Il compito in classe di Federico

Sul petrolio si basa l’economia del mondo, quasi nulla funziona senza di esso, e non essendocene in tutti i luoghi, molti paesi lo devono comprare da altri o prenderlo in altri modi.
Secondo me, la guerra in Iraq è avvenuta perché il presidente degli Stati Uniti crede di essere una specie di Giulio Cesare. Bush pensa che il mondo sia ai suoi piedi e vuole arricchire il suo «impero» con il petrolio dell’Iraq. L’Iraq dovrebbe essere una potenza economica, possedendo enormi giacimenti di petrolio, invece si arricchisce solamente il governo.
Il presidente degli Usa ha dichiarato guerra all’Iraq con il pretesto del terrorismo e di voler salvare il popolo, ed è entrato in guerra con tutti i suoi aerei militari e carri armati devastando il paese e radendolo al suolo, uccidendo moltissime persone innocenti. Alla fine agli Stati Uniti saranno pagati miliardi di dollari per ricostruire il paese che hanno distrutto.
Molti soldati americani sono dei ragazzi annoiati della propria vita, che non sanno neanche per quale motivo combattono, ma vogliono solo vivere un’avventura alla Rambo, sparando a qualunque cosa si muova o respiri, a volte anche agli alleati. Una delle cose che mi da più fastidio è che ora fanno le campagne pubblicitarie per aiutare l’Iraq, dopo averlo bombardato. Ci sono anche i terroristi, però molti si difendono solo dagli statunitensi con le armi che hanno a disposizione.
In Italia il presidente del consiglio è Silvio Berlusconi, mia mamma dice che è un leccapiedi di Bush e che in Europa sta facendo fare all’Italia una figura da pagliacci, ad esempio quando ha dato del nazista a un deputato tedesco. Questo giudizio vale anche per le sue riforme sulla sanità e sulla scuola; Berlusconi è venuto su e si è fatto i miliardi grazie ai soldi sporchi della mafia e quando è salito al governo li ha ricambiati con cariche pubbliche e favori personali.
Dato che molti di quelli che sono al governo sono mafiosi fatti salire da Berlusconi, non sanno niente di quello che fanno e sono controllati da quest’ultimo. Il governo italiano ha voluto mandare dei soldati ad aiutare gli Stati Uniti; secondo me, i 19 soldati uccisi in Iraq non erano andati lì per liberare un popolo (dopo avergli mandato delle bombe), forse alcuni sì, ma la maggior parte di loro lo ha fatto perché il proprio stipendio veniva quadruplicato; a me, dispiace siano morti, perché erano comunque esseri umani, però hanno scelto di andare e sapevano di correre questo rischio.
Secondo me la televisione sta cercando di drammatizzare troppo questo evento, per esempio chiamandoli tutti «ragazzi», mentre alcuni avevano 50 anni.
Federico, terza media – Torino

E d ecco il giudizio globale dell’insegnante: «Partendo dagli Stati Uniti, hai fatto un utile giro in Italia, esprimendo giudizi non sempre sostenibili storicamente (devi fare attenzione a riportare giudizi ascoltati, se non sei sicuro di quanto affermi). Positiva la forma, a parte qualche incertezza (dovevi dichiarare perché hai scelto questo periodo storico)». Questo è il giudizio sintetico: «Forma: quasi buona. Contenuto: sufficiente».
La rivista missionaria della «famiglia» ha dato spazio ad un componimento scolastico, che coinvolge una mamma, un figlio di 14 anni e una docente. L’argomento è per noi centrale: la guerra.

Federico




Cuba fucila i dirottatori

Egregio direttore,
la visita di Lula, presidente del Brasile, a Cuba marca in maniera netta il diverso approccio dei paesi latinoamericani dalle prese di posizione europee. Mi pare il caso di ripensarle: dal punto di vista dell’informazione, innanzitutto, sono state stravolte.
La fucilazione dei tre dirottatori è stata presentata come se Cuba avesse innalzato un nuovo muro di Berlino; invece ha punito, in base alle sue leggi, dei dirottatori la cui azione non violava solo le leggi, ma si poneva contro lo stato, inserendosi nella guerra che gli Stati Uniti conducono da quasi 50 anni. Scandalizzarci di quelle esecuzioni, non mi pare che abbiamo titolo.
C’è un crimine più vasto, la guerra, che abbiamo approvato in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, ecc.
Chi inizia una guerra sa di condannare a morte migliaia di innocenti e, tuttavia, abbiamo ritenuto percorribile questa strada. Guerra di bombardamento, basata sulla supremazia di chi la scatena, coperta da motivazioni umanitarie, quando si sa che tutte le guerre sono fatte per motivi inconfessabili, con l’aggravante di creare ad arte situazioni di scontro e presunte violazioni dei diritti umani (vedi la falsa strage di Racak o del mercato in Bosnia-Erzegovina). Guerre per espandere il dominio e mantenere l’ingiusta ripartizione dei beni, che condanna alla fame e alla morte milioni di persone.
Toando ai fatti, si è dimenticato che gli Stati Uniti usano affondare le imbarcazioni sottratte a Cuba. Inoltre, pur esistendo una regolamentazione legale degli espatri, essi la violano con la concessione di un lavoro e casa.
Un tempo la sopravvivenza di Cuba fu assicurata dall’Unione Sovietica. Ora la Russia ha ritirato il presidio militare che aveva sull’isola, e gli Stati Uniti attaccano, a suon di bombe, ogni stato che ritengano di porre sotto tiro.
Dunque, il succo vero della nostra meraviglia mi sembra quello di inchinarci ai desideri della superpotenza e di preparare il terreno alle sue future guerre. In fatto di democrazia, dubito che abbiamo il diritto di giudicare quella degli altri; mi parrebbe giusto fare il punto su quella di casa nostra.
Non credo che l’atteggiamento assunto nei confronti di Cuba possa essere d’aiuto, affinché la democrazia si accresca in questo paese. La democrazia esige comprensione e rispetto, non scontro, tantomeno ingerenze estee e collusione con dei lupi rapaci.
Lo sviluppo della democrazia a Cuba presuppone il venir meno dell’assedio degli Stati Uniti, non un rafforzamento o l’attacco finale. Ignorando le ragioni di Cuba, abbiamo anche sacrificato gli interessi delle imprese italiane ed europee. Anche questo sembra una costante della politica italiana ed europea: i nostri veri interessi scompaiono di fronte a quelli degli Usa.

