalle gabbie!

«Giovani musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza religiosa e dinamiche socio-culturali»: è stato il tema del Convegno internazionale, tenuto presso il «Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli»
di Torino. È emerso che molti giovani musulmani cercano di conciliare identità islamica e valori occidentali. Ma non tutti.

«In un’epoca in cui qualsiasi religione rischia di essere strumentalizzata e vista come causa di contrapposizioni e guerre, vogliamo ribadire che la vita insieme, la frequentazione degli stessi spazi, l’accoglienza reciproca, il dialogo alla pari sono possibili. Che le religioni sono una risorsa per qualsiasi società. Ne sono la linfa vitale e la possibilità di speranza».
Questo comunicato stampa è la sintesi di un importante incontro svoltosi ad Albano Laziale dal 19 al 21 marzo 2004 (una settimana dopo la strage di Madrid) tra Giovani musulmani d’Italia (Gmi), Unione dei giovani ebrei italiani, Federazione universitari cattolici italiani (Fuci) e giovani delle Acli.
Questo storico incontro è stato seguito dalla sociologa Annalisa Frisina dell’Università di Padova, che da tre anni studia l’associazione Gmi. La stessa studiosa, durante il Convegno internazionale, tenutosi l’11 giugno presso il Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli, ha ribadito: «Avendo assistito ai gruppi di discussione su Le radici culturali dell’Europa, Laicismo e laicità dello stato, Religioni e cittadinanza, ho potuto constatare come non si sia trattato di una facile “dichiarazione di intenti”, ma stia significando per i Gmi, come per gli altri partecipanti a questo tipo di iniziative, una profonda messa in discussione e un lavoro critico e impegnativo».

IN ITALIA: IDENTITÀ E INTEGRAZIONE
Quanti sono i musulmani in Italia? Com’è nata l’associazione dei Giovani musulmani d’Italia? Chi la anima? Quali obiettivi si propone? L’entusiasmo e la professionalità della Frisina nel presentare i risultati della sua ricerca hanno offerto dati e informazioni importanti e significative.
«Secondo il Dossier statistico immigrazione 2003 di Caritas/Migrantes, alla fine del 2002 in Italia c’erano 553.007 musulmani (36,6% dei 1.512.324 stranieri regolarmente presenti), facendo dell’islam la seconda religione in Italia.*
Diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei, la provenienza dei musulmani è molto diversificata: troviamo persone originarie dal Maghreb (in prevalenza marocchini), Mashreq (Egitto, Libano, Palestina, Siria, Iraq), Africa subsahariana (Senegal, Nigeria, Sudan, Mali, Somalia), e poi dal Pakistan, Iran, Bangladesh, Balcani… Si può ipotizzare che i giovani musulmani siano tra 100-250 mila».
L’associazione Gmi è nata nel 2001, due mesi dopo il fatidico 11 settembre. Intervistando i membri dell’associazione, la sociologa ha rilevato come i giovani «possano sentirsi continuamente chiamati in causa, quasi presunti colpevoli in quanto musulmani».
Attualmente l’associazione è formata da circa 300 giovani (69% tra i 15-17 anni e 31% tra 18-23 anni), tutti cresciuti e formati nelle nostre scuole, in molti casi sin dall’infanzia (il 44% è nato in Italia), per la maggior parte residenti nel nord Italia e con famiglie, provenienti da Marocco (45%), Siria, Egitto, ben inserite come operai, commercianti, medici nel nostro paese.
Già partecipanti ai campi estivi organizzati dall’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii), i giovani musulmani hanno sentito l’esigenza di autonomia e autogestione, perché ritenevano le loro esperienze di vita troppo diverse da quelle dei loro genitori, e anche perché, dopo l’11 settembre, in Europa e in Italia è cresciuta l’islamofobia, fomentata tra l’altro dall’informazione superficiale e stereotipata dei nostri mass media.
Infatti, in tre anni di attività, i Gmi hanno tentato significativi rapporti con i mass media e intrapreso diverse iniziative interregionali e interculturali, culminate con l’importante e significativo incontro del marzo 2004.
Gli obiettivi principali dell’associazione Gmi, formalizzati da statuto, sono di due tipi: sul versante interno essi intendono promuovere la costruzione identitaria dei giovani musulmani, italiani ed europei, attraverso attività formative che valorizzino e approfondiscano la loro fede; sul versante esterno, intendono impegnarsi a livello locale, nazionale ed europeo «per la giustizia, la pace e salvaguardia dei diritti umani» (art. 3 dello statuto).

