L’OPINIONE – Incontro con Bartolomeo Sorge

Padre Sorge, lei è un esperto della dottrina sociale della chiesa. Come la valuta oggi?

Esprimo una valutazione di fondo: la dottrina sociale della chiesa cambia con l’evolversi della «questione sociale». Nell’ottocento la dottrina sociale è nata dalla lotta fra la classe operaia e quella capitalista; poi ha risentito dello scontro fra i sistemi del capitalismo e del comunismo.
Con il papa Giovanni XXIII la questione sociale è divenuta mondiale: non dipende più da classi, nazioni e ideologie. Resta la contrapposizione fra nord e sud del mondo, mentre la pace è in pericolo. Allora Paolo vi, nell’enciclica Populorum progressio, afferma che «il nome nuovo della pace è lo sviluppo».

Oggi la questione sociale investe anche l’etica.

Certamente, perché le nuove tecnologie, applicate anche alla biologia, hanno fatto nascere problemi morali inediti. Si pensi alla bioetica. Siamo ad una svolta epocale. Si rischia di creare un mondo senz’anima. Questo, ovviamente, sfida anche l’evangelizzazione.

L’evangelizzazione – affermano i vescovi italiani in Comunicare il vangelo in un mondo che cambia – presuppone «un metterci in ascolto della cultura del nostro mondo, per disceere i segni del Verbo già presenti in essa» (35)

Se lei continua la citazione, trova una bellissima descrizione del missionario, il quale, di fronte agli uomini del suo tempo, deve diventare «servo della loro gioia e speranza». Inoltre non possiamo escludere che i non credenti abbiano qualcosa da insegnarci riguardo la comprensione della vita. Lo richiede anche la globalizzazione.

Il termine «globalizzazione» è sulla bocca di tutti. Padre Sorge, può definire questo fenomeno con parole semplici?

Per spiegare con parole semplici la globalizzazione, direi: oggi tocchiamo con mano come l’umanità stia diventando una sola famiglia. È un fatto stupendo. Questo mondo, non più diviso tra est ed ovest, non più con missili puntati gli uni contro gli altri o con muri di divisione, è un mondo nuovo che ci supera tutti.

Tuttavia in questo «mondo-famiglia» domina la superpotenza degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti che, di fronte al terrorismo, affermano: «Pensiamo noi a mettere ordine nel mondo!». Di qui la guerra in Afghanistan e Iraq, con atteggiamenti di sufficienza. Però, oggi, fa impressione vedere il presidente americano George Bush che quasi prega in ginocchio le Nazioni Unite: «Datemi una mano, perché dall’Iraq non ne vengo più fuori e, dopo avere vinto la guerra, non riesco a vincere la pace!».
Ebbene, questa è la prova più bella che non esiste al mondo un’unica nazione, per quanto potente, che possa costruire da sola un nuovo mondo. O ci salviamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.

Questo significa che dobbiamo tutti pensare e comportarci allo stesso modo?

Noi siamo chiamati a diventare tutti «glocali». È una parola nuova, composta da «glo» (inizio di «globali») e «cali» (fine di «locali»). Il pericolo è che si rompa l’equilibrio tra globale e locale, per chiudersi nel «particolare», così che una diocesi o una provincia vede solo se stessa. C’è pure il pericolo opposto: che si punti all’«universale» attraverso l’economia del libero mercato.
Il libero mercato è anche uno strumento che produce una nuova cultura. Essa impone un modo di pensare e agire, ma rischia di creare un nuovo colonialismo: un colonialismo culturale, molto più grave di quello economico tradizionale. La cultura del libero mercato rischia di generare razzismo, mancanza di solidarietà; allarga il divario fra il nord ricco del mondo e il sud povero; produce sacche di povertà fra le stesse nazioni benestanti.
Pertanto la globalizzazione, come dice il papa, non è né buona né cattiva. È un bisturi che può anche uccidere, se usato male.

Però – si rileva – a uccidere è stato soprattutto il comunismo, non il capitalismo, padre della globalizzazione!

Il comunismo non poteva risolvere i problemi sociali: ecco perché è fallito. Ma questo non significa che, venuto meno il comunismo, siano scomparsi anche i problemi. E sono problemi dovuti al capitalismo.
Nella lettera Novo millennio ineunte il papa scrive: «Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale e tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità e lascia milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che nel nostro tempo ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all’analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?» (50).

Che dire del movimento «no global» o «new global», che contesta il capitalismo?

Più che il capitalismo, si contesta l’Organizzazione mondiale del commercio. Si tratta di una contestazione che nasce anche dai paesi del sud del mondo. Lo si è visto nel vertice di Cancún, in Messico, dove per la prima volta il fronte dei poveri si è unito e ha impedito che la cultura neoliberista facesse pagare ai poveri le scelte utili ai ricchi. Questo è un segno positivo.
E non dice niente che l’anno scorso, in un solo giorno di marzo, circa 110 milioni di persone siano scesi in piazza in tanti paesi del mondo gridando «no alla guerra»? Sapevano che era imminente la guerra in Iraq. Ma questo ha reso ancora più valida la loro protesta, perché hanno dimostrato di resistere contro la rassegnazione dell’inutilità.

Padre Sorge, direbbe pure che non ci si rassegna che qualcuno pensi per tutti?

Anche questo. Non ci si rassegna al «pensiero unico».

In altre parole?

Il pensiero unico è la cultura neoliberista, che ci viene trasmessa anche dalla tivù. Finito il comunismo, sembra che parlare di solidarietà e socialità sia parlare ancora di comunismo. Ecco qual è il virus: ritenere che abbia valore solo ciò che è efficiente, che consente i risultati migliori in termini economici.
Di conseguenza il giudizio etico deriva dal consenso sociale, dovuto al successo. Se piaci alla gente, sei nel giusto. Ma scherziamo? Anche Hitler godeva del consenso sociale e piaceva!
Il papa, all’Accademia delle Scienze, ragiona così: l’etica non può legittimare un sistema sociopolitico; essa richiede che i sistemi si adattino ai problemi dell’uomo, non viceversa.
In Italia, per venire incontro ai problemi dell’uomo – si dice ancora -, tutte le pensioni sono state elevate a un milione di lire.
Ma per fare questo, è stato tolto il sostegno alle regioni, mentre sta per nascere la sanità regionale. Pertanto, se una regione non ha soldi, che medicine dà ai suoi abitanti? Inoltre, mentre un anno fa le famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese erano il 38%, oggi sono il 51%.

Qui nasce il problema del «bene comune». La vera etica non può ignorarlo.

Ma è proprio il bene comune che viene stravolto dal pensiero unico. Si ritiene che il bene comune sia la somma dei beni individuali… dove ognuno si arrangia. Questo è individualismo puro.
Esempio: io ho 100 pecore. Quando avrò raggiunto il bene comune del gregge? Quando ogni pecora avrà brucato la sua erba e avrà la pancia piena. Ma il bene comune non è questo! Si è dimenticato che, nel gregge, vi può essere un montone, che incoa la pecora debole e mangia per due. Altro che bene comune!
Il bene comune è rappresentato anche da ospedali pubblici che abbisognano di infermiere, da cantieri che richiedono manodopera… E se mancano le braccia?
La domanda rimanda alla «bomba demografica». Il nord del mondo è abitato da un miliardo di persone, che consuma l’83% delle riserve che Dio ha destinato all’intera umanità. Nel sud del mondo abitano 5 miliardi di individui, che sopravvivono con il restante 17% delle risorse… E tu vuoi che ci sia pace tra i due mondi? Cosa faranno, un giorno, i due terzi di questi 5 miliardi di persone che, oggi, hanno solo 15 anni?

Le Nazioni Unite raccomandano alle nostre famiglie di avere almeno due figli…

Intanto nell’Europa del nord la crescita è zero. Mentre, fra 15 anni, quei due terzi di 5 miliardi di persone avranno 30 anni: con la loro forza e le loro idee! Fra una decina d’anni l’Europa avrà bisogno di manodopera, pari a 150 milioni di stranieri. In Italia, dove ce ne sono 1 milione e mezzo, ne occorreranno 10 milioni.
I problemi non mancano quando si parla di extracomunitari. Si pensi alla Francia: che pasticcio con il chador delle musulmane! In ogni caso le difficoltà si risolvono insieme.

Anche l’Italia è divenuta multiculturale e multireligiosa, dove non ci dovrebbero essere culture e religioni di serie A e serie B. O è una pia illusione?

No, è solo giustizia, oltre che realismo. Le culture e le religioni devono dialogare. Per iniziare il dialogo, partiamo (almeno noi cattolici) da ciò che ha detto il Concilio ecumenico Vaticano ii: ci sono elementi di verità anche fuori della nostra chiesa (Lumen gentium, 8); le religioni non cristiane riflettono raggi di verità che illuminano tutti gli uomini (Nostra aetate, 2); si trovano verità anche presso quei non credenti che coltivano altri valori umani, perché non ne conoscono ancora la sorgente (Gaudium et spes, 92). Il coraggio del Concilio è dire: noi siamo portatori della verità, perché il Signore ci ha fatto conoscere tutto ciò che è necessario alla salvezza; però nella chiesa non ci sono tutte le verità.

Lei, padre Sorge, in una conferenza ai missionari della Consolata, ha dichiarato: «Il vangelo non è stato scritto solo per quelli che hanno la fede».

Sì, perché il vangelo contiene la risposta agli ultimi interrogativi che ogni uomo si porta dentro. Per me, in tanti anni di lavoro culturale, è stata un’esperienza impressionante vedere come la cultura laica rispetti il vangelo; non solo, ma trovi in esso la risposta ad alcuni interrogativi, anche senza la fede. È chiaro che, se uno crede che Gesù è figlio di Dio ed è l’unico salvatore, cambia molto.

Però il vangelo produce anche cultura, e non sempre la cultura è vangelo.

