DOSSIER KOSSOVONel bus dei kossovari

Da Peja-Pec (Kossovo) a Rovereto (Italia)

Un viaggio sulle strade di Kossovo,
Albania e Italia diventa un’occasione per guardare al recente passato.
E cercare di immaginare un possibile futuro.

È presto quando arrivo davanti all’agenzia viaggi da dove dovrebbe partire l’autobus. L’appuntamento è per le sei meno dieci: arrivo puntuale ma non c’è nessuno, solo un signore con giacca, pantaloni scuri e camicia nera. Vestito comodo per viaggiare, penso io.
Dopo un quarto d’ora si parte, ma da Peja siamo solo in tre passeggeri. Da qualche parte salirà qualcun altro e un altro autobus arriverà da Pristina. L’albanese non lo parlo bene e lo capisco meno, ma questo è sufficiente per le formalità: «Dove vai, dove ti fermi, sei italiano?». C’è anche un uomo che parla italiano.
Intanto siamo diretti verso Prizren e riconosco posti e tratti di una strada percorsa tante volte, tre anni fa. Alla periferia di Peja una casa serba che avevo fotografato per documentae lo stato alla padrona che era scappata è ora utilizzata come deposito di bottiglie di birra o altre bibite. Poi c’è il cimitero albanese curato e con tombe nuove e quello serbo integro, ma abbandonato. La visione di insieme è più normale rispetto ai miei ricordi. Ora ci sono i tetti sulle case, cioè il telo rosso d’emergenza è stato sostituito dalle tegole. C’è poi Ljubenic, dove sono state uccise 60 persone e ora c’è un monumento a ricordarle; un altro villaggio più avanti era stato bombardato nel ’98 dall’aviazione serba ora è, alla vista, totalmente ricostruito.
Arriviamo a Decan, anche qui monumenti e un paio di passeggeri. Arriviamo a Gjakova, non prima di aver passato la zona industriale in parte bombardata e ancora abbandonata. La stazione dei bus a Gjakova è di fronte alla caserma del contingente italiano, negli spazi di una ex caserma serba.
Un ragazzo saluta un uomo più anziano e un bambino. Si allontanano su una macchina con targa tedesca, probabilmente dono del figlio immigrato. Compro del burek e del pane per il viaggio: non spendo molto e mi pare di aver fatto un affarone.
Si riparte. Altro paesaggio noto, reso più normale dall’avvenuta ricostruzione. Le casette a schiera costruite dal regime per accogliere serbi nella regione e tentare di serbizzare il Kossovo ora come tre anni fa sono abitate da albanesi, risparmiate dal fuoco vendicatore. Passiamo poi da un paese (di cui non ricordo il nome); c’è un deposito di gas bombardato dalla Nato tale e quale a come lo ricordavo. Vedo l’imboccatura della strada per Suva Reka, ma non ho rimpianti per non essere stato anche da quelle parti a trovare i vecchi amici. In cuor mio so che, a breve, sarò di nuovo qui.
Più avanti ricordo le vigne, un albergo abitato da gente senza casa che oggi è vuoto (tutti hanno un loro tetto ora). Dove 4 anni fa (quando percorsi la prima volta questa strada) c’era ancora un monumento ai partigiani e al Bratsvo iedinstvo (fratellanza e unità), le corone di fiori per le vittime albanesi di una strage avvenuta durante i bombardamenti sono diventate un monumento che ha preso il posto di quello vecchio.
Siamo ormai a Prizren, ma non si passa dal centro, quindi non posso apprezzare la bellezza di questa città che ricordo bella. Altra sosta: arrivano quelli da Pristina. Siamo ancora pochi, forse una quindicina. Si parte.
Poco fuori dalla città ci si ferma per fare acquisti, poi di nuovo in marcia e vedo la frontiera di Morini, che era il segno della fuga albanese e che tanto triste era nei telegiornali e nei filmati dei nostri volontari e tanto era giorniosa quando, il 20 giugno del 1999, anch’io la attraversai sulle tracce di quei profughi che tornavano a casa. Passare quella frontiera voleva dire la fine di un incubo.
La parte che era stata occupata dai serbi ora non fa più paura anche se un poliziotto internazionale bulgaro parla serbo.
Il trattamento da parte della polizia Unmik e di quella internazionale non è però tanto educato. Ci fanno scendere tutti e ci mettono in fila. Un poliziotto tedesco guarda i nostri documenti e analizza minuziosamente i visti tedeschi sui documenti dei miei compagni di viaggio. Quando arriva a me, mi chiede il permesso di soggiorno. Prontamente, rispondo: «Sono italiano: non mi serve il permesso di soggiorno».
Passa oltre e controlla particolarmente due ragazzi. Uno viene fermato: pare che utilizzasse un passaporto non suo. Un altro ragazzo è tartassato un po’. Alla fine, si parte verso i controlli della polizia albanese; siamo uno in meno.

ALLA FRONTIERA ALBANESE

Alla frontiera albanese ci sono lavori in corso e la strada è dissestata. Ci vengono dati i cartellini per il «visto»: il risultato è che io con il passaporto italiano pago 10 euro, quelli col passaporto Unmik o jugoslavo nulla e quelli con il travel document tedesco due e mezzo.
Dei bambini che vendono sigarette salgono sull’autobus, sono molto insistenti e vengono cacciati a malo modo. Ciò nonostante continuano a sostare nei pressi del mezzo, finché non arrivano altri potenziali clienti.
Passiamo oltre e l’Albania si presenta povera e triste come la ricordavo, ma forse la stagione, il verde o il tempo mi fanno pensare che in qualche cosa sia migliorata. Ci sono i bunker e il paesaggio duro, pastori e contadini che falciano l’erba, vecchie case malandate e un container con una croce rossa dipinta sui lati è diventato un baracchino dove si vendono bibite e altri generi di conforto.
Kukes appare brutta, ma forse meglio di 4 anni fa. Stanno facendo lavori di consolidamento sulla strada. Lo scheletro di una fabbrica o di una miniera domina la città come allora. Cerco le tracce dei campi profughi ma non riesco a ricordare o ad individuare la loro ubicazione. Mi colpisce una scritta che inneggia all’Uck, forse lì dal tempo del soggiorno dei kossovari.
Avanti il paesaggio albanese ha la costante dei bunker disseminati sul territorio all’epoca di Enver Hoxa. Incontriamo bambini che tornano da scuola. C’è chi ci saluta e chi ci fa gestacci con la naturalezza tipica dei bambini. Il paesaggio è aspro, povero, ma bello e affascinante. Rimpiango di aver lasciato la macchina fotografica nello zaino che sta nel bagagliaio. Mi assopisco, ma poi mi sveglio. Siamo fermi.
Una Mercedes bianca è ferma avanti a noi, c’è un poliziotto, una specie di finanziere visto che ha una fascia con scritto «dogana». Non capisco quale infrazione ci contesti, ma poi siamo costretti a caricare dei pacchi di riviste (destinate agli immigrati in Germania) sulla macchina del finanziere, che stranamente ha targa kossovara; chissà come il finanziere ha importato la sua auto con targa kossovara in Albania. Ci viene contestata una certa infrazione sulle regole di importazione.
La contrattazione è concitata e continua. Non capisco i termini dell’accordo, ma quasi tutti i pacchi di riviste tornano sull’autobus. Più tardi ne sfoglio una e mi accorgo che è una specie di Settimana enigmistica in forma albanese. Siamo proprio dei criminali incalliti: siamo stati fermi per quasi un’ora su di una strada di montagna in Albania per importazione illegale di enigmistica!
Il viaggio continua. Incomincio a conoscere i miei compagni: tutti uomini che da anni lavorano in Germania, chi con tutta la famiglia al seguito, chi da solo, cioè con moglie e i figli rimasti in Kossovo.
C’è anche Norbert, il ragazzo tartassato dalla polizia Unmik. Lui sta sempre zitto, non parla praticamente albanese (figlio di immigrati, penso).
Dormo a tratti, ma la curiosità per il paesaggio più che la strada accidentata non mi permette un sonno prolungato.
Facciamo una pausa presso un ristorantino molto carino e pulito, ma io non mangio (questioni di budget e di linea), poi il burek di Prizren mi ha riempito lo stomaco.

