ESPERIENZA ITALIA: Novizi fuori le mura

Sei novizi dei missionari della Consolata, tre italiani e tre coreani, si «allenano» alla missione ad gentes, cioè ad andare al di là delle frontiere, discriminazioni, condizionamenti politici e sociali, dentro il cuore
della gente… 15 giorni a Platì
è parte di tale allenamento.

La vita del novizio, si sa, ha una programmazione ben precisa e strutturata. Tuttavia, i sei giovani del noviziato di Rivoli, tre italiani e tre coreani, hanno aperto una breccia nel muro «protettivo» e, accompagnati dal loro formatore, si sono recati nella Locride (Calabria), più precisamente a Platì, ai piedi dell’Aspromonte.
Per 15 giorni sono vissuti accanto a due missionari della Consolata, i padri Enrico Redaelli ed Emanuele Maggioni, per apprendere «il mestiere» e sperimentare se stessi in quella vita alla quale si stanno preparando giorno dopo giorno: la missione.
Hanno visto, sentito, toccato con mano. Da veri discepoli, hanno camminato accanto a missionari già sperimentati. A Natile Nuovo sono stati alloggiati in una casa – quella di Maria Zagaglia – che sembrava un prolungamento della casa di Betania, dove il maestro Gesù era accolto con calda ospitalità.
Si sono trovati immersi nella religiosità popolare, nelle sue espressioni più dense del triduo pasquale: si sa, «il religioso» esprime la radice più arcaica e le vibrazioni più sacre di un popolo.
Quindici giorni sono pochi, ma è un «assaggio» per apprezzare, incuriosirsi, dialogare, e, soprattutto, ascoltare. Sì, ascoltare, quell’atteggiamento di stupore, che sa di riverenza, di «stare-accanto», mediante il quale si crea un’osmosi d’intesa, di rispetto, travasamento di persone a partire dalla loro più profonda interiorità.
Un’esperienza di «missione» che lasciamo raccontare ai protagonisti.

Missione è… uscire dalla propria casa. Abituati all’ordine e puntualità, a prevedere ogni dettaglio della vita comune e programmare con scrupolo il da farsi per non girare a vuoto, l’esperienza di Platì, ci ha fatto piombare di colpo nella «programmazione da affanno». Sono saltati e quasi schizzati appuntamenti, orari, agende.
Si è realizzato tutto e anche più del previsto. Ma ognuno di noi si è sentito chiamare in causa per dare il meglio di sé, estrarre dal profondo motivazioni e convinzioni, adattarsi alla realtà presente e non cercare quella immaginata e preventivata.
In questo bagno improvviso di adattabilità, fuori dalla pace e quiete del noviziato e dei ritmi comunitari, è stato necessario «arrangiarsi» per strappare spazi di preghiera, silenzio interiore e formazione personale, per «ricaricare» le pile che fanno girare la missione. L’imprevisto sembrava il tessuto quotidiano e bisognava farvi fronte… uscendo di casa!
Che cosa mi ha maggiormente impressionato? La gente. La ricchezza di Platì è la gente; i bambini soprattutto. Li abbiamo visitati nelle scuole e incontrati a frotte per le strade. Sono simpaticissimi, vivacissimi, di una abbordabilità e amicizia fresca e istantanea.
Amano lo scherzo. Se accetti un giretto in motorino, ti strapazzano, correndo a tutto gas per le viuzze del paesino, che conoscono come se avessero antenne da pipistrello. Poi, alle tue grida isteriche, «fammi scendere, sto’ male…», finalmente mostrano compassione e ti scaricano in parrocchia. Quella sera, di certo, salti la cena.
A scuola, per intrattenerli, facevamo domande tra cultura varia e curiosità. Una ragazzina di quinta elementare, la domanda ce la pone lei: «Che cosa pensate di quello che scrivono i giornali su Platì?».
Siamo colti impreparati. Ma con prontezza di spirito uno di noi risponde con un proverbio: «Prima di giudicare una persona bisognerebbe mangiarci assieme un chilo di sale». La ragazzina afferra il significato e si apre a un sorriso di pace.
Nella classe, però, si fa un attimo di silenzio, facile da interpretare: è amarezza e speranza insieme; passato che si vorrebbe seppellire e futuro da inventare. Il loro sguardo sa di volontà di riscatto, per qualcosa che non fa onore; ma esprime tanti valori che non fanno rumore sui mass media, che però esistono realmente e sono onestà, sudore, dignità mai barattata, ma troppe volte imbrattata; e vorrebbero fosse loro pubblicamente restituita!
Sono istanti che ci fanno rivivere il loro dramma, in quella notte del 13 novembre 2003: circa 1.000 carabinieri circondarono il paesino, penetrarono a forza nelle case, strapparono dal sonno uomini, donne, anziani, giovani. In quella notte da incubo, come spesso succede, il dramma nel dramma: si voleva colpire qualcuno legato alla malavita e si fece d’ogni erba un fascio tra grida e lacrime di innocenti… e banalità da parte di qualcuno con addosso la divisa dell’arma.
Le conseguenze di quella notte si sono protratte per lunghi mesi, aumentando il già diffuso senso di sfiducia nel loro futuro. Ma un’alba nuova sembra che cominci a dissipare incubi, paure, sospetti.
L’ospitalità dei platiesi è al di là del pensabile. È straordinaria. Ci hanno invitato nelle loro case, ci hanno riempiti di regali: pane, formaggi, salami, olio d’oliva…
Una sera fummo invitati dalla signora Maria, suocera di Antonio, proprietario di una tabaccheria in paese. Alla fine della serata, quasi per sfogarsi, la signora ci racconta come era Platì fino a 30 anni fa: un paese attivo nell’alta sartoria e artigianato; esportava pipe ed altri prodotti in tutto il mondo. Con orgoglio ci racconta dell’attivismo politico di suo padre, il quale partì da Platì nel 1943 per unirsi ai partigiani e combattere contro la dittatura.
Denys

