Guatemala – Donne dalla pelle dura

«Mio padre sparì per mano dei militari nella notte del 9 luglio 1982. Dopo tre giorni i militari tornarono e dissero a mia madre di non cercarlo più perché era già morto. La sua sorte non era stata uguale a quella di tanti altri che trascorsero anni, tra sofferenze infinite, nelle prigioni dell’esercito. Mio marito era un dirigente campesino. Scomparve nel maggio del 1985. Non ho mai saputo dove lo portarono, dove abbandonarono il suo corpo. Soprattutto non ho mai potuto dire con sicurezza ai miei figli se il loro papà sarebbe tornato».
I lunghi capelli neri le cadono sul coloratissimo scialle. Piccola e robusta come la maggior parte delle donne maya, Rosalina Tujuc ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, ma il suo sorriso rimane dolce e disarmante. La sua storia fa rabbrividire, ma non è un’eccezione in Guatemala. Anzi, si può dire che sia la regola. I 36 anni di guerra civile hanno, infatti, prodotto 40.000 vedove. Nel 1988, un gruppo di queste decise di unire le forze in un’associazione battezzata Coordinadora nacional de viudas de Guatemala (Conavigua).
«Il nostro lavoro – ci spiega Rosalina – inizia nel settembre del 1988, quando donne dell’occidente e del nord cominciano a lavorare per fermare la militarizzazione del paese, per impedire che i nostri figli siano portati nelle caserme, ma anche per ritrovare i nostri mariti, i nostri familiari, assassinati dall’esercito e abbandonati in cimiteri clandestini. Un altro compito è quello di ricercare forme di sopravvivenza per le donne: il 25% delle donne che lavorano in Conavigua sono vedove di guerra. Ma ci sono anche donne sposate, nubili, madri nubili: quello che ci unisce è il desiderio comune di batterci, di lottare per la giustizia e contro l’impunità. All’inizio di questa esperienza la maggioranza di noi non sapeva o aveva appena imparato a parlare lo spagnolo; la gran parte non sapeva leggere né scrivere e quindi il nostro lavoro con le compagne era tutto a voce, orale».
Oggi Conavigua raggruppa circa 10 mila donne. Una realtà ancora più straordinaria, se si considera che essa è nata ed opera in un paese dove il machismo continua ad essere una caratteristica dominante della società.

Prima di lavorare con Conavigua, Rosalina Tujuc è stata deputata, arrivando anche a rivestire la carica di vicepresidente del parlamento guatemalteco. La sua conoscenza del paese è quindi molto approfondita.
«La situazione economica – spiega l’esponente maya – è molto difficile. La firma degli accordi di pace del dicembre 1996 ha portato a terminare con gli scontri armati, ma gli altri pilastri degli accordi non hanno avuto una reale attuazione. Per esempio, non sono riusciti a cambiare le strutture militari ed economiche del paese e quindi ancor meno si sono potuti risolvere i problemi della povertà, della discriminazione, dell’esclusione dei popoli indigeni.
In Guatemala la disoccupazione è grande. Gli accordi di pace avevano, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una serie di misure tributarie, che non sono state fatte; al contrario, si è proceduto con le privatizzazioni. I capitali privati, a quanto pare, non vengono investiti all’interno, ma vengono dirottati fuori dal paese. Quindi, direi che la situazione di povertà, prima concentrata nelle campagne, ora è diventata generalizzata. Tutto questo non ha permesso al Guatemala di aprirsi allo sviluppo economico.
Da un punto di vista politico, non si è riusciti ad organizzare un piano di sicurezza per tutti i cittadini; ancora oggi i più implicati in violazioni dei diritti umani continuano ad essere i membri della polizia. Assistiamo anche a continue intimidazioni, rivolte soprattutto contro le organizzazioni per i diritti umani: i loro uffici vengono assaliti, derubati dei computers, si arriva alle minacce di morte per chi vi lavora».
Prima di salutarci, torniamo a parlare della condizione delle donne, le più colpite dalla disastrosa situazione economica del paese.
«Le donne – ci conferma Rosalina – raggiungono il 60-70% di disoccupazione. Inoltre, quasi tutte le indigene non hanno un’educazione. Senza lavoro e senza speranza, dunque. Ma anche quando hanno un lavoro le donne sono vittime. Penso soprattutto alle zone urbane o comunque vicine alle città dove ci sono molte maquilas (fabbriche che producono esclusivamente per l’estero, ndr). In queste fabbriche non ci sono garanzie per un lavoro dignitoso e rispettoso della persona. Se però le donne cominciano a lottare per i loro diritti, subiscono violenze e torture. Quando non vengono uccise».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




“La violenza è come un virus”

Lo scorso novembre l’ex dittatore Efraín Ríos Montt non è riuscito a farsi eleggere presidente. Ma questa è la sola buona notizia che proviene dal paese centroamericano. Dietro i colori sgargianti che contraddistinguono la sua gente, si nascondono povertà, disoccupazione e violenza. La guerra civile durata 36 anni è formalmente terminata, ma le ferite inferte al paese sono difficili da rimarginare. E gli accordi di pace del 1996 sono rimasti sulla carta.

«Gli avevano tagliato la lingua. Era bendato con fasce e cerotti sugli occhi. Aveva fori ovunque (…) Era irriconoscibile; solo perché io ho vissuto per molti anni con lui e sapevo di alcune cicatrici, capii che era mio marito» (1).
Sono due le date che caratterizzano la storia recente del Guatemala: dicembre 1996 e aprile 1998. La prima ha segnato la fine di una guerra civile durata 36 anni, la seconda la morte di una persona che su quei 36 anni aveva indagato svelandone le atrocità e le responsabilità.
Mons. Juan José Gerardi Conedera, vescovo ausiliario del Guatemala, era cornordinatore generale dell’«Ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado guatemalteco» (Oficina de derechos humanos del Arzobispado de Guatemala, Odhag).
Fu assassinato domenica 26 aprile 1998, soltanto 48 ore dopo aver presentato, nella cattedrale metropolitana di Città del Guatemala, il rapporto Guatemala: nunca más, risultato finale del progetto interdiocesano Recuperación de la memoria histórica (Remhi).
Aveva detto: «Quando si affrontano temi economici e politici, molta gente reagisce dicendo: “perché la chiesa si occupa di queste cose?”. Vorrebbero che ci dedicassimo unicamente ai ministeri. Però la chiesa ha una missione da compiere nell’ordinamento della società, che comprende i valori etici, morali ed evangelici».
Valeva la pena spendere 3 anni di lavoro per raccogliere migliaia di interviste (individuali e collettive) in 15 idiomi maya? «Il chiarimento storico – si legge in una famosa lettera pastorale (2) – non solo è necessario, ma indispensabile perché il passato non si ripeta (…). Finché non si saprà la verità, le ferite del passato rimarranno aperte e non potranno cicatrizzarsi».
L’obiettivo di Nunca más era, pertanto, duplice: preservare la memoria storica attraverso l’accertamento dei fatti e tentare di ricostruire il tessuto sociale, disintegrato da 36 anni di atrocità.
«Conoscere la verità fa soffrire però è, senza dubbio, un’azione altamente salutare e liberatrice», aveva concluso mons. Gerardi, in quella domenica del 26 aprile 1998.

LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Cosa dette origine a un conflitto durato dal 1960 al 1996? La risposta la troviamo nelle parole di monsignor Próspero Penados del Barrio, scritte nella presentazione del rapporto: «Se riflettiamo sulle condizioni in cui viveva un’altissima percentuale della popolazione, emarginata per la carenza delle sue più elementari necessità (cibo, salute, educazione, casa, salario dignitoso, diritto di organizzazione, rispetto del proprio pensiero politico, ecc…) che non le permetteva di svilupparsi nelle condizioni a cui ha diritto ogni essere umano; se riflettiamo sull’anarchia che viveva in quel momento il nostro paese (…); se pensiamo che per alcuni gruppi furono chiusi gli spazi politici, possiamo comprendere che la guerra (…) era qualcosa che non si poteva fermare. Il desiderio di cambiamento per creare una società più giusta e l’impossibilità di portarlo avanti (…) provocò un coinvolgimento nella rivoluzione non solo di coloro che volevano il cambiamento della società secondo logiche socialiste, ma di molti che – pur non essendo marxisti e non avendo una posizione politica impegnata – si convinsero e si videro costretti ad appoggiare un movimento che sembrava essere l’unica via possibile: la lotta armata».
Chi fu il vincitore della guerra?, si chiede monsignor del Barrio: «Tutti abbiamo perso. Non credo che alcuno abbia il cinismo di salire sul carro della vittoria carico di migliaia di morti (…)».
Nei 36 anni di guerra le vittime accertate furono almeno 200 mila. Per non parlare delle vittime indirette (bambini orfani e donne vedove), delle persone segnate per sempre dalla violenza, dei villaggi distrutti, delle comunità disgregate.