AL PORTO DI DURAZZO

Arriviamo piuttosto presto a Durazzo, dove facciamo una prima sosta ad un distributore di benzina moderno e di stile occidentale (molto diverso da quelli incontrati nell’interno). La sosta serve per il lavaggio dell’autobus. Noi passeggeri aspettiamo e osserviamo le fasi del lavoro.
Converso con l’unico viaggiatore che parla italiano. Lui è arrivato a destinazione. Si ferma a Durazzo per un matrimonio, poi ritoerà in Kossovo. L’uomo mi racconta di aver lavorato per la Croce rossa italiana e ora per una Ong inglese di nome War Child, che si occupa di bambini.
Mi racconta di aver vissuto molti anni in Croazia, ma poi con l’inizio della guerra nel ‘91 è tornato in Kossovo, dove il destino gli ha regalato la guerra del ‘99. In Croazia ha perso casa e negozio, in Kossovo altrettanto. La sua famiglia ora vive in Canada. Parla dei serbi come la causa di tutte le guerre dei Balcani, anche se ammette che non sono tutti criminali.
Parliamo in generale della Jugoslavia di Tito e lui dice che gli albanesi comunque non sono mai stati liberi e che il regime ha sempre impedito lo sviluppo del Kossovo. Qui si arrampica sugli specchi e mi dice: «Guarda le città albanesi come sono ben costruite urbanisticamente, con le strade larghe, non come in Kossovo» e mi indica la superstrada costruita un anno fa, che abbiamo di fronte.
Dopo una giornata passata sul sistema viario albanese, mi sento di smentire questa affermazione. Hoxa dal punto di vista urbanistico non era meglio di Tito, anche se giudicare due dittatori dal sistema viario dei loro paesi mi sembra limitato.
Saluto l’amico che parla italiano che parte su una macchina guidata dai parenti dello sposo e risaliamo sull’autobus. Ormai faccio parte del gruppo con l’appellativo di «italiano».
Altra sosta, ad un crocevia. Dobbiamo aspettare che arrivi quello dell’agenzia che ci venderà i biglietti del traghetto. Passano moltissime macchine di lusso e altrettante cadenti segno delle contraddizioni albanesi; molte di queste automobili hanno targa italiana, tutti gli autobus sono italiani, passano anche mezzi della Kfor italiana, segno che qui c’è qualche base logistica. Aspettiamo un’ora e mezza durante la quale familiarizzo ulteriormente con i miei compagni di viaggio. Chiaramente si finisce a parlare di donne, particolarmente di quelle kossovare. Loro smentiscono il fatto che nei villaggi sia pericoloso avvicinare le ragazze, io faccio molte volte il segno del fucile e dico in un albanese maccheronico: «Khalash, kossovar gelos». Loro negano. Non ci credo. Comunque sia, io non sono mai stato in Kossovo per le donne.
La geografia è un altro argomento che va per la maggiore: da dove vieni?, dove vai?
Finalmente arriva l’addetto dell’agenzia. Entriamo in un ristorante bar, dove una scrivania funge da ufficio distaccato. L’uomo dell’agenzia è un vecchio minuto, un po’ sgarbato, che raccoglie tutti i nostri passaporti e incomincia a compilare una lista sollevando e abbassando continuamente gli occhiali, che nulla possono contro la sua miopia. Quest’uomo, che da tutti poi verrà chiamato semplicemente «plaku» (vecchio), mi ricorda uno dei personaggi del film Lamerica.
Dopo un po’, ci chiama uno ad uno: 35 euro senza cabina, 45 euro con la cabina. Norbert, il ragazzo albanese che non parla albanese, viene aiutato dagli altri che parlano il tedesco. Al gruppo si aggiungono altri due ragazzi, albanesi d’Albania: uno si fermerà a Bari, mentre l’altro proseguirà per la Germania.
Quando, finalmente, ci dirigiamo al porto già comincia a far buio. Arriviamo davanti ai cancelli e sullo sfondo c’è il nostro traghetto. Nota caratteristica di questo viaggio da qui in avanti sarà l’attesa. Aspettiamo davanti al cancello, sorvegliato da un poliziotto, una mezz’oretta. Poi «plaku» ci dice che il nostro traghetto non partirà: ha un’avaria, dobbiamo muoverci verso un altro molo, dove è attraccata la nave Palladio della Tirrenia.
Il biglietto ci costerà 10 euro in più per il passaggio ponte, mentre per chi, come me, sognava una cabina il prezzo è proibitivo. Aspettiamo un altro po’. Ora per «plaku» il problema è trovare i biglietti per questa nave. Facciamo i controlli di polizia: gli albanesi non mi chiedono il permesso di soggiorno e una bella ragazza mi timbra il passaporto in uscita. Raggiungiamo la nave e inizia una nuova, lunga attesa. Non abbiamo i biglietti e non possiamo salire.
Intanto alcuni di noi mancano all’appello, rallentati dai controlli di polizia. Aspettiamo almeno due ore: arrivano tutti tranne Norbert (l’albanese che non parla albanese). Lui rimane a terra: pare che la foto sul passaporto non gli somigliasse molto.
Sono già le undici quando il «plaku» ci porta i nostri biglietti. La nave è piena di gente e, oltre al personale, penso di essere l’unico italiano in coperta. Sono tranquillo, ormai sono uno del gruppo e, come tutti i kossovari, nell’attesa e poi sulla nave, ho modo di criticare i fratelli albanesi d’Albania. Salgo sul ponte per vedere la partenza. Poi mi trovo una poltroncina e dormo quasi tutta la notte, in uno stanzone con altre 60 persone.
Quando mi alzo, siamo già in vista della costa. Finalmente attracchiamo a Bari e già sogno casa, anche se so che ci sono almeno 10 ore di autobus. In qualità di italiano, supero tutta la fila degli albanesi e un poliziotto in borghese, dopo aver dato una occhiata veloce al mio passaporto, mi dice: «Vai Bettini, vai».
Sono fuori per primo tra il mio gruppo. Il nostro autobus arriva poco dopo, ma avverto che c’è qualche problema: l’assicurazione montenegrina è scaduta da qualche giorno e finché non si ha un’assicurazione valida non si parte. Intanto, nell’attesa, vado a vedere se arrivano gli amici kossovari. Un poliziotto in divisa mi chiede il passaporto e il perché io, italiano, mi trovo a viaggiare su un autobus di immigrati, albanesi kossovari. Rispondo naturalmente che sono povero come loro e che ho vissuto due anni in Kossovo. Fortunatamente, il poliziotto non è maleducato e questo impedisce che la mia indignazione prenda corpo.
Alla spicciolata arrivano tutti, solo il fax con la conferma dell’avvenuto pagamento assicurativo tarda. Poi tutto d’un tratto la cosa si risolve e si parte: sono le undici e mezza.
Ci fermiamo ad un autogrill, dove non faccio nemmeno caso all’altro autobus, parcheggiato di fianco al nostro. Poi vedo che gli altri scaricano i bagagli e, dopo aver chiesto informazioni nel mio albanese oramai perfetto, capisco che stiamo facendo un cambio di automezzo. Altre persone, anch’esse kossovare, salgono sul bus dal quale scendiamo noi. Capisco poi che il nostro bus con targa montenegrina toerà subito verso il Kossovo per questioni assicurative, trasportando delle persone che fanno il viaggio in senso contrario al nostro.
Il nuovo bus è anche più vecchio del precedente e ha targa KS ossia kossovara.
Finalmente mangio un panino col prosciutto, mentre i miei compagni di viaggio si deliziano guardando videocassette popolari del tipo «gzuar 2003» o ancor peggio del sano umorismo nazional-popolare, condito di canzoni patriottiche con tanto di cantante davanti alla casa di Adem Jashari a Drenica, ora Skenderaj.
La scorta di videocassette dura almeno fino a Verona. Io mi difendo con il walkman e un po’ dei «Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio.
Ad ora di cena ci fermiamo nuovamente presso un autogrill. Andiamo verso il bagno e un’addetta alle pulizie dice qualche cosa del tipo: «Arrivano anche i kossovari». Non capisco bene il senso della frase, ma mi verrebbe voglia di sbatterle in faccia il mio passaporto italiano e chiederle cosa ha contro i miei amici albanesi. Mi stizzisco e, quando esco, non le lascio la mancia.
È strano sono in Italia e altri italiani mi credono straniero e mi guardano come tale. Trovo la cosa interessante ed istruttiva, per questo mi sforzo ancor più di parlare albanese… Nessuno ti dice nulla, ma sono gli sguardi quelli che parlano. Alla donna delle pulizie mi verrebbe da dire che i kossovari, che lei guarda come pezzenti, probabilmente in Germania guadagnano più di lei.
Finalmente le montagne prendono il posto della pianura e in un batter d’occhio siamo a Rovereto. Saluto tutti, ormai siamo amici.
Ciao, compagni di viaggio, buona fortuna, Rruga moor. •

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOScheda geopolitica

Status giuridico: il Kossovo (Kosovo i Metohia per l’etnia serba e Kosova per l’etnia albanese) è una delle due province della Serbia (l’altra è la Vojvodina), stato questo che fa parte della ex Federazione Jugoslava, dal 4 febbraio 2003 «Confederazione delle Repubbliche di Serbia e Montenegro». La provincia del Kossovo confina direttamente con Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Dal 1999 è un protettorato delle Nazioni Unite.
Superficie: 11.000 kmq. (come l’Abruzzo) e una popolazione di circa 2.100.000 abitanti, di cui circa il 90% di etnia albanese (di religione musulmana con piccola minoranza cattolica), l’8% di etnia serba (di religione cristiano-ortodossa), il 2% è costituito da turchi, macedoni, rom.
Lingue: albanese, serbo, turco, bosniaco, gorano.
Religioni: musulmani, ortodossi, cattolici.
Capitale: Pristina (200.000 abitanti).
Partiti politici: Ldk, Lega democratica del Kossovo, di Ibrahim Rugova, attuale presidente; Pdk, Partito democratico del Kossovo, di Asim Thaci, ex comandante generale dell’Uck; Aak, Alleanza per il futuro del Kossovo, di Ramus Aradinaj, ex comandante Uck della regione di Paja; tutti questi partiti sono albanesi.
Economia: è la più povera della ex Jugoslavia, anche se sul territorio ci sono risorse minerarie di rilievo. Attualmente si basa su 2 cespiti: le rimesse dall’estero e gli investimenti delle organizzazioni umanitarie.
I tassi di natalità e mortalità infantile sono i più elevati in Europa: più del 50% della popolazione ha meno di 20 anni e l’età media è di 24 anni.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOScheda storica

• Storicamente il Kossovo è considerato dai serbi come la culla della loro civiltà e per secoli lo hanno conteso ai turchi. Anche se, dall’altra parte, la presenza albanese nella regione è (secondo alcuni) storicamente provata sin dai tempi degli Illiri. Dal XII fino al XIV secolo il popolo slavo dei serbi occupò progressivamente queste regioni senza espellere la popolazione autoctona. Anche nel 1389, quando la Serbia fu sconfitta nella battaglia di Kossovo Polje contro gli ottomani, c’erano albanesi al suo fianco. Durante i 5 secoli di impero ottomano, il Kossovo è stato una delle quattro unità amministrative albanesi. Dopo la fine della dominazione ottomana, nel 1913 viene spartito tra Serbia, Montenegro e Albania.
• Nel 1878, a Prizren, nel sud del Kossovo, viene fondata la «Lega di Prizren», centro del movimento nazionale di tutti gli albanesi. L’obiettivo principale è la liberazione nazionale di tutti gli albanesi.
• Nel 1881 torna il dominio turco che dura fino al 1912, quando il Kossovo viene affidato alla Serbia dopo la 1.a guerra balcanica.
• Con l’accordo di Versailles il Kossovo e la Macedonia vengono assegnate al Regno jugoslavo, nel periodo che va dal 1919 al 1940, senza interpellare la popolazione in maggioranza macedone e albanese. Gli albanesi, a differenza di altri gruppi etnici, non godono di alcun diritto di minoranza.
• Tra il 1941e il 1943, il Kossovo e la parte occidentale della Macedonia vengono occupate dall’Italia e unite all’Albania. Si istituisce il protettorato italiano e si creano scuole in lingua albanese. Alla fine della 2.a guerra mondiale il Kossovo viene assegnato alla Federazione jugoslava. Con la Costituzione del 1946 diviene una provincia autonoma della Jugoslavia, con un potere di autogoverno.
• Tra il 1946 e il 1966 si vive un periodo di dura repressione per opera della polizia jugoslava comandata dal ministro degli interni Alexander Rankovic. Più di 100 morti, con deportazione di numerosi intellettuali.
• L’autonomia del Kossovo viene ampliata dalla nuova costituzione del 1963 e poi del 1974. Il Kossovo, nella sua qualità di Provincia autonoma, viene riconosciuto come uno dei soggetti costitutivi della Jugoslavia, con una propria costituzione, un proprio governo, parlamento, magistratura, sistema scolastico ed altre istituzioni indipendenti da quelle serbe.
• Nel 1981, morto Tito, ci sono i primi moti indipendentisti, domati con la legge marziale. Il Kossovo chiede di essere riconosciuto come repubblica al pari delle altre.
• Nel 1987 Milosevic prende il potere a Belgrado. Inizia il processo di cancellazione dell’autonomia del Kossovo.
• Una nuova rivolta comincia nel marzo 1989, dopo che Belgrado ha annullato lo status di autonomia. Sciopero ad oltranza di 1.300 minatori albanesi a Trepca, grande complesso minerario del Kossovo. Manifestazioni popolari di solidarietà in tutta la regione. Il 2 luglio il parlamento del Kossovo proclama la «Repubblica Kosova» all’interno della Jugoslavia. Il 5 luglio il parlamento viene sciolto da parte di Belgrado; il 7 settembre il parlamento albanese del Kossovo approva la nuova costituzione della Repubblica. La Serbia chiude la stazione Radio-Tv di Pristina, il quotidiano Rilindja, le scuole albanesi. Migliaia di albanesi sono licenziati o lasciano autonomamente il lavoro presso le ditte statali o legate al potere serbo. Inizia fra gli albanesi un’azione di riconciliazione nazionale che pone le basi per la scelta non-violenta del popolo kossovaro.
• Nel 1991 vengono licenziati tutti gli insegnanti albanesi del Kossovo; inizia l’insegnamento scolastico in lingua albanese nelle scuole parallele; il 10 settembre l’università di Pristina viene chiusa. Dal 26 al 30 settembre si tiene un referendum «clandestino»: l’87,5% della popolazione del Kossovo si esprime a favore della «Repubblica del Kossovo». La nuova Repubblica non riceve riconoscimenti inteazionali, se non da Tirana. Vengono boicottate le elezioni politiche e ne vengono organizzate di autonome.
• Gli albanesi del Kossovo eleggono il 24 maggio 1992, presidente della Repubblica, Ibrahim Rugova, capo della Lega democratica del Kossovo. Primo ministro è Bujar Bukoshi, esiliato in Germania. I kossovari creano una società parallela che gestisce le scuole, la sanità e le attività commerciali e politiche.
• Nel 1995 viene siglato il cessate il fuoco in Bosnia-Erzegovina con la firma degli accordi di Dayton, che non prevedono nessuna soluzione per il Kossovo. Non si contano le violazioni dei diritti umani in Kossovo e le richieste di mediazione internazionale portate avanti da Rugova.
• Nel settembre 1996 il presidente Milosevic firma per la prima volta un accordo con Rugova, con la mediazione della comunità di Sant’Egidio, sull’insegnamento della lingua albanese, fino ad allora boicottato.
• Il 1997 segna il riacuirsi delle tensioni: in gennaio il rettore dell’università di Pristina è gravemente ferito dall’esplosione di un’autobomba e a fine mese la polizia arresta decine di presunti terroristi dell’Esercito di liberazione del Kossovo (Uck). Il 16 dicembre successivo un tribunale serbo condanna per terrorismo 17 albanesi del Kossovo a complessivi 186 anni di prigione. La tensione sale.
• Il 28 febbraio 1998 unità serbe compiono un’azione nella zona di Drenica, assediando la casa di Adem Jashari, leader ideologico e fondatore dell’Uck, provocando 80 morti fra i civili albanesi. Inizia una fortissima repressione in tutta la regione. La polizia e l’esercito attaccano numerosi villaggi nelle zone centrali, una repressione che continua fino a giugno e provoca più di 300 morti. Il 22 marzo viene rieletto il presidente e il parlamento del Kossovo. È confermato Ibrahim Rugova e l’Ldk alla guida della Repubblica del Kossovo. Il 15 maggio, su pressione americana, Milosevic incontra per la prima volta Rugova per intavolare trattative dirette. Lo stesso giorno decreta un embargo interno contro il Kossovo. Alla fine di maggio viene attaccata la prima città, Decan. Quindicimila profughi si rifugiano in Albania, quasi quarantamila in altre città del Kossovo. La Nato svolge una serie di manovre per scoraggiare la violenza. A metà giugno Milosevic incontra il presidente russo Eltsin a Mosca, il quale scongiura un intervento della Nato. Sembra ripetersi lo scenario della guerra in Bosnia.
Gli attacchi serbi alla popolazione civile albanese continuano, anche l’Uck, seppur in misura minore, compie azioni contro i civili. Durante l’estate l’Uck avvia un’intensa attività di guerriglia in tutto il Kossovo. La reazione serba non si fa attendere e alla fine di settembre, il numero di albanesi vittime degli attacchi serbi ha superato il migliaio. Oltre 250 villaggi sono inabitabili, mentre più di 400.000 albanesi si sono rifugiati dove possono. La nonviolenza sembra aver esaurito la propria forza propulsiva e contenitiva allo stesso tempo, con l’apparizione pubblica degli aderenti all’Uck.
Il mediatore Holbrooke strappa a Milosevic, dopo tutta la serie dei tentennamenti della comunità internazionale che minaccia l’intervento armato, il ritiro nelle caserme della polizia serba e l’avvio di negoziati partendo dall’inammissibilità delle richieste kossovare di ottenere l’indipendenza. Una missione di 2.000 osservatori dell’Osce monitorerà le varie operazioni che dovranno portare alle elezioni del 1999, il rispetto dei diritti umani, il ritiro dell’esercito serbo nelle caserme e il ritorno dei profughi nelle proprie case.
• Il 15 gennaio del 1999, 45 civili albanesi vengono massacrati a Racak (strage contestata dai serbi che la considerano una montatura). I giorni successivi il procuratore del Tribunale penale internazionale, Louise Arbour, che indaga sul massacro, viene respinto alla frontiera serba. Le autorità di Belgrado ordinano l’espulsione del capo dei «verificatori» Osce William Walker che, recandosi sul posto, ha accusato le forze serbe di responsabilità del massacro. Il 29 gennaio i ministri degli esteri del Gruppo di contatto lanciano un’ultimatum politico ai governanti serbi e ai leader kossovari, per trovare un accordo sulla «sostanziale autonomia» del Kossovo. Il Gruppo di contatto convoca per il 6 febbraio a Rambouillet, vicino a Parigi, una Conferenza internazionale. I negoziati dovranno concludersi entro 7 giorni. Il 23 febbraio scaduto il nuovo ultimatum senza aver raggiunto un accordo, i ministri del Gruppo di contatto stilano la lista dei punti di accordo raggiunti che dovrebbe poi essere adottata quale punto di partenza di una nuova conferenza che si svolgerà a Parigi a partire dal 15 marzo. L’8 marzo i dirigenti militari dell’Uck autorizzano la firma dell’accordo di pace raggiunto a Rambouillet che la delegazione albanese firma il 18 marzo con l’accordo sull’autonomia del Kossovo, i serbi restano fermi sulla loro intransigenza. Il Gruppo di contatto sospende i lavori della Conferenza per alcuni giorni per concedere ai serbi di ritornare sulle loro decisioni. Il 23 marzo risultano fallite tutte le trattative e il 24 alle ore 20 la forza multinazionale sferra l’attacco sul territorio della Serbia. In Kossovo dopo il ritiro di tutti gli osservatori inteazionali i gruppi paramilitari serbi la fanno da padrona, numerose sono le stragi e l’espulsione di circa un milione di albanesi che si rifugiano per lo più in Albania, Macedonia ma anche Montenegro. Finalmente l’8 giugno viene raggiunto un accordo di pace: cessano i bombardamenti.
Il 18 giugno 1999 le forze Nato entrano in Kossovo e con loro rientrano anche i profughi albanesi. Parallelamente le forze di polizia e dell’esercito jugoslavo si ritirano fuori dai confini amministrativi del Kossovo.
Migliaia di serbi lasciano la regione, chi rimane subisce la vendetta. I serbi iniziano a vivere protetti dalle forze di sicurezza inteazionali. Viene insediata un’amministrazione internazionale Unmik che deve amministrare la regione passando gradualmente i poteri ad un’amministrazione locale fino alla definizione dello status del Kossovo.
In settembre l’Uck consegna ufficialmente le armi (anche se molti hanno dubbi sulla reale smilitarizzazione) e si trasforma in Tmk («Truppe di protezione del Kossovo») con compiti di protezione civile.
E dopo la guerra del 1999…
• 2000 – A ottobre il partito di Rugova, la Lega democratica, vince le elezioni amministrative.
• 2001 – A novembre si tengono le prime elezioni parlamentari. Vince il partito di Rugova.
• 2003 – Il 14 ottobre a Vienna primi colloqui tra Pristina e Belgrado dalla fine della guerra. Ma nel paese la situazione è ancora molto precaria con la comunità serba oggetto costantemente di violenze e di violazione dei diritti umani. Decine i serbi uccisi e feriti dalla fine della guerra.
• 2004 – A marzo ci sono disordini ed incidenti,
(a cura di Fabrizio Bettini)

