CIADMedici laici in missione

Il racconto semplice, ma convinto
di una giovane coppia di medici, che ha voluto
«affondare la sua radice» in terra africana.
In nome della fede, alimentata dalla «linfa vitale»
di una frateità a tutto campo.

«Siamo stranieri, ma ci sentiamo a casa; abbiamo imparato a vivere una vita più semplice, ma piena di senso. Per la sua precarietà, le storie di cui veniamo a conoscenza, gli stessi impegni che abbiamo, la vita in Ciad ci richiama continuamente al senso ultimo della vita. Abbiamo affondato nell’humus della terra una nuova radice, che speriamo ci renda più solidi e nutra la nostra famiglia con la linfa vitale della frateità e comunione». Con queste parole Emanuela e Paolo hanno voluto terminare il racconto che mi hanno fatto della loro esperienza missionaria: sei anni vissuti con amore e fede sul territorio africano.

VOGLIA DI CONDIVIDERE

Entrambi medici, si sono incontrati per la prima volta a un corso di medicina tropicale, organizzato dal Cuamm di Padova. Spiega Emanuela: «Indipendentemente l’uno dall’altra, inseguivamo il forte desiderio di dedicare almeno una parte della nostra vita professionale a un paese in via di sviluppo e tutti e due eravamo orientati all’Africa».
Già qualche anno prima di approdare a Padova, avevano avuto modo di toccare da vicino la realtà sanitaria africana: Emanuela era stata in viaggio in Uganda, presso un ospedale missionario; Paolo aveva visitato un ospedale del Burkina Faso, entrambi gestiti da medici del Cuamm. Sono state proprio queste brevi esperienze che hanno fatto crescere il desiderio di passare più tempo sul suolo africano e li hanno spinti a seguire il corso padovano.
Due anni dopo il primo incontro, nel 1993, si sono sposati; pur continuando a pensare, prima o poi, di fare le valigie, hanno cominciato a lavorare in Italia, frequentando scuole di specializzazione in linea con il corso che la loro vita stava prendendo: Emanuela medicina intea e Paolo pediatria.
«In quegli anni, in Italia si era verificata una grande crisi della cooperazione internazionale – ricorda Paolo -. In seguito al crollo del muro di Berlino, gran parte degli investimenti era stata “dirottata” all’Europa dell’Est. Altro duro colpo fu lo scandalo del Fondo Aiuti Italiano (Fai), sull’onda di mani pulite».
Aggiunge Emanuela: «Cercavamo contratti per partire come cooperanti per un periodo minimo di due anni e non ne trovavamo. Da quegli anni in poi si è sviluppata la moda dell’emergenza e contratti a breve termine: sei mesi, massimo un anno. Come prima esperienza, ciò non ci interessava; eravamo convinti che ci volesse un certo tempo per entrare in contatto con la realtà».
Un periodo così breve non avrebbe, infatti, permesso di calarsi fino in fondo nelle situazioni locali, di capire il modo di vivere della gente; avrebbe permesso di portare un aiuto isolato, sicuramente valido ma, per certi versi, fine a se stesso; mentre quello che cercava la giovane coppia era la costruzione di rapporti umani, l’integrazione, per quanto possibile, con la popolazione del posto, per costruire con loro qualcosa che rimanesse nel tempo, oltre il giorno del loro rientro in Italia.

