COLOMBIA: il dramma dei “desplazados” VENTISEI UOMINI DI PACE

Lo scorso 28
aprile, in una fattoria nascosta nel verde delle montagne che circondano Carmen de
Apicalá (Cundinamarca), si è inaugurato un centro destinato a realizzare un grande sogno
per la Colombia: costruire uomini di pace. Pochi edifici nei quali vengono ospitati 26
bambini, tutti provenienti da famiglie di sfollati (“desplazados”), che a decine
ogni giorno arrivano a Bogotà, private di tutto. Alcune di queste porte si sono aperte e
di lì è nato il progetto “bambini di guerra, uomini di pace”: un piccolo
esempio di cosa la solidarietà può fare quando, pur avendo pochi mezzi, trova la
collaborazione di molti.

Quando arriviamo a Carmen de Apicalá, sullo schienale posteriore della
nostra auto si sono accumulati maglioni e vestiti pesanti. Questa mattina, a Bogotà,
l’alba era un po’ fredda, ma dopo esserci allontanati dalla città, a poco a
poco, il calore del tropico ci aveva aiutato a liberarci del superfluo.

A partire da Fusagasugá, ai lati dell’autostrada cartelloni
pubblicitari molto colorati ci ricordano che ci stiamo avvicinando a una delle zone più
turistiche del paese: hotels, piscine, negozi, divertimenti. Sulle rive del Magdalena
tutto è organizzato in modo tale che, chi se lo può permettere, ha la possibilità di
riposare e dimenticare le fatiche e gli inconvenienti della grande città. Il paesaggio
cambia immediatamente quando abbandoniamo la via principale, per salire lungo le pendici
di una delle montagne che dominano la valle del Magdalena. Nello spazio di pochi
chilometri ci ritroviamo nella Colombia agricola, così diversa da quella turistica:
piccole case di contadini con molti animali da cortile, un verde esuberante in ogni angolo
e, attorno a noi, soltanto sole, colore, silenzio e un piacevole odore di campagna. Dopo
qualche chilometro giriamo e ci inoltriamo, seguendo una strada sterrata e sconnessa, in
quello che a prima vista sembra un bosco e che poi si rivela un campo fittamente coltivato
con alberi da frutto: manghi, cacao, mandarini, guayabas. Arrivati ad una finca
(proprietà) e scesi dall’auto, siamo subito circondati da strilli di entusiasmo,
saluti, fervore di attività. Siamo finalmente arrivati alla casa-fattoria dei
“bambini della guerra”.

“Come primo passo – sono parole di Napoleone Malaver, responsabile
del gruppo “Volontari del mondo” che amministra questa proprietà di 20 ettari –
ci preoccupiamo di creare un rifugio per i figli di coloro che arrivano a Bogotà per
fuggire la violenza che colpisce le altre regioni del paese”. La guerra, si sa, non
risparmia sofferenze e nel suo procedere distruttivo nessuno si salva, neppure i bambini.
Nell’età in cui casa, educazione, famiglia sono indispensabili per modellare gli
adulti di domani, tutto può sparire ed essere sostituito, dalla notte alla mattina, da
una fuga interminabile, dallo sradicamento dal proprio ambiente e da una insanabile
mancanza di risorse. Questa è storia quotidiana per migliaia di famiglie colombiane e i
loro figli. Cosa vuole significare la fattoria dei “bambini della guerra”? In un
ambiente familiare, genuino e contadino (perché la maggioranza dei figli provengono dalla
campagna) si cerca di fornire ai bambini quelle condizioni minimali che possano fare di
loro, in futuro, degli “uomini di pace”. Se la guerra è sinonimo di
distruzione, nella fattoria si vuole “costruire conoscenza e vita”. Ma come si
è arrivati a realizzare questo progetto?