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOLe missioni internazionali in Kossovo

Nel Kossovo sono presenti alcune missioni inteazionali sotto l’egida dell’Onu. Ecco, in sintesi, come sono organizzate e quali sono i principali obiettivi.
KFOR – La Kfor (Kosovo Force) è una forza multinazionale di pace a guida Nato, con il compito di stabilire e mantenere la sicurezza e controllare il rispetto degli accordi di pace, in base alla risoluzione Onu 1244. Nel 1999, all’inizio del suo dispiegamento, la Kfor era composta da circa 50.000 uomini. Ora il suo organico dovrebbe essere di circa 26.000 soldati, di 37 nazioni diverse. I soldati italiani sono 2.800. L’area di competenza è divisa in 4 zone, controllate da brigate multinazionali: il Nord-est a guida francese, il Centro a guida britannica, l’Est a guida statunitense e il Sud-ovest a guida italo-tedesca (nel 2002 sono state unificate le due precedenti zone, la Ovest a guida italiana e la Sud a guida tedesca). Il comandante della Kfor è attualmente il generale tedesco Holger Kammerhof, subentrato ad ottobre 2003 all’italiano Fabio Mini.
UNMIK – L’Unmik (United Nation Mission Kosovo) è un’operazione di pace approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per la riforma e la ricostruzione del Kossovo e per la preparazione del territorio alle elezioni e ad un’eventuale autonomia. Anche l’Unmik è stata istituita con la risoluzione 1244. Da agosto dello scorso anno, l’Unmik è guidata dall’ex primo ministro finlandese Harri Holkeri ed è composta da circa 3.000 persone. L’Italia vi partecipa con uomini della polizia e della guardia di finanza.
MSU – L’Unità multinazionale specializzata è nata all’interno della Sfor, la missione Nato in Bosnia. Nell’ambito dell’operazione Joint Guardian una parte è stata dislocata in Kossovo, dove agisce nell’ambito della Kfor. Ha tra i suoi compiti principali il controllo del territorio e il mantenimento dell’ordine pubblico. La Msu è una forza comandata e composta in gran parte da carabinieri italiani (circa 270), affiancati da contingenti della gendarmeria francese e della polizia militare estone.

Fabrizio Bettini




DOSSIER KOSSOVOVivere a Goradzevac

In una «enclave» serba

Emozioni e sentimenti di una volontaria
che sente sulla propria pelle la disperazione
di non riuscire a fare abbastanza.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

Toare in Kossovo è stato emozionante. Rivedere persone e luoghi a cui mi ero affezionata è stato importante e bello, ma è stato molto duro accettare l’evidenza della staticità della situazione, che sembra non lasciare spazio ad una evoluzione positiva.
La morte dei due giovani serbi di Gorazdevac, l’estate scorsa (13 agosto 2003), ne è la prova più triste ed evidente.
Erano andati a fare il bagno al fiume, e qualcuno ha cominciato a sparare, uccidendo a sangue freddo un ragazzo di 19 anni, un altro di 12 e ferendone altri. Il diciannovenne Ivan (si legga, più avanti, il toccante racconto di Fabrizio) era uno dei ragazzi serbi che si dava più da fare per dialogare e creare un contatto positivo con i giovani albanesi di Peja-Pec, uno di quelli che «ci stava» a mollare un po’ di pregiudizi e di condizionamenti politici per cominciare a vivere, a guardare avanti, oltre il check-point.
Così mi sono ritrovata a vivere a Gorazdevac, minuscola enclave serba, alle porte di Pec (o Peja, come viene chiamata dagli albanesi), a condividere con questi serbi rimasti in Kossovo, un mese della mia vita. Troppo poco per sentirmi utile, abbastanza per farmi aprire gli occhi e il cuore su quanto lontano sia l’orizzonte della pace nel cuore della gente, a 5 anni dalla fine della guerra «ufficialmente dichiarata».
Le giornate, in questa parte di Kossovo, trascorrono come ovattate, in sordina, uguali le une alle altre, scandite dal canto del gallo che quasi non sembra riconoscere il giorno dalla notte.
La gente semplicemente si sveglia, beve il suo kafa, la sua rakia, taglia la legna per il fuoco; le donne rassettano la casa, lavano i panni, preparano il pane, accolgono gli ospiti che passano a salutare, cucinano, lavorano a maglia. Pochi hanno la fortuna di lavorare e di poter contare su uno stipendio sicuro (nel senso di fisso, non certo nel senso di sufficiente al proprio sostentamento). I più si dedicano a coltivare il loro fazzoletto di terra e ad allevare le poche bestie che danno loro il latte, le uova e la carne che mangiano. Molti vivono grazie all’aiuto economico di parenti lontani che riescono a mandare loro qualcosa ogni mese.
Sono pochi quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno iniziato minuscole attività commerciali (piccole rivendite di generi alimentari) che bastano a guadagnare lo stretto necessario per sopravvivere, o poco di più. Il futuro è qualcosa di intangibile: è come se il tempo si fosse fermato. I giovani, i bambini e gli anziani condividono alla stessa maniera la loro tragica condizione di prigionia, trattando il futuro, o le proprie aspirazioni, come sogni irrealizzabili o troppo lontani (almeno quanto il confine con la Serbia) per poterli anche solo immaginare. Ogni giorno è uguale a quello precedente e a quello successivo…nulla scalfisce il senso di staticità di cui sono intrise le giornate di Gorazdevac.
Le feste del calendario ortodosso e i compleanni sono le uniche occasioni utili ad organizzare qualcosa di nuovo, a creare momenti di aggregazione dal sapore fresco (ma comunque sempre conditi da fiumi di alcornol). Tutto il resto è oblio.
I discorsi girano intorno ai ricordi del passato, alla politica e ai racconti di guerra, a episodi di violenza occorsi tra serbi e albanesi prima e dopo il 1999, a episodi della vita quotidiana che hanno come protagonisti gli stessi abitanti del villaggio o qualche raro «forestiero» capitato lì per sbaglio…
Quello che si respira da queste parti è un senso di impotenza che appesantisce l’animo, deprime l’umore, spezza le gambe.
La possibilità di una convivenza con la popolazione albanese è molto lontana: per loro una eventualità non presa in considerazione, neanche (anzi soprattutto) dai giovani; per noi che cerchiamo un «gancio» per la pace è un miraggio . Il sogno della «Grande Serbia» rappresenta nello stesso tempo lo stimolo a sopravvivere e il grande errore che non farà mai guadagnare agli abitanti di Gorazdevac (e tutti i serbi presenti sul territorio) ad una convivenza serena col resto del Kossovo.
C’è gente che dal ’99 non è mai uscita dai due check-point che delimitano i confini del villaggio. Andare a Peja-Pec, è semplicemente un tabù di fatto. Dopo la morte dei due ragazzi poi, la paura di uscire da Gorazdevac è molto forte, anche per chi viene scortato dalla Kfor. Sono veramente pochi i coraggiosi che si avventurano fuori del villaggio senza scorta e lo fanno quasi esclusivamente per business (come dire che, al solito, sono i soldi il magico «minimo comune denominatore» che unisce uomini di popoli, etnie, religioni, ideologie diverse, nel sacro vincolo del guadagno).
Il convoglio che parte da Gorazdevac per destinazioni serbe, attraversa (scortato dalle camionette della Kfor) le località kossovare senza fermarsi prima del confine, come una meternora con una destinazione prestabilita.