Il rapporto tra fede, cultura e storia è centrale nella nuova evangelizzazione. Se la rivelazione non si serve della cultura, il messaggio rimane muto. La cultura nasce e cambia con la storia e la geografia. La fede no: essa nasce dall’obbedienza a Dio che si rivela; quindi non dipende da eventi umani. Tuttavia fede e cultura, pur essendo diverse (e guai se si identificano), non prescindono l’una dall’altra. Quindi l’inculturazione del messaggio cristiano, di cui tanto si parla, è questione di vita o di morte per l’evangelizzazione. Non si tratta di battezzare le culture, ma di assumerle in ciò che hanno di vero. Una cultura lontana dal cristianesimo può insegnare a capire il vangelo stesso.
Questo è dialogo.

Come dialogare con l’islam?

La domanda è secca, e me l’aspettavo… Se noi crediamo di essere portatori di una Parola non nostra, ma di Dio; se la Parola è luce e dà luce… perché temere di dialogare con ciò che può sembrare oscuro? È mai successo che un raggio di luce, attraversando il buio, si sia spento? O, piuttosto, non è forse la luce che rischiara la tenebra? Un po’ di coraggio apostolico dobbiamo averlo!
Uso un’altra immagine: quella dei raggi della ruota. I raggi non formano un’unità, anzi non si incontrano mai: sono disparati e vanno in direzioni diverse. Questo è evidente alla circonferenza della ruota. Però, se si guarda al centro della ruota, da dove partono tutti i raggi, l’unità è inscindibile… Papa Giovanni ci ha detto: partiamo da ciò che ci unisce.
Sia chiaro che il dialogo non è passatempo, moda, pubblicità. Il dialogo è fatica e diventa efficace specialmente quando si è «sale», «lievito», non «massa».

Nel vero dialogo si può scegliere l’interlocutore?

Direi di no. Il dialogo è come l’evangelizzazione: non deve escludere nessuno. Ci è richiesto di compiere la missione ad gentes anche in Italia fra gli emigrati. Pur con rispetto verso le loro culture e religioni, dobbiamo essere capaci di testimoniare il vangelo anche a loro. E, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunziare loro la benedizione di Dio, promessa ad Abramo e a tutti i popoli. Non dimentichiamo che Gesù è morto e risorto anche per i musulmani. Però c’è un guaio…

Quale guaio?

Noi viviamo «come se il vangelo fosse vero». Invece «è» vero. Si sentono prediche sul messaggio di Gesù Cristo, sull’esistenza di Dio come se «fosse» vero… Dov’è la profezia? Noi parliamo perché abbiamo studiato. Forse non abbiamo ancora raggiunto quella maturità che è «la trasformazione in Gesù». Noi siamo chiamati ad essere Lui.

Chi è? Bartolomeo Sorge

Nato a Rio Marina (LI) nel 1929. Gesuita, docente di Dottrina sociale, direttore di Aggioamenti Sociali e di Popoli.

Direttore de La Civiltà Cattolica dal 1973 al 1985. Dal 1986 al 1997 è direttore dell’Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe» di Palermo. Dal 1998 opera quale superiore dei gesuiti nella residenza di San Fedele a Milano.
Conferenziere, giornalista, saggista, scrittore.

Tra le sue pubblicazioni:
Le scelte e le tesi dei cristiani per il socialismo, Torino-Leumann 1974; Capitalismo, scelta di classe e socialismo, Roma 1976;
La ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Roma 1979; Il dibattito sulla ricomposizione dell’area cattolica, Roma 1981; Uscire dal tempio, Genova 1989; Cattolici e politica, Roma 1991; L’Italia che verrà, Casale Monferrato 1992 – Bur supersaggi Rizzoli, 1992; I cattolici e l’Italia che verrà, Casale Monferrato 1993 – Oscar bestseller Mondadori 1993; Per una civiltà dell’Amore. La proposta sociale della Chiesa, Brescia 1996 (traduzione in portoghese, spagnolo e polacco).
Per Missioni Consolata, settembre 2002, ha scritto: «Il missionario fa politica. Ma come?».

L’IRAQ COME PALERMO

Il fenomeno della globalizzazione si realizza nel bene e nel male: quindi si globalizzano i rapporti fra ricchi, le comunicazioni tra poveri, la giustizia, il diritto… Si pensi, ad esempio, al diritto internazionale. Nel gennaio 2003 è nata la Corte penale internazionale, che rivoluziona il mondo.
Fino a ieri si diceva: ciò che avviene nei confini nazionali sono affari interni e nessuno ci può mettere le mani. Oggi non più: c’è una coscienza nuova.
Se un criminale ha commesso un delitto contro l’umanità, ne deve rispondere alla comunità internazionale. Se Milosevich ha compiuto dei genocidi nell’ex Jugoslavia, la Corte penale internazionale può intervenire e portarlo davanti al tribunale. Infatti i crimini contro l’umanità non vanno in prescrizione, anche se commessi molto tempo fa. Però alcune importanti nazioni (Russia, Cina, Israele) non hanno accettato la nuova regola. C’è da augurarsi che la coscienza maturi.
Quella donna musulmana, Amina, che doveva essere lapidata viva, perché non è stata uccisa? Perché, grazie alla globalizzazione, da tutte le parti del mondo sono arrivati, via internet, milioni di messaggi come questo: «Non uccidere Amina». Questo è un altro esempio di globalizzazione positiva, che favorisce la vita, che porta la giustizia.

Anche il terrorismo può globalizzarsi. E questa è una grave minaccia che pesa sull’umanità. Noi, prima dell’11 settembre 2001, non l’avevamo capito. Pensando alla violenza nel Medio Oriente, dicevamo: «È solo un terrorismo locale, con palestinesi e israeliani che si combattono». Non avevamo capito che il terrorismo è ormai globalizzato. Ed è un fenomeno senza volto. Non ha volto in Afghanistan, in Iraq.
Ma è una follia pretendere di vincere il terrorismo con la guerra. Esso è un fenomeno anche culturale, con radici disseminate in tutto il mondo: per esempio, nei campi-profughi, dove un povero palestinese (pur essendo la sua terra) nasce, cresce e muore. Allora i kamikaze, che uccidono se stessi per uccidere altri, diventano una forma di sublimazione. «Così mi rendo utile alla causa comune» ragiona il kamikaze suicida e omicida.
Quando ho sentito i rumori di guerra per sconfiggere il terrorismo internazionale, mi è stato spontaneo pensare alla mafia a Palermo, dove ho lavorato 11 anni guardandola in faccia. Mi è venuto istintivo questo paragone: bombardare l’Iraq per vincere il terrorismo internazionale, sarebbe come bombardare Palermo per sconfiggere la mafia… Quando tu avrai bombardato Palermo, la mafia starà meglio di prima, perché il fenomeno non è bellico, ma culturale, pseudoreligioso, fondamentalista…

Oggigiorno, se piglia fuoco la terra in un angolo, tutto il mondo è coinvolto… Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, già nel 1987 proponeva una soluzione, scrivendo: «Nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che l’assuma e la traduca sul piano morale» (26). Ecco la nuova questione sociale.
Bartolomeo Sorge
(da una conferenza ai missionari della Consolata, Torino 10 febbraio, 2004) •

Francesco Beardi




REP. DOMINICANA – Cattiva, cattivissima

Santo Domingo è nota pure a diversi italiani,
che la raggiungono per ballare, e non solo.
A due passi dalle discoteche, casinò e spiagge
della città caraibica, incontri la piccola Mercedes.
E la musica cambia.

«Padre Franco, vorrei confessarmi di tutti i peccati dell’anno passato…». La richiesta arriva da Mercedes, cinque anni, un visetto furbo, profilo indio, zigomi sporgenti, occhi vispi. Questa volta, mentre parla, gli occhi li tiene bassi e sul volto ha un’ombra di tristezza.
– Mercedes, sei ancora troppo piccola per confessarti: prima devi partecipare agli incontri del gruppo di catechesi…
– Ma, padre Franco, io sono stata proprio cattiva l’anno passato – interrompe Mercedes, mentre un lacrimone le riga il viso -. E quest’anno i re magi non mi hanno portato nulla!
Ecco: nelle lacrime di Mercedes, nella delusione di questa bimba che non ha ricevuto nulla per la festa dell’epifania (giorno in cui è tradizione che i re magi lascino ai bambini giochi, dolci, vestiti), c’è il dramma vissuto dall’intero popolo della Repubblica Dominicana.

Recessione economica. Sono due parole tecniche, che diventano insostenibili davanti al pianto di Mercedes, nel barrio di Guaricano, alla periferia di Santo Domingo. Oppure davanti al ragionamento ironicamente amaro di Jos: anche lui, quest’anno, alla sua bimba di otto anni non ha potuto regalare nulla.
«Natale è una festa ingiusta – mi ha detto -. Vedi, mia figlia è stata buona tutto l’anno: ha raggiunto risultati eccellenti a scuola, è sempre disponibile in casa per i piccoli lavoretti, ogni domenica è lei che ci butta giù dal letto per andare a messa. E non ha ricevuto regali, perché non ce li possiamo permettere. Invece, quanti figli di ricchi sono cattivi e ricevono regali favolosi! Natale, la festa che premia i cattivi, purché siano figli dei ricchi!».
Recessione economica. A gennaio del 2003 potevi comprare un dollaro con circa 17 pesos. Oggi, dopo un anno, per comprare un dollaro occorrono almeno 50 pesos, con un’inflazione del 61 per cento. E, siccome tutta l’economia della Dominicana si basa su prodotti importati, il costo della vita è raddoppiato, triplicato in pochi mesi. Mentre i salari sono rimasti gli stessi.
Dietro a questa situazione, vi sono speculazioni che non possiamo neanche immaginare: ad alcuni conviene che il dollaro sia caro, perché così possono ottenere guadagni stratosferici (si pensi al settore turistico, dove tutti i pagamenti avvengono in moneta straniera).
E il governo? Mesi fa, quando il tasso di cambio del dollaro si è impennato, il presidente della repubblica, in una dichiarazione ufficiale, ha affermato che entro pochi giorni il governo avrebbe preso provvedimenti drastici e severi. Mentre si aspettava di sapere quali, il prezzo del dollaro, per l’effetto psicologico dell’annuncio del presidente, è sceso di qualche punto, permettendo un po’ di respiro.
Il presidente ha notificato i provvedimenti: ha convocato gli operatori economici e, dato che non aveva trovato plausibili giustificazioni per un così alto costo del dollaro, ha ordinato di farlo scendere, affermando che avrebbe utilizzato l’esercito per verificare se si adempisse a questa disposizione.
L’effetto è stato che adesso, se uno ha dollari da vendere, glieli pagano al prezzo stabilito dal governo (e ci rimettono quanti sono aiutati da parenti che, emigrati all’estero, lavorano per inviare dollari alla propria famiglia!); però se uno li vuole comprare, è impossibile trovae al prezzo stabilito dal governo (che non è il prezzo reale del mercato).
Alcune casas de cambio (sportelli di cambiavalute aperti al pubblico) sono state chiuse dalla polizia, perché non hanno rispettato le norme stabilite dal governo e hanno continuato a comprare e vendere dollari a prezzi alti.
Così è nato il mercato nero del dollaro, che sta prosperando in barba agli oculati e rigorosissimi rimedi governativi. Il tutto è ulteriormente aggravato dal fatto che molti generi iniziano a scarseggiare; e anche chi potrebbe permettersi di comprarli ora deve fae a meno: senza dollari, all’estero non si compra.