EFRAÍN RÍOS MONTT,
L’«UNTO DEL SIGNORE»

L’impegno della chiesa cattolica guatemalteca nella ricerca della pace trovò (e trova) il proprio contrappasso proprio nel modus operandi del generale Efraín Ríos Montt, che fece della religione uno strumento del proprio dominio, a tal punto da proclamarsi «unto del Signore».
In questo Ríos Montt non si è discostato dal comportamento di altri dittatori latinoamericani (si pensi al generale cileno Pinochet o alla giunta militare argentina), anche se il suo percorso personale è stato diverso.
Nel 1978 Ríos Montt abbandonò la fede cattolica e aderì alla Iglesia del Verbo, una setta evangelica-pentecostale di cui divenne pastore. I 17 mesi della sua dittatura (dal marzo 1982 all’agosto 1983) furono i più sanguinari della storia recente del Guatemala; gran parte dei massacri avvennero in quel breve periodo (192 nel solo 1982).
I suoi discorsi erano infarciti di citazioni bibliche. Lui, «unto del Signore», aveva il compito di combattere «i quattro cavalieri del moderno Apocalisse»: la fame, la miseria, l’ignoranza e la sovversione.
Ma chi erano i sovversivi? Chiunque, direttamente o indirettamente, potesse favorire la «minaccia comunista». L’attenzione di Ríos Montt si concentrò, in particolare, su contadini e indigeni, poiché – così si giustificava – la loro immaturità verso i valori patriottici e il loro analfabetismo li rendevano particolarmente vulnerabili di fronte al proselitismo del comunismo internazionale.
Nella concezione del generale-pastore a volte il «buon cristiano» deve sapersi districare «con la bibbia e con la mitraglietta».
«Il suo eloquio fanatico – ha scritto una guatemalteca vittima della dittatura (3) -, che manipolava i sentimenti e i timori religiosi, era trasmesso da radio e televisione in piccole dosi domenicali, nelle quali mescolava abilmente citazioni bibliche e messaggi che inducevano al senso di colpa».
Scrive il rapporto Nunca más: «Il far sentire le vittime e i sopravvissuti colpevoli e responsabili di quanto succedeva fu un elemento centrale nella strategia controinsurrezionale. Per raggiungere questo obiettivo, l’esercito utilizzò vari meccanismi, i più importanti dei quali furono: la propaganda e la guerra psicologica, la militarizzazione, le pressioni – con ogni mezzo – per ottenere la massima obbedienza, servendosi in particolare delle Patrullas de autodefensa civil e delle sétte religiose. (…) La paura di professare la religione cattolica, che l’esercito considerava una dottrina sovversiva, fu il motivo più frequente per bloccare la pratica religiosa nell’area rurale. Le pratiche religiose, tanto della religione maya come di quella cattolica, dovettero per forza cambiare a causa della perdita delle cappelle e dei luoghi sacri. (…) La penetrazione crescente delle sétte evangeliche, che cominciavano allora a diffondersi, colmò il vuoto religioso lasciato dalla repressione e fu favorita dall’esercito come una forma di controllo della gente.
Le sétte diffusero la loro versione della violenza, incolpando le vittime e promuovendo una ristrutturazione della vita religiosa delle comunità basata sulla separazione in piccoli gruppi, su messaggi di legittimazione del potere dell’esercito e di salvezza individuale, con cerimonie che favorivano lo sfogo emotivo di massa. La violenza divenne allora il più potente propulsore delle sétte evangeliche, con una grande diffusione in buona parte del paese».
Nonostante le pesantissime responsabilità nella guerra civile, il generale-pastore Efraín Ríos Montt, l’«unto del Signore», è riuscito a rimanere il vero uomo forte del paese centroamericano fino alle presidenziali del novembre 2003. E non è affatto detto che quella sconfitta elettorale lo abbia effettivamente posto fuori gioco…

LA VIOLENZA
COME STILE DI VITA

In tempi di guerra globale e continua, appaiono drammaticamente attuali le parole di Edgar Gutiérrez, responsabile del progetto Remhi: «La violenza è come un virus. Penetra in tutto il corpo e si propaga in forma epidemica. Quando diviene endemica, si trasforma in irrazionalità pura».
Su questo concetto della violenza come patologia sembrano concordare in molti.
«L’esercito – ha scritto Dante Liano (4) – non solo ha vinto la guerra con le armi, ma ha creato uno stile di vita fra la gente. La mentalità dominante è la violenza e dappertutto regna la volgarità da caserma, in un paese che era famoso per i modi cortesi e cerimoniosi. Quasi tutti girano armati e chi non lo fa, si circonda di guardie del corpo. Ci sono uomini armati con fucili a canne mozze nelle banche, nei magazzini, nei centri commerciali, nei parcheggi privati, negli ingressi alle zone ricche della capitale. (…) Forse, dopo una guerra durata quarant’anni in cui sono stati commessi dei massacri inauditi, il corollario naturale è questo: una società dominata da una mentalità violenta, arbitraria e prepotente».
Il problema è che oggi, a 7 anni dagli accordi di pace, in Guatemala non sono affatto mutate le situazioni che furono alla base del conflitto: povertà estrema, emarginazione, fame, disoccupazione, clima di impunità, corruzione, concentrazione delle terre in pochissime mani.
(Fine 1a. parte – continua)

(1) Caso n. 3031 datato 1981 riportato nel rapporto Nunca más.
(2) In Urge la verdadera paz, lettera della Conferenza episcopale del Guatemala (1996).
(3) «Il trionfo del genocida», di Ana Lucrecia Molina, su Latinoamerica n. 78 – 1.2002. Il fratello quindicenne di Ana fu sequestrato dall’esercito nel 1981.
(4) «Il vento del terrore», di Dante Liano, su Latinoamerica n. 73 – 4.2000. Liano, guatemalteco, insegna letteratura ispanoamericana a Milano.

Paolo Moiola




Iraq – Che succede tra Caldei e Assiri?

L’Iraq è un paese a maggioranza musulmana, ma è anche terra di antichissima cristianità, dove la parola di Dio giunse già dal 54 A.D., quando San Tommaso, nel suo viaggio verso l’Estremo Oriente, la predicò nell’area che ancora era chiamata Mesopotamia.
Guerre e persecuzioni hanno contribuito a diminuire drammaticamente il numero dei cristiani d’Iraq, ridotti oggi a non più di 600 mila. Sono pochi ed anche divisi i cristiani d’Iraq. Se non si contano le confessioni di derivazione anglosassone (protestanti, evangelici, avventisti) la maggior parte di essi appartengono alle chiese assira dell’est, sira, armena e soprattutto cattolica caldea che ne accoglie circa il 70%.
Nell’Iraq del dopo Saddam dove l’ansia di libertà si è concretizzata nel sorgere di una miriade di partiti (si dice ce ne siano già 85) anche i cristiani stanno cercando una loro visibilità politica. Per adesso, sono rappresentati, nell’Iraqi Goveing Council, il governo provvisorio iracheno voluto ed insediato dall’amministrazione Usa nel luglio scorso, da Yonadam Kanna, capo dell’Assyrian Democratic Movement, ma da subito questa nomina ha creato dei malumori, specialmente tra i membri della chiesa caldea che, forti del loro essere maggioritari, chiedono un proprio rappresentante nell’organismo di governo. Ne abbiamo parlato con monsignor Jacques Isaak, segretario generale del sinodo dei vescovi caldei e rettore dell’Università pontificia di Baghdad.

