MONGOLIA (1)Bambini da… stanare

I primi 5 missionari e missionarie della Consolata sono in Mongolia da appena un anno.
Oltre alla lingua, studiano come progettare
la missione. E il lavoro non manca.

Steppe immense e cielo azzurro: è la prima impressione mozzafiato provata nel mettere piede in Mongolia, all’inizio di luglio del 2003. Il paese è cinque volte più esteso dell’Italia, ma con una popolazione di circa 3 milioni di abitanti; un terzo di essi vive nella capitale Ulaanbaatar.
Ben presto l’emozione cede alla visione della realtà: il paese attraversa una profonda crisi economica e di identità, da quando, con la fine del comunismo e lo sfascio dell’impero sovietico, i russi hanno abbandonato a se stessa la Mongolia, lasciando interi villaggi disabitati, provocando la chiusura di molte fabbriche e costringendo la gente a dipendere dagli aiuti umanitari.
Il costo della vita si è impennato, mentre i salari non aumentano: un impiegato statale, per esempio, guadagna da 50 a 80 euro al mese. Dalle nostre spese, possiamo fare i conti in tasca alla gente: un chilo di carne (la più economica è quella di cavallo), un litro di latte e un pezzo di pane costano 2.200 tugruk (1,60 euro); moltiplicato per 30 giorni fa quasi il mensile di un operaio.
La povertà provoca enormi problemi sociali, come la fuga verso la città; l’alcornolismo è diventato una piaga sociale spaventosa. Le statistiche della Fao fanno rabbrividire: un terzo delle famiglie mongole rientra nella fascia della povertà grave; quasi la metà dei bambini vive di stenti; i ragazzi di strada sono tra i problemi più raccapriccianti del paese.

I BAMBINI DEL TOMBINO

Prima di arrivare ad Ulaanbaatar, sapevo del fenomeno per sentito dire; ma non ne avrei mai immaginato la cruda realtà, finché non la vidi con i miei occhi: quasi per caso abbiamo scoperto alcuni bambini in un tombino, poco lontano dalla nostra abitazione. Appena sollevammo il coperchio fummo soffocati da un fortissimo tanfo di muffa ed escrementi; i bambini erano attorniati da un esercito di scarafaggi, rannicchiati in un angusto rifugio di pochi decimetri cubici, sotto il grosso tubo umido e semi arrugginito del riscaldamento, eredità della tecnologia russa, che si snoda e s’incrocia con cento altri tubi nelle viscere della città.
L’alta temperatura dell’acqua che vi scorre procura a quel rifugio un tepore sopra i 20°, che permette, bene o male, di sopravvivere e ripararsi dal gelo che, fuori, attanaglia le strade della città.
Oggi hanno trovato tra gli avanzi delle ossa semispolpate; domani non non lo sanno; forse non troveranno nulla tra l’immondizia di una città povera, non abituata a sprecare.
Ciò che abbiamo visto non è la scena di un pessimo film di fantascienza, ma la reale condizione di migliaia di bambini, molti dei quali in età prescolare, nella capitale più fredda del mondo, dove il termometro scende spesso a meno 35°.
Fuggono situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili.
Si radunano in branchi, come animali selvatici, ma non lo sono. Vorremmo fare sentire loro che sono esseri umani come noi; spiegare che sono nostri fratelli, figli dello stesso Padre. Ma ci assale un senso di impotenza: siamo ancora all’abc della loro lingua. Anche questo ci stimola a studiare con maggiore impegno per impararla più in fretta. Mentre questi bambini lottano per un osso spolpato, noi lottiamo contro un osso duro: il mongolo (vedi riquadro).
In tali rifugi, oltre al calore, questi bambini cercano un riparo per sfuggire alla polizia di cui hanno paura. Non sappiamo bene perché: ma quando riusciremo a comunicare meglio, lo sapremo.
Da quando è crollato il comunismo (il regime garantiva un minimo di sussistenza), anche i minori ingrossano le file di quei disperati che cercano nell’accattonaggio una possibilità per sopravvivere. Questi bambini vivono nella peggiore promiscuità con adulti alcolizzati, malati, emarginati. Alle sofferenze causate dal freddo, fame, mancanza d’acqua, sporcizia, si aggiunge la paura della violenza: questa può scoppiare spesso irrefrenabile tra ubriachi, adulti o ragazzi più grandi, che affogano la loro miseria in alcornol di pessima qualità e vodka mischiata a metanolo.
Durante il giorno, questi spettri emergono dai loro avelli alla ricerca di un po’ di cibo nella spazzatura; oppure raccolgono qualche bottiglia in vetro e oggetti di plastica da destinare al riciclaggio. In una giornata di lavoro si può raccogliere al massimo 3 chili di plastica, che fruttano 600 tugruk (45 centesimi di euro), quanto basta per comprare un litro di latte.