La storia ce la ricorda padre Claudio Brualdi, superiore provinciale
dei missionari della Consolata in Colombia. “Con il padre Juan Testa ci trovammo
d’accordo nel dare vita ad un’opera che potesse offrire rifugio e protezione
alla parte più indifesa della popolazione colombiana. Questa, tra l’altro, era
conforme al nostro carisma di missionari della consolazione. Rimaneva un problema: a chi
chiedere aiuto per realizzare un siffatto progetto? I missionari che lavoravano in
Colombia non erano sufficienti e, comunque, avevano già molto lavoro da fare”. La
soluzione arriva con la collaborazione del gruppo “Volontari del mondo”, la
solidarietà di molta gente del quartiere El Vergel e l’appoggio di alcune scuole e
collegi. Non ultimo l’attenzione e l’affetto della gente della comunità, la
quale a poco a poco si accorge che le nascenti costruzioni non hanno una finalità
agricola. Finché un giorno la popolazione scolastica risulta più che raddoppiata.
“Da don Alfonso, la persona che abita più vicina, a quelli più lontani – ci spiega
Napoleone Malaver – tutti si interessano di quello che sta accadendo ai “bambini di
guerra e uomini di pace”. Cosicché quest’opera non appartiene né ai missionari
della Consolata né ai “Volontari del mondo”: essa è un’opera di tutta la
comunità e di tutti i numerosi benefattori”. A sua volta, padre Jaime Bonilla,
responsabile della pastorale dei migranti per l’arcidiocesi di Bogotà, fa questa
riflessione: “Questa è un’opera di tutti, ma allo stesso tempo è un’opera
di Dio. Perché è stata fatta in favore dei più piccoli, ai quali Gesù tiene in modo
particolare. Incontreremo certamente molte difficoltà, ma questo progetto andrà avanti e
crescerà. Questo non significa che ci attendiamo che tutto cada dal cielo. Il vangelo ci
insegna che le opere di Dio esigono sempre il nostro apporto. Pensate al miracolo della
moltiplicazione dei pani: esso fu possibile perché un ragazzo mise a disposizione del
Signore il suo pasto, con la speranza che da esso si ottenesse cibo per altri. Allo stesso
modo questo progetto è frutto del nostro lavoro, del nostro impegno e di tutto ciò che
possiamo apportare con la benevolenza di Dio”.

Domando: “Quanti “bambini della guerra” sono ospitati
nelle strutture che oggi inaugurate?”.
– Ventisei.
– Solamente?, ribatto.
– Per il momento, sì.

“Quando cominciammo questo progetto – mi spiega Napoleone Malaver
-, avevamo molte speranze e un pensiero: ciò che abbiamo potuto fare oggi, che cosa
diventerà domani? Abbiamo iniziato con 26 bambini, tutti ospitati in quella semplice
costruzione che puoi vedere lì. Già domani si cominceranno nuove costruzioni e noi tutti
speriamo che, in uno o due anni, si potranno ospitare tra i 100 e 120 bambini e bambine
che vivono in situazioni di alto rischio a causa della guerra. Per ora abbiamo questo e
non possiamo perdere tempo. È qualcosa di piccolo, però lo consideriamo un gran
successo”. La violenza in Colombia produce molti più bambini di guerra di quanti se
ne potranno assistere nei prossimi anni nella casa. Tuttavia, sappiamo che le cose grandi
nascono sempre piccole.

Voglia Dio che questo progetto cresca e che nel futuro si possano avere
molti uomini di pace cresciuti all’interno di esperienze come queste! Voglia Dio che
i missionari della Consolata un giorno possano vendere la proprietà! Se ciò accadesse,
significherebbe che la guerra sarà finita e non ci saranno più le sue vittime,
soprattutto le più innocenti, i bambini.

La casa dei bambini della guerra può essere una goccia nel mare, ma la
sua assenza si notava.

 

(*) Juan Antonio Sozzi, missionario della Consolata, ha lavorato
in Spagna, Ecuador e Colombia. Già direttore di “Antena misionera” (Madrid),
attualmente è redattore di “Dimension misionera” (Bogotà).

Juan Antonio Sozzi