«Le differenze tra caldei ed assiri, che fanno quasi tutti capo alla chiesa assira dell’est, esistono – dice monsignor Isaak – e la più grossa è che la chiesa caldea vuole e riconosce l’autorità del pontefice romano, mentre la chiesa dell’est la rifiuta».
«Noi caldei, inoltre, rappresentiamo la maggioranza dei cristiani in Iraq, e sebbene il nostro atteggiamento verso i diversi poteri che si sono succeduti nel nostro paese sia sempre stato di maggiore accettazione rispetto a quello tenuto dagli assiri, ora è venuto il momento di avere una rappresentanza politica distinta».
Rappresentanza politica distinta chiesta ufficialmente da 19 vescovi sui 20 che hanno partecipato al sinodo che si è tenuto ad agosto a Baghdad per nominare il nuovo patriarca, e che hanno emesso a proposito un documento ufficiale ispirato da monsignor Sarhad Jammo, vescovo dell’eparchia di San Diego in Califoia.
«Ho cominciato a pensare che fosse necessario stabilire dei confini politici tra gli assiri ed i caldei già 30 anni fa – ci dice monsignor Jammo -, ma sono stato sempre frenato nel farlo dalla posizione ufficiale al riguardo assunta dal nostro precedente patriarca, Mar Bedaweed I, che nel 2000 dichiarò di essere un assiro dal punto di vista etnico ed un caldeo dal punto di vista religioso».
«Noi non accettiamo chi si fregia del titolo di rappresentante dei “caldeo-assiri” – continua monsignor Jammo – perché questo è un tentativo da parte degli assiri di inglobare i caldei e di fae un punto di forza. Gli assiri in Iraq sono pochi, e sanno di non poter contare nulla nel paese, se non in alleanza con i caldei. Sebbene già in passato io abbia riconosciuto la legittimità di entrambi i nomi, non accetto la denominazione comune di caldeo-assiro, e per questo sostengo il congresso dei partiti e delle associazioni caldee che si terrà a Baghdad il 24 febbraio del 2004, e che finalmente ci vedrà protagonisti non solo della vita religiosa del paese, ma anche di quella politica».
Gli assiri, pochi in Iraq e molti in diaspora, hanno un’abitudine radicata al confronto politico, i caldei, molti in Iraq e meno all’estero, solo ora, con la caduta del regime e la scomparsa del precedente patriarca, sono quindi liberi di esprimere le proprie rivendicazioni sulla scena politica.

Questi contrasti sicuramente daranno vita ad un dibattito che promette di essere agguerrito ed interessante, dal quale però è tenuta fuori l’istituzione che in Iraq vede lavorare insieme i cristiani: il Babel College, l’Università pontificia affiliata all’Università urbaniana di Roma, che accoglie studenti caldei, assiri, siri ed armeni.
Il Babel College è diretto da monsignor Jacques Isaak che ha proibito la diffusione di volantini e scritti che trattino la questione politica. È un uomo di cultura monsignor Isaak, e quali siano le sue posizioni politiche, vuole che esse non guastino l’atmosfera di collaborazione ed amicizia tra studenti appartenenti alle diverse chiese, che ha sempre caratterizzato il suo collegio.
«C’erano due studenti, un caldeo ed un assiro che distribuivano volantini al riguardo, li ho chiamati ed ho detto loro che erano liberi di farlo al di fuori delle mura del collegio, ma non all’interno. È nostro compito trasmettere i valori della cristianità ma anche offrire ai nostri studenti, la maggior parte laici, gli strumenti culturali adatti ad affrontare il futuro del paese. Bisogna tenere la cultura divisa dalla politica, almeno per ora, e dare ai giovani la possibilità di formarsi, studiando, un’opinione personale. Il dialogo potrà aiutare il paese nel cammino verso la pace, dialogo sia tra le diverse confessioni cristiane, sia con i musulmani: per capirsi bisogna parlarsi».
Il Pontifical Babel College di Baghdad, che accoglie studenti delle diverse confessioni cristiane, è in questo senso un’istituzione unica. Per l’anno accademico 2002-’03 gli studenti iscritti erano 280, la maggior parte laici e tra essi c’erano anche molte donne.
I corsi, che durano 7 anni e che comprendono materie come filosofia, teologia, lingua siriaca, araba ed inglese sono stati interrotti il 17 marzo, ma il giorno stesso della caduta della statua di Saddam in piazza al Furdus, evento che ha mediaticamente segnato la caduta del regime, si è tenuta la prima riunione operativa dei dirigenti del collegio.
Durante il conflitto le postazioni missilistiche che l’esercito iracheno aveva posto lungo le mura estee hanno fatto del collegio un bersaglio. I danni sono stati ingenti. Sono stati distrutti il Centro dell’Arte Sacra, la sala computer, molti infissi estei e l’impianto di condizionamento dell’aria, ma la volontà di ricominciare era tanta ed i lavori sono iniziati appena possibile con un criterio di priorità che potesse favorire la ripresa degli studi.
Infissi, impianti di condizionamento e nuovi servizi igienici hanno avuto la precedenza, ma si è proceduto anche al recupero del Centro dell’Arte Sacra e della sala computer che conta oggi 13 postazioni, ed alla sistemazione ed ampliamento della biblioteca per passare dai 12 posti a sedere ai 90 attuali, e per accogliere i libri che sono stati ad essa destinati per lasciti ereditari, compreso quello del defunto patriarca Mar Bedaweed I.
Ad aspettare, invece, dovrà essere la St. Aprham Hall, la sala conferenze da 750 posti la cui costruzione era iniziata da qualche anno. Nei giorni successivi alla caduta del regime i saccheggiatori hanno colpito anche il Babel College portando via ciò che era più facilmente asportabile. Nel caos generale monsignor Isaak aveva chiesto protezione agli americani che però non l’hanno accordata. A distanza di mesi quella mancata protezione è considerata provvidenziale. «Ora abbiamo solo 5 guardie armate, 3 musulmani e 2 cristiani, ed è meglio così. Se gli americani avessero accettato di proteggerci saremmo stati accomunati a loro. Il fatto che le guardie siano locali, invece, ci ha fino ad ora accordato una sorta di immunità perché la gente può distinguere tra noi, cristiani iracheni e gli americani, forza di occupazione».
Che i rapporti tra questa massima istituzione di studio cristiana ed il mondo musulmano siano improntati alla collaborazione più che allo scontro lo si capisce dal fatto che da quando, ad ottobre, i corsi sono ripresi, il numero dei docenti musulmani che si occupano dell’insegnamento della filosofia è passato da 5 a 7, e che ci sono già stati dei contatti tra il Babel College e la facoltà di studi islamici di Baghdad che ha richiesto un docente che possa spiegare agli studenti musulmani la storia del cristianesimo. Una facoltà ecumenica ed interreligiosa, quindi, che rappresenta una speranza ed un augurio in un paese che deve fare i conti con divisioni etniche e religiose.
I progetti per il Babel College sono molti, monsignor Isaak, malgrado impegnato anche a dirigere due riviste: Nagm al Mashrik (Stella d’Oriente) e Beit Nahrein (Mesopotamia) è un vulcano di idee ed iniziative.
«Vogliamo che il Babel College diventi anche una facoltà di lingue perché non è un bene che i nostri sacerdoti parlino solo l’arabo. A questo proposito abbiamo già contattato l’ambasciata di Francia che si è impegnata ad inviarci da Parigi un docente, ed anche l’ambasciata britannica. Speriamo, in un prossimo futuro, di poter insegnare anche l’italiano».
Oltre alla facoltà di teologia e filosofia il Babel College ospita il Cathechetical Christian Institute dove, in 3 anni di corsi, vengono formati i catechisti. Il college si trova in una zona difficile da raggiungere per molti studenti, e si è così deciso di trasferire temporaneamente i corsi presso la chiesa di Mar Elyia e di istituire dal prossimo anno una sede dell’istituto anche a Mosul per evitare agli studenti provenienti dalle regioni del nord il viaggio bisettimanale di andata e ritorno da Baghdad.
Molte idee e progetti quindi che sicuramente sotto la guida di monsignor Isaak si realizzeranno perché all’interno delle mura del collegio, ora libere da missili, tutti i cristiani, ed anche i musulmani, possano imparare a convivere pacificamente.
Luigia Storti

Luigia Storti




Iraq – “Aspettiamo la pace. Con pazienza”

Si chiama Emmanuel III Karim Delly
la nuova guida della chiesa caldea irachena. Pur arrivando con una fama di moderato,
il patriarca di Baghdad non evade le domande della nostra inviata. Sulla guerra: nessuno
in Iraq la voleva. Sulle truppe d’occupazione: dovrebbero andarsene,
ma gradualmente. Sull’islam: sono ottimi i nostri rapporti con i musulmani. Sull’Arabia Saudita: non lavora per la pacificazione. Sui compiti delle guide spirituali: indicare ai fedeli la retta via. Con un obiettivo preciso:
riportare un minimo di normalità nel paese.