Per esempio, il gas per cucinare. Sono settimane che non si trova. Anche se hai soldi, non ce n’è! La gente del barrio ha cercato di organizzarsi: chi ha ancora un poco di gas cucina pure per le altre famiglie. Si vedono i primi capannelli di donne che cucinano in strada bruciando carbone (poco, perché costa!) e legna.
Paradossalmente, i problemi più gravi sono per chi, tra i poveri, è meno povero: chi vive nelle baracche riesce a bruciare un po’ di legna all’aperto; ma chi vive all’ultimo piano dei multis (case popolari costruite su quattro piani) ha molte più difficoltà a cucinare.
A questo si aggiunga la mancanza d’acqua: sono mesi e mesi che nelle case non arriva acqua. Penso alla famiglia di papà Miguel e mamma Juana: loro due, con tre bimbi e tre vecchi. Non si può scaldare il latte per il piccolo, non si può sancochar (bollire) il platano per la colazione, non si può cucinare il riso per il pranzo, non si può lavare la casa, non si può fare il bagnetto al bimbo…
Allora ogni mattina i due bambini più grandi, accompagnati dalla nonna, fanno due chilometri a piedi per raggiungere il posto più vicino dove riempire tre secchi da 10 litri, che nel tragitto di ritorno quasi si svuotano del tutto, fra la strada che è impossibile, il caldo, il peso, un vicino che ti chiede se gli permetti di riempirsi la brocca per lavarsi.
Quando i tre secchi arrivano a destinazione, uno è per una vecchia sola al terzo piano, che proprio non ce la fa a procurarsi l’acqua (senza retorica: i poveri sanno essere generosi all’inverosimile), e gli altri due bastano appena per lavarsi.
Una trovata (geniale) l’hanno escogitata alcuni ricchi, proprietari di autobotti: portano l’acqua a domicilio e la vendono a quattro pesos al secchio (non è acqua potabile, anche se molti la bevono, con immaginabili conseguenze). Forse è grazie a loro e al commercio che il problema dell’acqua non ha soluzione.
L’acqua il buon Dio la dona gratis, anche troppa a volte. Verso la fine del 2003 c’è stata un’inondazione: ha provocato 15 morti, centinaia di feriti e migliaia di case danneggiate (se n’è parlato nel ricco nord del mondo?). Di fronte ai danni e al dramma della gente, il governo ha dichiarato che le abbondanti precipitazioni, anche se hanno provocato disagi, favoriranno il futuro raccolto del riso…
Intanto quest’acqua, che ha riempito gli enormi serbatorni costruiti nel barrio alla vigilia delle elezioni, potrebbe arrivare senza problemi in tutte le case: basterebbe girare una valvola e permetterle di scorrere nelle tubature. Invece quest’acqua, se la vuoi, la devi pagare cuatro pesos a la cubeta.

C’è il problema della luce. Ma i politici dicono che non dovremmo lamentarci: nei giorni di festa l’abbiamo avuta anche per otto ore di seguito. Però da alcuni giorni l’abbiamo per tre o quattro ore al massimo. I giornali ci avvertono che ci saranno disagi ulteriori, perché il governo non ha pagato le compagnie che assicurano il servizio elettrico e sono prevedibili ritorsioni.
«Per fortuna» che la maggioranza della gente non sa leggere o legge solo le pagine sportive dei periodici (in Italia c’è il dio football, qui c’è il dio baseball). Insomma, una situazione esplosiva.
Per non parlare della campagna elettorale. Qui tutti sono impegnatissimi, compresi i governanti che, anziché governare, si fanno propaganda politica. Le elezioni presidenziali sono in maggio. Due dei tre principali partiti non sono riusciti a mettersi d’accordo sul candidato unico da presentare. Complessivamente si sono avuti 10 candidati per 3 partiti.
Il problema è che la costituzione della Repubblica Dominicana proibisce che si presentino più candidati per lo stesso partito politico. I politici allora, per una volta quasi tutti d’accordo, hanno pensato che, se la legge impedisce loro di essere in due o tre, la soluzione è semplice: fare una nuova legge che sancisca ciò che conviene a loro (questo mi ricorda qualcuno in Italia).

Quanti altri problemi si potrebbero aggiungere a quelli già presentati! Voglio però concludere con una nota positiva.
Oggi, qui, ciò di cui si sta facendo maggiormente esperienza, ciò che fa sentire dentro un’incontenibile voglia di lottare e dà la misura di quanto la gente sia pronta per una trasformazione radicale… è il fatto che non si è persa la speranza. Anzi.
Nel nostro barrio del Guaricano, tra la gente povera di Santo Domingo, in un paese afflitto da una situazione ogni giorno più insostenibile, non c’è solo un bisogno dirompente e assoluto di speranza. Qui, tra gli ultimi, il miracolo della speranza è già iniziato. Non la speranza basata su promesse elettorali o sul denaro del «buono di tuo». Speranza.
«C’è un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6, 9). Una speranza concreta, fatta di gesti concreti, condivisione concreta (come i cinque pani e due pesci, che basterebbero appena per me). I poveri già hanno iniziato il processo di solidarietà che rende storia la speranza.
Speriamo pure che chi è ricco, prima o poi, oltre a elargire un po’ di inutile superfluo, magari per sentirsi buono a natale o pasqua, dia consistenza autentica alla speranza, condividendo le migliaia di pani e pesci che possiede e che trasformerebbero definitivamente la speranza in libertà.
Compiendo un atto non tanto di amore, quanto di giustizia. I care.

Franco Bruno




ROMANIA – Via del silenzio n° 13

1989: a Berlino crolla il muro della vergogna.
Scoppia… «la terza guerra mondiale»,
che libera l’Est europeo dal comunismo:
una guerra unica nella storia, perché incruenta.
Fa eccezione la Romania, che trucida lo stesso presidente Nicolae Ceausescu.
A 15 anni di distanza, come si vive a Bucarest?
La fatica è palpabile.
La testimonianza anche di un nunzio e un arcivescovo.

Tutti affermano che sia sempre spettinato e noi lo confermiamo. Così, almeno, ci è apparso durante il nostro soggiorno in Romania, ospiti in casa sua con padre Antonio Rovelli, direttore dell’animazione vocazionale dei missionari della Consolata in Italia.
Eccolo, con i capelli arruffati, ad accoglierci all’aeroporto della capitale Bucarest. «Benvenuti in Romania! Avete fatto buon viaggio?». Si esprime in italiano, oltre che in francese, tedesco e romeno naturalmente. La sua stretta di mano è calorosa, vigorosa. Gli occhi sorridenti. Si chiama Martin Cabalas (*), sacerdote cattolico di rito latino. Supera di poco la cinquantina, ma dalla sua chioma bianca e strapazzata sembra più attempato.
Saliamo sull’auto del prete romeno. È rumorosa e abbastanza sgangherata. «Dovrei cambiarla – mormora nell’accorgersi che fatichiamo un po’ a chiudere la porta -. Però una nuova macchina è cara in Romania». Lungo la strada adocchiamo file di vetture come quella (se non peggiori) del nostro conducente.
A una curva, ci balza incontro un palazzone mastodontico, curioso e pacchiano, con numerosi piani, tutto a guglie dentate. È un centro amministrativo del governo, «dono» a suo tempo del popolo sovietico a quello romeno, allorché l’Urss era una superpotenza politica e militare. Ne ricordiamo altri, tutti identici, fotografati in Cina e, ovviamente, in Russia.
L’automobile rallenta, gira a sinistra e imbocca Strada Linistei (Via del Silenzio), tutta buche e sassi, che accentua la precarietà del mezzo di trasporto. Ma il tratto è breve, perché al numero 13 di Via del Silenzio siamo a destinazione, nell’abitazione di padre Martin.
Appena entrati, udiamo di nuovo parlare italiano. È una voce del nostro tg1: annuncia che a Roma due romeni sono stati rinvenuti carbonizzati in una baracca, anch’essa bruciata.
Erano immigrati clandestini.