AFFETTI NEGATI

Questi bambini di strada sono spesso creature tenere, malate nel cuore per mancanza d’amore, che si contentano di un’esistenza che richiede un grande sforzo per chiamarla vita. Sopravvivono con ciò che riescono a guadagnare e la scarsa elemosina che riescono a succhiare da una città che non li ama.
Benché miserevoli e affamati, odiati e scacciati, difficilmente essi si danno alla delinquenza, né formano bande di piccoli rapinatori, come capita in altre latitudini. Ladri o gruppi di rapinatori sono piuttosto formati da adulti.
Eppure spesso la polizia li arresta e li rinchiude in orfanotrofi, oppure, seguendo le ultime direttive del governo, li riporta a quei «simulacri» di famiglie dalle quali erano fuggiti e da cui fuggiranno di nuovo, passando da miseria a miseria.
Anche la gente li accusa di essere dei criminali, lazzaroni, sfaticati, di preferire la strada al lavoro, un bene raro anche per gli adulti.
Un giorno, mentre portavamo una minestra calda a un gruppo di questi bambini, un vicino ci domandò dove andavamo. Più con i gesti che con le parole spiegammo che andavamo al tombino. L’uomo scosse la testa e con un gesto eloquente, come se imbracciasse un fucile, ci fece capire cosa avrebbe fatto lui a quei poveri infelici.

UN’ALTRA MINESTRA

«Vi piacerebbe studiare?» domandiamo loro. «Magari!» rispondono quelle guance rosee e sporche. Ma come sarà il loro futuro? Troveranno un lavoro? Se saranno fortunati di trovarlo, come potranno avere una vita dignitosa, se il mensile di un insegnante, un operaio, un medico è inferiore a 100 euro e il costo della vita continua ad aumentare?
Sono domande che sfidano anche il nostro futuro. Cominciamo a capire che non basta dare un piatto di minestra oggi e domani; ma bisogna elevare l’ambiente nella sua totalità. Dovremo aiutare i mongoli a cucinare un’altra minestra, con una grande quantità di giustizia, forti dosi di amore e comprensione, un bel pizzico di frateità…
Sarà necessario sforzarci di capire non solo la lingua, ma anche il loro modo di vivere, di esprimersi, di concepire la vita. Ed è quello che cerchiamo di fare giorno per giorno: orecchie dritte a scuola, per percepire gli strani suoni della loro lingua, e cuore aperto per conoscere e amare questo popolo e la sua cultura.
Dovremo impegnarci a cambiare l’atteggiamento della popolazione verso i loro figli più sfortunati e vulnerabili. Qualcuno ha già cominciato a vedere di buon occhio le organizzazioni caritatevoli, in maggioranza cristiane, che si occupano con fatica di questi bambini e di altre vittime dell’emarginazione.
La chiesa cattolica, presente in Mongolia da appena 12 anni, ha cominciato subito a mettersi al fianco dei poveri, specialmente dei bambini di strada. All’inizio un gruppo di missionari e missionarie portavano del cibo ai tombini; poi hanno aperto centri di accoglienza.
Nel 1997, padre Gilbert Sales, dei missionari di Scheut, iniziò nella capitale il Verbiest Care Center, sostenuto dal Centro internazionale cattolici missionari e dalle Pontificie opere missionarie: oggi accoglie 120 bambini fino ai 15 anni. «Andiamo a stanare questi piccoli disperati nei loro squallidi rifugi – racconta padre Sales – e li portiamo in un ambiente pulito, sano, pieno di allegria. Restituiamo loro una prospettiva di vita».
Filippino, 39 anni, padre Gilbert Sales è il primo missionario arrivato in Mongolia, assieme all’attuale vescovo, mons. Padilla.
Un’altra iniziativa del genere è portata avanti dai salesiani, che in due piccoli centri accolgono una quarantina di bambini. Il primo serve per la conoscenza dei bambini e dura un paio di settimane; dopo di che saranno loro stessi a chiedere di passare all’altro centro e iniziare a studiare.
Le suore di Madre Teresa hanno un centro di accoglienza per bambine e ragazze madri. «Le ragazze sono più difficili da trattenere che i bambini; vogliono la libertà a tutti i costi» confessano le suore.
Oltre al recupero dei bambini di strada, la chiesa ha avviato altre opere sociali: asili, scuole, centri di insegnamento d’inglese, musica, danza, ecc., progetti a favore di handicappati e carcerati.
«La vita nella capitale mongola – dice mons. Padilla – è caratterizzata da alcornolismo, violenza e condizione familiare debole e incerta. Ogni settimana provvediamo a fornire cibo e vestiti ad almeno 200 adulti allo sbando. La proposta cristiana entusiasma soprattutto i più giovani, che vedono un’alternativa più decorosa alla realtà attuale».

QUALE MISSIONE?

La sorte di migliaia di piccoli mongoli senza il minimo futuro, con l’incubo della fame, malattie, un’aspettativa di vita bassissima, ci interpella. L’impegno in attività di promozione umana potrebbe essere una priorità della nostra presenza in Mongolia. La chiesa locale e i missionari arrivati prima di noi ci aiutano a cercare il modo più efficace di inserirci nella realtà del paese.
In Mongolia siamo 51 missionari, tra padri, suore e laici di differenti congregazioni, paesi e continenti. Anche lavorare e vivere in comunione con loro fanno parte della nostra missione.
Non sappiamo ancora in quale città lavoreremo, né quale sfida accoglieremo. Di una cosa siamo certi: sull’esempio di Cristo, vogliamo lavorare perché tutti «abbiano vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma per il momento continuiamo a rosicchiare l’osso duro della lingua mongola. Al tempo stesso, con la saggezza dell’umiltà e la forza della carità, ci lasciamo illuminare da tutte le persone di buona volontà che incontriamo sul nostro cammino, senza giudicare ciò che ancora non riusciamo a capire fino in fondo.
Ci sono di guida anche le parole di Giovanni Paolo ii: «La chiesa considera con sincero rispetto quei modi di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
(Fine prima puntata – continua)

Juan Carlos Greco