Siamo contro la pena di morte in qualsiasi paese. Sul regime di Cuba abbiamo espresso il nostro parere con l’editoriale di gennaio 2003: parere che ribadiamo.

Giuseppe Torre




Che famiglia!

Cari missionari,
mi è capitata fra mano Missioni Consolata di luglio. Parlava di Etiopia e, visto che abbiamo un figlio etiope (Daniel, 10 anni), l’ho letta volentieri. In Etiopia abbiamo conosciuto padre Tarcisio Rossi, con cui abbiamo collaborato come famiglia e come associazione Addis Beteseb/Nuova Famiglia (Padova).
Alla fine della rivista, con mia grandissima sorpresa, ho trovato un articolo su Toribio (Colombia). Anche da questo paesino, sperduto sulle Ande, abbiamo una figlia indigena: Maria Elena. E voi siete anche lì!
Mi sento molto vicino ai missionari della Consolata (mia moglie è di Torino). La nostra famiglia è italiana-etiopica-colombiana, simile alla famiglia della Consolata (in piccolo naturalmente).
Continuate così. Dio vi benedica.
Vico Bertoli e famiglia
(via e-mail)

Una famiglia italiana-etiopica-colombiana, vicina alla Consolata. Che famiglia missionaria!

Vico Bertoli




Foto scandalose?

Spettabile redazione,
ho ricevuto il calendario 2004. Devo dire, però, che le immagini abbinate ai mesi di maggio e giugno mi hanno rattristato; pertanto non posso appenderlo in casa mia: la foto di giugno mi ricorda gli spettacoli mondani (in casa mia non c’è la televisione); la foto di maggio è un richiamo alla perversione sessuale che domina il mondo occidentale.
Perdonate la mia franchezza. Ma sentivo il dovere di esprimere il disagio che ho provato nello sfogliare il calendario.
Lettera firmata
Roveredo in Piano (PN)

Le immagini del «disagio» ritraggono una famiglia di indios yanomami (Brasile) al lavoro (sono «così» da circa 12 mila anni) e una danza cinese della dinastia Tang (del 700-800 d. C.).
Immagini scandalose? Non lo crediamo.

Lettera firmata




La guerra non piace, ma

Cari missionari,
le guerre sono sempre di più e le violenze sempre più atroci, anche perché troppi uomini sono affascinati dall’idea della guerra e provano un immenso piacere nel far male ad altri uomini o nel vedere, attraverso i mass media, scene reali o simulate di tortura, mutilazione, morte.
Riuscite a spiegare in altro modo il boom del «turismo di guerra», il crescente interesse che riscuotono i «war games della domenica» e le dimensioni assunte dal fenomeno del mercenariato?
Continuiamo pure a dire che guerra e terrorismo sono frutto dell’ingiustizia; ma diciamo anche che persino in Italia (che vari stereotipi vorrebbero abitata da uomini con una specialissima attitudine per la pace) la guerra piace, a tal punto che molti connazionali si arruolano nelle milizie irregolari e negli eserciti privati, quando vedono che non è possibile con le forze armate regolari.
Mario Pace
Fano (PS)
Post scriptum
E che dire della «battaglia delle arance» di Ivrea, dove, con il pretesto della fedeltà a tradizione e folclore, ogni anno decine di persone restano ferite in modo anche grave e oltre 2,5 milioni di arance vengono sprecate?
Come possiamo credere all’italiano amante della pace e alieno per natura da ciò che è violenza, quando si arriva a spendere 100 euro (in Cina è il mensile di un metalmeccanico) per salire sopra un carro del carnevale e partecipare al getto di arance da posizione privilegiata?

La guerra non piace a nessuno, ma… «serve». Almeno lo si spera e lo si fa credere sempre e dovunque.
Prima dell’ultimo conflitto contro l’Iraq, un editoriale rilevava: «Il motivo di fondo [per una guerra preventiva] pare essere la posizione geopolitica che l’Iran occupa nell’area medio-orientale. Il Medio Oriente, in particolare i tre stati maggiori produttori di petrolio e di gas naturale (Iraq, Iran e Arabia Saudita) è un’area vitale per l’economia degli Stati Uniti: potervi accedere liberamente è d’importanza fondamentale per tutto l’Occidente» (La Civiltà Cattolica, 18 gennaio 2003).
Che poi si raggiunga subito lo scopo è un altro discorso, e un altro ancora che si entri in un’«avventura senza ritorno». Giovanni Paolo II lo sta gridando da almeno 13 anni. Ma non è ascoltato.

Mario Pace




Missione a Plati

Cari missionari,
un amico mi ha consegnato Missioni Consolata indicandomi l’articolo «Lamponi a Natale» (dicembre 2003). Con mia grande sorpresa e gioia si afferma: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa»!
Da anni vivo in un campo rom alla periferia della bella e turistica Pisa, mosso dalla convinzione che gli istituti missionari (appartengo ai Saveriani) oggi sono chiamati ad «allargare» ad intra la dimensione ad gentes… Mi rallegra sapere che voi ponete la questione sul tavolo. Vi fa onore. Buona missione.

L’articolo «Lamponi a Natale» riguarda Platì (RC), dove la missione «scotta». Anche per i missionari ad gentes.

p. Agostino Rota




Il soffio perduto delle parole

«Benché l’onda delle parole ci sovrasti sempre, le nostre profondità sono sempre silenti» (Kahlil Gibran).
Tema impegnativo e carico di responsabilità per noi cristiani, al tempo stesso delicato e pericoloso, quello di misurarsi con le parole, con ciò che esse svelano e a volte nascondono; con la loro portata rivoluzionaria e conservatrice allo stesso tempo.
Dio è il verbo fatto carne; ma feticci possono essere le parole multiuso: equivoche e prestanti a ogni uso. L’ossimoro, classica figura retorica, nella quale convivono due opposti, si è autopromosso come forma concettuale in cui convivono due contrasti: l’affermazione di una realtà con la sua negazione. Guerra e Pace, nel vocabolario del potere fanno ormai rima, ballano insieme nel caleidoscopio del pensiero dominante, battezzandone il matrimonio come «intervento umanitario».
La prosa volgare del potere ha prostituito le parole, che ormai non significano nulla, «non commuovono più – scrive Juan Arias – non gridano dentro, non innamorano».
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che precedette il G8 di Genova, mise in guardia contro le «parole di plastica», che inquinano, sterilizzano, occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere.