SENZA SPERANZA

L’emigrazione di romeni, esplosa dopo la scomparsa di Nicolae Ceausescu (1989), è un tema di conversazione con l’arcivescovo Jean Claude Perisset, svizzero di lingua francese, nunzio apostolico del Vaticano in Romania. Secondo il presule, circa un milione e mezzo di romeni vivono all’estero: non pochi su una popolazione di 23 milioni. Il piccolo Israele, da solo, ne accoglie 50 mila. L’emorragia non si è ancora arrestata, considerando che il 20% dei giovani intende abbandonare il paese.
«Con le rimesse di denaro – osserva Perisset – gli emigrati costituiscono senza dubbio un reddito per le loro famiglie. Ma il prezzo umano pagato è salato. Si veda, per esempio, la tragica fine di quei due poveretti carbonizzati a Roma». Scartato l’incidente domestico, non è inverosimile la vendetta di qualche gruppo straniero, clandestino e malavitoso.
«Per non parlare delle ragazze – incalza l’arcivescovo -. Spesso, ingannate, finiscono sui marciapiedi delle vostre città italiane. In ogni caso si emigra dal paese per mancanza di speranza».
La Romania è candidata a entrare nell’Unione Europea. Questo fatto non potrebbe costituire un’iniezione di fiducia?
«Potrebbe – è la risposta di mons. Perisset -. Ma il processo sarà lento e faticoso. Prima, bisogna arginare la corruzione dilagante, ridimensionare la burocrazia, privatizzare con intelligenza, ridurre l’indebitamento dello stato (che al contrario aumenta). Nel frattempo il divario sociale fra ricchi e poveri si sta accentuando: il 36% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. C’è persino chi afferma che i disagiati raggiungano il 45%».
Alcuni imprenditori italiani, veneti in particolare, operano in Romania. A Timisoara e dintorni sarebbero circa 3 mila le piccole aziende nostrane. Garantiscono un po’ di benessere anche agli operai locali?
«Certo – risponde Perisset -. Ma non si dimentichi lo sfruttamento di manodopera a basso costo. Inoltre sembra che il boom dei vostri piccoli imprenditori stia sgonfiandosi. Alcuni stanno già smobilitando, per andare in Cina».
I segni materiali del degrado sociale a Bucarest sono evidenti: strade dissestate, autobus obsoleti, caseggiati malandati, fogne scoperte. Grava la tristissima eredità di Ceausescu. Il paese non ha saputo o potuto capovolgere la situazione, perché condizionato ancora dalla Russia. Così, economicamente, ha perso l’ultimo decennio.
Impressiona la penuria degli anziani, che sognano il ritorno del comunismo, o quella dei «barboni»; questi ultimi sarebbero circa 5 mila nella sola Bucarest.
Un’altra piaga è costituita dal numero di aborti: un milione all’anno. A prescindere dalla gravità morale, il fenomeno denuncia il problema di molte bocche da sfamare senza mezzi. Oppure si abbandonano i neonati non desiderati.

RAGAZZE DI STRADA

L’abbandono di bambini era praticato durante il comunismo: un fenomeno che lo stato arginava con gli orfanotrofi. Ma, raggiunti i 18 anni, gli orfani erano messi in libertà, dovendo badare a se stessi, ma senza alcun sostegno economico. Ossia erano buttati sulla strada.
Abbiamo incontrato quattro ragazze, sopra i 20 anni, provenienti dagli orfanotrofi statali e dalla strada. Si sono salvate dalla prostituzione coalizzandosi fra loro, fuggendo da «protettori» senza scrupoli, trascorrendo lunghe notti rannicchiate sotto i ponti. Oggi, con altre compagne dello stesso ambiente (una ventina), si avvalgono dell’aiuto morale e organizzativo di suor Anna, romena, della congregazione di santa Giovanna Antida. Vivono insieme in appartamenti. Lavorano part time come colf o in piccole aziende, accontentandosi di qualsiasi stipendio, con il quale pagano l’affitto dell’alloggio, le spese di condominio e si mantengono. Come altri romeni (complice la televisione), si esprimono un po’ in italiano.
– Perché non mi porti in Italia – si fa avanti una.
– Anch’io, anch’io! – fanno coro tutte le altre.
– E che cosa farete in Italia?
– Lavoreremo tutto il giorno. Poi ci compreremo un alloggio qui a Bucarest.
Possedere una casa è il sogno di tutti i cittadini in affitto, perché il costo di un alloggio è pazzesco nei centri urbani: a Bucarest, per due stanze, un cucinino e il solo water, si pagano 130-150 euro al mese, a fronte di stipendi che si aggirano su 90 euro. Insomma: la casa in proprio, più che un sogno, è un miraggio.
Le quattro ragazze parlano e ridono con eccitazione. Una però è tacitua, assente: e quasi subito si abbandona a succhiare il dito come una bimba. «Psicologicamente sono tutte infantili, anche se hanno 20-25 anni – commenta suor Anna -. Bambine tarate dalle umiliazioni e percosse subite durante i tanti anni di orfanotrofio. Vorrebbero sposarsi e formare una famiglia. Ma temono gli uomini. Non si fidano neppure dei loro padri, perché le hanno abbandonate».
Una sera inoltrata, mentre rincasavamo camminando verso Via del Silenzio, abbiamo notato alcune ombre aggirarsi attorno ai tombini dell’acqua. Erano «ragazzi di strada», anch’essi rifiutati dai genitori e provenienti da orfanotrofi statali. In città vivono di espedienti.
E che facevano quella sera? Stavano organizzandosi per passare la notte in un meandro della rete idrica di Bucarest: sempre meglio dell’addiaccio, specie se piove o spira la gelida tramontana. Qualcuno li ha battezzati «i ragazzi delle fogne».
Alcuni coetanei sono ritornati dai genitori; ma, trovandosi a disagio tra passato e presente, trascorrono molte ore dai missionari maristi, per esempio, che mettono a disposizione sale con libri, computer e giochi.
I maristi (due spagnoli e un greco) non sono sacerdoti, ma fratelli religiosi, con voto di povertà, castità e obbedienza. «Non siamo molto apprezzati – si lamentano -. Secondo l’opinione pubblica ortodossa (ma anche cattolica), non siamo né carne né pesce. Qui, a Bucarest, sembra che non vi sia spazio e lavoro per i fratelli. Per questo pensiamo di trasferirci altrove».

LA CALATA DEI BARBARI

Caduto il regime ateo di Ceausescu, numerose congregazioni religiose dell’Europa occidentale hanno messo piede in Romania. Secondo il nunzio J. C. Perisset, sarebbero troppi gli istituti religiosi stranieri approdati nel paese: addirittura un centinaio, di cui 80 femminili. Tutti per… reclutare vocazioni. «Nei primi anni ’90 – spiega mons. Perisset – i giovani che entravano in seminario o convento erano tanti. Ma ora non più: a tal punto che alcuni centri, costruiti in fretta per accogliere tutti i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa, oggi stanno tramutandosi in collegi per studenti».
Al comunismo si è quasi subito sostituito il materialismo dell’«usa e getta» del capitalismo. Di qui la brusca frenata delle vocazioni sacerdotali. Inoltre non si scordi che la stragrande maggioranza dei preti e delle suore romeni proviene dalla regione della Moldavia (da non confondere con l’omonima repubblica indipendente), dove i cattolici raggiungono il 20%.
Indubbiamente nel 1989 la caduta del muro di Berlino ha offerto alla chiesa cattolica nuove possibilità. Per convertire la popolazione al cristianesimo? Ma la Romania non è «pagana», anzi è cristiana. Quindi è fuori luogo parlare di conversione.
In realtà le istituzioni cattoliche occidentali hanno guardato all’Est europeo, in genere, con lo spirito di una «nuova evangelizzazione», alla stregua del papa polacco Karol Wojtila. Tuttavia i gruppi religiosi stranieri, soprattutto cattolici, sono accusati di proselitismo dal clero ortodosso: attirerebbero i fedeli nelle proprie comunità con gesti accattivanti di beneficenza. Di più: la loro discesa in campo è stata talora paragonata alla «calata dei barbari».
In Romania lo stesso clero cattolico, sia di rito latino sia di rito orientale, non è interamente soddisfatto dei confratelli stranieri, anche perché troppo innovativi nella pastorale e nella liturgia. Ce l’ha ricordato Ioan Robu, arcivescovo cattolico di Bucarest. Secondo il prelato, la comunione in mano ai fedeli, per esempio, è prematura e i canti liturgici, accompagnati da chitarre, suscitano perplessità.
Il 7-9 maggio 1999 Giovanni Paolo ii visitò la Romania. Fu una visita altamente ecumenica, che smussò alquanto le spigolosità anticattoliche dei gerarchi ortodossi e avallò il desiderio profondo di unità di tutti i cristiani. Il grido «unitate, unitate!», al termine della visita del papa, fu inatteso quanto gradito. Inoltre il viaggio calamitò l’attenzione mondiale grazie alla «Dichiarazione comune» delle chiese (cattolica, ortodossa e protestante) sulla guerra in Kosovo, proprio mentre infuriava il fuoco bellico. «Dove sono le nostre chiese, quando il dialogo tace e le armi fanno sentire il loro linguaggio di morte?» si domandò il pontefice.
Al di là delle discussioni teologiche, il cammino verso l’unità delle chiese cristiane passa attraverso comuni impegni sociali, non esenti da scelte politiche controcorrente. Ciò sarebbe rivoluzionario per le chiese ortodosse, autocefale, spesso vincolate alla nazione di appartenenza anche politicamente.

Oscurità e foschia ovattano Via del Silenzio, rendendola più muta. Sennonché, di tanto in tanto, si odono uggiolii di cani o grida festanti di bambini, zingari rom, che giocano intorno a un falò all’interno di una staccionata…
Domani ritoeremo a Torino.
Alle ore 19 padre Martin Cabalas invita cortesemente il collega Antonio Rovelli a presiedere l’eucaristia in italiano.
– In italiano, no – replica istintivamente il missionario.
– Non temere! Qui sono abituati…
È vero. Da anni, durante l’estate, vari gruppi giovanili (specialmente della diocesi di Treviso), accompagnati da un «don», sono ospiti del sacerdote romeno per campi di conoscenza e lavoro. Tra l’altro padre Antonio è a Bucarest per organizzae uno speciale, che prevede giovani italiani, spagnoli e portoghesi, legati ai missionari della Consolata nei rispettivi paesi.
Alla messa partecipano anche le suore di santa Antida, i fratelli maristi, nonché tre missionarie di madre Teresa di Calcutta: tre volti differenti, cioè uno indiano, uno tanzaniano e uno polacco. La liturgia è animata da un concerto di sei chitarre, che secondo padre Martin non «stonano», anzi! Qualche fedele riceve la comunione in mano.
Dopo l’«andate in pace» del sacerdote, si celebra un’altra eucaristia, ma in rito orientale, perché padre Martin condivide la chiesa con altri credenti, giacché… esiste «una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti».
«Questo è un merito ecumenico, esclusivo del nostro parroco – dichiara una certa Maria -. Sì, perché il prete greco-ortodosso, se disponesse di una sua chiesa, probabilmente non ricambierebbe il favore ai cattolici».
Maria, a pochi passi dal sorridente e costantemente spettinato padre Martin, è avvolta in uno scialle nero, che le incoicia con grazia il volto. Per contrasto, i suoi occhi azzurri brillano di un fulgore abbagliante.
Si congeda con una piccola genuflessione, scandendo: «Laudetur Iesus Christus!». Nientemeno.