Basilica di San Pietro, 5 dicembre 2003. In una suggestiva atmosfera, l’aramaico, la lingua che discende da quella di Gesù e che è patrimonio della maggioranza dei cristiani iracheni, è riecheggiato tra le volte sottolineando i momenti più salienti della cerimonia di nomina del nuovo patriarca della chiesa cattolica caldea, Emmanuel III Delly.
Gli auguri del pontefice sono arrivati attraverso la voce del cardinale Ignazio Daoud Moussa, prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Nel suo messaggio, Giovanni Paolo II ha rinnovato l’unione tra la chiesa caldea e quella romana che, con altee vicende, ha avuto inizio ben 502 anni fa quando dal monastero di Rabban Hormizd, nel nord dell’Iraq, l’abate Yohanna Sulaqa partì alla volta di Roma per ricercare l’unione che la chiesa d’Oriente, cui tutti i cristiani della Mesopotamia appartenevano, aveva perso nel 431 A.D. al Concilio di Efeso, quando era stata accusata di eresia per aver sposato la dottrina di Nestorio.
La nomina di mar («mio signore», in siriaco antico) Emmanuel III, come sarà chiamato dai suoi fedeli, non è stata priva di problemi. Prima di tutto è avvenuta in un momento molto delicato per la storia dell’Iraq; in secondo luogo, per essa si è dovuto fare ricorso al canone 72 del codice di diritto canonico per le chiese orientali, secondo il quale se, durante il sinodo elettivo, nessun candidato raggiunge almeno i 2/3 dei voti, la decisione sul nome del patriarca passa al pontefice romano. Nessun nome infatti era uscito dal sinodo tenutosi a Baghdad (dal 19 agosto al 2 settembre 2003).
La scelta di mar Emmanuel III appare allora il frutto di un’equilibrata politica vaticana tesa a dare alla chiesa cattolica caldea una guida spirituale in grado di sedare le tensioni venutesi a creare dopo la scomparsa (avvenuta a Beirut il 7 luglio 2003) del precedente patriarca, mar Raphael I Bedaweed, tra i vescovi residenti in Iraq e quelli della diaspora caldea, più risoluti a partecipare attivamente alla vita politica del paese.
Mar Delly, inoltre, sembra, almeno per ora, avere un atteggiamento più collaborativo nei riguardi dei nuovi organi di governo iracheni di quanto avrebbe potuto avere il defunto patriarca, distintosi negli anni nella difesa ad oltranza del governo di Saddam, ed essere, di conseguenza, più gradito agli stessi.

Mar Emmanuel III Karim Delly è nato a Telkeif, un villaggio vicino Mosul, nel 1927. Nominato vescovo nel 1963 ed arcivescovo nel 1967, si è ritirato nell’ottobre del 2002. Il 21 dicembre, data della cerimonia di consacrazione svoltasi a Baghdad, ha coinciso con il compimento del suo 53° anno di servizio sacerdotale.
Il giorno dopo la sua nomina romana lo abbiamo raggiunto per una breve intervista dai toni pacati.

Beatitudine (termine con cui ci si rivolge ai patriarchi caldei, ndr), la chiesa caldea, che accoglie circa il 70% dei cristiani iracheni ha di nuovo una guida spirituale. Che riflessi avrà la sua nomina, in un momento così delicato?
«La mia nomina non cambierà le cose perché il cammino della chiesa è immutabile nei secoli e la sua missione rimane quella di essere portatrice di pace e fratellanza come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di pace e serenità perché abbiamo sofferto troppo; le guerre contro i curdi e contro l’Iran, la guerra del Golfo, 13 anni di embargo ed ora questo conflitto non ancora finito hanno stremato la popolazione irachena, ed i cristiani non fanno eccezione.
I problemi sono ancora molti, così come sono molti gli iracheni, specialmente giovani, che vorrebbero abbandonare il paese. Prima volevano farlo per evitare il servizio militare che durava anni ed era durissimo, ora a spingerli sono le difficoltà economiche e quelle legate alla mancanza di sicurezza e lavoro. Purtroppo però è ancora molto difficile per gli iracheni ottenere i visti da paesi stranieri».

Come vede il futuro del paese?
«Nessuno in Iraq, cristiano o musulmano, voleva la guerra, perché la pace non si dà con essa, ma con il dialogo. Noi siamo grati alla Francia ed all’Italia la cui popolazione si è espressa contro la guerra. D’altra parte, colgo l’occasione per porgere le mie più sentite condoglianze alle famiglie dei carabinieri e dei soldati italiani che hanno perso la vita nell’attentato di Nassiriya. E per ringraziare tutti quei bravi ragazzi, italiani e non, che erano lì per servirci e proteggerci, ma purtroppo hanno trovato la morte».

Questi episodi sono atti di terrorismo o di resistenza?
«Bisognerebbe sapere chi li compie, ed io non lo so. Ciò che so è che nessun uomo di fede, che sia cristiano o musulmano, se segue le parole del vangelo o del corano, può compiere tali crimini. La maggior parte degli iracheni, infatti, non vi è coinvolta e non li approva, ma certamente ci sono ancora elementi fedeli al Baath, altri legati ad Al Qaeda e qualche paese straniero che vuole un Iraq instabile».

Qualche nome?
«L’Arabia Saudita, ad esempio, che non gradisce che l’Iraq diventi una democrazia e che le sue ricchezze possano essere, come ci auguriamo, patrimonio non più solo del regime, ma dell’intero popolo. Se così sarà, la famiglia saudita che invece detiene tutte le ricchezze del paese (che in campo petrolifero sono addirittura superiori a quelle irachene) potrebbe soffrire nel paragone con noi».
I tempi per il raggiungimento della pace hanno di gran lunga superato quelli della guerra intesa come confronto tra eserciti. Che speranze ci sono perché essa si realizzi?
«Ci hanno promesso la pace, ma per averla ci vuole pazienza ed io dico “dateci tempo, abbiate pazienza”. Dobbiamo sperare e chiediamo a tutto il mondo, quello cristiano e non, di pregare e di affidare a Dio il destino di questa terra di pace, la terra di Abramo».
Il nuovo corso della politica americana in Iraq vede un’accelerazione del disimpegno Usa nel paese ed un più rapido passaggio di potere agli iracheni. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Certamente le truppe di occupazione dovranno lasciare l’Iraq, ma sarebbe auspicabile che lo facessero gradualmente. Se si comporteranno in maniera appropriata, saranno gli stessi iracheni a chiedere loro di rimanere».
Se ho ben compreso, lei dice che le truppe rimangano pure, ma a ben precise condizioni. Quali?
«A condizione che rivedano da subito i loro comportamenti. Non si possono uccidere 54 persone in un solo giorno accusandoli di essere terroristi, perché non tutti sono terroristi, come non tutti gli iracheni facevano parte del Baath, il partito al potere. Gli americani hanno anche sbagliato a licenziare tutti i funzionari, i soldati ed i poliziotti con l’accusa di complicità con il regime, perché così facendo hanno ridotto sul lastrico intere famiglie lasciate senza alcun reddito. Avrebbero dovuto distinguere tra i criminali da condannare e le persone normali».
Perché questa guerra?
«La guerra all’Iraq è stata fatta per tutti i beni che la terra irachena possiede. Volevano i nostri beni? Bene! Che se li prendano, ma che li usino a favore del popolo iracheno, depredato di essi dal passato regime che li usava per acquistare armi. Che li usino a favore delle popolazioni povere del Medio Oriente e dell’Africa».