IL DIPLOMA SPARITO
Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?

Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

Al baretto dove si incontrano i ragazzi di Gorazdevac, si può bere birra, succo di frutta, e poco altro. Non ci sono tavoli e sedie: si sta in piedi chiacchierando del più e del meno. A volte (soprattutto il sabato sera) si improvvisano danze di gruppo al ritmo di qualche balcanica ballata. E si fumano centinaia di sigarette, che rendono l’ambiente irrespirabile. Al baretto, la notte del capodanno serbo (tra il 12 e il 13 gennaio) abbiamo festeggiato la mezzanotte insieme ai ragazzi del villaggio. Ho chiacchierato a lungo con V. e R., due giovani in gamba e di cuore, che nella loro vita hanno solo avuto la sfortuna di nascere e vivere a Gorazdevac, e di dover subire le conseguenze di una guerra assurda. Ad un certo punto ho detto: «Adesso basta! Non parliamo più di guerra e di cose tristi. È capodanno, proviamo a divertirci!».
La risposta di R. mi ha scosso profondamente: «Ma io voglio parlare con te, Barbara! Qui non si può mai parlare di queste cose con qualcuno che ci faccia riflettere in un altro modo!».
V. è diplomato presso un istituto tecnico ad indirizzo elettronico. Il suo sogno è di fare l’avvocato. «Voglio fare l’avvocato, perché qui a Gorazdevac non c’è nessuno che fa bene questo mestiere, che difende i diritti di questa gente. Chi lo fa, lo fa per interesse. Chiede molti soldi a chi non ce li ha. Io voglio aiutare queste persone».
V. non può iscriversi all’Università, perché il suo diploma è sparito dopo la guerra. È andato a Pristina 3 o 4 volte (rischiando anche la vita), nella sede centrale della sua scuola, per avere informazioni sul suo diploma. Niente da fare: appena capivano che era serbo, gli albanesi in servizio negli uffici, gli dicevano che la persona competente non c’era e che avrebbe dovuto tornare un’altra volta… A nulla è servito l’intervento di Ong inteazionali per recuperarlo. V. ha persino accettato di pagare 100 euro ad un albanese che lavorava nella sua scuola, ma che alla fine si è tirato indietro (per timore della pressione sociale).
La sua carriera è bloccata. Cinque anni di vita, dal 1999 ad oggi, in cui i suoi sogni sono parcheggiati su un pezzo di carta seppellito tra altri, chissà dove. «Ti rendi conto Barbara? Un pezzo di carta… per loro non è niente, per me è tutto! Cosa gli costa spostarlo da là a qui? Cosa se ne fanno loro del mio diploma? Con esso potrei studiare, potrei costruire qualcosa per il mio futuro, ma è questo quello che non vogliono loro!». E poi aggiunge: «Sai, sono stanco di combattere, perché so che quel diploma non lo vedrò mai più».
V. è un ragazzo d’oro, con un grande cuore. Non ha mai torto un capello a nessuno, non ha bruciato case, non le ha saccheggiate.
Mentre V. mi parlava del suo diploma, del suo futuro mozzato dall’odio etnico, mi sono salite le lacrime agli occhi. Cercavo disperatamente dentro di me, qualcosa che potesse trasmettergli un po’ di energia, un po’ di ottimismo, ma niente.
Alla fine, abbiamo alzato i nostri bicchieri di birra e con un sorriso intenso e triste, abbiamo brindato all’amicizia, all’amore, al futuro.
Perché sognare è un diritto di tutti, anche dei giovani serbi di Gorazdevac.

COSA FACCIO QUI?
Il mio stare qui, a volte mi è incomprensibile e mi succede di essere presa da un senso di inutilità che mi paralizza. Non conoscere la lingua (il serbo) mi dispiace davvero tanto, anche se con qualche ragazzo posso comunicare in italiano, inglese e perfino in spagnolo. Con la maggior parte degli abitanti del villaggio cerco di comunicare a gesti, con piccole frasi in serbo che cerco di costruire a poco a poco («Dobar Dan!», «Kako si?», «Sutra idemo u Pec»), ma soprattutto comunico con lo sguardo. Allora il valore della mia presenza qui, mi diventa un po’ più chiaro. Se non altro potrei rappresentare, costituire un possibile «altro» con cui comunicare, essere lo specchio di un mondo che, al di là del check-point, continua ad andare avanti, che non si è fermato nel 1999.
Potrei essere voce di chi, albanese, nonostante il grande dolore per le morti, sarebbe disposto a comunicare con gli abitanti di Gorazdevac, rendendosi conto della assurdità di questa loro prigionia, che coinvolge giovani, anziani, bambini, esseri umani, esattamente uguali a loro, costretti a soffocare tra due check-point la propria vita, a reprimere i propri sogni e il proprio futuro.
Potrei essere un canale di comunicazione per quei giovani serbi che vorrebbero uscire dal circolo vizioso della pressione sociale, che ti obbliga ad evitare ogni contatto con gli albanesi (pena l’essere considerato una spia o un traditore dai tuoi stessi vicini di casa).
Potrei, ma troppe volte prevale il mio senso di impotenza. A volte, quello che riesco a fare è solo piangere insieme alle persone che incontro e che mi fanno partecipe delle loro piccole, grandi difficoltà quotidiane.

BOX 1

L’ultimo tuffo di Ivan

«Jebenti Federica», aspettando sotto il sole che Federica arrivi per portare altri ragazzi al centro giovanile «Zoom», che sta in città, mi scappa questa imprecazione colorita più per attaccare discorso che per dir male di lei. Una voce mi corregge dal sedile posteriore della jeep: «Jebenti Federicu».
Sbaglio sempre le declinazioni dei nomi quando parlo serbo. Chi mi corregge vive qui a Gorazdevac, ma è nella nostra auto perché è uno di quei ragazzi che, paura e genitori permettendo, frequenta il centro giovanile.
Se fossimo in Italia non ci sarebbe nulla di male, ma qui siamo Peja-Pec e i serbi, quelli che sono rimasti, vivono chiusi nelle enclave e la loro mobilità è vincolata dalle scorte della Kfor. Da un po’ di tempo però c’è chi rompe «l’assedio» dall’una e dall’altra parte della barricata. Sono i ragazzi del centro giovanile «Zoom», che incominciano a conoscersi gli uni e gli altri al di là dell’etnia d’appartenenza. Mauro e Agron, che lavorano per il «Tavolo Trentino con il Kossovo», cercano di stimolare i ragazzi all’incontro dando forza alle spinte che arrivano dai ragazzi stessi.
L’incontro c’è, magari ancora un po’ freddo ma almeno tutti scoprono che quelli dall’altra parte non sono «tutti bestie» come si dice. I pretesti nascono quasi per caso: il corso di teatro, quello di fotografia, l’alpinismo, un corso di giornalismo e poi i momenti ludici come la settimana bianca o i pic-nic al fiume.
Non è facile incontrarsi: per i serbi è difficile andare in zona albanese, è pericoloso; per gli albanesi sono ancora limpidi i ricordi dei giorni di esodo per essere a proprio agio in un’enclave serba. Ma gli incontri ci sono e quando li vedi e ti ricordi come era qui 4 anni fa quasi non ci credi. Il ragazzo che corregge la mia imprecazione si chiama Ivan, ha 18 anni e una passione per la fotografia che sta coltivando con il corso organizzato dal centro «Zoom» e con le capatine al laboratorio fotografico dello stesso. In paese fa il barbiere ma si lamenta che non ha molti clienti (gli abitanti sono un migliaio) e poi fa il barista alle feste che ogni sabato vengono organizzate in un barettino per rompere la monotonia e far sembrare questo paesino, circondato dall’esercito italiano e rumeno, un posto più normale. Ivan è tacituo e forse nasconde la naturale baldanza che uno ha a quell’età. Quando il caldo si fa forte corre al fiume a fare un tuffo.

Ivan ha fatto il suo ultimo tuffo il 13 agosto 2003. Ivan e un altro ragazzino di dodici anni sono stati uccisi da una scarica di proiettili uscita da dietro un cespuglio. Ivan è morto al fiume due ore prima del nostro appuntamento che lo avrebbe portato a seguire il corso di fotografia assieme ad altri ragazzi serbi e albanesi.
Dall’altra parte del fiume c’è un paese albanese che nel ’99 ha subito la perdita di 35 persone uccise dai fucili dei paramilitari serbi. Questo però non giustifica nulla. Non è stata fatta giustizia solo ancora ingiustizia. Conosco la madre e la zia di Ivan: solamente il pensiero del loro dolore mi opprime mi fa sentire per l’ennesima volta impotente di fronte all’ingiustizia. Preferirei non aver conosciuto Ivan, sua madre, sua zia, il suo villaggio e il Kossovo. Vorrei che Ivan fosse solo una notizia, solo un nome. Ma non è così, qui c’è chi ci prova, chi muore e ormai ci sono dentro anch’io, non posso fare finta di nulla. Rimane l’amaro in bocca per aver visto che si poteva e aver scoperto che c’è chi non vuole. A qualcuno l’odio è funzionale.
Cosa dire agli amici serbi e agli amici albanesi? Domani come oggi i serbi mi sputeranno in faccia le parole di convivenza che ho usato con loro in questi anni. Non posso che subire: in questo momento i buoni propositi sono stati spodestati dal dolore. Ma poi quando la gente si sarà un po’ tranquillizzata magari consegneremo loro la lettera di condoglianze scritta dai ragazzi albanesi che frequentano il centro, perché per loro Ivan era Ivan prima di essere serbo.
Agli amici albanesi, quelli che vivono qui, vicino all’enclave cercherò di dire che l’odio sta distruggendo l’anima del loro popolo che non è più quello forte e generoso che ho conosciuto in passato. Spero solo che a qualcuno venga la voglia di ricominciare e che la pace contagi anche chi non ci crede.
Fa.Be.