N ell’età adulta in cui ci troviamo, le nostre parole non hanno più l’innocenza antica e il linguaggio da mezzo di comunicazione si perverte in strumento di depistaggio.
«C ome scrivere, quali parole utilizzare, quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l’originale bellezza, la loro purezza?» si domandava il 27 gennaio scorso, nel giorno della Memoria, lo scrittore Elie Diesel, ebreo scampato al campo di Buchenwald.
Ma già un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Miracolo necessario ed urgente, tanto più oggi che di questa sindrome dei significati stravolti sono affette le parole più nobili, quelle che più ci coinvolgono nei sentimenti e nelle aspirazioni: amore, pace, libertà…
La «voce del padrone» non ama che proclamare se stessa; le sue parole, disancorate dalla realtà, sono puramente autoreferenziali, quando non vengono usate per occultare, appunto, ciò che dovrebbero svelare. Cessata la loro originaria e nobile funzione, quella di «tradere», consegnare, comunicare (di cui il termine «tradizione»), hanno finito per tradire (di qui il «tradimento») la realtà e, quindi, se stesse, la loro vocazione.

A noi il compito di sottrarle a questa losca manipolazione e restituirle alla loro originaria vocazione.
Non è un caso che la proposta della Rosa Bianca per una nuova politica inizia con questa sfida.
«L’argilla del mondo ha bisogno di un soffio. Il soffio delle parole. Quando l’argilla e il soffio si incontrano, sgorga la vita. Così è successo all’inizio, nella notte dei tempi, così accade ogni giorno. Da una parte la materia, un pezzo di terra, un pò di carne. Dall’altra parole. Parole che s’insinuano nelle crepe della materia e la mettono in moto. Parole che penetrano la terra, rendendola fertile. Parole che fanno l’amore con la carne così da far nascere i corpi delle donne e degli uomini.
Oggi, al posto di parole, bolle di sapone, leggere, libere, iridescenti ma vuote. Ed è per questo che i nostri corpi non sussultano più e dormiamo senza sogni e ci svegliamo con l’idea di sapere già tutto a memoria, di conoscere ormai l’esistenza in ogni suo penoso ingranaggio e che nulla più ci possa stupire o insegnare qualcosa. Siamo senza nome, persi in un dormiveglia. Ma basta il suono di una frase giusta e in un attimo siamo di nuovo noi: nome e cognome, fame e curiosità, desiderio di felicità e voglia di giustizia».

Don Aldo Antonelli




il sogno premonitore

Luisa non perché moglie del catechista, ma per
la simpatia e sensibilità: era molto attenta alle altrui necessità.
Se non vedeva una famiglia alla celebrazione domenicale,
s’informava prontamente cosa fosse capitato.
E se la causa dell’assenza era dovuta a qualche malattia,
invitava la comunità ad aiutare la famiglia con la preghiera
e opere di solidarietà. Nella comunità svolgeva il
ruolo di madre: nei momenti difficili esortava i fedeli ad
avere fiducia e pregare molto, anche in famiglia.
Una domenica la catechista Luisa aveva accompagnato
il missionario per celebrare la messa nella mia comunità;
i miei genitori non si recarono in chiesa, perché
ero malata e, secondo loro, senza speranza. Nella tarda
mattinata venne lei a casa mia per pregare e confortare
i genitori. Arrivò anche il missionario, che mi amministrò
il battesimo e l’unzione degli infermi. In seguito i genitori mi dissero che, dal momento di quella visita, avevo
cominciato a migliorare e il giorno seguente avevo ripreso
a parlare. Quando Luisa venne a conoscenza della
mia guarigione, affermò che Dio mi aveva salvata ed era
a Lui che avrei dovuto consacrarmi. «Con questo segno
Dio ti dice che ha bisogno di te» mi disse.
I miei genitori non credevano che avrei recuperato
completamente la salute; per questo non fecero caso alle
sue parole e non parlarono mai con nessuno dell’accaduto.
Solo in seguito, quando manifestai il desiderio di
diventare suora, si ricordarono delle sue parole.
Gli anni passavano e la situazione causata dalla guerra
peggiorava. La famiglia di Luisa fu una delle prime
a lasciare la terra natale per la città di Massinga. Molti
cristiani trascorrevano la notte in casa sua e, durante
il giorno, tornavano nei propri villaggi a lavorare i campi
e procurarsi gli alimenti necessari. Essa accoglieva
sempre tutti con amore, nonostante la disapprovazione
del marito. Diceva: «La situazione è difficile; ma non scoraggiatevi,
La sua simpatia e disponibilità attiravano molte persone.
Fu così che crescemmo insieme, come cristiani e
come famiglia.
Prima di partire per il Guiúa, la comunità fece per lei
e la sua famiglia una grande festa. Si cantò e si ballò;
ma il volto di Luisa rivelava una grande tristezza. Chiese
un momento di silenzio; poi raccontò di aver fatto un
sogno: «Fratelli miei, ho pregato molto, perché questo
è un momento difficile nella mia vita. Vado al Guiúa per
volontà di Dio, ma un sogno fatto ieri mi ha turbata. Due
scene ho davanti a me: una bella, piena di cose allegre;
ma nell’altra ho visto la croce di Cristo. Per questo, fratelli,
ho pregato molto, perché sento che questa è l’ultima
volta che ci vediamo».
Tutti i presenti rimasero turbati e le dissero, piangendo,
di non partire. Ma essa non toò sulla sua decisione.
La notizia del sogno si diffuse in tutta la comunità.
Alcuni giorni dopo, presi con sé un figlio e il nipotino
di cinque anni, partì per Guiúa. Desiderava far conoscere
loro il luogo dove, in caso di necessità o malattia,
avrebbero potuto rintracciare lei e il marito. Attendavamo
il ritorno del figlio; invece ricevemmo la notizia
della morte di tutti e tre; allora tutti ricordammo il sogno
di Luisa.
Nessun cristiano che l’abbia conosciuta potrà mai dimenticare
questa figura: in particolare, il suo presentimento
e la lettura dei fatti accaduti alla luce della fede. Io
sono sua figlioccia di cresima e la considero una donna
forte e santa, per ciò che ha rappresentato nella mia vita
e in quella di molti altri.
Sono certa che vicino a Gesù, che l’ha scelta, intercede
per noi e spero che la chiesa riconosca la figura di
questa martire di Cristo e dei fratelli.

suor Emilia Arlando Zunguze




RICORDANDO I MISSIONARI MARTIRI

«Il più grande omaggio che le chiese possono presentare
a Cristo è la dimostrazione dell’onnipresenza
del Redentore, mediante i frutti di fede, speranza e carità, in uomini e donne di tante lingue e razze… È importante ricordare i testimoni della fede che, anche nel
nostro tempo, per essa soffrirono e vissero pienamente
nella verità del Cristo».