VOGLIA DI AUTONOMIA
La Frisina ha seguito alcuni convegni del Gmi e ne ha descritto l’evolversi. Nel primo, tenutosi a Bellaria il 23-25 dicembre 2001, negli stessi giorni del xxiii Convegno nazionale dell’Ucoii, la presenza degli oratori adulti era predominante.
Durante il iii Convegno nazionale, svoltosi a Bagni di Romagna il 22-24 dicembre 2002, la Frisina, osservatrice partecipante, ha rilevato come ci «siano stati chiari segni di insofferenza verso la gestione direttiva da parte degli adulti e sia emersa l’esigenza di approfondire in modo diverso la propria fede per viverla da giovani italiani ed europei».
Infatti, gli oratori «con i loro discorsi costruivano continuamente una contrapposizione tra “noi musulmani” e “loro”, cioè i non musulmani». Anche quando i giovani espressero il loro apprezzamento per l’Europa che favorisce «libertà di espressione, la democrazia, l’uguaglianza davanti alla legge, i diritti umani», il vice-presidente dell’Ucoii chiese: «Siete sicuri che questi valori non ci siano nell’islam?».
Fu il giovane incaricato delle pubbliche relazioni, K. C., a rispondere per tutti: «Storicamente la forza dell’islam è stata quella di saper riconoscere e assorbire il positivo delle culture che ha incontrato. Credo che noi dobbiamo continuare così, riconoscendo i valori altrui, imparando ancora e dando il nostro contributo».
L’associazione elegge democraticamente i suoi rappresentanti, come ha ribadito con chiarezza la vice presidente – una ragazza ventenne con il classico velo, presente al convegno di Torino con altre amiche – e agisce in completa autonomia dalle associazioni degli adulti. Gli adulti sono presenti ai loro convegni, preoccupati della fede, morale e formazione dei ragazzi, ma sono i giovani a prendere le loro decisioni in modo autonomo.

VOGLIA DI PARTECIPARE
Infatti è diminuita la presenza degli «esperti» e sono aumentati i momenti ludici, gite, laboratori, dove i giovani si confrontano e imparano a presentare con chiarezza le loro idee in pubblico. Ad esempio, i Gmi hanno preso una chiara posizione contro chi invocava la rimozione del crocifisso dalle aule, «sostenendo che non rappresentava i musulmani italiani e che i “veri problemi” da discutere erano “come costruire la pace e una convivenza giusta”».
Il 23/11/2003 hanno anche scritto una lettera a Bruno Vespa, che con le sue trasmissioni televisive, popolate di ospiti da spettacolo, «alimenta il clima di paura e disagio nei confronti della componente islamica italiana». Come risultato l’attuale presidente dei giovani islamici J.K., già incaricato delle pubbliche relazioni, è sovente ospite del Maurizio Costanzo show.
La Frisina, dopo tre anni di attenta osservazione dei Gmi, commenta: «Le domande di inclusione dei giovani musulmani sono avvenute a più livelli: locale perché questi giovani partecipano attivamente alla vita del territorio dove vivono; nazionale, perché si sentono italiani e vogliono la “cittadinanza formale” per essere ufficialmente titolari di diritti e doveri; europeo, sia perché nei loro discorsi è molto spesso presente l’Europa, come una delle loro “appartenenze”, sia perché fanno parte di un’associazione giovanile islamica europea, il Femyso, e dello Youth Forum».
Si rivela infine importante ascoltare con attenzione le esortazioni di K.C., responsabile e portavoce dei Giovani musulmani italiani: «Noi qui rischiamo di non essere aiutati a vivere la laicità. La società, o meglio quelli che stanno guidando la società, non vogliono la laicità dei musulmani, stranamente… E quindi li vogliono sempre chiudere nell’angolo della religione. Invece la sfida è dire: “Guarda, noi siamo cittadini e usciamo da queste gabbie”. Vogliamo parlare di tutto… del condominio, del quartiere, della puzza delle fogne… Bisogna partecipare, partecipare!».

