SIRIA-ITALIAIl complotto

Perseguitato per le sue idee politiche e religiose, Elias, cristiano della Siria, riesce a fuggire in Grecia con moglie e figli.
Lui solo riesce a raggiungere Venezia, mentre i suoi familiari spariscono nel nulla.

Il lavoro di mediatrice culturale mi porta spesso a contatto con uomini e donne costretti a lasciare la propria terra, perché continuamente perseguitati per la loro religione e per le loro idee dai governi al potere, come è successo a Elias, 75 anni, siriano, originario di Damasco.
Rientrava in un programma di accoglienza per richiedenti asilo gestito dal comune di Venezia. Ma dopo 9 mesi dal suo ingresso in Italia, nessuno era ancora riuscito a sapere il motivo per cui era scappato dalla Siria e per cui chiedeva asilo all’Italia. Non parlava, rifiutava di studiare l’italiano, stava quasi sempre ritirato in camera, non aveva instaurato legami con nessuno degli altri ospiti del centro di accoglienza.
La responsabile del centro mi aveva contattata, ritenendo che le mie conoscenze sulla società araba e la lunga permanenza in Siria potevano essere dei buoni elementi per creare un legame con Elias e aiutarlo ad aprirsi e a confidarsi.
Il nostro primo incontro fu nella sua camera, tranquilla e soprattutto ordinata. Non amava ricevere i suoi ospiti nella sala da pranzo, come era di norma fare nell’istituto: troppe persone presenti, troppa confusione.
Mi accolse molto amichevolmente. Mi aveva preparato una colazione, come si è soliti fare in Siria: pane, olive, pistacchi, dolci e tè nero molto zuccherato.
Rimase sorpreso e al tempo stesso entusiasta nel sentirmi parlare in arabo. Per me, ma soprattutto per lui, fu una cosa inaspettata scoprire che a Damasco avevo abitato proprio nel quartiere dove era nato e cresciuto. Fu piacevole per entrambi ricordare luoghi e persone che avremmo potuto avere in comune.
«Qui a Venezia mi trovo bene, ma mi manca molto la Siria, Damasco. Mi manca la confusione dei suq, l’odore delle spezie, il nostro cibo, soprattutto la mia gente». Senza rendersene conto iniziò a parlare di sé, della sua vita in Siria.
«Fino a tre anni fa conducevo una vita normale: casa, lavoro, famiglia, amici. Ero direttore di banca. Questa aveva rapporti commerciali con vari paesi europei, per questo parlo inglese, francese, tedesco e russo. Ho imparato tante lingue perché amo studiare: è il mio passatempo preferito. Alla sera, dopo cena mi ritiravo nel mio studio a leggere e studiare. Le lingue straniere sono sempre state la mia passione».
Elias continuava a parlare della sua casa, della sua famiglia, dei suoi libri e di Damasco. Io non lo interrompevo; lo ascoltavo e lo lasciavo parlare. Mi rendevo conto che era una cosa che voleva fare da molto tempo. Il suo viso era disteso, felice di vedere che lo capivo, che potevo condividere i suoi ricordi, perché conoscevo bene la sua città, la sua gente.
«Ho tre figli. Due gemelli di ventinove anni, un maschio e una femmina, e un’altra femmina di 37 anni, Habsa. Si è sposata quattro anni fa e si è trasferita in Canada. Gli altri due figli sono ancora in casa con me e mia moglie. Il ragazzo è ingegnere, la ragazza avvocato».