Che rapporti ci sono ora tra la comunità cristiana e quella musulmana?
«Ottimi. Da quando sono stato nominato patriarca ho già ricevuto delle telefonate di congratulazioni proprio da alcun capi religiosi musulmani, sunniti e sciiti. Quando toerò in Iraq mi recherò personalmente nelle loro case per ringraziarli e iniziare il dialogo necessario per vivere in pace nel futuro».

Il ministero degli Affari religiosi che regolava ogni aspetto della vita religiosa del paese è stato sciolto. Chi e cosa ne fa le veci?
«Sono state create 3 distinte commissioni: una per i sunniti, una per gli sciiti ed una per i non musulmani che si occuperanno degli affari amministrativi. La presidenza della commissione per i non musulmani è stata affidata ad un cristiano cattolico caldeo».

I decreti che il regime di Saddam Hussein aveva approvato e che discriminavano la popolazione non cristiana sono ancora in vigore?
«Quasi tutti i decreti approvati dal Baath sono stati annullati. Ora possiamo battezzare i nostri bambini con qualsiasi nome: non dobbiamo più scegliere tra quelli biblici ma presenti anche nel corano, e non siamo più obbligati ad usare la loro versione araba.
Per quanto riguarda i figli di un genitore cristiano convertito all’islam, ai quali veniva di fatto imposta la conversione ad esso, è un problema non ancora risolto ma ho fiducia che lo possa essere nel futuro».

Potrete riaprire le scuole confessionali, confiscate e nazionalizzate in passato?
«Sì. Potremmo farlo fin da ora, ma abbiamo deciso di aspettare un po’. Le scuole hanno bisogno di essere rimesse a posto e gli insegnanti devono poter contare su adeguati stipendi. Tutte cose che, per ora, sono al di fuori della nostra portata, ma che sicuramente realizzeremo».

C’è ancora l’obbligo di dichiarare sui documenti di identità la propria appartenenza etnica (arabo o curdo) e la propria religione (musulmano o non musulmano)?
«Anche questo è un problema ancora non risolto. Ciò che io mi auguro è che un domani i nostri documenti possano riportare solo la scritta “iracheno” senza nessuna aggiunta. La religione è solo di Dio e spero che questo sarà ben chiaro nella nuova costituzione».

Che ruolo avrà la chiesa nel processo di pacificazione del paese?
«I capi religiosi iracheni, cristiani e musulmani, hanno il compito di instillare nei propri fedeli la pazienza di sopportare l’attuale situazione. Per quanto riguarda i cristiani il nostro dovere è di seguire le parole di San Paolo che ci hanno insegnato ad obbedire ai nostri superiori. Abbiamo obbedito al passato governo e lo faremo con il prossimo».

Quale sarà il suo coinvolgimento nel futuro politico del suo paese?
«Non bisogna chiedere ad un medico di costruire una casa perché quella casa crollerebbe, né chiedere da un ingegnere di operare un paziente perché quel paziente morirebbe, così non si può chiedere ad un religioso di fare il politico. Il compito dei capi spirituali, sia cristiani che musulmani, è conoscere la politica ma non impegnarsi attivamente in essa. Ciò che possiamo fare è guidare i nostri fedeli, consigliando loro la retta via, secondo i precetti della religione. Ma possiamo, appunto, solo consigliarli, non obbligarli. E sperare che seguano le nostre parole».

È troppo presto per valutare se il desiderio espresso dal nuovo patriarca caldeo di occuparsi delle anime dei suoi fedeli e non di politica potrà avverarsi. Certo dovrà lottare per farlo, se nel collegio romano, che ha ospitato i partecipanti al sinodo, a soli due giorni dalla sua nomina, era presente di persona, armato di volantini propagandistici, Minas Ibrahim al Yusufi, presidente di uno dei tanti partiti nati nel dopo Saddam, l’Iraqi Christian Democratic Party, alla ricerca di visibilità ed appoggi.

Luigia Storti




E l’ultimo spenga la luce

L’uomo è diventato «energivoro», cioè consuma sempre più energia.
Ma l’energia non è né illimitata né gratuita. L’attuale sistema energetico
comporta spreco di risorse naturali, inquinamento e impatti ambientali,
costi economici e sociali. La scorsa estate siamo stati sommersi da fiumi
di parole in occasione di alcuni blackout. Ma non uno dei nostri politici
e presunti esperti che abbia detto l’unica cosa veramente determinante:
«Il nostro stile di vita consuma troppa energia e per questo è insostenibile».
(Prima parte)

Scrive Mario Rigoni Ste in un bellissimo articolo (1) del 29 settembre 2003, all’indomani del tanto discusso blackout italiano: «Questo “buio-fuori” potrebbe far accendere la “luce-dentro”. Chissà se un blackout sarà capace di far riflettere la gente così dipendente dal “progresso”?».
Se non tutti i mali vengono per nuocere, in effetti anche un evento come il blackout può riaccendere la consapevolezza sul proprio stile di vita, sulle caratteristiche di una società completamente dipendente dall’uso di energia, non solo per i bisogni fondamentali, ma anche per tutti i desideri superflui: energia per i trasporti, per le industrie, per il riscaldamento, per l’illuminazione, per il cinema, il teatro e la musica, per computer e televisione, per fare la doccia, ma anche per lo spremiagrumi elettrico, per la scopa elettrica, per lo spazzolino elettrico, per fare la spesa di giorno in un ipermercato con la luce artificiale.
La capacità dell’uomo di utilizzare energia è quasi illimitata: da onnivoro, l’uomo è diventato «energivoro» (2).
Un’occasione per approfondire seriamente la questione energetica si trasforma invece molto spesso in frasi fatte e in preconcetti che presentano di volta in volta aspetti parziali del problema: «bisogna costruire subito nuove centrali», «il futuro è nelle fonti rinnovabili», «bisogna investire nelle energie pulite», «l’Italia è un paese del Terzo Mondo» e via di seguito.
Fare ordine sul tema energetico è estremamente complesso; indirizzare il dibattito esclusivamente sulle fonti di energia pulita può essere limitante e fuorviante, sia per le implicazioni ambientali sia per quelle sociali e di stabilità internazionale. Cosa si nasconde quindi dietro l’utilizzo di energia, dietro il gesto di «inserire la presa nella corrente»?
RINNOVABILE?
L’energia di un corpo (un organismo vivente, un oggetto, un macchinario…) può essere definita come la sua attitudine a compiere lavoro. L’energia può assumere forme diverse: può presentarsi come energia chimica, termica, meccanica, elettrica, elettromagnetica, nucleare.
Le fonti di energia possono essere classificate in vari modi:
• fonti primarie (carbone, petrolio, gas naturale, uranio, radiazione solare, vento, geotermia, idraulica, maree, biomassa): includono sia le materie prime energetiche sia quei fenomeni naturali che rappresentano possibili fonti di energia se opportunamente convertiti nelle forme adatte all’utilizzazione (ad esempio il vento può essere utilizzato per generare energia tramite il movimento delle pale eoliche);
• fonti secondarie (elettricità, idrocarburi, idrogeno, metanolo…): includono quei prodotti e quelle forme di energia che derivano da una trasformazione precedente delle fonti primarie. Ad esempio, l’elettricità è una fonte secondaria perché può derivare da un’opportuna trasformazione del petrolio, del vento, della forza dell’acqua.
Tra le fonti primarie si possono ulteriormente distinguere:
• fonti non rinnovabili, che si sono originate dalla decomposizione di sostanze organiche accumulatesi durante le diverse ere geologiche; esse si trovano in natura in quantità limitata e hanno bisogno di tempi estremamente lunghi per riformarsi: ciò fa sì che rappresentino risorse esauribili: si tratta dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale), ma anche dei combustibili nucleari (uranio, torio…);
• fonti rinnovabili, che traggono origine da fenomeni naturali che stanno alla base della vita del pianeta: la radiazione solare (trasformabile in energia solare), il vento (energia eolica), l’acqua (energia idraulica), il calore della terra (energia geotermica), la biomassa, le maree.