GRAN BRETAGNA:PIÙ BRITISH, PIÙ MUSULMANI
La prima moschea fu costruita a Cardiff nel 1870 da marinai dello Yemen. Nel 1963 le moschee erano 13; oggi sono circa mille e offrono istruzione religiosa per i bambini.
La vera immigrazione islamica iniziò negli anni ’60, con l’arrivo di lavoratori dal Pakistan, India, Bangladesh. Altri musulmani arrivarono dall’Europa dell’est, dopo il collasso della Jugoslavia.
Dal censimento del 2001 risulta che il 2,7% della popolazione britannica è formata da musulmani: circa 1,6 milioni; essi sono in prevalenza asiatici; 11,6% «bianchi» (60 mila dell’Est-Europa e 10 mila convertiti); 6,7% africani. Il 50% ha meno di 25 anni.
Le numerose organizzazioni musulmane asiatiche, costituite su base etnica, nel 1997 hanno dato vita al Muslim Council of Britain (Mcb) e attualmente raggruppa 350 organismi: moschee, istituzioni caritative ed educative, donne, giovani, professionisti. Lo stesso anno lo sparuto ma potente gruppo di arabi musulmani ha istituito la Muslim Association of Britain (Mab), che conta circa mille membri; ma nel febbraio 2003 è riuscita a mobilitare, a Londra, 2 milioni di persone contro la guerra in Iraq.
«La divisione più grande tra i diversi gruppi di musulmani – afferma nella sua relazione Yunas Samad, dell’Università di Bradford – è di carattere sociale: gli appartenenti al ceto medio frequentano le scuole superiori, con accesso a professioni di alto livello (medici, amministratori), mentre la maggioranza (bengalesi e pakistani), di origine proletaria e con basso grado di scolarità, è soggetta a un futuro incerto e al rischio di esclusione sociale».
I giovani musulmani della Gran Bretagna, di qualsiasi ceto e gruppo etnico, si sono trovati uniti e si sono fatti conoscere per le imponenti manifestazioni contro I versetti satanici di Rushdie e le due guerre del golfo.
Mentre per gli europei questi giovani sono definiti quasi «fondamentalisti»; i leaders musulmani, invece, sono preoccupati perché diventano troppo «occidentali». Infatti, mentre i loro genitori pregano o leggono il Corano in urdu o bengali, i giovani conoscono poco queste lingue e perciò si distaccano dalla tradizione. Paradossalmente, però, più diventano british, comunicando bene in inglese, più si radicano nell’identità musulmana.
I giovani musulmani delle classi più colte e agiate possono permettersi frequenti viaggi nei propri paesi d’origine e si rivelano anche i meglio integrati in Gran Bretagna. Tra i giovani lavoratori asiatici, invece, possono sfociare veri e propri conflitti violenti contro i «bianchi» (come è capitato a Oldham, Buely e Bradford), non tanto per una conclamata difesa della comunità, ma per un controllo del territorio.
Le giovani musulmane cercano, a poco a poco, di conquistare la loro indipendenza, sia nel proseguire la scuola che nel cercare un lavoro e un marito di loro scelta, non più imposto dalla famiglia. Invocano per questo la legge islamica, che richiede alla donna «la ricerca della conoscenza anche in ambienti misti, sempre a patto che le donne si vestano e si comportino con modestia».

GERMANIA:LITTLE ISTANBUL
La Germania conta circa 2,7 milioni di musulmani (3,5% della popolazione), in maggioranza turchi, che rappresentano il 26% degli immigrati. Circa il 50% dei turchi residenti ha meno di 25 anni.
Il 15-20% dei giovani musulmani ha successo sia in campo scolastico che lavorativo. Ma il 25% non ha terminato le scuole e fatica a inserirsi nel mondo del lavoro (40% di disoccupati), soprattutto nelle periferie delle grandi città, chiamate talora little Istanbul, per la forte concentrazione di immigrati turchi. Berlino, per esempio, conta 73 moschee, 58 delle quali sono frequentate da turchi.
Da decenni si parla dei turchi come di musulmani con una cultura diversa, difficile da integrarsi. Ma qualcosa sta cambiando tra le nuove generazioni. Il 35% dei giovani musulmani frequenta regolarmente la moschea. Una recente ricerca condotta in Westfalia, conferma che il 25% dei giovani musulmani si dichiara «credente e seguace degli insegnamenti islamici», mentre il 50% dichiara di «credere in Dio, ma non essere praticante». Solo il 30% afferma di aver seguito la scuola coranica per più di 3 anni.
«In Turchia lo stato proibisce alle donne di indossare il velo nelle scuole e università – afferma Czarina Wilpert, dell’Università di Berlino -. La prima generazione di immigrate turche indossava semplici foulard nella vita privata, di rado in pubblico. La seconda e terza generazione sembra che indossi il foulard anche a scuola, come rifiuto all’integrazione e dei valori della società occidentale».
Attualmente sono i singoli «stati» (länder) a decidere se le donne possono indossare il foulard nelle istituzioni pubbliche.
Pare, comunque, che molti giovani siano alla ricerca del «vero» islam, in modo «indipendente» dal rigido sistema di «valori» imposto dalla tradizione. Al tempo stesso, credono nei «valori democratici» e perciò vivono la loro religione come «un rispetto per i diritti dell’uomo», mentre sono critici nei confronti delle grandi organizzazioni islamiche che vorrebbero intrupparli.
Alcuni studi, focalizzati sui rapporti transnazionali, raggruppano i giovani musulmani in tre categorie: coloro che desiderano essere riconosciuti e accettati in Germania come «diversi»; gli ultraortodossi, che sognano una rivoluzione in Turchia; quelli che cercano la possibilità di ridefinire le normative in modo democratico in una società pluralista.
Alcuni, infatti, sono coinvolti in partiti politici. Ma secondo i servizi segreti tedeschi, in Germania ci sono 30 mila estremisti islamici, di cui 4 mila a Berlino. Interessante notare come i giovani turchi non amino definirsi «tedeschi», ma preferiscano l’identificazione locale come «turco berlinese».
Infine, un’importante ricerca afferma che «i giovani turchi in Germania sono socialmente coscienti e critici della crescente discriminazione, segregazione e razzismo della società in cui vivono».