Missione è… solidarietà. L’esperienza a Platì è coincisa con il tempo pasquale, i giorni in cui riviviamo il mistero del Dio solidale con noi fino alla morte. Tale coincidenza ci rese più coscienti del messaggio di cui siamo portatori, al di là delle nostre persone.
Accanto ai missionari, negli incontri con gli alunni delle scuole e i giovani impegnati nelle attività parrocchiali, nell’ospitalità delle famiglie… abbiamo sentito la sfida di dovere scoprire e mostrare il «Dio che salva», a «sostenere la speranza», a impegnarci per ricevere dal Padre la pace e per costruire un mondo di giustizia, libertà e frateità.
Alimentare la speranza significa risvegliare le coscienze, testimoniare e proporre cammini di liberazione e promozione umana. Per questo abbiamo presentato alla gente di Platì una proposta di solidarietà, chiedendo l’appoggio alla campagna Nós Existimos.
Il primo passo nel cammino della solidarietà è la conoscenza; perciò, dove ci è stato possibile, abbiamo cercato di ampliare gli orizzonti di interesse e fatto conoscere la situazione di Roraima, le sfide e gli obiettivi di tale iniziativa.
Il gesto in cui si è espressa la solidarietà, semplice ma personale, che non impegna il portafoglio ma muove la coscienza, è stato apporre il proprio nome sulla scheda per la raccolta delle firme di sostegno alle rivendicazioni dei popoli emarginati di Roraima.
Qualcuno ha fatto un passo in più: si è interrogato sul valore, conseguenze, potenzialità di tale gesto. Ha capito che apporre una firma per sostenere una campagna internazionale è un atto di responsabilità di fronte a ciò che capita nel mondo, uno strumento efficace per cambiarlo, anche a livello locale.
La storia di popoli diversi, con problemi ed esigenze differenti, ma accomunati da esclusione e sfruttamento, uniti dalla comune speranza in un futuro migliore, in lotta per il rispetto dei propri diritti e dignità, ha costretto la gente a guardare in casa propria.
Ed è in quest’ottica «locale» che i bambini di Platì hanno partecipato a una maratona per le vie del loro paese, indossando una maglietta su cui campeggiava la scritta: Nós Existimos. Quel grido di popoli lontani è diventato il grido di Platì: anche noi esistiamo; ci siamo anche noi; anche noi vogliamo contare qualcosa!
Corrado