Seguirono molti altri incontri, nell’istituto e fuori, per fare una passeggiata o bere un caffè. Contrariamente a quanto mi aveva riferito la responsabile dell’istituto, Elias era riuscito a instaurare a Venezia varie amicizie, che incontrava quasi quotidianamente. Aveva conosciuto alcuni iracheni ed egiziani che risiedevano a Venezia; frequentava assiduamente una chiesa nel centro della città, dove partecipava alle varie attività di un gruppo di preghiera.
«Faccio molta fatica ad esprimermi e a comprendere l’italiano, ma sono riuscito a conoscere persone che parlano inglese e francese» mi diceva, spiegando il motivo per cui non si trovava bene al centro e preferiva mantenere una vita ritirata.
«In questo centro sono ospitate persone provenienti da vari paesi, con cultura, religione e estrazione sociale diverse. La maggioranza è musulmana. Inoltre, sono la persona più anziana, gli ospiti sono quasi tutti giovanissimi. Il nostro ritmo di vita è molto diverso. Io ho bisogno di tranquillità, soprattutto di dormire la notte. Purtroppo questo è impossibile. Alle sette di sera i responsabili del centro se ne vanno. Non c’è nessun guardiano: per tutta la notte c’è gente che va e che viene. Ci sono stati anche dei furti. In teoria è proibito far entrare amici o parenti, ma non essendoci controlli tutto è permesso. Poco tempo fa c’è stato il mese di ramadan, il mese del digiuno musulmano, ogni notte veniva organizzata una festa, come è tradizione per i musulmani. Musica alta e danze fino alle tre, le quattro del mattino.
Non riesco ad adattarmi alle abitudini dei vicini di stanza. Mi sento molto vecchio in confronto a loro. Tuttavia non dico niente, non voglio avere problemi con nessuno. Me ne resto ritirato nella stanza in attesa di essere convocato al più presto a Roma, presso l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), con la speranza che mi venga concesso l’asilo. Se questo dovesse avvenire, potrei lasciare questo istituto, avrei la possibilità di lavorare, di guadagnare e permettermi una casa. Mi piacerebbe usare i miei risparmi per aprire un ristorante insieme alla mia famiglia, se Dio lo vorrà!».

Elias era molto devoto; molte le immagini sacre presenti nella sua stanza. Le sue letture preferite erano la bibbia e il vangelo. Mi mostrava il libro del vangelo, un’edizione molto bella, logicamente in arabo, che teneva esposto sopra uno scaffale, con davanti una candela accesa. «Quando ho lasciato la Siria, questo libro è stata la prima cosa che ho messo nella mia piccola valigia», continuava, dicendomi che nel vangelo trovava conforto e aiuto. E mi lesse alcuni passi, salmodiandoli come è tradizione nelle chiese cristiane d’Oriente.
Ormai si era instaurato un rapporto amichevole. Era arrivato il momento di chiedergli il motivo della sua fuga dalla Siria, per aiutarlo a presentare all’Acnur la richiesta d’asilo.
«Sono cristiano da generazioni. Il mio credo religioso e le mie idee politiche sono stati la causa della fine della mia vita. Appartenevo al partito comunista, partito d’opposizione al Ba’th, tutt’ora al potere in Siria.
Quattro anni fa sono stato incarcerato con l’accusa di complottare contro lo stato. Non avevo fatto e detto niente, ma in Siria solo il fatto di essere cristiano e per di più comunista crea sempre problemi.
Ho perso il lavoro. Sono stato in carcere, senza rendermi esattamente conto del motivo. L’accusa era di tramare contro l’islam.
Sono uscito dal carcere dopo tre anni e ho cercato di riprendere la mia vita, anche se non avevo più il mio lavoro. Cercavo di stare attento, evitando di parlare di politica. Ma non si è mai troppo prudenti.
Una settimana dopo la tragedia dell’11 settembre, mi trovavo con alcuni carissimi amici musulmani in un nadi, un club privato. C’era molta gente. I miei amici iniziarono a parlare della strage delle torri di New York. Io ascoltavo i loro discorsi. Parlavano di Berlusconi, di Bush: dicevano che entrambi erano contro l’islam e volevano cancellarlo dalla terra. Addirittura arrivarono a giustificare l’atto dei terroristi.
A quel punto non riuscii più a stare zitto. Mi limitai a dire che in quelle due torri morirono persone che non c’entravano niente, non solo cristiani, ma anche ebrei e musulmani.
Dal tavolo vicino si alzarono due uomini. Appartenevano alla mukabarat, la polizia segreta dello stato. Iniziarono a gridare: “Sei un kafir (infedele), stai complottando contro lo stato siriano, contro gli arabi e l’islam”. Mi presero, mi misero su un’auto e mi portarono alla prigione di Tadmur, sei ore da Damasco, una delle più dure carceri siriane.
Mia moglie e i miei figli non furono avvertiti. Iniziarono a cercarmi ovunque, ma nessuno gli diceva dove mi avevano portato. Solo dopo 50 giorni, durante una perquisizione nella mia casa, mia moglie venne a sapere che ero rinchiuso nella prigione di Tadmur, che ero vivo, ma non potevo ricevere visite».
Mentre mi raccontava questa storia, Elias aveva le lacrime agli occhi, ma volle continuare il suo racconto. «Ero chiuso in una cella di due metri per due. Ero solo e senza luce. Ogni due settimane potevo fare una doccia, per dieci minuti e alla presenza di due guardie. Una volta alla settimana avevo la possibilità di prendere 30 minuti d’aria, ma senza poter vedere il cielo. Ogni sera un po’ d’acqua e una zuppa mi venivano introdotte da un piccolo sportello. Vietati i colloqui con parenti e amici. Mi picchiavano perché dicessi i nomi dei cospiratori.
Tadmur è una prigione molto dura per prigionieri politici. Ma la maggior parte dei carcerati è cristiana. Dopo tre mesi fui mandato a casa, con l’obbligo di una firma al giorno presso la polizia del quartiere».