PRIMA… MISSIONARI

Mentre ragionavano sul loro futuro, una coppia di amici, Marta e Marco, si stava preparando a partire per l’Africa, come missionari laici. «Avevamo conosciuto il centro in cui seguivano la formazione, a Piombino in Toscana (Centro frateità missionarie, vedi riquadro) e spesso li accompagnavamo, perché ci sembrava una formazione molto bella, che avrebbe potuto servire anche a noi» ricordano con piacere.
«In effetti, per noi la dimensione della fede restava fondamentale e ci chiedevamo in che modo poterla vivere, anche in un’esperienza prettamente professionale come quella della cooperazione. Nei nostri viaggi in Uganda e Burkina Faso avevamo entrambi notato come la fede fosse sì la motivazione fondamentale di molti, ma spesso restava in secondo piano nella vita concreta, a causa del sovraccarico di lavoro e richieste infinite. Inoltre, ci sembrava che la vita dei cooperanti fosse tutta tesa all’apporto professionale, senza un contatto normale, quotidiano, con la gente, se non quello di medico-paziente. A poco a poco, continuando a seguire la formazione a Piombino anche dopo la partenza dei nostri amici per il Ciad, ci siamo resi conto che la proposta del Centro frateità missionarie poteva fare al caso nostro».
Una presa di coscienza abbastanza faticosa per tutti e due: «Ci veniva chiesto di spogliarci, almeno momentaneamente, del ruolo di medici che a noi stava tanto bene… Prima di tutto dovevamo sentirci inviati, cioè missionari, portatori dell’annuncio evangelico».
All’inizio sembrava tutto troppo difficile. Ma i numerosi aspetti della proposta del Centro frateità missionarie hanno avuto la meglio. «Alla fine del 1996 è arrivata la proposta della frateità di N’Djamena, che era allora composta proprio da Marta e Marco e da don Aldo, della diocesi di Milano. Vivevano insieme da due anni nella periferia della città» racconta Paolo.
Dopo un viaggio conoscitivo e il sì definitivo, lasciato anche il lavoro, la coppia ha dedicato tutto il 1997 a una preparazione più approfondita: un mese al Centro di Piombino; il corso al Centro unitario missionario (Cum) a Verona; due mesi e mezzo in Ciad per imparare il francese; sei mesi al corso di medicina tropicale ad Anversa, in Belgio. «Sono state tutte occasioni preziose, sia per approfondire la riflessione sul cammino che ci accingevamo a percorrere, sia per conoscere tante persone con cui abbiamo iniziato bellissime amicizie. Già nel periodo di preparazione cominciavamo a ricevere il centuplo promesso!» tiene a sottolineare Emanuela.

«TORNIAMO A CASA?»

«Il 4 aprile 1998 siamo arrivati a N’Djamena – continua Emanuela -. Una data impossibile da dimenticare: in piena stagione calda e la peggiore degli ultimi 30 anni! Il termometro arrivava a 48-50 gradi all’ombra. La casa, disabitata da qualche mese, perché Marta e Marco erano in Italia per ragioni di salute, era sepolta sotto uno strato di polvere. C’era di che scoraggiare i più intrepidi. Giovanni, il nostro primogenito, che allora aveva due anni, dopo un’ora ha esclamato: “Papà, adesso torniamo a casa!”. Era quello che tutti pensavamo». Invece Emanuela e Paolo non si sono mossi e sono ancora lì, dopo sei anni!
Nonostante il quadro scoraggiante, almeno per chi vive in Europa, la loro prima impressione, fortissima e che ancora conservano, è stata la gente: nonostante tutto vive ed è contenta. Di fronte a tutto quello che hanno iniziato a vedere e toccare con mano, durante i primi mesi di permanenza sono stati assaliti da un senso di inutilità: «È un sentimento che ci sembra bene risvegliare ogni tanto, per ricordarci che qui non siamo eterni, che è la gente che deve essere protagonista delle scelte e che, se siamo qui, è per uno scambio, il più possibile alla pari».
Il primo anno è passato ad ambientarsi, conoscere le persone, i luoghi, fra cui le strutture sanitarie, imparare l’arabo ciadiano. Nello stesso tempo la coppia ha cercato di capire, anche con l’aiuto della chiesa locale, come mettere al servizio degli altri le loro conoscenze professionali. Così, dal 1999, Paolo ha cominciato a lavorare nell’ospedale governativo del quartiere dove vivevano ed Emanuela nel servizio diocesano per i malati di Aids, campo per il quale c’era stata una richiesta pressante da parte del vescovo.
Nel frattempo, nel marzo 1999, è nata la seconda bambina, Sofia. La famiglia che veniva dall’Italia ha così cominciato a prendere una forma accettabile per lo standard africano, due coniugi con un solo figlio non sono quasi considerati famiglia.
La presenza dei bambini che crescevano ha facilitato una conoscenza sempre maggiore del vicinato e un’integrazione a tutti gli effetti, come avevano sempre voluto: «I bambini non hanno barriere, spontaneamente si infilano nelle case altrui, cosa che qui è assolutamente normale; e noi, per recuperarli, abbiamo potuto conoscere gli adulti degli altri cortili che si affacciano sulla nostra strada» spiega Emanuela.