Nel baratroda lui stesso scavato

«Conducator» in romeno significa conduttore: di un autobus, per esempio. Un termine comune per un’attività normale. Ma in Romania, allorché il conducator si chiamava Nicolae Ceausescu, la vita si inasprì maledettamente.
«Securitate» (sicurezza) è un’altra parola di uso corrente. Però la Securitate, al soldo del despota Ceausescu, si tramutò in famigerate repressioni da parte della polizia segreta. E il tonfo del dittatore marxista fu tragico. Si tenne un processo-farsa: il conducator e la corrotta consorte Elena furono giustiziati in segreto nel natale del 1989. Fu pure una vergogna in un paese che si dichiara cristiano quasi al 100 per cento.
Eppure, solo un mese prima, gli oltre 3.300 delegati al Congresso del Partito comunista avevano osannato il conducator e l’intera sua famiglia. Ma dal 24 novembre 1989 (fine del Congresso) al 15 dicembre (inizio delle rivolte contro il regime a Timisoara) la Romania imboccò un’altra via. Il vento della perestrojka sovietica, che aveva già abbattuto il muro di Berlino, investì furioso anche Nicolae Ceausescu e lo travolse.

Tutto fu quasi fulmineo, perché la voragine di miseria, scavata in 25 anni di dittatura, era enorme e profonda: code interminabili davanti ai negozi di alimentari e razionamento di cibo (ad esempio: un chilo di carne per famiglia, ossa comprese); sottoproduzione agricola in un paese che, in antecedenza, esportava cereali; coabitazione di vari nuclei familiari in uno stesso e squallido appartamento; spopolamento di migliaia di villaggi per una politica agricola diversa, dove i contadini erano sottoposti a controlli capillari; arretratezza di impianti industriali per mancanza di investimenti; culto dei «papaveri» del partito ed esportazione in Svizzera di ricchezze sottratte al paese; nepotismo e privilegi concessi ai 20 mila adepti della Securitate (con offesa dell’esercito); fuga di intellettuali, quali Eugène Jonesco, Paul Goma, ecc.
E, soprattutto, la scomparsa di 60 mila persone. Ma le vittime sono state più numerose: 60 mila sarebbero solo i morti in seguito alle repressioni dei tumulti popolari di dicembre 1989 (cfr. La Civiltà Cattolica, 7 aprile 1990).
Tuttavia, all’estero Ceausescu aveva brillato come una stella di prima grandezza: Richard Nixon e Charles de Gaulle lo avevano applaudito, perché oppositore dell’Unione Sovietica; la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Comunità economica europea gli avevano spalancato le porte.

Al conducator successe un ex comunista, Ion Iliescu. Però la pace sociale era lontana.
Nel 1999, a un decennio dalla fine del regime di Ceausescu, Nicolae Coeanu, arcivescovo ortodosso di Timisoara, dichiarò: «La democrazia ha creato non poche difficoltà: la più grande riguarda il campo economico-finanziario. A livello politico, la democrazia ha prodotto una sorta di caos. Vi sono persone, formate durante la dittatura comunista… e queste non possono più cambiare radicalmente. Spero che le difficoltà siano superate nel corso dei prossimi anni» (cfr. Il regno, 8/1999).
Nel dicembre dello stesso 1999, uno sciopero di minatori (migliaia e migliaia di litri di cianuro furono versati nei fiumi) e aspri dissidi politici costrinsero il governo di Radu Vasile alle dimissioni. Al potere ritoò Iliescu, in carica tutt’oggi.
Fra gli obiettivi del leader spicca il progetto di entrare nell’Unione Europea. È un obiettivo non facile, perché suppone un risanamento economico con «lacrime e sangue».

Francesco Beardi




“Un personaggio da conoscere”

La FAND, Associazione Italiana Diabetici, è una associazione di volontariato fondata nel 1982 dal dottor Roberto Lombardi, che riunì in una Federazione le numerose associazioni già esistenti, ricche di ideali e di buona volontà, ma divise e senza alcun peso «politico». R. Lombardi introdusse nel mondo del volontariato una strategia dinamica, obiettivi e programmi volti a concretizzare le attese dei diabetici in campo sanitario e sociale.
Una malattia cronica, comune a più del 3% della popolazione e in continua crescita, è divenuta per tanti cittadini ragione di aggregazione, allo scopo di migliorare le proprie conoscenze sulla malattia, curarla meglio e richiedere allo stato (Legge 115/1987) una rete di servizi diabetologici efficiente e diffusa su tutto il territorio.
In Piemonte, la FAND è rappresentata da 15 associazioni, ciascuna con un Consiglio direttivo, un Presidente ed un Coordinatore regionale (il sottoscritto), che fa parte della Commissione diabetologica regionale e del Consiglio nazionale della FAND.
Una volta all’anno il Coordinatore riunisce i Presidenti delle associazioni piemontesi e i loro collaboratori per un aggioamento sui problemi scientifici ed organizzativi dell’assistenza diabetologica. A conclusione di questo annuale appuntamento, viene presentato un «Personaggio da conoscere» per i suoi meriti etici e sociali.

Q uest’anno sono stato particolarmente orgoglioso di presentare un amico, missionario della Consolata: padre Giordano Rigamonti.
La nostra amicizia risale alla fine degli anni Sessanta, quando, lui giovane missionario, ed io, giovane medico, collaborammo con Mani Tese al progetto (realizzato) dall’ospedale di Tosamaganga, diocesi di Iringa, Tanzania. Fummo ancora insieme nel ‘71 per una visita agli ospedali missionari nel nord del Kenya.
Negli anni successivi le nostre strade si divisero, e la sua lo riportò in Kenya, in Tanzania e a tante iniziative missionarie che lo videro protagonista.
Ma un altro evento fece sì che le nostre strade si ritrovassero. A gennaio 2002 terminava l’avventura terrena del dottor Lombardi, e la FAND mise a disposizione 50.000 euro per una iniziativa che lo ricordasse. Tra le proposte avanzate trovò unanime consenso la mia: COSTRUIAMO UNA SCUOLA IN AFRICA.
I padri Mario Valli e Giordano Rigamonti si prodigarono per la definizione del progetto-scuola, che sorgerà a Porò, missione di Morijo, diocesi di Maralal.
Alla nostra riunione annuale padre Giordano è stato accolto con curiosità ed interesse e, man mano che parlava, l’interesse si è trasformato in commozione specialmente quando padre Giordano ha concentrato il suo intervento sull’epidemia di Aids, che sta travolgendo l’Africa sub-sahariana. Trenta milioni di sieropositivi, 3,5 milioni di nuovi casi e 2,5 milioni di morti nel solo 2003!
Saremo capaci, noi occidentali, con la nostra ricchezza e le nostre tecnologie di porre un argine a questo genocidio?
Dice un canto africano: «Quante orecchie occorrono, dunque, ad un uomo per sentire gli altri piangere?».
Grazie, padre Giordano, di averci comunicato così intensamente il tuo personale tormento e di averci aperto orecchie e cuore alla ricerca di un contributo alla soluzione di una difficile sfida.

Gian Maria Ferraris
Coordinatore di FAND in Piemonte

Gian Maria Ferraris




Nel clamore di sabato notte

Egregio direttore,
le ricordo due piccoli avvenimenti a Torino. Sono pure nascosti. Infatti avvengono di notte, quando il clamore invade la città con le discoteche, i locali di piacere e la tivù assorbe tutti.
In tale contesto un manipolo di persone, «un piccolo resto», si raccoglie in preghiera per sé e per tutti. Questo è iniziato 12 anni fa a S. Maria di Piazza. Poi le veglie sono diventate quattro. È una grazia che Torino abbia una chiesa aperta al sabato notte, per vegliare con buona volontà e sacrificio.
Le chiese sono: 1° sabato, Corpus Domini, via Palazzo di Città 20; 2° sabato, chiesa dell’Immacolata, via Nizza 47; 3° sabato, chiesa N.S. di Lourdes, corso Francia 27; 4° sabato, chiesa S. Maria di Piazza, via Santa Maria 4.
Il secondo piccolo avvenimento (che da 11 anni ha luogo a Torino) è il pellegrinaggio alla basilica di Superga la ii domenica di maggio; si prega la Madonna di Fatima per la pace nel mondo. Partenza alle ore 8,00 dal santuario della Consolata, arrivo a Superga alle 12,00 e conclusione con la messa.
Antonio Strina
(per il gruppo) Torino

Segnaliamo volentieri i due piccoli avvenimenti. Gutta cavat lapidem (la goccia scava la roccia). Cell: 3384736982.

Antonio Strina




Il compito in classe di Federico

Egregio direttore,
chi le scrive fa parte di una numerosa famiglia di abbonati a Missioni Consolata da lungo tempo. Le considerazioni che seguono vengono dal cuore e dalla mente di una persona affezionata alla rivista, dopo sofferta riflessione.
Leggendo il compito in classe di Federico, a pagina 7 del numero di marzo 2004, rimango veramente sorpresa e profondamente colpita da tre cose.
Primo: un ragazzo di terza media che si esprime secondo quanto ascolta in classe e in famiglia, sicuramente da persone adulte, che ben poco sanno educare all’equilibrio di giudizio con cui un ragazzo deve crescere.
Secondo: il giudizio dell’insegnante, che brilla per genericità e incompetenza, poiché, trattandosi di fatti attuali, non si può parlare di giudizi non sempre sostenibili storicamente e di periodo storico; inoltre l’insegnante dà un giudizio sintetico («forma: quasi buona»), che in italiano non si capisce che cosa significhi.
Terzo: la giustificazione da parte della rivista missionaria che, in ragione della famiglia, pubblica un esempio di assoluta irresponsabilità da parte di adulti, che, invece di biasimare un simile compito e di smorzare i toni di polemiche fin troppo accese, dà spazio esemplare a quanto ogni lettore della rivista mai si aspetterebbe: ovvero che l’argomento per voi centrale sia la guerra, anziché la pace.
Gentile direttore, la saluto cordialmente nella speranza che da parte della redazione prevalga la cortesia di pubblicare anche opinioni diverse da quelle di Federico, della sua mamma, dell’insegnante ed eventualmente della rivista.
Anna Riccetti Billi
Roma

La guerra ci interessa più della pace? Ma scherziamo!?! Crediamo di aver dimostrato il nostro no alla guerra anche con il numero di ottobre 2003, titolato dal lettore precedente «contro le guerre» e da noi «viaggio in un mondo di… menzogne».
Il non aver pubblicato il compito di Federico avrebbe significato l’abbandono al loro destino di due mondi (famiglia e scuola) che, invece, devono incontrarsi, anche scontrandosi… Siamo d’accordo con l’appello all’educazione. Se, talora, non prendiamo subito posizione, è perché lo sanno fare bene i lettori. Lei, signora Anna, ce l’ha confermato.