Giovanni Paolo II

«Questi nostri fratelli aggiungono all’albo dei vincitori
una pagina, allo stesso tempo tragica e gloriosa».

Paolo VI

Morire insieme per la fede
Mozambico: i 24 martiri di Guiúa

Dieci anni fa, un tragico fatto di sangue
nel Mozambico ancora in guerra.
Il racconto, semplice e drammatico,
di una vicenda, che ci riporta
al tempo dei primi testimoni del vangelo.

I l 24 marzo, che ricorda i missionari
martiri, diventa un’occasione
propizia per non dimenticare
anche altri martiri,
frutto del loro lavoro apostolico.
È il caso di 24 catechisti mozambicani:
hanno testimoniato la loro
fede, prima nel servizio alle comunità
e poi nel martirio, subìto la
notte del 22 marzo 1992, a Guiúa
(Inhambane), mentre si trovavano
nel Centro pastorale per un
corso di formazione.
Il loro sacrificio e quello di tanti
altri (i cui nomi sono nascosti nel
cuore di Dio) diventano per noi
segno e inizio di tempi nuovi, che
affondano le radici nei valori autentici
della cultura e del vangelo.
Questa è la loro storia…

UN CENTRO
PER «PROMUOVERE» L’UOMO

Dopo il Concilio ecumenico vaticano
II, abbiamo assistito ad un
rinnovamento profondo della chiesa
e della sua presenza nel mondo
d’oggi.
In questo rinnovamento, che ha
scosso anche il Mozambico, si colloca
la creazione di tre Centri catechistici:
il Centro «Paolo VI» ad Anchilo
(Nampula) per le diocesi del
nord; il Centro di formazione di Nazaré
(Beira) per le diocesi del centro;
il Centro di promozione umana
di Guiúa (Inhambane) per le diocesi
del sud.
Il Centro del Guiúa fu inaugurato
il 9 gennaio del 1972 e il primo mandato
missionario ai catechisti avvenne
il 30 dicembre 1973. Il nome
«Centro di promozione umana» fu
ispirato dall’enciclica di Paolo VI, Populorum
Progressio, dove leggiamo:
«È necessario promuovere un umanesimo
totale. E che cos’è se non lo
sviluppo integrale di tutto l’uomo e
di tutti gli uomini? Non esiste, perciò,
vero umanesimo se non aperto
all’Assoluto, riconoscendo una vocazione
che esprime l’idea esatta di ciò
che è la vita umana» (n. 42).
Il Centro comprende un insieme di
modeste strutture: 31 casette destinate
alla residenza dei catechisti e
rispettive famiglie; 10 edifici adibiti
ad aule per incontri, uffici e cap-
pella; una residenza per i formatori;
un centro sanitario, una scuola elementare
e campi agricoli. Il tutto per
accogliere varie famiglie, in un periodo
di due anni, con l’obiettivo di
un’intensa formazione sociale, culturale
e religiosa.

LA GUERRA IN CASA
Tra il 1976 e il 1992 il Mozambico
attraversò uno dei periodi più tragici
della sua storia. Il paese fu devastato
dalla guerra: una guerra civile
atroce tra il governo, guidato dal
Frelimo (Fronte di liberazione del
Mozambico), e il movimento controrivoluzionario
della Renamo (Resistenza
nazionale mozambicana).
A combattersi furono gli stessi
membri della nazione mozambicana,
i figli della medesima terra, fratelli
contro fratelli. Fu una guerra in
cui l’uomo guardava al suo prossimo
senza pietà, uccidendolo.
Alla base del conflitto c’erano due
ideologie contrapposte: rivoluzione
marxista e controrivoluzione borghese;
due modi differenti di vedere
e organizzare la vita. Gli effetti sono
stati devastanti: oltre un milione
di morti, un milione e mezzo di rifugiati
nei paesi vicini e più di nove
milioni di sfollati interni, che hanno
abbandonato o perduto casa e proprietà.
Sono stati distrutti beni e infrastrutture
essenziali alla vita e allo
sviluppo del paese: rete commerciale,
scolastica e sanitaria.
Gli spostamenti su strade erano
impossibili; i profughi affollavano le
città e cittadine più importanti, essendo
fuggiti dall’insicurezza della
campagna. L’abbandono dei campi
interruppe ogni produzione, provocando
miseria permanente e dipendenza
assoluta dai paesi stranieri.
In questo dramma la chiesa non ha
mai cessato di ammonire che la guerra
non era la soluzione dei problemi
del paese, affermando la necessità di
far tacere le armi e aprire la via del
dialogo per risolvere i conflitti… come
facevano gli antenati.
In «Un appello alla pace» (gennaio
1983), per esempio, i vescovi invitavano
la gente a prendere coscienza
della situazione di guerra, denunciavano
i belligeranti per aver scelto
la violenza come strumento per risolvere
il conflitto e indicavano la
promozione della vita e il dialogo
quali strumenti ineludibili per promuovere
il bene della nazione.
Il ruolo della chiesa fu determinante
nel processo che pose fine alla
guerra con l’Accordo generale di pace,
firmato a Roma il 4 ottobre 1992.
Fu da questo impegno per la pace,
nella fedeltà alla missione della
chiesa, che l’Assemblea diocesana
della pastorale, tenutasi a Inhambane
il 19-20 novembre 1991, denunciò
la violenza nella scuola, la
violenza per sopravvivere, la violenza
giustizialista e distruttiva di sentimenti.
Nello stesso incontro si avvertì
l’esigenza di assumere un atteggiamento
nuovo per promuovere
la riconciliazione in Mozambico, potenziando
il Centro di Guiúa.
Rivolgendosi alle comunità, dopo
il massacro del Guiúa, il vescovo di
Inhambane, Alberto Setele, scriveva:
«Dove le forze belligeranti si avvicendano,
le popolazioni non possono
contare su nessuno. Dipendono
solo dalla misericordia di coloro
che sono armati. È diabolico! Non si
rispetta nulla, tutto è paralizzato. Si
bruciano villaggi; vengono fatti deragliare
treni; si distruggono botteghe,
scuole e ambulatori; le ragazze
vengono violentate, i giovani accoltellati,
i bambini trucidati, le donne
assassinate, i vecchi decapitati…».
In una precedente dichiarazione
si leggeva: «Davanti a queste situazioni
di violenza, ci appelliamo agli
uomini di governo di qualsiasi livello,
ai responsabili della sicurezza e
a tutte le autorità, perché esercitino
con responsabilità e umanità il
ruolo che compete loro. Riflettere su
questa inaccettabile situazione e interpretarla
alla luce della fede è dovere
di ogni cristiano: bisogna aprire
occhi e coscienza».