Barbara Magalotti




DOSSIER KOSSOVODIARIO – Come una prigione a cielo aperto

La casa in cui dormivamo si trova a Gorazdevac, un’enclave serba di 800 abitanti. Gorazdevac è un villaggio di circa 3×3 km, attraversato da un’unica strada asfaltata. All’entrata e all’uscita ci sono i militari della Kfor (questa zona è assegnata a militari rumeni e italiani), che prendono nota di tutti quelli che entrano ed escono e sono naturalmente armati fino ai denti. Il villaggio è fatto di case in mattoni a vista, strade non asfaltate e orti, sembra di stare in campagna, ma una campagna decisamente squallida e anche piuttosto sporca. Gli 800 serbi che vivono qua non possono uscire dal villaggio, se non 3 volte alla settimana, sui convogli scortati dalla Kfor, e solo per andare in Serbia. Naturalmente il viaggio per uscire dal Kossovo e arrivare in Serbia è lungo e costoso e non è fattibile di frequente. Quindi il villaggio è, a tutti gli effetti, una sorta di prigione a cielo aperto. Noi italiani usciamo ed entriamo tranquillamente per andare nella vicina città albanese, Peja-Pec, mentre i serbi (nessuno di loro) può farlo senza rischiare la vita.
«Ma davvero se in città si accorgono che un tipo che sta passando è un serbo, lo ammazzano, così mentre cammina per la strada? E da cosa lo riconoscono, poi?» continuo a chiedere. Mi sembra ancor più incredibile in quanto noi invece ci muoviamo tranquillamente e tutti sono molto amichevoli con noi. Riesce difficile pensare che questi stessi abitanti della città possano trasformarsi in belve sanguinarie alla sola vista di un serbo. «Intanto i serbi per la maggior parte non parlano albanese – mi spiega Fabrizio – poi hanno dei tratti somatici lievemente differenti. Inoltre, prima del ’99 non erano così rigidamente segregati, quindi molti albanesi conoscono molti dei serbi del villaggio. Non è detto che tutti gli albanesi si metterebbero a picchiare un serbo appena lo vedono, ma è molto probabile che qualcuno lo farebbe. Prima degli avvenimenti del 13 agosto 2003, qualcuno si azzardava ad uscire qualche volta, anche se comunque sempre scortato da noi, magari per venire in città a fare acquisti, ma ora non è più possibile».
Ogni famiglia a Gorazdevac ha un po’ di terra e qualche animale, molto importanti per il loro sostentamento. Ci sono due o tre chioschi che vendono qualcosa da mangiare, una «boutique» (c’è scritto così sull’insegna; in realtà, è un chiosco di 2 metri x 2, che vende qualche vestito), una farmacia, un bar e una specie di centro di ritrovo per i ragazzi (che consiste in due stanze in pietra sotto terra che fanno da pub e un biliardino), una chiesa, un campo di calcetto, due cimiteri e qualche gioco per i bambini. Essendo il villaggio un’economia chiusa, il lavoro non c’è per tutti e comunque chi lavora, ha una paga media di 200 euro; chi non ha lavoro dispone di un sussidio di 30 euro al mese per famiglia. Si fa fatica ad arrivare a fine mese, ma il problema di fondo non è la povertà, è la depressione. Per i vecchi e i bambini la dimensione del villaggio potrebbe anche avere dei lati positivi, ma per i giovani diventa incredibilmente frustrante. Nel villaggio ci sono le scuole – fino alle superiori – ma manca ogni prospettiva, ogni possibilità di un futuro normale.
Viene naturale chiedersi perché questi serbi, almeno i giovani, non se ne vadano in Serbia, alla ricerca di una vita normale. Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a Gorazdevac hanno una casa, qualche animale e – alcuni di loro – anche un lavoro, e questo è già molto. In Serbia sarebbero dei profughi senza nulla, e il tasso di disoccupazione in Serbia è già molto alto per i non profughi, figuriamoci quanto sarebbe difficile trovare lavoro per loro. Ma c’è anche la volontà di non abbandonare la propria terra, un sentimento nazionalistico esacerbato dallo scontro con gli albanesi, che difficilmente noi possiamo capire.
Federica e Fabrizio, i due volontari della Colomba, hanno dei progetti di «educazione alla multietnicità» che portavano avanti sia nella città con i ragazzi albanesi, sia nel villaggio, con i serbi. Fino all’anno scorso questo tentativo di integrazione aveva dato anche dei piccoli-grandi risultati, addirittura i ragazzi delle due etnie si incontravano ogni tanto, confrontandosi su attività comuni (rappresentazioni teatrali o mostre fotografiche, preparate separatamente, ma allestite insieme). Poi è successo che una mattina d’estate, i serbi erano in riva al fiume che facevano il bagno e prendevano il sole, quando qualcuno ha sparato sulla «folla», uccidendo due ragazzi e ferendone molti (si legga, in questo stesso dossier, «L’ultimo tuffo di Ivan»). È stato come distruggere in un attimo il lavoro di un anno. Da quel momento la chiusura – sia mentale che fisica – dei serbi è diventata totale. Si è dovuto ricominciare tutto da capo, ma crederci è diventato più difficile.
Un altro lungo periodo di lavoro lento e faticoso, sia con gli albanesi che con i serbi, per convincerli a ricominciare… e poi un nuovo scoppio di violenza. Un altro enorme passo indietro, è difficile ricominciare un’altra volta, anche Federica e Fabrizio fanno fatica a trovare l’entusiasmo. Dopo quello che è successo, anche i rifoimenti dei negozi all’interno dell’enclave diventano più scarsi e Fabrizio e Federica si riducono a fare un servizio di «compere» in città: medicine, scarpe ad un ragazzo che non può sceglierle né provarle, taniche di benzina, pezzi di ricambio per gli attrezzi agricoli…
Fabrizio e Federica non sono a Gorazdevac per questo, ma in questo momento c’è bisogno anche di questo. Comunque continuano a fare attività di discussione con serbi e albanesi. Il villaggio fa molto affidamento su di loro, ed è curioso vedere come comunque i ruoli siano ben definiti: a Fabrizio si rivolgono gli uomini, per chiedergli degli acquisti o una «scorta» se devono uscire dall’enclave; a Federica invece si appoggiano le donne quando la difficoltà di portare avanti una famiglia nella povertà e nella mancanza di speranza si fa più pesante. Per loro è molto importante che lei vada a trovarle e far loro un po’ di compagnia.

Nel villaggio non c’è il metano, la linea telefonica funziona solo nella ricezione. Ci si scalda, si cucina e si fa luce solo con l’elettricità, ma la Kek, l’impresa elettrica del Kossovo, non riesce a rifornire costantemente e così la corrente viene sospesa quasi tutti i giorni e in casa, a lume di candela e senza televisione, non rimane molto da fare. Una stufa a legna è presente in tutte le case, per potersi scaldare e per cucinare anche quando manca la corrente.
Noi non abbiamo condiviso la loro condizione, perché eravamo liberi di spostarci ovunque e lo facevamo, ma la gente di Gorazdevac ci si è comunque affezionata. I giovani parlano un po’ di inglese, i bambini parlano un po’ di italiano (alcuni molto bene) e con gli adulti comunicavamo grazie a Fabrizio e Federica che traducevano. La sera casa nostra diventava un’isola di allegria nel villaggio (cantavamo, giocavamo, parlavamo) e quando ce ne siamo andati, probabilmente a qualcuno siamo mancati.
Un’esigenza molto forte era quella di comunicare col mondo esterno, che in quel momento noi rappresentavamo. La domanda ricorrente era: «Cosa ne pensi di Gorazdevac?». Una domanda a cui era difficilissimo rispondere. Ma non potevi prenderli in giro: dovevi dire loro che a Gorazdevac la situazione è molto triste. Ed immediatamente dopo ti dicevano: «Quando torni in Italia, racconta ciò che hai visto».
Fabiana Scotto

Fabiana Scotto




DOSSIER KOSSOVOL’anello mancante

All’interno dell’enclave serba di Gorazdevac permane il sentimento di essere vittime della parte albanese. Anche la fiducia nei confronti delle organizzazioni inteazionali, in particolare della Kfor, non esiste più. All’indomani dell’incidente del 13 agosto 2003 le stesse autorità politiche e religiose serbe avevano dichiarato e chiesto a Kfor di abbandonare il paese, vista la loro incapacità nel difendere la popolazione serba dagli attacchi dei «terroristi albanesi». Le parole precise furono: «Grazie di tutto ma ora andate via; noi ci difenderemo da soli». Il messaggio era chiaro: voler avere, come da tempo stanno chiedendo, la propria polizia a difesa delle enclave.
Dopo un primo momento di smarrimento, alcuni ragazzi dell’enclave e, in particolare, i gruppi che avevano partecipato ai progetti del centro Zoom, ci hanno manifestato, a livello privato e confidenziale, la volontà di uscire da quella situazione di isolamento assoluto. Lentamente la tensione tra i due gruppi andava nuovamente allentandosi, ma nuovi incidenti hanno interrotto ancora il cammino verso il dialogo.
A marzo 2004 l’annegamento di due bambini albanesi nei pressi di Mitrovica ha infatti dato il pretesto per la violenza. Pare che i due bambini si fossero buttati nel fiume Ibar, perché inseguiti da alcuni civili serbi, che avevano sguinzagliato i cani. Gli scontri sono iniziati a Mitrovica, città simbolo della divisione (a nord ci stanno i serbi e a sud gli albanesi), ma la violenza è dilagata in tutto il Kossovo. Il risultato è stato una forte protesta contro l’amministrazione internazionale Unmik e contro i serbi che ormai da anni vivono chiusi in enclave. Perché si è arrivati a tutto questo?
La situazione sul territorio negli ultimi 8 mesi è stata mutevole, e i disordini di marzo non hanno fatto altro che mettere alla luce l’empasse internazionale. L’instabilità potrebbe avere come cause scatenanti tre fattori che sono strettamente legati fra loro.
Giustizia: oltre alla difficoltà della polizia locale Kps ad arrestare i delinquenti comuni, vi è una difficoltà di fondo a fermare la grossa malavita e ad arrestare gli assassini. Questo va ad aggiungersi alla mancanza di giustizia rispetto ai crimini del ’99; basti pensare che molte salme di kossovari albanesi sono ancora in Serbia in attesa di essere trasportate in Kossovo. La popolazione kossovaro-albanese in una certa parte accusa l’amministrazione internazionale Unmik di rallentare il rientro delle salme per paura delle reazioni locali. Dall’altra parte, anche i kossovari-serbi recriminano il fatto che di molte persone scomparse nel ’99, all’entrata della Nato, non si sappia più nulla.
Status: la non definizione dello status, la non chiarezza sugli standard per l’indipendenza e la freddezza di alcuni ambienti della politica internazionale sull’idea di indipendenza del Kossovo creano una tensione latente nella popolazione, oltre che negli ambienti più estremisti. C’è da dire che una soluzione che sancirebbe l’indipendenza non sarebbe per nulla gradita alla minoranza serba e alla Serbia, mentre un’ipotesi contraria con il ritorno alla sovranità della Serbia troverebbe una fortissima opposizione da parte di tutta la popolazione albanese.
Economia: l’elemento economico è strettamente legato agli altri due, è una causa e una conseguenza. Nei primi anni, dopo il conflitto in Kossovo, si era creata un’economia legata alla ricostruzione e al lavoro delle organizzazioni umanitarie. La drastica riduzione degli investimenti inteazionali e la conseguente diminuzione delle organizzazioni (governative e non) presenti ha messo in crisi questa economia falsa. L’instabilità e la non chiarezza sul futuro status non stimolano investimenti economici e il processo di liberalizzazione è pressoché bloccato dai contrasti tra l’amministrazione locale e quella internazionale, accusata di avere una politica filo-serba. In Kossovo si può parlare di una percentuale di disoccupazione dell’80% e le uniche attività economiche sono per lo più rivolte al commercio.
Nell’area di Peja-Pec la situazione ha rispecchiato quella più generale che si vive in tutta la regione, dopo l’estate la situazione fra l’enclave di Gorazdevac e la città andava migliorando anche se i contatti ufficiali con l’altra parte non erano frequenti. Nell’area si era proceduto alla ricostruzione di 25 case serbe nell’area di Bijelo Polje. Il progetto di rientro di 90 famiglie nella zona di Siga e Brestovic’ procedeva. Le manifestazioni del 17 marzo 2004 hanno però notevolmente deteriorato la situazione anche se nell’area di Peja-Pec sono durate solo un giorno. Le strade della città sono state bloccate dai manifestanti nel primo pomeriggio ed il palazzo sede dell’amministrazione Unmik è stato «assediato»; alcune auto Un sono state date alle fiamme, dopo di che la massa è andata verso l’abitato di Bijelo Polje dove i 32 abitanti e ospiti serbi sono stati evacuati dai soldati della Kfor non senza difficoltà. Il bilancio a fine giornata era pesante: un manifestante kossovaro-albanese ucciso dalle forze di polizia internazionale, 12 kossovari-serbi feriti, numerosi manifestanti feriti, 25 case ricostruite danneggiate e bruciate, tre auto U.N. bruciate.
La parte albanese ha riconosciuto gli incidenti come un grosso passo indietro nel processo di pacificazione dell’area, incidenti che, a loro dire, penalizzano maggiormente gli albanesi. Gli organi di informazione poi hanno contribuito a confondere ancor di più le idee. In questo marasma, l’idea dei ragazzi del centro Zoom e, in generale, dei ragazzi della città è stata quella di non tornare indietro e non cancellare i passi in avanti che sono stati fatti nel percorso di riconciliazione. Molti di loro sono consapevoli che il Kossovo non può avere futuro senza considerare la presenza serba sul territorio.
Da parte serba è andato però accentuandosi il sentimento di appartenenza: nell’enclave la moneta è ancora il dinaro e si scrive in cirillico. Il rischio per chi, all’interno dell’enclave, non manifesta questa appartenenza e tenta di integrarsi nella nuova situazione o comunica con gli albanesi, è quello di venire escluso dalla comunità e dal villaggio, di essere visto come un traditore.
In conclusione, la catena che si era creata, anche grazie ai progetti portati avanti dal «Tavolo Trentino con il Kossovo-Operazione Colomba», si è spezzata. Riusciremo a tornare a ricoprire il nostro ruolo di anello di congiunzione tra le due parti in conflitto?

Mauro Barisone
(cornordinatore «Tavolo Trentino
con il Kossovo»)

Mauro Barisone




DOSSIER KOSSOVOEnclaves? No, ghetti.