FRANCIA:IL VELO… TRICOLORE
Non ci sono dati sul numero di musulmani in Francia; potrebbero essere 3 milioni o il doppio: si pensa che, quanti provengono da paesi di tradizione islamica, soprattutto nordafricani, siano automaticamente musulmani. La maggior parte di essi è concentrata nelle periferie delle città, dove si rileva il più alto tasso di disoccupazione (20%) tra gli immigrati nordafricani.
Malgrado l’emergere di un ceto medio tra questi immigrati, afferma il relatore Alexandre Caeiro, del Cnrs-Gsrl di Parigi, «in Francia l’islam continua a essere recepito come la religione dello straniero, del povero e dell’escluso», una combinazione che produce effetti molto negativi per l’integrazione dei giovani musulmani nel paese.
Nel 1987 si formò a Lione l’Union des jeunes musulmans (Ujm). Questi giovani sono nati in Francia e conoscono poco il loro «paese d’origine»; perciò, l’essere musulmani non fa parte del loro bagaglio culturale, ma serve a definire la loro identità. Ma «mentre l’islam dei genitori era conciliante, discreto e desideroso di integrarsi, l’islam dei figli non accetta compromessi ed è in rottura con i genitori e con i valori francesi».
L’istituzionalizzazione dell’islam in Francia è culminata nel 2003 con la costituzione del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm). Al suo interno le voci più critiche sono proprio quelle dei giovani, che vorrebbero un «islam francese», piuttosto che mantenere un «islam in Francia» con il contributo offerto dai paesi d’origine.
Per rappresentare i musulmani non legati a moschee e organizzazioni, sono sorti anche il «Consiglio dei musulmani laici» e il «Consiglio dei musulmani democratici». Attualmente in Francia esistono solo due scuole musulmane; ma, con l’attuale legge sulla laicità, forse queste scuole aumenteranno. I nord africani incontrano discriminazione nel mondo del lavoro, mentre le donne che indossano il velo non hanno accesso al pubblico impiego.
Tra le iniziative intraprese dai musulmani per un dialogo tra credenti di religioni diverse, c’è da segnalare il ciclo di conferenze organizzato alla moschea Adda’wa di Parigi: il carisma del direttore, l’algerino Larhi Kechat, indipendente dai paesi musulmani e dallo stato francese, attira moltissime persone. Però, vari atti di antisemitismo, perpetuati da giovani di origine nordafricana, lanciano segnali inquietanti.
«Nonostante gli elogi alla comunità islamica globale, i musulmani di Francia non si sono impegnati nella politica internazionale, eccetto che in manifestazioni occasionali a favore dei palestinesi e contro la guerra in Afghanistan e in Iraq».
Nel 2003, invece, i giovani musulmani sono stati molto presenti nei movimenti contro la globalizzazione e hanno partecipato attivamente, nel novembre 2003, all’European Social Forum di Parigi.
Interessante è, infine, rilevare che il dibattuto affaire du foulard è nuovamente esploso nel 2003; ma, mentre i leaders istituzionali musulmani discutevano sul da farsi, due ragazzine di 17 anni, con l’aiuto di una giovane esperta in internet, riuscirono a organizzare in tempi brevissimi una manifestazione a Parigi: più di 6 mila persone parteciparono a tale manifestazione, costellata di bandiere francesi ed europee: tantissime ragazze avevano indosso il foulard con i colori della bandiera francese.