LA PRIMA VITTIMA
L’insicurezza dominava la provincia
di Inhambane, come tutto il paese.
Anche il Centro di promozione
umana di Guiúa, in più occasioni,
ebbe a soffrire le conseguenze della
guerra. Il fatto più grave accadde il
13 settembre 1987.
Quell’anno il corso di formazione
era frequentato da 24 famiglie, 150
persone. Quando il Centro fu assalito
dai guerriglieri, molti dei presenti
riuscirono a fuggire tra pallottole
e minacce. Ma 36 persone rimasero
prigioniere degli assalitori, mentre il
catechista Manuel Peres, della diocesi
di Beira, fu ucciso con un colpo di
fucile.
Padre Luis Ferraz scrisse:
«Erano le 4.50 quando incominciai a
sentire raffiche di mitragliatrici. Pochi
minuti dopo, il Centro fu invaso
da una settantina di guerriglieri, che
saccheggiarono la casa delle suore e
le abitazioni dei catechisti e rapirono
la maggior parte delle persone del
Centro. In una casa un catechista
giaceva in un lago di sangue: era Manuel
Peres. Fu la prima morte. La costeazione
era generale.
Poi venimmo a sapere che Manuel,
avvisato dai vicini, era corso a casa
per aiutare la famiglia a fuggire. Ma
era troppo tardi: i guerriglieri si trovavano
già sul posto. Tentò di opporsi,
perché la famiglia non fosse
rapita; ma essi non usarono mezze
misure: gli spararono a bruciapelo.
Colpito alla schiena, le pallottole
uscirono dal petto e si conficcarono
in una parete della stanza. Fu sepolto
il giorno successivo, 14 settembre
1987, nel cimitero di Nhaposa».
Mons. Alberto Setele aggiunse:
«Durante la fuga, i rapitori si resero
colpevoli anche della morte di un
bimbo. La mamma fu costretta ad
abbandonarlo nella foresta, per trasportare
vettovaglie e armi dei guerriglieri.
Per convincerla a tale gesto,
le dissero che il bambino sarebbe
stato raccolto da quelli che seguivano;
essi non potevano attardarsi,
poiché dovevano fuggire per non essere
raggiunti dai soldati dell’esercito
regolare. Nei giorni seguenti, ai
cristiani furono chieste informazioni
sul bambino; ma di lui non si ebbero
più notizie. Si pensa che sia
morto di stenti».
A partire dal 1988, a causa dell’aumento
dei pericoli della guerra,
le attività del Centro di Guiúa diminuirono
drasticamente. Furono sospesi
i corsi biennali di formazione e
ne vennero organizzati di più brevi
(15 giorni o una settimana), secondo
le necessità più urgenti delle comunità
diocesane. Data la situazione,
i partecipanti non erano più famiglie,
ma singoli individui.

VOGLIA DI RICOMINCIARE
Tertulliano (160-220 d.C.) scrisse
che «il sangue dei martiri è il seme
dei cristiani». Parafrasando l’affermazione,
possiamo dire che il sangue
del martire Manuel Peres è stata
la semente che ha fatto rinascere
il Centro catechistico di Guiúa.
Nei giorni 19 e 20 novembre 1991
si tenne, a Inhambane, l’Assemblea
diocesana annuale di pastorale; il
quarto punto dell’agenda rimetteva
in discussione la «formazione dei
laici». Dopo aver valutato il lavoro
realizzato, fu costatata la necessità
di riprendere l’attività con periodi
più lunghi e furono programmati
corsi di un anno per coppie. Perduravano
insicurezza e paura. Il giorno
della pace era ancora lontano; ma
non si poteva più attendere.
Si consultarono i laici: la loro parola
sarebbe stata decisiva. Nonostante
i pericoli evidenti, la risposta
fu: «È meglio non indugiare e,
pur correndo rischi, continuare la
formazione».
L’équipe formativa si mise al lavoro
per programmare il nuovo corso di
formazione, mentre le comunità sceglievano
le famiglie da inviare. Nella
prima metà di marzo 1992 il Centro
di Guiúa accolse i partecipanti:
15 famiglie provenienti da ambienti
rurali di varie missioni, tutte fortemente
provate dalla guerra. Famiglie
laboriose e moralmente solide: godevano
la fiducia della loro comunità;
avevano più di un figlio e, tra
i bambini, c’erano anche lattanti.
Tutto era pronto. Il 23 marzo si sarebbe
aperto l’anno formativo, con
una solenne celebrazione eucaristi-
ca. Invece il vescovo Setele dovette
presiedere il funerale di 24 vittime
della violenza. Nell’omilia raccontò
il tragico evento, in controluce con
la passione e morte di Cristo.