Anna Riccetti Billi




Annalena Tonelli martire

Caro direttore,
grazie per lo stupendo articolo-testimonianza su Annalena Tonelli (Missioni Consolata, marzo 2004). Da ottobre dello scorso anno, la sua figura (che avevo conosciuto nel febbraio 1984 a causa del massacro di Wajir, in Kenya), mi «perseguita».
A seguito di quel racconto, con alcuni missionari Fidei donum avevo scritto una lettera di protesta a mons. Ndingi, allora presidente della Conferenza episcopale kenyana per il silenzio dei vescovi.
Annalena, che incontravo talvolta a Nairobi, mi dava la carica. Ringrazio Dio di averla conosciuta.
don Piero Gallo
Torino

Missionaria laica in Kenya e Somalia per 33 anni, Annalena Tonelli fu assassinata a Borama (Somaliland) il 5 ottobre 2003. Una martire vera.

don Piero Gallo




Uniti si vince

Caro direttore,
partendo da Missioni Consolata, ottobre 2003 (contro le guerre) e dal numero di gennaio 2004 (Iraq in guerra), entrambi ottimi, vorrei sottoporle alcuni rilievi.
1. Noi cattolici non crediamo alla pubblicità, al suo «potere». Altrimenti, perché non inviare il numero contro le guerre ai governanti, a cominciare da Berlusconi, che hanno appoggiato moralmente (e stanno appoggiando direttamente) l’azione (mi astengo dal definirla) di Bush e Blair? Perché non inviare quel servizio perfetto ai giornali (e giornalisti), a cominciare da Libero di V. Feltri, che hanno umiliato e offeso i milioni di cattolici e non, i quali hanno manifestato coraggiosamente contro Bush e la guerra?
2. Noi cattolici siamo divisi, dispersi. La rivista La Civiltà Cattolica, 3 gennaio 2004, scrive: «Già nel 1965 Lazzati riconosceva che, quantitativamente, l’editoria giornalistica cattolica era notevole (circa 2.000 testate), ma notava amaramente che incideva ben poco sull’opinione pubblica. Purtroppo la diagnosi è corretta…». L’articolista concludeva: «Se vogliamo ricompattare il laicato, dobbiamo iniziare a superare la frammentazione del giornalismo cattolico».
Noto che Missioni Consolata, Nigrizia e Missione Oggi si equivalgono (sotto molti aspetti) per chiarezza di linguaggio (parresia, secondo san Paolo e «parlar chiaro» secondo Thomas Merton), per coraggio e impostazione di tematiche. Dico solo: uniti si vince (divide et impera, ci insegnano i Romani, cioè vince chi riesce a dividere l’avversario).
Nota bene. C’è anche il problema di costi. Personalmente, per fare un esempio (tratto dalle Edizioni Paoline), dovrei abbonarmi a Famiglia Cristiana, Letture e Jesus. Si tratta di una suddivisione che non sta in piedi, dato che il prodotto è di un unico «proprietario». Non ci vuole un granché per capire che L’Espresso o Panorama incidono di più.
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Il nostro parere «personale» collima con il suo, signor Ambrogio. Il mondo editoriale missionario, tuttavia, sta camminando verso l’unità con qualche buon esito: ad esempio con l’EMI (editrice missionaria italiana) e la MISNA (agenzia di informazione missionaria). EMI e Misna sono della CIMI (conferenza degli istituti missionari in Italia).

Ambrogio Vismara




Kosovo: fermiamo l’orrore

Attraverso Enrico Vigna, presidente dell’Associazione SOS Jugoslavia, è giunto in Italia il seguente appello:
«Agli amici del popolo del Kosovo Metohija e del popolo serbo, alle associazioni come la vostra, conosciuta e stimata per quanto fatto finora per la nostra gente, vi giunga l’appello da questa terra martoriata, dove in questi giorni il sangue e la guerra sono nuovamente parte della nostra già difficile quotidianità di questi terribili e duri cinque anni trascorsi dai bombardamenti della Nato e dalla conseguente espulsione e pulizia etnica di centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle dalle proprie case e campi, dalle proprie radici millenarie e molte migliaia anche strappati alla vita e all’affetto delle loro famiglie, mediante assassinii e rapimenti.
Vi chiediamo di attivarvi in qualsiasi modo e forma per contribuire a cercare di fermare l’orrore e il bagno di sangue, causati da forze terroristiche che distruggono, incendiano, uccidono e lapidano uomini e donne che da sempre vivono qui.
Vi chiediamo di informare correttamente quali sono le verità e la realtà di quanto sta accadendo, di chiedere a tutte le persone oneste e che credono nei diritti umani nel vostro paese di aiutare il nostro popolo a non subire un vero e proprio genocidio. Distruggono anche gli ultimi cimiteri, monumenti e monasteri della cultura ortodossa che non avevano distrutto in questi anni.

Siamo stanchi di vedere i nostri campi e le nostre case bruciate, di essere vessati, uccisi, perseguitati con la sola colpa di essere serbi e di voler continuare a vivere dove da centinaia di anni abbiamo sempre vissuto. In una terra per la cui difesa dalle aggressioni e dalle occupazioni degli stranieri invasori, nella storia, sempre abbiamo versato fiumi del nostro sangue. Siamo stanchi ma non consegneremo ad assassini e terroristi estremisti la nostra terra, le nostre vite, le nostre radici, la nostra dignità. Dovranno ucciderci tutti, anche i nostri figli e le nostre mogli. È un nostro diritto.
Le chiediamo di divulgare queste parole, di dare voce a noi, semplici cittadini, stranieri a casa propria, di un popolo senza voce, senza televisioni, senza neanche più la forza per urlare la nostra indignazione e le nostre ragioni. Ma determinati a non cedere.

Nel nostro ospedale di Kosovska Mitrovica non ci sono più posti liberi, non ci sono sufficienti medicinali, né sufficiente sangue per colmare quello versato dagli estremisti albanesi; da ogni angolo di questo Kosovo crocefisso, questo è l’ultimo lembo di terra dove confluiscono i nostri fratelli e sorelle scacciati dalle bande assassine, che dopo averli terrorizzati e incendiato le case, non sono riusciti ad assassinare.
Nelle nostre case scarseggia tutto, i nostri figli non hanno più nulla che non sia paura e angoscia. Aiutateci a fermarli, che la gente onesta e buona si alzi per gridare basta, la nostra amicizia e fratellanza sarà eterna.
Noi siamo ancora in piedi e fermi nella volontà di fermarli, di resistere, ma siamo soli con i nostri fratelli della Serbia. Ci dicono gli inteazionali di qui, perché siamo serbi.
Sappiamo che voi e le vostre associazioni non la pensate così, per questo confidiamo sulla vostra amicizia e impegno. Ma fate presto.
Con rispetto e tanta amicizia».

Cittadini e cittadine di Kosovska Mitrovica,
Associazioni dei Profughi in Serbia

(Per contatti o maggiori informazioni:
enricoto@iname.com; oppure: 328/7366501)

Autori vari




VENEZUELA 2004 Tra Bolivar e Chávez (prima puntata)

Introduzione
VENEZUELA 2004
(e la maledizione del petrolio)

Sono molte le immagini che si sono
impresse nella mente durante il mio viaggio in Venezuela. Dire che il
paese è diviso in due parti antitetiche e contrapposte può sembrare
semplicistico, ma l’affermazione non si discosta troppo dalla realtà.
Ricordo le lacrime silenziose della ministra dell’ambiente, Ana Elisa
Osorio, medico, quando raccontava delle «amiche» che l’hanno ripudiata
perché lei è entrata nel governo dell’odiato Hugo Chávez Frias. Ricordo
la faccia triste dell’ex ministro della pianificazione, Jorge Giordani,
ingegnere laureato a Bologna, quando ci raccontava il comportamento dei
suoi vicini di casa: costoro ogni sera, per mesi, avevano inscenato
rumorose ed offensive proteste davanti ai cancelli della sua abitazione
perché lui e la sua famiglia se ne andassero dalla zona. Ricordo gli
occhi pieni di felicità di Maylin Rodriguez Beltran, giovane mamma del
barrio Sucre, a Caracas, quando ci mostrava l’atto di proprietà della
propria casa (già abusiva), appena ricevuto dal governo.

Ricordo
il racconto di padre Agostinho, missionario della Consolata: «Le
divisioni tra chavisti e anti-chavisti si manifestano anche nella mia
chiesa. Qualche tempo fa, una signora durante una messa ha chiesto agli
altri fedeli di pregare perché Chávez se ne vada. Davanti a questi
fatti io, prete, come debbo comportarmi?». Ricordo l’accorato
comunicato di un gruppo di suore favorevoli a Chávez (chiamato «hermano
Presidente»), che si concludeva così: «Noi gridiamo che vale la pena di
vivere in Venezuela: oggi, qui ed ora».