Né «Grande Serbia», né «Grande Albania»

Siamo realisti: oggi in Kossovo la convivenza tra albanesi e serbi è un’utopia. Come spesso accade, le responsabilità sono da suddividere tra i contendenti, aizzati da sconsiderati proclami nazionalistici ed esasperati da una gravissima situazione economica.
Nella regione operano anche i soldati italiani. Le loro motivazioni? Deboli, molto deboli, troppo deboli… Per fortuna, ci sono i volontari.

Al primo viaggio in Kossovo, scendendo dalla Serbia, giù giù fino alla «provincia ribelle», a colpirmi sono le bandiere che sventolano ovunque.
I morti hanno bandiere: prima quelle serbe segnalano, in sperduti cimiteri di frontiera, eroici combattenti, martiri nella realizzazione del sogno frustrato della Grande Serbia; poi, bandiere albanesi su grandi lapidi, che ritraggono a dimensione naturale il defunto in divisa militare e con il mitra in mano. Guerriglieri, quest’ultimi, immolati nella costruzione della Grande Albania.
Al confine tra la Serbia-Montenegro e il Kossovo appaiono le bandiere azzurre dell’amministrazione provvisoria dell’Onu e quelle delle forze Nato. Ad ogni posto di blocco o check point bandiere nazionali tra le più varie indicano la provenienza del personale militare lì impegnato: i rumeni all’ingresso di Gorazdevac, i belgi sul ponte di Mitrovica ecc. ecc.
Ogni edificio o struttura di qualsiasi tipo (addirittura le pensiline alle fermate dei bus) ha la bandiera dello stato finanziatore o donatore.
Il mondo sembra essersi concentrato sul Kossovo e in Kossovo, eppure arrivando in quest’area ho l’impressione che sia doveroso porre in dubbio molte verità regalateci in patria.
(Al riguardo, la redazione di Missioni Consolata mi ha pregato di non calcare troppo la mano, anche se non siamo più in tempo di elezioni. Mi adeguo, ma alcune cose debbo proprio scriverle…)

I SERBI… RINCHIUSI

Spostandoci da Peja-Pec a Gorazdevac è difficile ignorare una collina, sulla destra, completamente spianata e disboscata, gremita di containers e mezzi militari: è «Villaggio Italia», comando del contingente italiano in Kossovo, dove vivono molti degli eroi nostrani, molti dei nostri ragazzi. Quando Peja-Pec e dintorni giacciono nel buio a causa dei frequenti black-out della vicina e grigia centrale termoelettrica, Villaggio Italia splende di luce, letteralmente, propria.
Gorazdevac è una enclave serba del Kossovo meridionale: 800 serbi circa rinchiusi in pochi Km quadrati. Troppo pericoloso uscire. Chi aveva il lavoro fuori dal paesino (molti), è disoccupato. Qualcuno si è inventato un’attività, puntualmente finanziata da qualche ente governativo o non, per guadagnarsi il pane: c’è chi ha una serra per coltivare ortaggi fuori stagione, chi produce concime naturale. Ma il mercato è chiuso, quasi inesistente, solo 800 persone, perché commerciare con l’esterno è difficile, soprattutto dopo gli avvenimenti di marzo 2004. Allora si vive di sussistenza, di rimesse dall’estero, di espedienti, di aiuti; in una montagnola di rifiuti accumulati lungo la strada (a Gorazdevac, Higjiena Publike – l’azienda della nettezza urbana – non passa nemmeno a raccogliere la spazzatura, perché gli abitanti non vogliono e in qualche caso non possono pagare la tassa) ho trovato i resti di un involucro di cartone: «Questa pasta è donata dal popolo e dal governo italiano».
I nostri ragazzi, che i cartelloni pre-elettorali in Italia non smettevano di ringraziare per le eroiche missioni di pace che svolgono nei conflitti nel mondo, a volte distribuiscono aiuti: alimentari, giocattoli, indumenti; ogni operazione di questo tipo viene puntualmente filmata e fotografata dagli stessi militari. Deboli palliativi simboli d’una carità pelosa, dettata, particolarmente in questo periodo, dalla necessità di rendere maggiormente accettabile la presenza degli «inteazionali», oggi messa violentemente in discussione da parte albanese e da parte serba. Da un lato, infatti, gli albanesi vogliono l’indipendenza e rifiutano ogni ingerenza estea; dall’altro, i serbi-kossovari lamentano l’inefficacia della forza internazionale nel prevenire e controllare la conflittualità interetnica. Ne sono un segnale i tragici episodi di marzo: i manifestanti albanesi hanno bruciato auto dell’Onu, case serbe e chiese ortodosse, ucciso.
Nella nostra permanenza in Kossovo, discutiamo con ragazzi serbi e albanesi. I fatti parlano chiaro: se quattro anni di relativa e apparente tranquillità avevano fatto sperare in una possibilità di convivenza, gli scontri recenti hanno rigettato nella disperazione e nell’incapacità di operare chi, da un lato, sperava di poter uscire dalle enclaves-ghetto e chi, dall’altro, aveva lavorato per ricostruire i ponti dopo la guerra del ’99. Gli albanesi e gli egiziani, animatori del Centro culturale «Zoom» di Peja-Pec, ci raccontano le loro attività, l’organizzazione del centro, la potenziale multiculturalità delle associazioni che vi operano; una sera abbiamo discusso delle violenze. Un ragazzo albanese ha anche raccontato d’aver fatto parte di queste dimostrazioni violente; coraggioso e significativo il suo racconto: pochi facinorosi, probabilmente sconosciuti agitatori venuti da fuori, hanno attirato in strada migliaia di giovani costretti all’inerzia dalla morsa dell’eterna crisi economica. Debitamente scaldati gli animi, facili micce vista la condizione a cui sono costretti, i bersagli sono subito divenuti chiari: l’amministrazione internazionale colpevole di non lasciare il Kossovo ai kossovari (anzi, agli albanesi) e gli eterni nemici, i serbi.
Gli scontri di marzo hanno interessato varie località: Pristina, Bijelo Polije, Mitrovica, Peja-Pec. Qualcuno racconta che i nostri ragazzi hanno saputo fare ben poco contro la rabbia albanese. Si dice che molti giovani militari di fronte alla folla sono stati presi dal panico e la loro inefficacia è stata palese. Ad accusarli di non aver saputo fronteggiare gli albanesi sono soprattutto i serbi, che hanno vissuto momenti di terrore, temendo di essere trasformati in facili prede, chiusi come sono in zone ristrette.

LA SOLA SOLUZIONE:
UN PASSAPORTO PER L’EUROPA

Anche a Gorazdevac s’è temuto il peggio. E l’accaduto è servito solo a rafforzare la rassegnazione e la convinzione che con gli albanesi è impossibile convivere. I giovani serbi dell’enclave vedono frustrate le proprie ambizioni, cancellata ogni opportunità di realizzazione, di studio, di lavoro. L’unica possibilità, ci dicono, è emigrare al nord, in Serbia o all’estero. Donne e uomini quotidianamente ci propongono (più o meno seriamente) matrimoni di convenienza: acquisire una cittadinanza europea per loro sarebbe la porta per la salvezza, la possibilità di oltrepassare le difficoltà d’una immigrazione legale in Occidente.
I giovani serbi ci foiscono le solite interpretazioni: il Kossovo è serbo, lo è sempre stato, gli albanesi hanno attuato una guerra demografica per conquistare il potere, non esisteva repressione nei loro confronti, erano loro a rifiutare tout court i serbi. Sono le opinioni propinate dai mass-media e dai politici di Belgrado.
Un’altra cosa appare chiara: da parte albanese e da parte serba manca una élite politica capace di superare gli odi sapientemente alimentati nel passato. Probabilmente, è una eredità di un sistema non democratico (schiacciato sulla figura di Tito prima, di Milosevic poi), che ha dominato in Jugoslavia per decenni. Ma ciò non basta per comprendere l’insistenza del governo (democraticamente eletto) serbo sui temi nazionalisti. E altrettanto incomprensibile risulta l’atteggiamento del governo locale kossovaro, in primis Rugova, incapace o non disposto a porre delle basi solide per una società eterogenea, disattivando quei meccanismi identitari che fanno sì che, a 4 anni dalla guerra, la situazione sia capovolta ma in sostanza immutata: prima i serbi avevano la posizione di forza e tentavano di esercitare forme di pulizia etnica, oggi gli albanesi, vinta la guerra (la strada principale di Pristina è Boulevard B. Clinton…), ricoprono la posizione favorevole e minacciano continuamente i serbi finiti rinchiusi nelle enclaves.
Allora, ci domandiamo, qual è stato l’esito della «guerra umanitaria»: la creazione di uno stato democratico o meramente la sostituzione dell’oppresso con l’oppressore e viceversa? La costruzione di nuovi ponti e convivenze o semplicemente la formalizzazione di una crisi economica permanente, foriera di tensioni sociali, comodamente chiamate «interetniche»?

A PROPOSITO DI SOLDATI…

In Italia, dopo la tragedia di Nassirja, mass-media e politicanti non smettono di celebrare «i nostri eroi», «i nostri ragazzi» che, intimamente motivati ad esportare la pace e la democrazia, la convivenza e il benessere, ogni giorno rischiano la vita in Iraq, Afghanistan, Kossovo, ecc… Dei veri eroi, paladini della democrazia, della cristianità, dell’ Occidente contro la barbarie; militari consapevoli e preparati, professionisti del bene in divisa. Durante la mia permanenza in Kossovo, ben pochi militari hanno dimostrato vera consapevolezza o motivazioni forti per il servizio che stavano svolgendo. La retribuzione economica sembra essere il fattore motivante più importante per i giovani e giovanissimi italiani, provenienti per lo più dal Sud. Per quanto riguarda poi la preparazione, essa appare ancora più carente: spesso i militari hanno scarse conoscenze sul contesto in cui operano, sui problemi che stanno affrontando, sulle caratteristiche culturali delle popolazioni con le quali sono in contatto. Questi non sono dettagli per del personale che opera al fine di ricomporre fratture etniche così esasperate: chiamare Pec la città di Peja può offendere un albanese e viceversa, consegnare aiuti in enclave serba accompagnati da un interprete che sa solo l’albanese può essere controproducente oltre che inefficace… e questi non sono che alcuni esempi dei grossolani errori che i nostri militari commettono quotidianamente.
Mentre i serbi si trovano rinchiusi e frustrati (e così preda di facili manipolazioni da parte dei leaders belgradesi) nelle enclaves e ripropongono vecchie ricette di riscossa nazionaliste (a Mitrovica ho raccolto varie cartoline postali e posters che invocano il ritorno di Milosevic, Karadzic), gli albanesi del Kossovo si ritrovano prigionieri di condizioni di vita ed economiche gravi: salari bassissimi, disoccupazione oltre il 60%, traffici illeciti in mano alla mafia locale dilaganti, dipendenza dagli aiuti inteazionali.
A mio parere, se gravi colpe sono da imputare agli sconsiderati messaggi nazionalisti (di governo serbo, Uck ed ex Uck, governo kossovaro, in gara a costruire una contrapposizione apparentemente insanabile), un ruolo fondamentale nel protrarsi delle tensioni sociali è da rintracciarsi proprio nelle pessime condizioni economiche.