Silvana Bottignole




L’Africa nel cuore

All’età di 92 anni, 65 spesi in Mozambico, padre Luigi Wegher
si è spento come una candela. È rimasto sino alla fine accanto alla «sua» gente, condividendone giornie e speranze, insieme alle sofferenze di 30 interminabili anni di guerra civile.

Aveva appena due anni, quando il piccolo Luigi domandò alla madre perché le campane della chiesa suonassero così a lungo. «È morto un santo» rispose la mamma Luigia.
Il santo in questione era il papa Pio x. A distanza di 90 anni, Luigi ricorda quel 20 agosto 1914 come fosse ieri: «Ha condizionato la mia vita» dice sorridendo.

Padre Luigi Wegher

nasce il 9 settembre 1912, a Sanzeno, in Val di Non (Tn). Fin da giovane dichiara la sua vocazione. I frati lo allettano perché si faccia francescano; un padre stimmatino gli propone di entrare nella sua congregazione; il parroco lo spinge nel seminario di Trento. «Ma non mi piaceva», racconta padre Wegher.
Un giorno passa per Sanzeno la signora Teresa Tommasini: incontra Luigi e gli parla delle missioni e dei missionari della Consolata. Il giovane è conquistato dall’avventura missionaria: ai primi di settembre del 1925 Luigi lascia Sanzeno, nonostante le lacrime di mamma Luigia, e raggiunge Rovereto.
Da appena due mesi, infatti, presso l’antico «romitaggio» del santuario della Madonna del Monte si sono stabiliti i missionari della Consolata e la signora Teresa ne è diventata un’entusiasta «zelatrice»: gira per il Trentino e fa «propaganda» per le vocazioni missionarie.
Quello di Rovereto è il primo centro di reclutamento o «casa apostolica», come si diceva a quei tempi, che i missionari della Consolata hanno stabilito fuori del Piemonte. Per ora, si legge nelle cronache del tempo, «gli allievi vengono solo accettati e disgrossati, ossia aiutati a comprendere cosa significa diventare missionari della Consolata, e preparati ai corsi ginnasiali nelle case in Piemonte».
Dopo un anno di «disgrossamento», il giovane Luigi, passa a Cavour (TO), poi a Torino per gli studi ginnasiali e il noviziato. Nel 1933 emette la professione religiosa e il 13 marzo del 1937 è ordinato sacerdote.

Scalpita per un anno

nella casa di Gambettola, come insegnante degli alunni del piccolo seminario, finché riceve la destinazione alle missioni in Mozambico.
Nell’estate del 1939 si imbarca sulla nave tedesca Usambara. «Il bastimento era infarcito di ritratti di Adolf Hitler – racconta padre Wegher -. Dopo 40 giorni di navigazione approdammo a Porto Amelia, oggi Pemba. Mentre fervevano le operazioni di sbarco, venimmo a sapere che era scoppiata la seconda guerra mondiale». A titolo di curiosità: nel viaggio di ritorno, l’Usambara viene affondata presso Calais da un siluro inglese.
Altri cinque giorni di viaggio in camion per raggiungere il Niassa ed eccolo nella missione di Massangulo, dove rimarrà per 40 anni, 30 dei quali al fianco di padre Pietro Calandri, il primo missionario cattolico giunto in quella terra, nel 1926, e fondatore della stessa missione.
A padre Wegher è affidata la direzione della scuola elementare, dove studiano centinaia di giovani provenienti da ogni parte del Mozambico e anche dal Malawi: Massangulo, infatti, è l’unica missione che, insieme agli africani, accoglie i mulatti che nessuno vuole.
Siamo in tempo di guerra. In Mozambico, colonia portoghese, le conseguenze del conflitto mondiale non sono così disastrose come nelle colonie inglesi, dove i missionari della Consolata vengono espulsi o imprigionati, perché italiani; ma i numerosi razionamenti si riflettono anche sulla missione di Massangulo e sulla gente del posto.
Le difficoltà spingono la missione a imboccare la strada dell’autarchia: coltivazione di campi e orti, allevamento del bestiame e altre ingegnosità foiscono ai missionari e agli alunni quanto è necessario per la sopravvivenza. Anzi, tali attività diventano altrettanti progetti di formazione. I missionari si rendono conto che non basta insegnare a leggere e scrivere, ma bisogna offrire agli alunni altri strumenti per affrontare le sfide della vita: così la scuola elementare si prolunga in quella di arti e mestieri, affidata alla direzione di fratel Ugo Versino.
Oltre a insegnare nei corsi professionali, padre Wegher dà vita a vari laboratori, che sono una vera primizia in tutto il Mozambico: insegna dattilografia, impianta una piccola tipografia; avvia uno studio fotografico, organizza un laboratorio di rilegatoria, dove vengono rilegati libri e bollettini ufficiali del governo.
Per 40 anni la formazione scolastica è il pane quotidiano di padre Wegher, tanto da essere chiamato «o professor», il professore per eccellenza. Ma rimane soprattutto il missionario, che usa tutti i talenti per evangelizzare piccoli e grandi. Appassionato di teatro, scrive copioni che i giovani rappresentano in varie occasioni; ogni sabato pomeriggio proietta pellicole ricreative ed educative per gli alunni e la popolazione circostante. I film di Charlot sono i più attesi, ma piacciono anche filmini e diapositive di scene di vita locale, da lui registrate nelle visite alle varie comunità dove svolge i suoi servizi religiosi.