Il Venezuela è uno dei
maggiori esportatori mondiali di petrolio. In America Latina è il primo
produttore. La «Petróleos de Venezuela» (Pdvsa, detta Pedevesa nel
linguaggio corrente), la compagnia petrolifera di proprietà pubblica,
ha sempre generato enormi profitti, che però invece di arrivare nelle
casse dello stato in larga parte sono andati a gonfiare conti bancari
privati, in patria come all’estero. Forse per questo i dirigenti di
Pedevesa si sono apertamente schierati con la «Coordinadora
democratica» (l’eterogenea alleanza che raggruppa gli anti-chavisti).
Poco importerebbe se essi non fossero riusciti a bloccare per mesi
(attraverso uno sciopero, ma anche con autentici atti di sabotaggio) la
produzione di greggio, portando il paese ad un passo dalla bancarotta.
Difficile fare previsioni sul futuro del Venezuela. Il presidente
Chávez (ammesso che resista) indirà le elezioni nel prossimo agosto? Se
sì, i contendenti accetteranno il successivo responso delle ue? Un
eventuale ritorno dell’opposizione al governo, comporterà anche un
ritorno ad un modello economico dove l’80 per cento dei venezuelani è
costretto a vivere nella miseria?

Pa.Mo.


VOCI DA PIAZZA ALTAMIRA:
«NOI TORNEREMO»

Dicono
che il presidente Hugo Chávez Frias sia un dittatore, legato a Fidel
Castro e al comunismo internazionale. Ma non parlano da un carcere o
dall’esilio. I militari ribelli hanno il loro quartiere generale in un
albergo che si affaccia su piazza Altamira, luogo simbolo
dell’opposizione venezuelana, situato nella parte est di Caracas, il
quartiere delle classi ricche. Abbiamo incontrato uno dei comandanti
ammutinati, il generale Néstor Gonzáles Gonzáles. Ecco le sue risposte
e i suoi giudizi sulla situazione venezuelana e sul futuro.

Caracas.
Alle spalle della piazza si alza il monte Avila, che per la sua altezza
svolge una funzione di orientamento per chiunque non conosca Caracas.
La piazza si chiama Francia, ma è comunemente conosciuta come Altamira.
Costituisce il fulcro di Chacao, il municipio più ricco di Caracas,
dove ci sono le maggiori entrate fiscali, dove le strade sono ordinate
e dove il colore della pelle delle persone è tendenzialmente sul
bianco… Il sindaco di Chacao si chiama Leopoldo Lopez e, con il suo
movimento Primero justicia, è uno dei leader emergenti dell’opposizione
venezuelana.
La piazza Altamira è diventata famosa in tempi recenti.
Tutta circondata da palazzi modei e posta in leggera salita, negli
ultimi due anni essa si è trasformata in una sorta di santuario del
movimento che si oppone al presidente Hugo Chávez. In senso simbolico,
ma anche effettivo.
Sotto l’obelisco che sta al centro della
piazza è stato eretto una specie di altare con una grande statua della
Madonna e sotto di essa altre di dimensioni minori. Attoo grandi
casse acustiche, microfoni, un palco per le riprese televisive, un
orologio che scandisce ore e minuti trascorsi dall’inizio
dell’occupazione della piazza. E ancora striscioni contro Chávez
(«rinuncia subito ») e in favore del generale Martinez; cartelli con il
sito internet e il numero di conto corrente bancario dei «militari
democratici». Il tutto è infiocchettato da drappi gialli, azzurri,
rossi, i colori del Venezuela.
Stiamo per scattare qualche foto,
quando alcune persone si avvicinano per consigliarci di andare a
chiedere il permesso. «Il permesso?» chiediamo stupiti.
– È meglio. Potrebbero confondervi per spie chaviste.
– E a chi dovremmo chiedere questo permesso?
– Entrate nell’hotel.
L’hotel è il «Four Seasons», moderno e mai entrato in funzione. Da mesi
divenuto una sorta di quartier generale dell’opposizione e, in
particolare, degli ufficiali che hanno lasciato Chávez. Sono qui dallo
scorso 22 ottobre e con una buona dose di enfasi hanno dichiarato
piazza Altamira «territorio liberato». Alcune persone ci indirizzano
dal generale. Con un basco sulla testa rasata a zero e un giubbotto
antiproiettile che sbuca dalla giacca d’ordinanza carica di lustrini
militari, l’ufficiale non può passare inosservato neppure agli occhi di
persone totalmente estranee al mondo militare. Dimentichiamo subito il
motivo per cui siamo entrati. L’occasione è troppo ghiotta: chiediamo
di avere una breve intervista. Ci dice di aspettare un attimo. Ritorna
dopo pochi minuti, impettito come si conviene a un generale, stringendo
tra le mani il bastone del comando.
Generale, cominciamo con una breve autopresentazione.
«Sono Néstor Gonzáles Gonzáles, generale di brigata dell’esercito
venezuelano. Sono uscito dall’accademia militare nel 1974. Ho 28 anni e
mezzo di servizio attivo, più quattro anni all’accademia».
Dunque, lei ha quasi 33 anni di vita militare alle spalle. Con quali incarichi?
«Ho avuto incarichi di comando della truppa in tutta la mia carriera e sono
stato anche istruttore per tutte le armi. Sono stato comandante dei
reparti di artiglieria, vicecomandante del reggimento della guardia
d’onore durante i governi di Carlos Andrés Pérez (1989-1993) e di
Rafael Caldera (1994-1998) in una situazione sommamente critica. Questo
le da un’idea di quanto siamo democratici e del fatto che non siamo
golpisti. Sono stato secondo comandante della 31° brigata di fanteria;
direttore della scuola di artiglieria dell’esercito; comandante della
brigata cacciatori dell’esercito; comandante del teatro di operazione
numero 2.
Il mio ultimo incarico è come direttore del personale dell’esercito e comandante di tutte le scuole dell’esercito».
Un curriculum di tutto rispetto per un ufficiale. Ora, però, le chiediamo: che ci fa in questa piazza?
«Questa è una situazione che molte persone non capiscono. Bisogna sapere che
prima di arrivare a ciò sono state fatte tutte le denunce attraverso i
canali legali per far sì che il presidente rispettasse la costituzione».
In cosa Chávez non avrebbe rispettato la costituzione?
«Per esempio, il tradimento della patria con la consegna del territorio
venezuelano alla guerriglia colombiana. Ho manifestato pubblicamente e
attraverso tutti i canali ufficiali (dell’esercito, del ministro della
difesa e della presidenza della repubblica) il mio scontento e la mia
indisposizione ad accettare che la politica fosse introdotta
all’interno dei quadri dell’esercito. Sostenevo che questa
politicizzazione delle forze armate avrebbe portato a problemi di
divisione, di leadership e di operatività. Tutte queste mie
osservazioni non sono state prese in considerazione. Poi sono avvenuti
i fatti dell’11 aprile 2002 (vedere cronologia, ndr). Io ho fermato le
truppe e i tanks perché non uscissero per strada a massacrare il popolo
venezuelano, che chiedeva la rinuncia del presidente. L’intento di
Chávez era proprio quello di usare le truppe per sequestrare il popolo
venezuelano e imporre un progetto comunista di tipo totalitario,
diretto da Fidel Castro e dalla sinistra internazionale. Una volta che
è successo tutto questo, io ed altri ufficiali democratici abbiamo
ritenuto che non esistesse più uno stato di diritto all’interno del
nostro paese e siamo scesi in piazza Altamira a denunciare quello che
stava succedendo. Era il 22 ottobre 2002. Siamo ancora qui, perché lo
stato di diritto non è stato ripristinato e non esiste neppure un luogo
dove presentare le nostre denunce, dato che tutti i poteri dello stato
hanno un atteggiamento ostile nei nostri confronti.
Per tutto questo abbiamo deciso di ritirarci dall’esercito e venire in questa
piazza per denunciare all’opinione pubblica nazionale e internazionale
quello che sta facendo il presidente Hugo Chávez contro il popolo
venezuelano. Questa persona ha permesso a elementi stranieri di entrare
nel nostro paese per reprimere la rivolta popolare; ha distrutto tutte
le istituzioni e sfrutta la miseria per portare avanti un progetto di
sinistra con lo scopo di destabilizzare tutto il continente
latinoamericano e probabilmente la pace e la tranquillità del mondo».
Quante persone condividono la vostra ribellione?
«All’interno
del territorio liberato di piazza Altamira ci sono 126 militari. Ma non
tutti vivono qui. Alcuni vanno ai loro luoghi di residenza, altri
invece dormono sempre in case diverse per motivi di sicurezza. C’è
repressione contro di noi, contro le nostre famiglie».
Lei parla di repressione. Però, è molto originale che ci sia un gruppo di ufficiali
che si sono ammutinati e non riconoscono questo governo e che tuttavia
non vengono arrestati…
«In questo momento abbiamo 9 ufficiali
con ordini di cattura. Gli altri no. Nemmeno io, che continuo ad essere
militare attivo delle forze armate venezuelane. Siamo 4 generali. Gli
altri sono stati abbassati di grado senza nessuna giustificazione,
senza nessun diritto alla difesa, senza il processo che si deve seguire
in questi casi.
Abbiamo un generale detenuto nella sua residenza
per motivi politici, il generale Alfonso Martinez. Inoltre, a parte
noi, ci sono molti generali che sono a casa o senza incarichi o che si
sono ritirati dal servizio, che lavorano per ottenere l’abbandono della
presidenza da parte di Hugo Chávez».
Lei ovviamente sta parlando di un’uscita pacifica, giusto?
«Qualsiasi uscita! Perché quando si vende la patria, quando si tradisce un popolo
per imporre un regime alieno, che non si identifica con il benessere,
la tranquillità e la pace della gente, si deve arrivare alla libertà a
qualsiasi costo.
Abbiamo iniziato pacificamente, ma se dovremo
ricorrere ad altri metodi lo faremo. Dobbiamo recuperare la libertà di
una nazione e di un popolo che sta soffrendo. Purtroppo, la comunità
internazionale non ha inteso totalmente la nostra situazione».
Perché non avrebbe inteso la situazione? I media hanno parlato molto del Venezuela…
«Semplicemente perché il governo ha manipolato l’informazione. Con molto denaro ha
costruito una lobby internazionale a cui mostra continuamente una
costituzione che non rispetta. Hugo Chávez vuole dimostrare che è un
democratico, mentre in realtà è un dittatore che tenta di imporre un
regime comunista e fondamentalista».
Parliamo di numeri. Secondo lei, quanta gente sta con Chávez?
«Calcoliamo
che ha una popolarità “dura” tra il 12% e il 15%. Poi c’è un altro 15%
che, per così dire, è chavista light, molti anche all’interno delle
forze armate, perché sono pagati, corrotti. Chávez ha comprato la
dignità e la coscienza della maggior parte delle persone che lavorano
con lui, ma quando il denaro finirà queste lo lasceranno perché non si
identificano con lui».
Se solo il 30% della popolazione sta con
Chávez, questo significa che il presidente è stato abbandonato anche da
gran parte della gente povera…
«Molti pensano che gli abitanti
dei barrios poveri stiano dalla sua parte, ma non è così. Ad esempio,
durante il firmazo (raccolta di firme contro il presidente indetta
dall’opposizione, ndr), molta gente è scesa a Caracas per manifestare
la propria volontà di smettere di soffrire».
E le forze armate da che parte stanno?
«Chi
crede che le forze armate stiano con il presidente si sbaglia! Proprio
perché non è così, Chávez ha portato tanti stranieri sul territorio
venezuelano: gruppi della guerriglia colombiana pronti ad intervenire
con le armi; cubani mascherati da istruttori sportivi, ma ugualmente
armati. Poi, con la scusa di difendere la rivoluzione, ha armato anche
parte della popolazione».
Lei si riferisce ai cosiddetti circoli bolivariani?
«Certo!
Lui ha organizzato questi circoli perché sa che le forze armate non
stanno dalla sua parte, che hanno una posizione istituzionalista e che
un giorno si uniranno assieme al popolo per cacciarlo».
E cosa pensa della cornordinadora democratica?
«Un
elemento della politica di Hugo Chávez è cercare di dividere
l’opposizione. La cornordinadora democratica non è sfuggita a questo
tentativo. Così si sono create divisioni tra i politici che si
oppongono a Chávez per interessi personali, economici o di partito.
Queste persone vengono automaticamente messe da parte quando ci si
accorge che esse non si identificano con l’interesse generale del
popolo venezuelano».
E quali vie d’uscita propone la cornordinadora democratica?
«Chávez
disprezza qualsiasi opzione democratica e si burla costantemente di
ogni soluzione proposta dal popolo, perché se è vero che il presidente
gode ancora di un 25-30% di supporto popolare, è anche vero che ha un
70% di rifiuto che viene espresso regolarmente nelle strade di Caracas
e non solo in piazza Altamira.
Questo non era mai successo con
nessun presidente venezuelano, nemmeno con Caldera che arrivò ad avere
un 15% di popolarità, ma il restante 85% della popolazione rimaneva
indifferente e viveva la vita così come veniva. Tutto restava confinato
all’interno di un contesto democratico, senza creare in nessun momento
divisioni tra ricchi e poveri o tra bianchi e neri, come cerca di fare
in questo momento Chávez».
Generale Gonzáles, che cosa pensa per il futuro immediato?
«Il
futuro immediato impone al popolo venezuelano di continuare a scendere
in piazza per far capire alla comunità internazionale che la nostra
lotta è giusta. La pace, la libertà, la tranquillità e il futuro del
Venezuela significano molto non soltanto all’interno del continente
sudamericano, ma anche nel contesto occidentale e mondiale. Non può
essere che un gruppo minoritario sequestri la libertà e la tranquillità
di un paese. Pertanto dobbiamo continuare ad andare avanti. A qualsiasi
costo».