IL DOMINIO
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
Proviamo ora a dare qualche dato significativo sull’energia (3):
• a partire dal 1992, il consumo mondiale di energia ha registrato incrementi significativi e si prevede che fino al 2020 continuerà a crescere ad un tasso del 2% annuo;
• l’incremento maggiore nell’impiego di energia si è verificato nel settore dei trasporti, nel quale il 95% dell’energia che viene consumata deriva dal petrolio. Si prevede che il consumo di energia in questo comparto crescerà ad un tasso dell’1,5% all’anno nelle nazioni industrializzate e del 3,6% nei paesi in via di sviluppo;
• i combustibili fossili rappresentano circa l’80% del totale mondiale dell’energia prodotta e consumata, in calo rispetto all’86% circa registrato nel 1971;
• attualmente, il 20% della domanda mondiale di energia esistente di olio e gas proviene dall’Asia. E, dato ancor più importante, più del 50% della crescita della domanda che viene registrata annualmente proviene da questa regione;
• l’energia nucleare rappresenta il 16% della produzione mondiale di energia elettrica, ma ci sono continue preoccupazioni sulla sua sicurezza e sul suo rapporto costo/efficacia, in particolare per quanto riguarda il materiale di scarto, le scorie radioattive, le spedizioni trans-
frontaliere (cioè da una nazione all’altra), lo smantellamento dei vecchi impianti;
• le modee fonti di energia rinnovabile rappresentano circa il 4,5% del totale dell’energia prodotta.
In Italia (4), negli ultimi 20 anni i consumi energetici dell’industria sono rimasti costanti, mentre si è registrato un notevole aumento nel settore civile e in quello dei trasporti. Attualmente l’utilizzo di energia termica, ossia sottoforma di calore, rappresenta il 54,2% dei consumi totali e il 92% circa di tutti gli usi finali domestici (basti pensare all’utilizzo massiccio di dispositivi elettrici come scaldabagni, stufette, condizionatori, foi e fornelli) e viene soddisfatto tramite il ricorso a fonti non rinnovabili, specialmente gasolio e metano.
L’attuale sistema di produzione dell’energia elettrica avviene quasi totalmente bruciando i combustibili fossili: semplificando, il calore generato dalla combustione (energia termica) viene trasformato in energia meccanica attraverso una turbina, e successivamente in elettricità (energia elettrica) tramite un alternatore elettromagnetico. Questi passaggi fanno sì che solo una quota compresa tra il 35% ed il 55% del calore prodotto (dipende dal tipo di centrale usata) diventi elettricità: la restante parte viene dispersa nell’ambiente.
Il fatto che una forma pregiata di energia, quale l’energia elettrica, venga poi utilizzata per ottenere forme di energia di scarso pregio, quale il calore a bassa e media temperatura (è il caso dello scaldabagno elettrico), è un’assurdità fisica (5) traducibile in spreco di risorse naturali non rinnovabili, inquinamento e costi economici!
HA UN FUTURO
LA CIVILTÀ INDUSTRIALE?
L’allarme lanciato periodicamente per sollecitare l’utilizzo di fonti rinnovabili che sostituiscano il massiccio uso di combustibili fossili si basa spesso sulla scarsità delle risorse non rinnovabili.
Secondo i dati ufficiali delle multinazionali del petrolio, negli ultimi 50 anni le riserve di petrolio e gas naturale sono aumentate, anche se con un rallentamento nell’ultimo periodo: un forte calo della produzione di petrolio si manifesterebbe quindi non prima del 2050.
Secondo alcuni analisti, invece, il petrolio scoperto alla fine degli anni ’80 sarebbe estratto tramite tecnologie avanzate da giacimenti già utilizzati. In questo caso la produzione mondiale di petrolio inizierebbe a diminuire già intorno al 2015 (secondo i pessimisti, 2010), non necessariamente per mancanza della risorsa ma per i costi troppo elevati che richiederebbero le opportune tecnologie. Ovviamente, nel caso l’offerta diminuisse e la domanda crescesse (sia a causa dell’aumento dei consumi pro capite, sia a causa dell’aumento della popolazione mondiale), sarebbero prevedibili gravi conseguenze sui prezzi e sulla stabilità dei mercati.
Fra i numerosi studi, spicca la Teoria di Olduvai (6), proposta da Richard C. Duncan, che ha analizzato i dati di produzione e consumo dell’energia pro capite a livello planetario, dal 1960 (dati storici) al 2060 (previsioni).
Secondo questa teoria, la «civiltà industriale» durerebbe circa 100 anni, presentando alcuni eventi particolari: 1930, inizio della civiltà industriale; 1979, raggiungimento del massimo valore assoluto di produzione del petrolio fino ai nostri giorni; 1999, fine del petrolio a buon mercato; 2000-2001, conflitti in Medio Oriente ed escalation del terrorismo internazionale; 2006, picco di produzione del petrolio; 2012, blackouts elettrici permanenti previsti in tutto il mondo; 2030, produzione pro capite di petrolio uguale a quella del 1930.
Anche se in campo energetico l’Italia è dipendente dall’estero per l’83%, valore praticamente costante dal 1971 ad oggi, lo sforzo nel produrre energia elettrica a partire da fonti rinnovabili risulta esiguo.
Se la Olduvai Theory può sembrare pessimista, in realtà il declino della civiltà industriale potrebbe essere causato da un insieme complesso di concause già in atto: impoverimento delle riserve fossili, sovrappopolazione, danni ambientali, inquinamento, riscaldamento globale, desertificazione, conflitti per l’appropriazione delle risorse.
(Fine prima parte – continua)