Nel 1964 scoppia

la guerra d’indipendenza contro il colonialismo e la dittatura di Salazar. Padre Wegher legge la situazione senza compromessi e senza estremismi. Scriverà più tardi: «La dittatura non è stata una cosa buona; non lo nego. Dio me ne liberi! L’indipendenza è una cosa sacra. Ma non bisogna pensare che tutti i portoghesi presenti in Mozambico siano stati crudeli verso i neri».
Le autorità politiche, in particolare i governatori delle province, si rendono conto dell’utilità del lavoro dei missionari: li rispettano e sanno apprezzare la formazione tecnica foita dalle loro scuole.
Ma nella situazione di lotta per l’indipendenza e relative repressioni, scoppia il contrasto tra chiesa e colonia; i missionari non hanno altra alternativa: o fare come i portoghesi chiedono, o andarsene. Alcuni sono costretti a partire; padre Wegher sceglie di rimanere con la sua gente, accompagnandola nel cammino della liberazione.
Nel 1970 è nominato superiore della missione di Massangulo: sono gli anni cruciali della lotta armata. Nel 1975 assiste alla proclamazione dell’indipendenza del paese. Si pensa che sia la fine di tutti i problemi; ma non è così. Il nuovo governo marxista-leninista comincia a perseguitare apertamente la chiesa e le missioni, nazionalizzandone le opere e costringendo i missionari a domicilio coatto: alcuni abbandonano il paese; padre Wegher continua a restare accanto alla sua gente.
Ma il 23 maggio 1979 anche Massangulo viene nazionalizzata e la chiesa-santuario della Consolata chiusa. Il 6 giugno, senza salutare nessuno, con il cuore sanguinante, il padre deve lasciare la sua missione.
Tutto in fumo? Non secondo padre Wegher: «Per 40 anni ai miei ragazzi ho dato… i denti; ora vedo che sanno masticare bene». Migliaia dei suoi alunni, infatti, occupano posti di responsabilità nel paese; tre sono rettori universitari: Brazão Mazula all’università Eduardo Modlane e Carlos Machili all’università pedagogica, entrambe a Maputo; padre Filipe Couto è rettore dell’università cattolica di Beira.

«Il ricordo più bello?»