Missione è… incontrare l’uomo dove vive. In un paese di montagna il bar costituisce un importante luogo di ritrovo. A Platì ce ne sono per tutti i gusti: per juventini e reggini (le due tifoserie, ci tengo a dirlo, non sono in conflitto), per giovani e meno giovani.
Ne abbiamo frequentato un paio anche noi. Ottima è stata l’accoglienza, non solo perché le consumazioni sono state sempre offerte. Nei bar abbiamo condiviso un po’ di vita dei platiesi, la loro storia, il presente, le speranze e le attese.
Siamo venuti a sapere che a Platì ci sono una decina di foi, il cui pane arriva fino a Reggio e Catanzaro. È un pane particolare, a lievitazione naturale. Lo abbiamo mangiato anche noi ed è davvero ottimo; si mantiene fresco per diversi giorni. A Platì si produce anche dell’ottimo formaggio di latte vaccino e caprino.
Al bar abbiamo incontrato soprattutto i giovani. Con loro si è scherzato tanto, ma hanno pure manifestato molto interesse per la nostra scelta di vita missionaria, per il nostro voto di castità, così distante dal loro modo di pensare. Almeno così ci è parso di intendere. È stata un’impresa trovare il modo più semplice per spiegarlo.
Camminando per le strade di Platì, ci si scopre avvolti da grande cordialità. È molto importante fermarsi, salutare, dare e chiedere la propria fiducia attraverso i gesti che la buona educazione ci ha insegnato: un cenno, un sorriso, una stretta di mano per i platiesi sono forme di rispetto molto importanti.
Abituati all’anonimato cittadino, all’inizio ci sembrava strano questo «dover salutare tutti». Eppure, dopo poco tempo si è scoperto che non era un atto dovuto, ma semplicemente un segno di riconoscenza verso l’accoglienza che continuamente ricevevamo. Tanti ci hanno invitato a entrare nelle loro case per un caffè, una chiacchierata, accompagnata da qualche dolce tipico che, se non lo finivamo, dovevamo portare a casa.
Marco

Missione è… inculturazione. Platì è una cittadina bella e simpatica; ma all’inizio abbiamo dovuto abituarci e superare quell’impressione di «facce dure», specialmente quelle mascoline!
Fatto questo sforzo ti accorgi che la gente è tanto buona, accogliente e generosa, come le persone semplici della nostra Corea del Sud.
Per noi coreani, trapiantati in Italia da poco più di un anno e alle prese con la lingua, con cui riusciamo appena a farci capire, l’approccio con la gente, specialmente con i simpaticissimi bambini, è stato duro: tutti parlavano il dialetto a una velocità mozzafiato. E questo ci ha resi più consapevoli di una delle più grandi difficoltà della vita missionaria: la lingua della popolazione alla quale saremo inviati.
Nonostante ciò, gli incontri nelle strade, nelle scuole elementari e medie sono stati una bellissima esperienza che conserveremo sempre nel profondo: in Corea, a Platì o in qualunque altra parte del mondo, i bambini sono sempre uguali: si fanno amare, sono semplici; ti danno tanto e non ti fanno sentire straniero.
I ragazzi più cresciuti e i giovani sono un po’ diversi: corrono sulle moto sparati e senza casco; si esibiscono in temerarie prove di bravura, per mostrare in qualche modo la personalità emergente. Peccato che non investano tale personalità, così ricca e originale, in una professione o nello studio.
Questo non vuole essere un giudizio: abbiamo intravisto quante difficoltà ci sono in questo campo, dovute a mancanza di lavoro e di prospettiva. L’unica strada aperta, da tanti già imboccata, è quella dell’emigrazione. Ad eccezione dei bar, questi giovani non hanno punti di incontro per stare insieme e passare il tempo libero, per dare spazio alla propria cultura e creatività.
Le ragazze, poi, nella loro vita tanto ritirata, sembrano ancora più penalizzate. Il fatto che si sposano così giovani (18-20 anni) ha suscitato una certa meraviglia in noi coreani. Al di là di cultura e tradizione, forse lo sposarsi presto è causato anche dalla mancanza di lavoro, alla necessità di emigrare. Nonostante la fatica per adattarci alla lingua e scoprire la cultura della gente, abbiamo vissuto con intensità il nostro soggiorno a Platì. Non abbiamo capito tutto, ma di una cosa siamo certi: Platì ha tanta voglia di speranza e una nuova stagione della sua storia sta già lievitando.

Martino, Pietro, Giuseppe

Novizi missionari IMC

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