Silvia Battaglia




Fare il bene stando allegri

È possibile parlare dello «humour» dell’Allamano? Certamente sì, anche se, confrontandolo con quello del Cottolengo, don Bosco, Cafasso, le differenze si notano. L’Allamano nel parlare (assai meno nello scrivere) risulta più immaginoso e, soprattutto, più aneddotico, sia del Cafasso come degli altri due santi piemontesi. Il suo humour è certamente meno frizzante, più contenuto e sottile, quasi impercettibile, al punto che anche coloro che lo hanno avvicinato o hanno scritto di lui non si sono accorti della sua esistenza; nessuno, per lo meno, lo ha messo in rilievo, come se in una fuga di Bach, nel turbinio delle note, non si avvertisse l’andamento continuo del pedale.
servire in letizia
Anzitutto, i suoi aneddoti sono quasi sempre corti, pratici e immediati. Come quando, trattando della povertà, racconta che «frate Leone vede in visione molti frati che dovevano attraversare un fiume impetuoso; alcuni avevano un fardello sulle spalle e, giunti in mezzo al fiume, la forza della corrente li travolse. Altri, che non avevano nulla, passarono liberamente».
«Mi ricordo di un frate vecchio, prefetto di sacrestia, che non toccava mai con le mani i denari, ma usava una zampa di gatto». «E sì, quando si ha 60 anni, se ne desiderano 70 e poi… 80. Un canonico racconta: “È morto uno di 60 anni e un altro commentò: Non era poi tanto vecchio!”. Ma lui ne aveva 80 e gli altri hanno sorriso».
Ci sono nell’Allamano inviti generici e insistenti alla letizia come nota fondamentale della santità, specie nei missionari e missionarie. In caso contrario, non avrebbe potuto continuare per tutta la vita ad essere «rettore» di un santuario dedicato alla «consolazione». La conferenza del 29 gennaio 1917 inizia: «Siete sempre allegri? Sempre contenti? Bene, bene». «Vedete, se si vuole fare del bene, bisogna stare allegri». «Vedete come è bello essere sempre allegri! Bisogna che quello sia un carattere vostro: Servite Domino in laetitia, ma servite». «Dovete sempre essere allegri, di vera allegria, in modo che tutti vi possano vedere felici. Che possano dire: hanno lasciato tutto, eppure guarda come sono felici. E, poi, perché non essere felici?».
Parlando alle missionarie, diceva: «Non bisogna addormentarsi sulla calzetta»; voleva dire che bisognava fare le cose con piacere, sereni e allegri, «come i bambini che, quando dormono, hanno un’aria così bella e sorridente; non addormentatevi mai col muso; bisogna andare a dormire con pensieri allegri più che si può». «Dovete sempre avere una bell’aria… Andate avanti come vanno tutti i cristiani, alla buona, cioè, serene, allegre, gentili».
Aborriva però lo «spirito buffonesco»: «Ci sono di quelli che mettono sempre in ridicolo… disturba tanto quel parlare sempre figurato». In un’altra, occasione disse in piemontese: «Il mio spirito l’è nen fé ‘l faseul» (il mio spirito e di non fare il fagiolo).
A volte, a dare il tono dei suoi intrattenimenti spirituali era il suo modo d’introdursi. Stupisce che i suoi ascoltatori siano persino giunti a trascrivere queste espressioni: «Bravi! Là, bene! Eccovi come nel Cenacolo»; «Bene, bravi» o le parole conclusive: «Bé, Bé, là!». Oppure, quando rivolgendosi al più giovane dei suoi ascoltatori (poiché le file dei suoi missionari si erano assottigliate a motivo della guerra), dice: «E tu, Michelino, quanti anni hai? Sedici ancora non compiuti… Fortunati tutte e due: Tu sei giovane e io vecchio» e, per questo, esenti dal servizio militare.
Innumerevoli sono poi i casi in cui, con brevi racconti o addirittura con bisticci di parole, riesce a far esplodere delle piccole scintille, come stesse stropicciando due pietre focaie, e un bel fuoco di sorrisi, riuscendo a trasmettere il suo pensiero senza aggrottamenti della fronte: «Ho chiesto ai ragazzi se avevano preso la febbre spagnola; mi rispondono di sì, ma quella italiana, cioè, l’appetito!». La guerra infatti stava imponendo a tutti restrizioni molto gravi.
A riguardo della «pazienza» a motivo della guerra, dice alle missionarie: «Nel Pater noster, noi domandiamo il pane; nell’Ave Maria domandiamo la polenta… Un canonico mi raccontava che una vecchietta dicendo mulieribus intendeva domandare la polenta alla Madonna. Essa non poteva pronunciare bene mulieribus e così trasformava questa parola in melia (meliga-granoturco). Ricordatevi dunque di chiedere al Signore il pane e alla Madonna la polenta (sorride)».
«Quando si fa una novena ai santi, non si ottiene subito la grazia; sembra che la prima volta non sentano; se ne fa una seconda e il santo incomincia a sentire, se ne fa una terza e il santo apre e ci ottiene la grazia». Invita alla santità di fatto e non soltanto di parole: «Sapete quell’uccellaccio che grida cras, cras (che in latino significa «domani»)… e mai hodie (oggi)».
Nel 1913, raccontò che padre Barlassina, nuovo prefetto apostolico del Kaffa, era stato ricevuto in udienza da Pio x. Parlarono di tante cose, riferisce l’Allamano, «perfino di quegli animali di cui non vogliamo fare il nome, ma dei quali, disse Pio x, si fa un buon prosciutto».
«Anche i nostri cari, cioè i missionari, sotto le armi o in Africa sono tuttavia sempre dell’Istituto, sono sempre uniti a noi… sono sempre attaccati all’albero… Ebbene se vi venisse rivolta questa domanda: o chi sei tu? Sono uno studente della Consolata! – Questo sì! Ma sei un vero aspirante alle missioni? Sei sempre qui, ma qui ci sono anche i gatti, che abitano qui nell’istituto».
Un giorno di luglio, di ritorno da Sant’ Ignazio, dove si era svolto il solito corso di esercizi spirituali, predicati da un gesuita, racconta ai missionari che il predicatore, parlando di come dal noviziato di Chieri erano usciti tre suoi compagni, «fu preso dalla malinconia per timore di dover uscire anche lui e fare la bella figura del gesuita sgesuitato».
Sconcertante è il seguente caso. «Una persona una volta mi domanda se gli permettevo di piangere almeno per un’ora, puramente per sfogo, così… Ma come?! Senza nessun motivo, piangere puramente per sfogo, che stupidaggine!».
Al vescovo di Ivrea, mons. Matteo Filipello, suo compaesano e discepolo, che non permetteva a un suo sacerdote, don Luigi Santa, di entrare nell’istituto, l’Allamano dice: «Tu non solo non puoi trattenerlo, ma devi lasciarlo andare! Se mai, dagli la benedizione con la sinistra».
Racconta padre Ugo Viglino: «In un giorno dell’ottobre del 1924, la nostra piccola classe di otto alunni del ginnasio si recò tutta insieme a trovarlo al Convitto… Gioviale, tanto felice di essere con noi. A un certo punto, rivolgendosi a Pessina, mio vicino: “Di che paese sei?”. “Di Mondovì”. “Cui d’ Mondvì i ciamo i babi cheucc” (Quelli di Mondovì li chiamano i rospi cotti)».
a scuola della vita
Si può dire che la sua semplicità aneddotica e immaginazione non avessero limiti. Si potrebbe comporre un’antologia assai ampia. Il giorno dei morti del 1906, invita a pregare, come faceva ogni anno nella stessa circostanza, per i defunti. Poi, si lascia prendere dalla fantasia: «Quelle tante anime da noi liberate dal purgatorio figuratevi se stanno quiete, quando ci vedono a nostra volta in purgatorio! Andranno da nostro Signore e, per non disturbarlo, dalla Madonna o da san Giuseppe, e ci caveranno presto. Il Signore non può lasciarle agitate, deve quietarle e come fare in altro modo?». Alla fine della conferenza fa distribuire delle castagne, soggiungendo: «Ad ogni castagna che prendete ponete l’intenzione di trarre un’anima dal purgatorio». La frase, annota chi trascrisse la conferenza, suscitò «sorrisi universali».
Ci troviamo, naturalmente, fuori degli schemi rigidi della teologia sui novissimi. Così, un altro apologo di teologia spicciola riguarda la devozione mariana: «Sapete quel fatto della Madonna che faceva entrare le anime in paradiso per un’altra strada… ma non lo voglio raccontare». Lo racconta qualche mese dopo: «E sapete quella storia che si racconta che la Madonna fa entrare in paradiso per la finestra quelli che non passerebbero per la porta. Si racconta che un giorno san Pietro, girando per il paradiso, vede delle brutte facce, che lui certamente non aveva lasciato passare per la porta. Va da nostro Signore e gli dice: “Ma non so! C’è certa gente in paradiso che non so da dove sia passata… Hai dato le chiavi solo a me, le ho solo io, non so da dove passino; poi ho capito che è la Madonna, tua madre; sono stato a vedere bene e ho visto che è proprio lei che le tira su dalla finestra; purché abbiano una medaglia o uno scapolare, e poi essa li tira su! Questo qui non va!”. E allora nostro Signore dice a Pietro: “Ma! Cosa vuoi farci… mia madre è madre! Lasciala un po’ fare!”».
«Là in seminario c’era un campanello e c’è ancora adesso, mi pare, che veniva suonato solo quando veniva l’arcivescovo di Torino a trovarci, così tutti restavano avvisati e si lasciava tutto e si veniva fuori a riceverlo. Un giorno venne una vecchia di montagna, tutta vestita alla moda antica, con in testa certe cose lunghe come si costumava allora, era di Balme… Ebbene costei arriva in seminario e, invece di tirare l’altro campanello, tira quello dell’arcivescovo. Allora noi che eravamo a scuola, siamo venuti tutti fuori in fretta; e poi, invece del vescovo, c’era quella vecchierella; e tanto più che aveva visto che l’uscio era aperto ed è venuta dentro. Ebbene, un chierico mi ha fatto impressione: le è subito corso incontro, l’ha presa per il braccio e ha detto: “È mia mamma!”. Fossimo stati noi, neh?! Avremmo subito detto: “E perché sei venuta adesso? Perché hai tirato quel campanello la!”. Avremmo voluto nasconderla subito, che nessuno la vedesse, vestita com’era. Invece quel chierico, niente: “È mia madre”. E l’ha salutata tutto grazioso, come si deve fare».
Altri aneddoti piacevoli li desume dall’esperienza di tutti i giorni, a contatto con le persone di ogni ambiente sociale, dal confessionale, dalla predicazione. «Non facciamo come quel tale della predica sull’avarizia. Quando il parroco iniziò la predica disse: “Oh! Questo non fa per me!”; si coprì ben bene e cominciò a dormire; e tutta la gente a pensare: “Questa volta la predica fa proprio per lui”».
Anche la gola può fare dei brutti scherzi. «Ho tardato, perché mi sono fermato a raccontare ai giovani la storia della capra. È venuta nella sacrestia della Consolata una ragazzina e piangeva, diceva che le era morta la capra della nonna, perché aveva mangiato una rista d’ai (treccia d’aglio). È gonfiata e poi è morta. E un bel giorno videro che non c’era più l’aglio, ed è morta crepata. Vedete la gola».
Svariatissimi poi i toni dello humour a riguardo del comportamento esteriore e interiore, ch’egli suggeriva ai missionari: «A me piace molto quel pensiero di san Francesco di Sales quando dice: “Entriamo in un palazzo antico; per lo scalone, nelle sale vi sono delle statue, che magari da cent’anni sono sempre lì, non si sono mai mosse; direte dunque che sono inutili? No! Danno gloria al loro padrone. Ora, immaginate che uno voglia gettarle giù. No! – gli si dirà – fanno figura, danno gloria al loro padrone. In chiesa facciamo come quelle statue, diamo gloria a Dio con la nostra presenza”». Tuttavia, quella presenza «come statue» all’Allamano non piaceva molto. Infatti, in un’altra occasione dice: «Oh, come è brutto in una comunità essere come tante statue, dove ognuna sta al suo posto senza toccare le altre»!
con fortezza e dolcezza
È noto come all’Allamano, a causa di certi inconvenienti verificatisi in Africa per modi troppo violenti nei riguardi della gente, abbia fatto della mansuetudine uno dei pilastri fondamentali della sua metodologia missionaria. Deve però trattarsi di vera mansuetudine: «C’era in seminario un chierico che pareva proprio calmo; di quelli che non si muovono, che fanno due passi in una pianella. Un giorno, che passava con un vassoio d’acqua in mano e un altro chierico, lo toccò, egli, voltatosi verso il compagno, gli gettò addosso il vassoio d’acqua. Vedete, anche quelli che sembrano più calmi…».
Così a riguardo della buona educazione. «Mons. Bertagna aveva l’abitudine di tenere le mani in tasca; e così di fermarsi davanti alle vetrine; credo che studiasse un caso di morale; eppure era lì fermo a vedere il cacio».
Neppure è bene tenere le braccia dietro la schiena. «Nei paesi chiedono se uno ha del grano da vendere… e dicono anche un’altra cosa: sapete quello che domandano? Ha la figlia da maritare?».
Come superiore di un istituto femminile, dovette scuotere una suora che «faceva niente ed era sempre a letto», credendosi ammalata; le impose di scendere in refettorio insieme alle altre… ed è guarita. «Essa dice che è un miracolo della Madonna di Pompei… Era un capriccio! In quella comunità si preparavano sei tipi di minestra».
Era venuto a conoscenza che qualche suo missionario in Africa si era ammalato per aver mangiato qualche banana in più o per aver bevuto acqua inquinata «con pericolo di partire per l’eternità»: sarebbe un partire poco glorioso, «da folli», e porta l’esempio della capra.
Nonostante questo costante humour (da pochi avvertito) e tranquillità di spirito, qualche spiffero d’aria fredda non manca neppure in lui, poiché anch’egli ritiene che il vangelo e la santità siano esigenti; per temperamento, poi, era amante dell’ordine, della pulizia, delle cerimonie liturgiche eseguite a puntino. Il che lo può far apparire in qualche caso alquanto «pignolo». Così, ad esempio, quando porta a modello san Francesco Saverio che, passando presso il castello natio, rinuncia a visitare la vecchia madre e i fratelli, dicendo: «Li rivedrò in paradiso».
Sono però, queste e altre piccole cose marginali, che vanno viste in un contesto più ampio. Con lui a Torino ebbe infatti termine il rigorismo morale e ascetico, che aveva imperversato per molti anni. Così come va tenuto presente che, nel suo metodo educativo, il fortiter (fortemente) è sempre abbinato al suaviter (dolcemente).