IL MARTIRIO
«Gesù non aveva ancora finito di
parlare che arrivò Giuda con una truppa
armata di spade e bastoni, mandata
dagli alti funzionari del tempio
e dai notabili del popolo».
Sabato, 21 marzo 1992, ore 15. Si
udirono spari di armi leggere, ai quali
nessuno diede importanza; in strada,
a quell’ora, potevano esserci attacchi
a qualche auto di passaggio o
spari di militari che, divertendosi col
tiro al bersaglio, facevano sentire la
loro presenza. La vita del Centro
continuò normalmente.
«Ma essi insistevano chiedendo a
gran voce che Gesù fosse crocifisso; e
le loro grida crescevano».
Poco prima delle 24, i padri Andrea
Brevi e John Njoroge, missionari
della Consolata, e le suore francescane
Lucia, Elisa, Teresa e Lurdes,
dalle rispettive residenze, sentirono
voci concitate provenienti dalle abitazioni
dei catechisti.
Il Centro era circondato da uomini
armati che organizzavano per
saccheggiare, rapinare, massacrare:
tra essi c’erano ragazzi di 10-15 anni
con le armi in pugno. Parlavano
xitshwa, gitonga, changane e portoghese.
Uno dei comandanti si chiamava
Antonio.
«Gesù, ricordati di me quando sarai
nel tuo regno. Egli rispose: oggi sarai
con me in paradiso».
Mentre per tutta l’area del Centro
riecheggiavano spari, si udirono colpi
alle porte e finestre delle residenze
dei catechisti: «Apri! Esci!».
Furono uccisi i catechisti Faustino
Cuamba e Carlos Mukwanane, che
avevano tentato la fuga attraverso i
campi di manioca e arachidi.
Il recinto fu accerchiato e invaso.
Gli assalitori, strappate le reti dalle
finestre e rotti i vetri, entrarono nelle
case gridando: «Prendiamo questi
uomini! Togli quel fardello! Carica
questo sacco!». Minacciavano chiunque
incontravano, puntando loro le
armi alla testa.
«Vicino alla croce di Gesù stavano
la madre e la sorella di sua madre,
Maria, moglie di Cleofa, e Maria di
Magdala».
Gli assalitori si divisero in tre
gruppi, uno dei quali si diresse con
tutti gli ostaggi verso la residenza
delle suore. Abbandonarono per terra
una bimba, Candida, figlia del catechista
Armando Duzenta. La piccola
fu ritrovata più tardi, ancora viva.
Gli aggressori chiamarono per nome
due suore, minacciandole di morte.
Poi si scagliarono contro la porta
della casa, che tuttavia resistette.
Proprio in quel momento i soldati
dell’esercito regolare spararono due
colpi di mortaio dall’acquedotto di
Inhambane, poco lontano dal Centro.
I mortai fecero un rumore assordante
e le case tremarono.
«Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?
».
Il secondo gruppo di guerriglieri
rimase presso le abitazioni, mentre
il terzo attraversò il ruscello Guiúa,
alla ricerca dei soldati che avevano
sparato con l’intento di procurarsi
armi e munizioni. Non trovando nessuno,
ritornarono sui loro passi; passando
davanti all’ambulatorio, sequestrarono
Madalena, che si era rifugiata
sotto una tettornia.
«Padre, nelle tue mani affido il mio
spirito».
Dopo il saccheggio, i guerriglieri
si riunirono nel recinto della scuola
primaria; raggrupparono tutte le
persone prese prigioniere e percorsero
circa 500 metri, fermandosi vicino
ad una capanna: qui incominciarono
a torturare i rapiti.
Prima interrogarono le donne e
poi fu la volta degli uomini: volevano
sapere luogo di provenienza,
professione e finalità della loro presenza
nel Centro. Chiesero informazioni
sull’esercito regolare e sulla
strada non minata per entrare
nell’area protetta.

«TANTO MORIRAI!»
Interrogatorio al catechista superstite
Paulo Saieta Kuniane, marito
della martire Veronica Sambula.
– Da dove venite?
– Non siamo di qui. Veniamo da varie
missioni: Vilankulo, Massinga…
– Che cosa fate qua?
– Siamo catechisti. Siamo qui per
studiare la bibbia e imparare il lavoro
di animazione nelle comunità cristiane.
– Dov’è il cibo?
– Siamo poveri, come tutto il popolo.
Non abbiamo magazzini. Ci arrangiamo
ogni giorno come possiamo.
– Dov’è il comando del Frelimo? Dove
sono le mine?
– Non lo sappiamo. Non siamo di qui.
Siamo arrivati da pochi giorni e non
conosciamo il posto. Sappiamo che
è proprietà della chiesa; è una missione
cattolica e un centro di formazione
per catechisti.
– Voi siete padri missionari?
– No, siamo catechisti.
– Quanti anni resterete qui?
– Un anno intero.
– Dove sono i padri?
– Nella loro casa. L’abitazione si trova
al centro degli edifici e vicino alla
chiesa.
– Che tu abbia risposto bene o male,
poco importa. Tanto morirai!
«Chi mi interrogava – raccontò
ancora il catechista Paulo – mi diede
uno spintone. Caddi a terra e ricevetti
un calcio in testa..». È una
testimonianza degna dei martirolo-
gi romani. Come ai primi secoli della
chiesa, i catechisti confessarono
la loro fede, l’attività apostolica
e il fine altamente religioso che
li aveva spinti al Guiúa. Confessarono
e non negarono.
«Vedendo che albeggiava e innervositi
per la mancanza di collaborazione
da parte dei rapiti – continuò
il catechista -, gli aggressori decisero
di lasciare l’abitato e di inoltrarsi
nel bosco. Approfittando del trambusto
e dell’oscurità, due catechisti
si nascosero fra i cespugli e fuggirono.
Appena nel bosco, i banditi uccisero
una ragazza per spaventare gli
altri.
Quando si furono allontanati alcuni
chilometri dal Guiúa, si appartarono
per decidere il da farsi. Scelsero
dieci ragazzi: questi dovevano seguire
i guerriglieri nelle loro basi.
Verso gli altri furono di una crudeltà
bestiale. Con arroganza selvaggia ordinarono
ad un bambino di sei anni:
“Corri alla missione e di’ ai padri che
stiamo uccidendo tutti. Se vogliono,
possono venire con i soldati quanto
prima”.
I carnefici si riunirono, ciascuno
con un catechista in mezzo a loro.
Ogni guerrigliero uccise a sangue
freddo la persona che aveva in custodia.
Davanti ai primi morti, alcuni
catechisti dissero: “Preghiamo!
Ora sappiamo qual è l’intento di questi
uomini e quale sarà la fine del nostro
popolo. Preghiamo! È arrivato il
nostro giorno”. E pregammo…».

«PROCLAMIAMO
LA LORO RISURREZIONE…»

Domenica, 22 marzo, ore 8.30. Due
soldati in sosta nella comunità cristiana,
terrorizzati, accettarono di
accompagnare i cristiani che, insieme
ai missionari, si recarono a recuperare
i cadaveri. Trovarono 20 persone
uccise a colpi di baionetta.
Una ragazza di 15 anni piangeva e
due neonati feriti strillavano disperatamente
tra i cadaveri. Uno di essi
morì durante il viaggio verso l’ospedale.
L’adolescente e l’altro neonato
furono operati e si salvarono.
La ragazza aveva una profonda ferita
all’addome e aveva perduto molto
sangue.
Il bilancio totale fu di 24 morti.
Missionari, suore e alcuni cristiani
partirono dal Centro di Guiúa con tre
auto e raccolsero i cadaveri nella brughiera,
con la costante minaccia del
ritorno dei guerriglieri. Benché il luogo
del massacro fosse abbastanza vicino,
impiegarono molto tempo, perché
non c’erano strade di accesso.
Al ritorno, i corpi furono deposti
sotto la tettornia dell’ambulatorio,
dietro la chiesa: furono lavati e composti.
Nel pomeriggio un forte acquazzone
attenuò il caldo, permise
di recuperare un po’ le forze e lavò la
terra dal sangue versato… La pioggia
rovinò la farina e quant’altro i
banditi avevano rubato. «Siamo stati
castigati, perché abbiamo ucciso i
figli di Dio» dissero tra loro gli assassini.
La comunità incominciò a costruire
le bare dei martiri. Molti falegnami
prestarono generosamente la loro
opera.
Il giorno seguente, 23 marzo, alle
ore 11, nella chiesa parrocchiale di
Guiúa fu celebrata l’eucaristia. «Signore,
annunciamo la loro morte e
proclamiamo la loro risurrezione».