gli domandano i compaesani il giorno in cui festeggia 60 anni di sacerdozio. «Massangulo… Ma non riesco più a tornarvi» risponde sospirando, mentre qualche lacrima solca il volto rugoso. Prima la nazionalizzazione, poi la guerra civile hanno ridotto la missione in una situazione disastrosa: gli edifici sono in rovina, i macchinari della scuola professionale depredati, alberi e orti distrutti. Rivederla in quello stato lo farebbe morire di crepacuore.
Padre Wegher, però, non vive di nostalgie, né si rassegna all’idea di rientrare in patria. Chiede al suo vescovo cosa potrebbe fare. «Vieni con me e… scrivi!» gli ordina il vescovo. E ubbidisce (l’unica volta nella sua vita, scherzano le malelingue). Si installa nella casa del vescovo, fa da vice parroco della cattedrale di Lichinga e si mette a scrivere.
Fin dal suo arrivo a Massangulo, padre Wegher ha accumulato una mole enorme di appunti e scritti su tutto quanto gli è capitato a tiro: ricordi del suo caro amico padre Calandri, osservazioni sulla geografia del Niassa, storia e costumi delle popolazioni della regione, composizioni poetiche e teatrali.
Obbedendo all’ordine del vescovo, raccoglie e mette ordine a tutto questo materiale. Nel 1985 appare in Portogallo il primo volume di Um olhar sobre o Niassa (Sguardo sul Niassa); il secondo volume viene pubblicato in Mozambico nel 1997. Si tratta di una vera summa su storia e geografia, usi e costumi, miti e leggende, racconti e proverbi del popolo tra cui padre Wegher ha speso tutta la sua vita.
Nel 1982 viene insignito con la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. Nel 1986 è nominato vicario generale della diocesi; molte volte sostituisce il vescovo, costretto ad assentarsi per vari giorni quando visita le parrocchie della vasta diocesi.
Nel 1992 scoppia la pace, finalmente. La gioia è grande, ma, nonostante i suoi 80 anni, padre Wegher non si sente affatto in pensione. Oltre a continuare il lavoro di vicario diocesano, incarico che ricoprirà fino alla morte, si occupa delle vittime più sfortunate della guerra civile, poveri e handicappati, la maggioranza dei quali mutilati dallo scoppio di mine antiuomo. Ogni giorno ne incontra qualcuno, condividendo con loro quello che riceve da amici lontani e benefattori.
Nel 2000 viene deciso di rivitalizzare Massangulo. Il compito è affidato a padre Mario Teodori, che ogni settimana fa la spola tra Lichinga e la missione, 90 km di strada sterrata, per incontrare la gente e ricostruire le strutture essenziali. Per padre Wegher è una grande gioia; ma non ha più il coraggio di ritornare a Massangulo: tanti ricordi giorniosi e altrettanti dolorosi gli manderebbero il cuore in cortocircuito. Ma esprime il desiderio di ritornarvi dopo la morte.
Questa arriva, silenziosa, il 24 luglio 2004. «La sera trascorre come al solito – racconta padre Mario -, tra battute scherzose e vecchi ricordi. Poi accompagno il padre nella sua camera, dove si affloscia all’improvviso tra le mie braccia e si spegne come una candela».
Come aveva chiesto e come la popolazione della missione aveva subito reclamato, padre Wegher rientra nella sua missione, scortato da un imponente corteo di cristiani e musulmani e viene sepolto accanto al suo grande amico, padre Calandri.
Dal cielo continuerà a «olhar sobre o Niassa»: lo ha promesso nel suo testamento. •

Benedetto Bellesi




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



Il corridoio dell’Aids (e quello della speranza)


Beira (Mozambico)

Un paese che tenta di uscire dai guasti della guerra civile,
una giovane università che personifica la speranza.