E CHI LAVORA NEL SILENZIO

Accanto alle pubblicizzate, anzi celebrate, attività del contingente militare, della Missione Arcobaleno (vi ricordate lo scandalo?), molti altri nostri ragazzi lavorano nel silenzio ed in carenza di mezzi e fondi. Durante la nostra permanenza siamo stati ospiti dei volontari dell’Operazione Colomba (dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) e del Tavolo Trentino con il Kossovo. Svolgono attività a Gorazdevac e a Peja-Pec.
Nella città albanese Mauro è animatore del Centro culturale Zoom, composto da associazioni aperte indiscriminatamente agli appartenenti di tutte le etnie (rom, egizi, albanesi e serbi). Grazie alle attività (alpinismo, fotografia, danza ecc.) del centro si cerca di ricostruire forme di convivenza. La scommessa è che, conoscendosi e lavorando assieme, le presunte differenze etniche passino in secondo piano.
A Gorazdevac, Fabrizio, Lucia e Federica vivono a stretto contatto con la popolazione. Grazie a loro abbiamo conosciuto i volti, l’umanità che si nasconde dietro a parole tanto insignificanti come «serbi» o «albanesi». Abbiamo faticosamente superato l’ostacolo linguistico ma siamo stati capaci di comunicare e forse, ancor di più, di imparare quegli sguardi e scoprire che la sofferenza ha gli stessi occhi da tutte le parti, in tutte le etnie. Questi volontari costituiscono il punto di riferimento, una speranza, per i giovani dell’enclave. Ne favoriscono l’aggregazione e stimolano momenti di discussione. Ora, un problema impellente è la raccolta dei rifiuti sparsi dappertutto nel villaggio. Si pensa di coinvolgere la comunità per rendere più efficace l’operazione. Per pulire il greto e le rive del fiume che delimita l’enclave occorrerà la protezione dei militari, finalmente utili a qualcosa: la scorsa estate due albanesi, dall’altra parte del corso d’acqua, hanno sparato sulla gente che si bagnava. Sono morti due ragazzi, uno 18enne, l’altro 12enne (si leggano i racconti di Fabrizio e Barbara nelle pagine precedenti).
Il lavoro di Mauro, Fabrizio, Lucia, Federica ed altri (non sono così pochi…) non è tanto pubblicizzato. Meno male, così sta al riparo da strumentalizzazioni. Ma, visto che queste parole non andranno sui muri di alcuna campagna elettorale italiana, permettetemi di rivolgere a loro il mio «Grazie, ragazzi».

Francesco Filippi




DOSSIER KOSSOVOLe organizzazioni

Dal Trentino, il «Tavolo Trentino con il Kossovo»
Il Tavolo Trentino con il Kossovo è un luogo di confronto, scambio, elaborazione condivisa e cornordinamento di un programma generale e comune di intervento in Kossovo, nella municipalità di Peja-Pec. È nato immediatamente dopo la guerra del Kossovo nel 1999, su iniziativa di alcune associazioni trentine e della Provincia Autonoma di Trento.
Attualmente vi partecipano attivamente una decina di soggetti: la Provincia Autonoma di Trento (che ha anche un ruolo di finanziatore), Avsi Trento, Casa per la Pace di Trento, Gruppo 78 (CICa), Progetto Colomba, Progetto Prijedor, Solidarietà Alpina, Associazione Velaverde, Tavolo Trentino con la Serbia, Comune di Trento, Operazione Colomba – Quilombo Trentino, Piazza Grande.
Il Tavolo si propone di elaborare e realizzare un programma organico di interventi nella municipalità di Peja-Pec, secondo la logica dello sviluppo endogeno ed integrato, e della partecipazione dei soggetti e delle risorse locali kossovare, oltre che del coinvolgimento di soggetti e risorse della società civile e dell’economia trentina, cercando di innescare anche rapporti significativi e duraturi tra soggetti omologhi in Trentino ed in Kossovo. Allo stesso tempo, e con la stessa importanza, intende inoltre favorire l’attenuazione delle tensioni tra le varie comunità (serba, albanese, rom, ecc.).
Le attività direttamente orientate all’attenuazione delle tensioni tra i vari gruppi nazionali, in particolare nella zona comprendente i villaggi di Gorazdevac e Poceste e la città di Peja-Pec nell’ultimo anno e mezzo si sono concretizzate nel centro giovanile «Zoom».
Il centro si è formato da tre piccoli progetti che sono poi diventati tre piccoli gruppi. Per primo in città si è costituito un gruppo di arrampicatori formato per il momento da soli albanesi ma che è la nervatura fondamentale per un’idea di riavvicinamento delle due parti. Questo gruppo è formato da ragazzi di città, tutti sui trent’anni e dalle vedute aperte.
Il secondo gruppo è nato da un piccolo corso di teatro fatto da Silvia Corsi: sono ragazzi sui 17-20 anni che frequentano la scuola d’arte. All’epoca del corso gli insegnanti hanno impedito ai ragazzi di fare delle cose assieme ai ragazzi serbi di Gorazdevac ma loro hanno comunque voluto sapere come andavano le cose e poi durante una festa hanno incontrato i loro omologhi serbi e visto il loro spettacolo.
Il terzo gruppo è quello fotografico che, come età e provenienza, è uguale a quello di teatro e in parte formato dalle stesse persone. All’epoca del progetto fotografico, la scuola ha fatto problemi e impedito l’esposizione congiunta delle foto.
Come detto, questi tre gruppi formano il centro giovanile «Zoom», che ha sede a Peja-Pec. Tutti i gruppi hanno scelto la forma del centro giovanile indipendente anche perché i condizionamenti imposti dalla scuola non erano piaciuti ai ragazzi. All’epoca del corso di fotografia era stato allestito un laboratorio fotografico anche a Gorazdevac.
Le attività di «Zoom» sono sempre state aperte a tutti e i serbi frequentavano il centro, seppur con qualche difficoltà e paura, fino al 13 agosto 2003, quando due di loro sono stati uccisi nell’enclave serba di Gorazdevac.

«Operazione Colomba», 12 anni per la pace
Nel maggio 1992, dal desiderio di provare a vivere la nonviolenza nella guerra della ex-Jugoslavia, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha dato vita ad una serie di iniziative denominate «Operazione Colomba», che hanno coinvolto centinaia di giovani di diverse parti d’Italia e numerosi obiettori di coscienza.
Condividendo la vita (le paure, i disagi, le sofferenze…) delle persone più colpite dalla violenza del conflitto, l’Operazione Colomba ha reso possibile il dialogo tra le differenti parti in lotta e tra le chiese, ha aiutato a riunire le famiglie divise dai diversi fronti, protetto le minoranze etniche e contribuito a ricreare un clima di convivenza e riconciliazione.
Dal 1992 al 2004, i volontari di Operazione Colomba hanno operato in ex-Jugoslavia (Serbia, Croazia, Bosnia, Kossovo), Albania, Sierra Leone, Timor Est, R.D.Congo, Chiapas (Messico), Cecenia (Russia) e Palestina-Israele, convinti che, dal vivere con le vittime della guerra e promuovendo attività di tutela dei diritti umani e dei diritti individuali delle fasce di popolazione più emarginate e sofferenti, nascano strade per la pace.
In questi 12 anni, i volontari hanno stretto rapporti di collaborazione con vari organismi (tra cui le Nazioni Unite), numerosi centri per i diritti umani, Ong locali ed inteazionali, esponenti delle chiese, associazioni e gruppi, coinvolgendo migliaia di volontari in tutto il mondo e centinaia di obiettori di coscienza in servizio civile.

Fabrizio Bettini




SAN PIETRO CLAVER Schiavo degli schiavi

Trecentocinquant’anni fa, I’8 settembre 1654, moriva a Cartagena de
Indias (Colombia) il gesuita spagnolo Pietro Claver, un santo che diede
la vita per il riscatto del popolo negro, umiliato e oppresso.

Escludendo il Brasile, in America Latina esistono all’incirca 15 milioni di afroamericani, concentrati in Haiti e presenti nelle zone calde dell’America di lingua spagnola. Si tratta di una minoranza razziale dimenticata ed emarginata anche dalla missione evangelizzatrice della chiesa.

LA SFIDA NERA

La situazione dei neri è stata abbordata ufficialmente per la prima volta nella Conferenza di Puebla (1979), facendovi riferimento due volte nel documento finale. Qualcosa, da allora, si è mosso a loro vantaggio; ma sono normalmente così dimenticati, da poter essere considerati come i più poveri tra i poveri americani.
Segundo Galilea, sacerdote cileno, profondo conoscitore dei problemi sudamericani, espone le ragioni di questa dimenticanza, dicendo che la razza negra non è considerata come «autonoma», ma «avventizia». E continua: «I popoli autonomi sarebbero i discendenti degli immigrati bianchi e degli indigeni… Per questo motivo si fa maggiormente sentire la consapevolezza della realtà indigena (anche nella chiesa) che non quella dei neri. Inoltre, i neri sono assenti nelle regioni più fredde; in quelle calde sono sparsi qua e là, senza formare chiaramente una unità culturale come gli indigeni».
Questa situazione (sempre secondo Galilea), avrebbe «avvelenato l’evangelizzazione della gente di colore presente fra noi, perché ha preteso di fare dei cristiani neri dall’anima bianca. Perciò, è evidente che gli afro-americani hanno perso le loro radici e identità: non formano più un popolo. Sono soltanto una minoranza etnica, priva di proprie radici culturali in America».
Questa situazione ha i suoi riflessi sulla missione. Infatti, sono pochi i sacerdoti e le religiose tra i neri ispano-americani. Fa eccezione Haiti, con la sua popolazione costituita in massa da razza morena.
E proprio qui sta la sfida, ammonisce ancora il sacerdote cileno: «Se la chiesa non è sensibile alle minoranze razziali e sociali, al settore dei poveri tra i poveri, come potrà essere più sensibile alle nuove sfide della povertà, dell’ingiustizia e dei diritti di tutti gli emarginati di questa nostra America tanto oppressa? Di più: se l’evangelizzazione non cerca di incarnare il messaggio, la catechesi, la liturgia, i ministeri, la vita consacrata in seno alle minoranze, come potrà in futuro evangelizzare “la cultura e le culture” che emergono dai rapidi cambiamenti sociali del continente, come richiede Puebla e, adesso, buona parte delle gerarchie? Le minoranze, infatti, sono il banco di prova e il luogo di elaborazione della missione».
La sfida che ci viene dal mondo dei neri riveste un certo carattere di riparazione. Nella storia della conquista e della prima evangelizzazione dell’America Latina, i missionari hanno lottato per i diritti degli indios, ma, salvo eccezioni, non hanno inspiegabilmente opposto resistenza all’importazione degli schiavi africani, né hanno difeso con identica energia la loro dignità.
Nella chiesa cattolica, a partire dal 1978, alcuni religiosi, tra i quali i missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti e anche laici hanno cercato di aiutare la chiesa ad affrontare la «sfida dei neri». Mettono in discussione l’ideologia che, per troppo tempo, ha privilegiato la razza bianca, essi cercano di far sì che l’afroamericano abbia più spazio nella chiesa e possa essere un cristiano nero. Inoltre viene sottolineato come l’afroamericano sia chiamato ad arricchire qualitativamente il cattolicesimo.
La prassi di illuminazione cristiana poggia su basi umane specifiche, dando il maggior spazio alla grazia. È, dunque, imprescindibile mettere al centro l’uomo «nero», così come egli si presenta, e riconoscere in lui un autentico soggetto capace di inculturazione cristiana.

CTTA’ EROICA E SCHHIAVISTA

Cartagena de Indias, denominata «città eroica» per la strenua difesa della sua indipendenza dal dominio spagnolo nel secolo xvii, dichiarata dall’Unesco «patrimonio culturale dell’umanità» per la sua storia e monumenti, chiamata «perla del Caribe» per le sue bellezze naturali, è stata per oltre due secoli la piazza di mercato degli schiavi africani.
Fondata nel 1533, favorita dalla posizione geografica, Cartagena divenne presto uno dei centri più ricchi dell’America spagnola. Il suo porto era il principale centro di smistamento di merci e di schiavi dalla Colombia al Venezuela, al Messico, all’Ecuador e Perú.
Il clima era pessimo per i venti freddi d’inverno e il caldo estenuante d’estate. Eppure, l’abbondanza dei giacimenti d’oro e d’argento della zona, attirava i mercanti europei assetati di ricchezze e onori.
Particolarmente intenso era però il traffico degli schiavi provenienti dall’Africa, assai redditizio per i trafficanti nonché per gli acquirenti. Perché la merce umana si potesse trovare sui mercati dell’America, si era creata una rete di organizzazioni che spingevano i tentacoli fino al centro dell’Africa.
Dai porti della Tripolitania, Marocco, Guinea, Congo, Angola, dove attraccavano le navi in attesa del carico, i negrieri si spingevano nel retroterra a intercettare «la merce». Quando il negriero riteneva di avee a sufficienza, intruppava le sue vittime, convogliandole in lunghe carovane verso i mercati del litorale, dove i bianchi attendevano. Costoro, finita la compera, cercavano d’imbarcare quanto prima gli schiavi acquistati.
Una terza parte di quelli che sbarcava in America moriva nei primi mesi dell’arrivo.
Così Alfonso Sandoval descriveva il loro arrivo a Cartagena: «Giungono alle nostre spiagge e sembrano piuttosto scheletri che uomini; vengono condotti a un gran piazzale o cortile, che si riempie immediatamente di gente, condottavi parte dall’ingordigia, parte dalla curiosità, parte dalla compassione. Tra questi, vi sono i padri della Compagnia di Gesù, che vengono per soccorrere e confortare o battezzare quelli che stanno per morire».
Tra di loro, spicca la carità eroica di Pietro Claver.