Francisco Lerma




NO ALLA ZIZZANIA

San Pedro / Incontro con Barthélemy Djabla (Costa d’Avorio)
Nato nel 1936, sacerdote dal 1964, rettore
del seminario di Abidjan, mons. Barthélemy Djabla
è da 12 anni vescovo di San Pedro, diocesi grande
tre volte il Veneto. Attento alla vita del paese,
ha partecipato al Forum per la riconciliazione
nazionale ed è impegnato nella ricostruzione
della convivenza tra tutte le popolazioni
della regione sud-occidentale della Costa d’Avorio.

Monsignore, qual è la situazione
attuale della Costa d’Avorio?

La popolazione della Costa d’Avorio, nel
suo insieme, è molto accogliente. Siamo
il paese dell’ospitalità e frateità.
Numerose persone dei paesi della Comunità
economica degli stati dell’Africa
dell’Ovest (Cedeao) e di altre parti
del continente sono immigrati nel nostro
paese. Il fenomeno si è accentuato
dopo l’indipendenza (1960). Li abbiamo
accolti e continuiamo ad accoglierli
frateamente. Vorrei ricordare
che la Costa d’Avorio è il paese al mondo
con la più alta percentuale di stranieri:
ufficialmente sono il 26%. È giusto
che questo si sappia all’estero.

Cos’è che attira tanti immigrati
nel paese?

Prima di tutto cercano pace; poi guadagnarsi
da vivere. Abbiamo milioni di
ettari di foresta e le porte del commercio
sono aperte a tutti. Questi nostri
fratelli si sono stabiliti in città e villaggi
per il piccolo commercio; altri sfruttano
le foreste con la coltura del cacao,
caucciù, caffè e piantagioni varie.
Ben presto essi hanno trovato tempo
per il divertimento e per lavorare, naturalmente;
grazie all’accoglienza fratea,
si sono bene integrati nelle nostre
comunità e nei villaggi.

Sembra che la pacifica convivenza
tra locali e immigrati dal
Burkina Faso sia in pericolo:
monsignore, cosa sta capitando
realmente?

Come ho già detto, la Costa d’Avorio è
un paese di accoglienza: i burkinabé
vivono mescolati ai vari gruppi etnici
locali. Non c’erano problemi fino a pochi
anni fa. Per capire ciò che sta accadendo,
bisogna analizzare le cose in
profondità e non è difficile.
Nel 1990 il presidente Houphouët Boigny
mise un economista a capo del governo:
fu un errore, anche perché non
risolse i problemi economici del paese.
Questo primo ministro si chiama Alassane
Dramane Ouattara: approfittando
della sua posizione, ha iniziato un lavoro
sotterraneo per destabilizzare la
situazione. Aveva ambizioni politiche,
ma ha agito in modo scorretto: ha messo
gli stranieri in opposizione agli avoriani.
Questa è la realtà.
La situazione è precipitata col colpo di
stato del natale 1999: in varie città ci
sono stati disordini socio-politici, violenze
e scontri sanguinosi. Ma il male
viene da là.
Qualcuno ha parlato di xenofobia…
Gli scontri etnici non hanno nulla da
spartire con la xenofobia e il razzismo,
che in Costa d’Avorio non esistono affatto.
Tutto viene da là: alcuni politici,
calpestando leggi e diritto, sfruttano
le differenze etniche degli autoctoni
per metterli in contrasto tra loro
e i burkinabé contro le popolazioni locali
della regione sud-occidentale del
paese.

Quindi anche nella diocesi di San
Pedro si sono avute violenze?

Nel novembre 1999, dopo decenni di
pacifica convivenza con gli stranieri,
commercianti e agricoltori, nella parrocchia
di Tabou i burkinabé si sono
scontrati con i locali sulla questione
terriera. Alcuni sono morti. Ma il problema
è fondiario e non etnico.
Per sfuggire alle violenze, 2-3 mila persone
si sono rifugiate nella missione,
dove hanno trovato protezione e aiuti
per sopravvivere. Superata l’emergenza,
bisognava trovare i mezzi per
promuovere la riconciliazione: la missione
cattolica di Tabou ha radunato
a Grebo i preti della diocesi insieme ai
capi locali e burkinabé per discutere,
chiarire e appianare i problemi tra stranieri
e autoctoni. Abbiamo concluso
l’incontro con la messa e tutti si sono
stretti la mano.

Si è parlato pure di guerra di religione:
come sono i rapporti tra
cristiani e musulmani?

In Costa d’Avorio le relazioni tra cristiani
e musulmani sono state sempre
buone e amichevoli. Poi è venuto un
individuo che, per motivi politici, ha
seminato la zizzania della discordia tra
autoctoni e stranieri, tra cristiani e musulmani.
Per colpa di tale individuo ci
sono state gravi incomprensioni nel
paese, sfociate in distruzioni e saccheggi
di edifici religiosi nell’ottobre
del 1999. I musulmani si sono armati.
Sono state trovate armi nascoste nelle
moschee: una scoperta che non ha fatto
piacere ai cristiani.
Anche in questa diocesi cristiani e musulmani
vivevano in pace, finché il seminatore
di zizzania non ha portato la
discordia. Ora la situazione è migliorata;
ma bisogna lavorare per ricucire
gli strappi e riparare il male fatto.
C’è chi afferma che, dopo i presidenti
cristiani e del sud, sia
ora che un uomo del nord e musulmano
guidi le sorti del paese.
Dall’indipendenza a oggi nella Costa
d’Avorio si sono succeduti presidenti
cattolici: Boigny, Bédié e l’attuale
Gbagbo. Ma il ragionamento è del tutto
sbagliato. La presidenza del paese
non è un problema di chiesa o di religione,
ma di gioco democratico. La
gente sceglie il candidato che presenta
il programma migliore. La chiesa
non s’immischia in politica, nel senso
che non si schiera con nessuno, né indica
quale candidato votare, ma lascia
ai fedeli piena libertà di scelta.
E poi, dividere il paese tra nord musulmano
e sud cristiano è totalmente falso;
tale divisione esiste solo nella testa
dei politici. Nel nord i musulmani sono
più numerosi che nel resto del paese,
ma ci sono anche molti cristiani e la
maggioranza della popolazione segue
la religione tradizionale e simpatizza
più per il cristianesimo che per l’islam.