Beira è molto diversa da come mi era stata descritta dai miei colleghi universitari. Quale radicale cambiamento è sopraggiunto negli ultimi anni?, mi sono chiesto appena giunto nella seconda città del Mozambico.
Sono stato subito colpito dalla multiculturalità del luogo. Sapevo già che, prima dell’avvento dei portoghesi, alla fine del quindicesimo secolo, si era avuto un flusso immigratorio di commercianti arabi. Non avrei però immaginato che esistesse una comunità che fosse riuscita a segregarsi (o ad essere segregata) così bene, tanto da conservare, immodificati, i caratteri somatici, gli abiti e la lingua. Quanto all’uso del velo per le donne, a coprire tutto il volto meno gli occhi, non me lo sarei aspettato.
Anche gli indiani sono numerosi e si distinguono bene per la caagione olivastra, le rotonde geometrie del volto, i capelli lisci, l’agilità nel passare all’uso della lingua inglese dalla «esse» sibilata, nonché per il continuo argomentare tra loro su qualità di prodotti, prezzi e convenienze, in stretta simbiosi con il luogo fisico dove commerciano.
Beira conta tra i suoi abitanti diversi cinesi, impiegati in opere infrastrutturali mastodontiche nel controllo delle acque e nello sviluppo delle vie di comunicazione, che sono sempre state le prerogative della loro cooperazione, in quanto esperienza storica maturata nel problematico dominio dei bacini dei fiumi Giallo ed Azzurro.
La multietnicità e multi-culturalità è completata da una variegata comunità di occidentali. Vi si comprendono russi e cubani, retaggio dello sforzo di sostenere la Frelimo durante la guerra civile. Vi sono statunitensi e britannici impegnati nelle ricerche petrolifere ed in alcuni servizi. Vi sono tedeschi, austriaci ed olandesi impegnati nei servizi ad alto valore aggiunto.
Vi sono gli italiani, i quali hanno fortemente contribuito al processo di pace tra Frelimo e Renamo e stanno accompagnando la ripresa del paese. E, naturalmente, vi sono i portoghesi.
Beira è una città troppo estesa per il suo mezzo milione scarso di abitanti. La bassa densità è evidente anche in centro. Qualche condominio a 10 piani non offre lo stesso paesaggio di un centro a grattacieli, come per esempio si osserva nella capitale zambiana Lusaka, che è poco più popolata di Beira. Il traffico automobilistico nelle ampie strade è scarso ed anche le attività commerciali del centro sono poco animate. Lo stesso traffico di navi al porto non è degno della fama del «corridoio di Beira».
Prende questo nome quella via di comunicazione che lega Beira con Mutare ed Harare in Zimbabwe, facendo tappa a Chimoio.
Avendo avuto la Renamo la sua base militare lungo questo corridoio, in quello che oggi è il parco della Gorongosa, ed avendo avuto la sua base di reclutamento nel centro-nord del Mozambico, lo Zimbabwe ha visto per lungo tempo insidiato il cammino verso il mare per i suoi scambi d’oltreoceano. La guerra civile poteva chiudere il corridoio ed interrompere il flusso dei prodotti. Per questo, all’epoca, la presenza militare zimbabwiana fu sempre molto forte, spingendosi fino alla periferia della città. Molte delle mine che ancor’oggi insidiano le gambe dei mozambicani nelle province di Sofala, Chimoio e Tete, sono state piazzate da loro.
Il «corridoio» ha purtroppo contribuito a veicolare anche un flusso supplementare: il virus Hiv, agente eziologico dell’Aids. A tutt’oggi, sembra che la più alta percentuale di sieropositività dell’Africa australe sia in Botswana ed in Zimbabwe, che si trovano all’altro capo di quel corridoio.
Il contingente militare zimbabwiano, all’epoca della guerra civile, era ben fornito di generi alimentari, verso i quali erano attratte le madri, bisognose di cibo per sé e per i propri figli e con un’unica merce di scambio disponibile: il proprio sesso.
Poiché anche il Sud Africa è un’area ad alta incidenza di sieropositività per Hiv, sarebbe ingiusto affermare che, senza quel canale, il Mozambico non avrebbe avuto l’Aids tra le calamità da fronteggiare. Tuttavia, la città ha avuto una pesante eredità da quell’epoca, soprattutto negli strati più poveri e meno educati della popolazione: oggi Beira, nell’area urbana, conta il 35.7 (+/- 5.4) % di donne gravide infettate.
Beira vide passare grandi quantità di merci per il suo porto, ma oggi, a pace raggiunta, nel momento in cui le opportunità si dovrebbero ampliare, ecco che gli scambi sono più fiacchi. Le ragioni stanno ancora una volta in Zimbabwe. Il declino politico ed economico degli ultimi anni di quel paese ha colpito, di riflesso, anche Beira, che si trova con meno investimenti.
Con i suoi ampi viali, le piazze con le rotonde di svincolo, il discreto stato di pulizia, i quartieri residenziali con edifici a due piani, avrebbe potuto essere un grande contenitore da riempire, ma così non è stato.
Al Club Nautico continuano a chiedere un obolo d’ingresso ai non soci, come ad eccitare la fantasia per un luogo esclusivo pieno di stabili frequentatori (i soci per l’appunto), ma per la cena del sabato sera non c’è bisogno di prenotare. Il Tropicana promette una giornata festiva fatta di buoni cibi, nuoto ed altri sports, ma sulle acque della piscina galleggiano foglie morte ed arbusti. Il Club Palmeiras, anche se ben visibile e architettonicamente concepito per abbracciare il cliente, è chiuso.
La seconda città del Mozambico sta insomma soffrendo una seria impasse sociale ed economica. Tuttavia, allo stesso tempo, è anche il tavolo dove si sta giocando la stabilità degli accordi di pace. Ad un Mozambico lungo quasi 3mila chilometri, con una capitale, Maputo, posta al suo confine meridionale, dove si accentrano scuole ed altri servizi e dove la Frelimo continua a dominare, Beira si pone come la soluzione per le popolazioni del Centro e del Nord del paese. Così anche la seconda firmataria degli accordi di pace, la Renamo, che ha i suoi sostenitori in queste province, può trovare soddisfazione nella pacifica convivenza.
In questo quadro, a Beira è nata e si è sviluppata l’Università cattolica (dossier su MC del febbraio 2003), un’istituzione che sta cercando di collaborare attivamente nel consolidamento della pace in Mozambico, offrendo alle nuove generazioni un’istruzione qualificata a costi accessibili, un esempio per molti paesi africani.

(*) Il dottor Nando Campanella è il vincitore della prima edizione del «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani». Il dottor Campanella è stato premiato con un viaggio a Beira, per visitare la facoltà di medicina dell’Università cattolica del Mozambico, istituto fondato dai missionari della Consolata.
Da gennaio 2005, il dottor Campanella lavora a Kampala, in Uganda, per cornordinare un progetto sanitario internazionale sull’Aids.

Nando Campanella