(Fine 1a. puntata)

BOX
SCHEDA VENEZUELA

Superficie: 915.000 Kmq (circa 3 volte l’Italia)
Popolazione: 23.706.000 (1999)
Gruppi etnici: meticci (67%), bianchi (21%), neri (10%), amerindi (2%)
Capitale: Caracas
Religione: cattolici (92,7%)
Tasso alfabetizzazione: 91%
Ordinamento politico: repubblica presidenziale guidata da Hugo Chávez Frias, il cui mandato scade nel 2006
Economia:
si fonda sull’industria estrattiva di petrolio e gas naturale (laguna
di Maracaibo, Golfo di Paria, ecc.); l’agricoltura (caffè, cacao, canna
da zucchero, tabacco) non copre le necessità intee
Lavoro: secondo alcune inchieste, il 53% della popolazione economicamente attiva ha un lavoro di tipo «informale»
Sotto
la soglia di povertà: le cifre non sono concordi; tuttavia, non si
sbaglia di molto dicendo che l’80% della popolazione vive in povertà,
il 50% in estrema povertà

Cronologia essenziale
DALL’ASCESA DI HUGO CHÁVEZ AL FEBBRAIO 2003

1989-2001, DAL CARCERE ALLA PRESIDENZA
27 FEBBRAIO 1989: SOLLEVAZIONE POPOLARE
A
Caracas esplode la protesta di vasti settori della popolazione. La
manifestazione si tramuta in insurrezione violenta con saccheggi e
devastazioni. La rivolta si estende anche in altre città del Venezuela.
Il presidente Carlos Andrés Pérez manda contro la folla l’esercito che
apre il fuoco. I morti sono migliaia.
4 FEBBRAIO 1992: SOLLEVAZIONE MILITARE
Il
tenente colonnello Hugo Chávez e altri quattro comandanti tentano un
golpe contro Carlos Andrés Pérez. La sollevazione fallisce.
MARZO 1994: FUORI DAL CARCERE
Il nuovo presidente Rafael Caldera libera Chávez.
1997: NASCE IL PARTITO DI CHÁVEZ
Chávez fonda il «Movimento V (Quinta) Repubblica», partito con il quale si candida alla presidenza del paese.
6 DICEMBRE 1998: VITTORIA
Chávez viene eletto presidente del Venezuela con il 56,49% dei voti.
2 FEBBRAIO 1999: GIURAMENTO
Al momento del giuramento, il neo-presidente afferma di prestare giuramento sopra una «costituzione moribonda».
APRILE – DICEMBRE 1999: NUOVA COSTITUZIONE
La
maggioranza dei venezuelani approva la proposta di convocare
un’assemblea costituente per redigere una nuova costituzione (25
aprile). Il raggruppamento di Chávez conquista 122 seggi su 131
all’interno della costituente (25 luglio). Il 15 dicembre un referendum
approva la nuova costituzione «bolivariana».
30 LUGLIO 2000: NUOVA VITTORIA DI CHÁVEZ
Chávez ottiene il 59% dei voti nelle elezioni indette in conformità alla nuova costituzione.
13 NOVEMBRE 2001: LE 49 LEGGI
Sulla
base di una deroga di legge (la cosiddetta «ley habilitante »), il
governo di Chávez approva per decreto 49 leggi di grande impatto
economico e sociale (sono comprese materie come la proprietà della
terra, l’imprenditorialità, la pesca). Le associazioni degli
imprenditori contestano le nuove norme.

2002, L’ANNO DEL GOLPE
5 MARZO 2002: ALLEANZA TRA OPPOSITORI
La
principale organizzazione imprenditoriale, «Fedecámaras», e la
corrottissima «Confederación de trabajadores de Venezuela» (Ctv) si
alleano per trovare un’uscita alla crisi del paese. Il governo non
viene neppure interpellato.
11 APRILE: LA RIVOLTA DEGLI «ANTI-CHAVISTI»
L’opposizione
convoca una marcia fino al palazzo presidenziale di Miraflores per
chiedere la rinuncia di Chávez. Ci sono scontri con i simpatizzanti del
presidente. Sul terreno rimangono almeno 12 morti e centinaia di
feriti.
12 APRILE: RINUNCIA DI CHÁVEZ?
Ore convulse. Viene
annunciato che il presidente è stato portato via da Caracas e che ha
rinunciato all’incarico. L’opposizione nomina l’imprenditore Pedro
Carmona, presidente di «Fedecámaras», capo di un governo di
transizione. Gli Stati Uniti dichiarano il proprio appoggio al golpe.
13 APRILE: LA RIVOLTA DEI «CHAVISTI»
Un
decreto del governo transitorio azzera l’Assemblea nazionale. Le strade
di Caracas iniziano a riempirsi di gente che reclama il ritorno del
presidente Chávez.
14 APRILE: IL RITORNO DI CHÁVEZ
La mattina
di domenica Hugo Chávez torna nel palazzo presidenziale di Miraflores.
Il golpe dell’opposizione è durato soltanto 48 ore.
22 OTTOBRE: I COMANDANTI DI PIAZZA ALTAMIRA
Quattordici
alti ufficiali dell’esercito venezuelano si ammutinano. Approntano il
loro «quartier generale» in piazza Altamira, (nella parte est di
Caracas), dichiarandola «territorio liberato».
28 OTTOBRE: MEDIAZIONE
Cesare
Gaviria, segretario generale dell’«Organizzazione degli stati
americani» (Oea), comincia una difficile mediazione tra governo ed
opposizione.
2 DICEMBRE: SCIOPERO GENERALE
L’opposizione,
guidata da «Fedecámaras» e dalla «Confederación de trabajadores de
Venezuela» (Ctv), e sostenuta dai principali mezzi di comunicazione,
proclama uno sciopero generale (paro civico nacional). Obiettivo
primario è la paralisi dell’industria petrolifera (Pdvsa), la
principale fonte di ricchezza del paese.

2003, CROLLANO LE ENTRATE DELLO STATO
15 GENNAIO 2003: GRUPPO DEI «PAESI AMICI»
A
Quito, in Ecuador, si costituisce il «gruppo dei paesi amici del
Venezuela». È formato da 6 stati: Brasile, Cile, Messico, Spagna,
Portogallo e Stati Uniti. L’idea, nata da una proposta del presidente
brasiliano Lula, inizialmente non prevedeva la presenza di Washington.
2 FEBBRAIO: TERMINA LO SCIOPERO
L’opposizione
decide di revocare lo sciopero che dura da 63 giorni. Ma la fermata del
settore petrolifero ha determinato un crollo verticale delle entrate
fiscali. Il governo riuscirà a sopravvivere anche con le casse vuote?

Paolo Moiola