Negli ultimi 20 anni, molte famiglie cristiane hanno lasciato la Siria. Prima dell’arrivo del Ba’th al potere, la comunità cristiana godeva di maggiori libertà, era parte dello stato siriano alla pari di quella musulmana. Il nuovo governo ha introdotto varie restrizioni e limitazioni.
Elias sentiva che la sua vita in Siria non era più sicura: decise di fuggire con moglie e figli, che acconsentirono. Vendette la casa e altre proprietà; pagò una persona che, per 2 mila dollari, li aiutò a passare la frontiera tra Siria e Turchia e li condusse a Istanbul. Da lì raggiunsero Atene, dove un suo cugino viveva da 35 anni.
«È stato un viaggio molto duro: eravamo nascosti dentro un camion, senza poterci muovere e parlare -continua Elias -. Quando raggiungemmo Atene, avevo la febbre alta. Non potevo andare da nessun dottore, perché in Grecia i clandestini non hanno diritto alle cure mediche. La moglie di mio cugino riuscì a procurarmi delle medicine con il suo tesserino sanitario. Ma avevo bisogno di un medico, di essere ricoverato in un ospedale. Per questo mio cugino mi consigliò di venire in Italia, dove tutti, anche i clandestini, hanno diritto all’assistenza medica».
Con gli ultimi soldi rimasti riuscì a pagare degli uomini che lo aiutarono a raggiungere Venezia.
«A Venezia fui immediatamente ricoverato in ospedale, dove rimasi per una settimana. Ho problemi al cuore, devo stare sotto controllo, la mia pressione è molto alta».
I suoi familiari avrebbero dovuto raggiungerlo in Italia, ma non ci riuscirono. Si sentivano ogni tanto al telefono, li chiamava lui.

Erano passati 10 mesi dall’arrivo di Elias a Venezia. Da alcune settimane non era più riuscito a mettersi in contatto con la moglie e i figli. Temeva che fosse successo qualcosa. Sapeva che avevano lasciato la casa del cugino ad Atene e si erano diretti sulla costa, in attesa di trovare un passaggio su una nave per clandestini.
Nell’ultima telefonata lo avevano informato di avere pagato 4 mila dollari a uno scafista, per essere condotti a Bari, ma costui era scomparso con il denaro. Da allora non li aveva più sentiti.
Elias non aveva mai raccontato a nessuno questa storia, aveva paura che a Venezia ci fosse qualcuno in contatto con la polizia segreta siriana; temeva di compromettere la sua vita e, soprattutto, quella della sua famiglia. Solo quando fosse stato convocato a Roma, avrebbe raccontato tutto.
Nonostante i suoi timori, ritenne importante fidarsi di me; ma non so fino a che punto l’abbia fatto, e non lo saprò mai. Elias, infatti, abbandonò il centro. Mi lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica, dicendomi che sarebbe andato a cercare la famiglia. Aveva bisogno di lui.
A una settimana dalla sua partenza, trovai un altro messaggio, in cui, piangendo, mi annunciava che i suoi familiari erano scomparsi. Aveva saputo che erano riusciti a imbarcarsi per Bari; a Bari non erano mai arrivati, ma non li credeva morti.
Mi disse che sarebbe andato a cercarli. Non rivelò dove; non mi lasciò un numero di telefono né un recapito. La responsabile del centro mi spiegò che aveva rinunciato al programma di accoglienza e che non aveva potuto obbligarlo a restare.

Elisabetta Bondavalle

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