IL CONSOLATORE

Pietro Claver non era l’uomo delle denunce e recriminazioni, ma della consolazione mediante il servizio personale, tacito ed efficace testimone contro le ingiustizie del potere imperante.
La sua opera tra gli schiavi del porto di Cartagena raccolse sempre un consenso unanime, anche se si astenne dalle teorizzazioni dottrinali sul problema della schiavitù e dalle denunce dinnanzi alle autorità. Ebbe un’unica preoccupazione: la quotidiana attenzione e servizio agli africani schiavizzati. Era questa la sua vocazione: liberare con la carità, affidando ad altri il servizio della difesa giuridica.
Fra i difensori dei neri contemporanei del Claver, si distinse in Colombia padre Alfonso de Sandoval. Anche due cappuccini di Cuba, José de Jaca ed Epifanio Moirans, sostennero che la schiavitù africana era ingiusta: «I negri non si rendono liberi ricevendo il battesimo, lo sono già prima, per diritto naturale. Quindi, non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà; bensì, in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».
Ma il Consiglio di Spagna protestò, dicendo che senza la schiavitù, le Americhe sarebbero state condannate alla rovina totale. I due furono scomunicati e richiamati in patria. Purtroppo, lo sforzo fu per allora vano. In Colombia la schiavitù fu abolita soltanto nel 1830 dal presidente e liberatore Simón Bolivar.
In quel misero contesto, Pietro Claver rappresentò lo sguardo misericordioso di Dio sulla povera umanità schiava. Si era autodenominato «schiavo degli schiavi negri, per sempre»; e mantenne la promessa.
Era il 15 aprile del 1610, quando Claver s’imbarcava per raggiungere Cartagena de Indias. Aveva 30 anni ed era nato a Verdú (Lerida). Figlio di lavoratori, seguì gli studi secondo i criteri dell’epoca. Nel 1602, entrò nella Compagnia di Gesù e fece due anni di noviziato a Terragona.
Ebbe la fortuna di stringere amicizia con Alfonso Rodríguez, uomo di Dio, insignito di doni straordinari. L’anziano portinaio, con parole profetiche e sguardo luminoso, fissando l’amico, gli ripeteva: «Sì, Pedro, tu andrai nelle Indie e là farai grandi cose per le anime… Io lo so!».
E vi approdò alla fine di aprile del 1610. Durante la traversata, poté rendersi conto in che cosa consistesse la cosiddetta «febbre» degli spagnoli verso il Nuovo Mondo. Vi affluivano naviganti e mercanti, soldati e avventurieri, banditi e missionari, chi con avidità smodata e chi, come i missionari, con speranza apostolica.
Nel 1605, i gesuiti avevano aperto un centro in Cartagena, impegnandosi con fervore nei ministeri richiesti dai cittadini. Tra essi lavorava padre Sandoval, impegnato nel dramma della schiavitù, autore di varie opere e di una «Carta maxima portugaliensum» in cui erano segnalati i porti (a volte camuffati come in Cartagena) nei quali si effettuava la tratta dei negri e che veniva definita «la mappa dell’ignominia». Sandoval era anche un apostolo, che si recava personalmente dagli schiavi per aiutarli.
Quando conobbe Pietro Claver, capì che la sua opera aveva trovato un degno erede. Claver faceva le sue prime esperienze come discepolo di quell’impareggiabile maestro e completava i suoi studi a Santafé de Bogotá e Tunja. Nel 1617, Sandoval partì per il Perú e il Claver, già sacerdote, da quel momento rimase solo a svolgere quel compito.
Era l’epoca d’oro della tratta verso Cartagena; si calcola, infatti, che nel suo porto vi sbarcò più di un milione di schiavi negri, introdotti in America in sostituzione dei nativi indios per lavorare nelle miniere e in mille lavori pesanti, dove la debole struttura dell’indigeno non resisteva.

LA PAURA DEL SIGNORE

Dal galeone che avanza sul Mare dei Caraibi si può vedere il Picco della Poppa, baluardo-santuario della città di Cartagena. Lo scalo si trovava vicino all’entrata principale, all’interno della baia. Il veliero si accosta al grosso muro del forte e getta le ancore un po’ staccato dalla banchina. Il capitano fa sapere che non si può sbarcare, perché tutta l’armata è malata e manda a chiamare padre Claver, dicendo: «Stavolta non le mancherà il lavoro».
Ma non è necessario chiamarlo; egli è già in cammino, con volontari e interpreti. Appena spunta l’alba, il santo è alla finestra scrutando il mare, pronto ad accorrere prima che i rudi mercanti assalgano la nave.
Il giorno prima, ha assicurato il premio di nove messe a chi gli annunci l’arrivo; premio caro al governatore e a vari ufficiali del porto, i quali fanno a gara per conquistarselo. C’è poi un ragazzo che fa la sentinella, così bravo e lesto che non si lascia mai cogliere alla sprovvista.
Ecco allora che il Claver si presenta con il denaro, i vestiti e le vettovaglie raccolte nel solito giro per la città presso i suoi numerosi ammiratori e benefattori. Egli li anima con buona grazia, ripetendo: «Ho bisogno di cose buone; è arrivata una falange di negri».
Prima che compaiano i medici, gli agenti, gli scaricatori, il santo è sul ponte e, appena un marinaio apre la botola della stiva, s’infila e scompare nell’orrido sepolcro. Centinaia di occhi languenti e abbarbagliati da quell’improvviso sprazzo di luce cercano di fissarsi su quell’ombra che si profila contro il boccaporto. Il primo approccio tra il gesuita e gli schiavi è di dolcezza. Si tratta di vincere il terrore, l’umiliazione, che arriva anche a eliminare, nella traduzione del Credo, la parola «Signore», affinché i poveri schiavi, con la loro mentalità già spaventata, non concludessero: «Dunque anche Lui ci tratterà come cani!».
Ecco che ora, nella nave-prigione, scendono sei o sette interpreti africani, amici del gesuita, vestiti di bianco che salutano i nuovi venuti nella loro lingua e fanno loro coraggio. Il padre passa tra le file, sorridendo; fa una carezza a questo, allenta i ceppi a un altro; si interessa con particolare affetto dei bambini; stende il suo mantello su un ammalato che trema, regala a tutti qualcosa: un biscotto, un’arancia, una mela, un sorso di liquore. Uomo di consolazione, li conquista con il linguaggio della carità.

Il mantello multiuso

Nelle tetre baracche dove attendono la loro sorte, gli schiavi vengono collocati in un certo ordine, prima di essere esposti al mercato e distribuiti nei campi di lavoro.
Claver non li abbandona: continua a visitarli per stringere amicizia e istruirli nella fede. Segue un buon metodo, dettato dall’esperienza: aveva imparato la lingua dell’Angola per potersi intendere direttamente con la maggior parte di quelli che arrivavano; per gli altri, si serve di interpreti.
Su una scheda prende nota dei dati di ciascuno per conoscerli meglio e non perdee le tracce. Visita con assiduità gli ammalati. A uno di questi, abbandonato nella capanna, porterà tutti i giorni cibo e cure ininterrottamente per 15 anni.
In tutti i casi penosi che si verificano in città e nelle piantagioni, interviene per infondere animo, correggere e, qualora sia necessario, redarguire i padroni per la loro crudeltà.
I suoi ammiratori sono unanimi nell’affermare che, per 40 anni, egli visse con le sue inesauribili bisacce, il rozzo bastone e il vecchio mantello «multiuso». A una persona che gli domandava, verso la fine della vita, quanti schiavi avesse battezzato, rispose che certamente erano stati non meno di 300 mila.
In effetti, tutti gli schiavi arrivati a Cartagena durante quei 40 anni (giungeva una dozzina di navi all’anno, con un carico medio di 700 schiavi ciascuna), l’avevano visto, o ascoltato i suoi insegnamenti e, se preparati, avevano ricevuto il battesimo prima di partire per altre direzioni.
Gli ultimi anni della vita di Pietro Claver furono penosi: le forze diminuivano, specialmente dopo l’epidemia del 1650, che lo colpì e paralizzò, impedendogli qualsiasi movimento per quattro anni; tempo che egli trascorse confinato in una piccola cella, dimenticato da tutti, con cure scarse e assistito malamente da uno schiavo nero. Muore all’alba dell’8 settembre 1654. Canonizzato nel 1888, nel 1896 viene dichiarato patrono universale delle missioni fra i negri da Leone XIII.

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L’IMBARCO

Il negriero Degrandpré così descrive la notte della partenza di una nave di schiavi: «La cabina del capitano è sopra la stiva e il pavimento non è di grosso spessore. Più volte egli è svegliato dal rumore e dai gemiti. Gli sventurati si vedevano sul punto di lasciare per sempre la patria. L’incertezza dell’avvenire incuteva loro sgomento di morte, poiché erano persuasi di vivere i loro ultimi istanti e si aspettavano di venire uccisi e mangiati l’indomani».
Assicura il negriero che i loro singhiozzi e canti di dolore spesso turbavano la sua anima… E padre Sandoval, missionario in Cartagena, spiegava: «Gli uomini stessi che li conducono, m’hanno assicurato che quegli esseri miserabili sono legati a sei a sei per mezzo di cerchi al collo, e a due a due con le catene ai piedi, in modo tale che sono ridotti all’immobilità. Essi vengono rinchiusi sotto il ponte, in luogo dove non penetra luce alcuna: uno spagnolo non potrebbe affacciarsi senza svenire, tanto è il puzzo, la strettezza e la miseria del loro ricovero». Gli uomini sono nudi; alle donne si concede uno straccio.

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«Un laccio» tra due culture

Esprimo la mia profonda ammirazione per questo esemplare religioso della Compagnia di Gesù, insigne colombiano nato in Spagna, di cui il mio predecessore Leone xiii disse: «Dopo il Cristo, è l’uomo che più mi ha impressionato nella storia».
Il suo messaggio ed esempio conservano un’attualità universale che distingue il vero seguace di Cristo. Si è fatto «schiavo degli schiavi negri per sempre»; per loro consacrò le sue migliori energie, per la difesa dei loro diritti come persone e come figli di Dio consumò l’esistenza e, in una prova eroica d’amore al fratello, consegnò la sua vita.
Ma Pietro Claver non limitò l’orizzonte della sua opera agli schiavi, lo estese con prodigiosa vitalità a tutti i gruppi etnici o religiosi che soffrivano l’emarginazione; prigionieri, stranieri, poveri e oppressi, schiavi al lavoro in costruzioni, miniere e fattorie ricevettero la sua visita, conforto e consolazione.
In un ambiente duro e difficile, in cui i diritti umani erano violentati senza scrupoli, alzò coraggiosamente la voce contro i dominatori, dicendo loro che quegli esseri oppressi erano uguali ai loro oppressori nella dignità, nella loro anima e vocazione trascendente.
Con profondo senso pedagogico, trasmise all’emarginato la coscienza della sua dignità, gli fece apprezzare il valore della sua persona e del destino al quale Dio, padre di tutti, lo chiamava. Così spezzò le barriere della disperazione, seminò la speranza, si adoperò per trasformare una realtà ingiusta, senza predicare vie di violenza fisica o di odio; così venne creando un laccio d’unione tra due razze e due culture…
Egli è l’uomo dell’offerta totale di sé, in una vocazione sacerdotale per gli altri. Di fronte alle necessità pressanti che scopre intorno a sé, egli non si risparmia, ma si offre interamente a tutti per tentare di alleviarli e liberarli dall’oppressione e per dare loro la dimensione completa della loro esistenza.
Vedendo i risultati stupendi conseguiti, con frutti che solo un amore illimitato e saldamente fondato in Dio è capace di raggiungere, ci accorgiamo che siamo di fronte a una vita feconda, degna di essere imitata. Vi propongo dunque questo esempio di uomo e di religioso sacerdote, affinché serva di modello a coloro che non si accontentano di piccoli ideali e vogliono realizzarsi in una generosa consegna agli altri.

Giovanni Paolo II

Brunalda Bonardo