Qual è il ruolo della chiesa nella
vita del paese?

La maggioranza degli avoriani pratica
la religione tradizionale. I cristiani non
raggiungono il 20%. La chiesa cattolica
è una minoranza, ma gode di grande
prestigio agli occhi di tutti, cristiani,
pagani e musulmani, a tale punto
che, quando sorge una situazione difficile,
tutti guardano alla chiesa, ai vescovi,
a cosa dicono e come si comportano;
e i loro suggerimenti vengono
accolti con rispetto e attenzione.
Tale prestigio deriva dal fatto che la
chiesa lavora per la pace e la giustizia,
è coinvolta nell’azione sociale, educazione
e campo sanitario per il bene di
tutta la popolazione, senza alcuna distinzione:
la chiesa è per tutti e, come
dice il papa, «è esperta in umanità».
Monsignore, lei ha partecipato
al Forum per la riconciliazione…
Tra ottobre e dicembre 2001 si è svolto
tale evento che abbiamo accolto con
favore. Vi ho partecipato come rappresentante
della chiesa e come testimone
dei problemi che hanno provocato
le violenze nella diocesi. Oltre 700 delegati
di partiti politici e gruppi religiosi
hanno affermato la volontà di rimarginare
le ferite e ricostruire la convivenza
pacifica delle varie componenti
sociali. Sono state prese delle decisioni,
che ora devono essere attuate. Il
vero lavoro deve ancora incominciare e
siamo tutti coinvolti e responsabili.
Anche a San Pedro vogliamo contribuire
a tale processo. Stiamo preparando
un sinodo dal tema: «Annunciare
la buona novella di Gesù Cristo alle
popolazioni del sud-ovest della Costa
d’Avorio». Usiamo il plurale di proposito,
poiché tali popolazioni, autoctone
e straniere, sono numerose, ma devono
costituire una famiglia unica nel
sud-ovest avoriano; tutte devono vivere
in pace. È questa la missione nostra
e della chiesa in Costa d’Avorio: far sì
che tutte le etnie vivano e lavorino frateamente.

A proposito, qual è la situazione
della diocesi di San Pedro?

È una diocesi giovane: è stata creata il
23 ottobre del 1989, staccandola dal
territorio di Gagnoa. Si estende per una
superficie di 35 mila kmq e conta oltre
un milione di abitanti: è una popolazione
cosmopolita, composta da stranieri
di molte nazionalità africane e
tutte le etnie autoctone del paese.
In questi 10 anni abbiamo accelerato
l’organizzazione pastorale con la creazione
di nuove parrocchie: ora sono 13.
Abbiamo un buon numero di agenti di
pastorale: missionari stranieri, preti fidei
donum, tre sacerdoti autoctoni e
numerose suore: tutti, missionari e
missionarie, religiosi e clero locale lavorano
insieme in perfetta comunione.
Inoltre abbiamo trasferito la cattedrale
dalla città in questa zona, poiché la
cappella costruita nel primitivo quartiere
era troppo piccola e non c’è spazio
per sviluppare altre opere. In questa
zona, ribattezzata quartiere cattedrale,
abbiamo ottenuto un grande
terreno in cui sono stati già costruiti
un centro di formazione, l’episcopio,
una scuola cattolica e un grande salone,
che per ora funge anche da chiesa
parrocchiale.
La cattedrale è ancora in fase di progettazione;
ma un giorno riusciremo a
realizzare anche quest’opera.

Quali problemi e quali speranze
per San Pedro?

La regione del sud-ovest è stata trascurata
prima e dopo l’indipendenza.
La diocesi è molto estesa e buona parte
è foresta. Fino a una dozzina di anni
fa una pista congiungeva Abidjan a
San Pedro e Tabou. Ora abbiamo la strada
asfaltata che lega la capitale alla
frontiera con la Liberia. Ma le vie di comunicazione
con l’interno sono ancora
costituite da piste e sentirneri impraticabili,
specialmente durante i mesi delle
piogge. Speriamo che, con lo sviluppo
economico della regione, sia possibile
estendere l’evangelizzazione anche a
quei villaggi che non hanno ancora incontrato
un missionario.
Inoltre le strutture (scuole, chiese…)
sono scarse e mancano mezzi e personale
per costruirle.
La pastorale vocazionale è una priorità
della diocesi. Le vocazioni ci sono; bisogna
seguirle e formarle per avere preti
autoctoni. Abbiamo due diaconi diocesani;
presto saranno ordinati preti.
La carenza maggiore riguarda le comunicazioni
sociali, indispensabili per
l’evangelizzazione: abbiamo bisogno di
una radio cattolica, giornali e pubblicazioni
di vario genere per trasmettere
il messaggio del vangelo anche ai villaggi
più isolati.

Quali sono le iniziative più significative
nel campo della promozione
umana?

La Caritas è attiva in tutte le parrocchie.
Religiosi e religiose sono impegnati
in numerose iniziative di promozione
umana, come le varie attività di
formazione umana e religiosa che i padri
della Consolata hanno intrapreso
nella baraccopoli di San Pedro; un fratello
della Consolata si occupa della salute,
con il dispensario di Grand Béréby
e la formazione di agenti di pastorale
sanitaria nelle comunità della foresta.
In molte comunità esistono scuole di
alfabetizzazione.

Un’ultima domanda, monsignore:
cosa si aspetta per il futuro
dai missionari della Consolata?

Prima di tutto li ringrazio per aver portato
nella diocesi uno spirito veramente
missionario e un entusiasmo di cui
abbiamo bisogno. Grazie soprattutto
per la disponibilità: hanno scelto di lavorare
nella baraccopoli del Bardot, la
zona più difficile della diocesi; hanno
aperto una missione a Sago, nel cuore
della foresta; hanno accettato una terza
missione a Grand Béréby.

Per il futuro? Auguro loro di continuare
a lavorare come sanno fare. Se aprissero
una nuova missione, non potrei
chiedere di più.

Benedetto Bellesi