RITORNO… COME PARTENZA

Spesso, si pensa che chi vive in paesi «lontani» (geograficamente, economicamente o culturalmente) abbia un’organizzazione della giornata e della vita profondamente diversa dagli standard cosiddetti occidentali. In realtà, guardando lo scandire delle ore della numerosa famiglia di Emanuela e Paolo (nel frattempo è arrivato anche Carlo, che ora ha due anni), non si trovano grandi differenze.
Al mattino si accompagnano i bambini a scuola, che inizia alle 7,30. Si tratta di una scuola ciadiana, fondata da una chiesa protestante; nelle classi del ciclo elementare ci sono dai 50 ai 70 bambini, mentre l’asilo è meno frequentato. I loro figli sono gli unici europei, il che ha loro creato qualche difficoltà, vista la curiosità ai limiti dell’invadenza dei bambini africani.
Il ritorno da scuola è intorno a mezzogiorno, ora in cui cominciano le scorribande con i ragazzini del vicinato; una banda di una decina di scatenati, che giocano usando tutta la fantasia e l’energia possibili. Anche il più piccolino, Carlo, saltella dietro il gruppo contento di potersi associare ai giochi, più o meno sorvegliato dagli amici più grandi.
Come in un qualsiasi paese industrializzato, in cui mamma e papà lavorano, anche nella loro organizzazione familiare ci sono due donne che danno una mano nel curare i bambini e gestire la casa.
«Paolo ed io lavoriamo 3-4 giorni la settimana, in ambito sanitario. Abbiamo scelto di avere un impegno a metà tempo per conservare lo spazio per gli incontri di frateità: una volta la settimana sul vangelo della domenica successiva, un’altra per una riunione di riflessione su un aspetto della nostra vita, o più operativa se c’è qualche scadenza imminente. Spesso, comunque, le tre giornate di lavoro medico sono completate da riunioni e incontri che si svolgono soprattutto al pomeriggio. Qui non esiste una vita nottua, il tempo è gestito seguendo la luce solare. La sera, dopo cena, si è spesso così stanchi che non si può far altro che buttarsi sul letto».

Agiugno di quest’anno Emanuela e Paolo sono rientrati in Italia definitivamente: rientro previsto e non più procrastinabile, soprattutto a causa della scolarità dei figli. «Come le altre famiglie del Centro di Piombino già rientrate, consideriamo questo ritorno come una nuova partenza – spiega Paolo -. Ci metteremo in ascolto della realtà italiana, nella città in cui andremo a vivere e ci reinseriremo, come abbiamo fatto in Ciad; con la differenza che, questa volta, abbiamo già un minimo di conoscenza della cultura… Certamente non consideriamo questo tratto di vita come una parentesi da chiudere, ma come un tesoro da spendere nella nostra società italiana. La vita in Africa ci ha sicuramente cambiati: nelle piccole come nelle grandi cose».
Per Emanuela, che ha vissuto 30 anni in una città come Milano, è stata dura abituarsi all’interessamento continuo dei vicini africani sulla loro vita, ai saluti degli sconosciuti: «Qui si dice che, quando qualcuno ti saluta, vuol dire che sei vivo. Un africano si sentirebbe come morto in una delle nostre città, dove si è un po’ tutti indifferenti gli uni agli altri. Ho imparato il grande valore delle relazioni, anche fatte di cose apparentemente insignificanti. Inoltre, lo sforzo di inserirsi in una cultura diversa, la coscienza di essere stranieri (dunque, ospiti) ci ha insegnato una grande umiltà nell’approccio con gli altri. Molti pregiudizi che come occidentali abbiamo incamerato senza accorgercene, si sono dissolti come neve al sole».

Valeria Confalonieri