Igino Tubaldo




Brasile, indios Yanomami: nos existimos!

Uniti per la vita,
contro la violenza
e l’impunità.

Il manifesto della campagna internazionale
degli indigeni, dei contadini
e degli emarginati della città
(Roraima – Brasile).

N oi popoli indigeni, piccoli agricoltori e lavoratori emarginati della città, per la prima volta ci uniamo nella solidarietà per formare l’alleanza degli oppressi nello stato di Roraima (Brasile).
Insieme vogliamo affrontare l’esclusione sociale cui siamo sottomessi, quale conseguenza di progetti politici che favoriscono latifondi, monocolture e aggressioni all’ambiente, che occultano trame di corruzione e che negano i nostri diritti di cittadini.
Noi, popoli indigeni brasiliani di Roraima, subiamo aggressioni fisiche, psicologiche e culturali. Viviamo sotto la minaccia costante di essere invasi da latifondisti, risicoltori, garimpeiros (cercatori d’oro), industriali del legname e delle miniere (nazionali e multinazionali): sono questi i maggiori responsabili della distruzione dell’ambiente e della nostra sopravvivenza.
Inoltre si costruiscono caserme (Uiramutã, Surucucús e Auarís) vicino ai nostri villaggi; le donne sono vittime di abusi sessuali e gli amici assassinati; ci è negato il diritto alla terra, contemplato dalla Costituzione federale, soprattutto nell’area Raposa Serra do Sol. La classe politica locale e i mezzi di informazione fomentano razzismo e discriminazione, seminano odio contro di noi e ci accusano di interferire nello sviluppo dello stato.

N oi, piccoli agricoltori, siamo stati attirati in Roraima dalla promessa di possibilità economiche, di terre fertili, di sostegni alla produzione agricola. Oggi sappiamo di essere stati ingannati e usati dai politici locali per i loro interessi.
Siamo abbandonati nei nostri campi senza titoli di proprietà della terra che lavoriamo, senza strade, senza scuole, senza strutture sanitarie. In tale situazione, spesso, i nostri parenti si vedono costretti ad emigrare in città, alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Mentre l’abbandono si aggrava e generalizza, il governo statale favorisce i latifondisti, e precisamente: sette grandi risicoltori, un gruppo svizzero-canadese (coltiva acacia mangium) e la multinazionale Mitsubishi (intende piantare soia nella savana). Tali monocolture causano gravi danni ambientali.

N oi, lavoratori emarginati della città, siamo veramente tali. Abbiamo dovuto abbandonare i campi, i garimpos (siti minerari all’aperto) e le malocas (villaggi indigeni) per venire a vivere in città.
Oggi subiamo ogni violenza della polizia (compresa quella sessuale sulle nostre donne), risultato dell’impunità e dello squilibrio sociale causato dallo sviluppo disordinato nelle città, dalla disoccupazione, dalla fame e mancanza di opportunità.
Non esiste una politica per gli emigrati in città.
Molti hanno paura di parlare, di denunciare, perché qui trova lavoro solo chi sta zitto o si umilia davanti ai politici. Stiamo ancora aspettando la restituzione dei fondi pubblici, sottratti illegalmente da politici corrotti, come nel caso della Lista dos Gafanhotos (pagamento di salari a funzionari pubblici fantomatici per fini elettorali).
Il fatto è stato denunciato pure dalla stampa nazionale.

N oi esistiamo, resistiamo e lottiamo per i nostri diritti. L’unione di indigeni, agricoltori e lavoratori urbani emarginati è un segno di grandi cambiamenti.
Chiediamo a voi, amici ed alleati in Europa, di partecipare alla campagna «Noi esistiamo». Tutti insieme costituiamo una vasta mobilitazione locale, nazionale e internazionale a favore della popolazione di Roraima.
Vi chiediamo di sottoscrivere
le seguenti rivendicazioni:
• Regolarizzazione fondiaria e concessione dei titoli di proprietà delle terre urbane e rurali di Roraima, rilasciando la documentazione anche alle donne lavoratrici.
• Approvazione del nuovo Statuto dei popoli indigeni, da 10 anni bloccato nel Congresso Nazionale di Brasilia, e regolamentazione della presenza dei militari nelle terre indigene di frontiera.
• Riconoscimento legale di tutte le terre indigene e protezione delle terre già demarcate, come esige la Costituzione federale, impedendo la deforestazione, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario (a scapito dei diritti costituzionali indigeni) e le altre forme di aggressione all’ambiente e ai popoli indigeni.
• Immediata omologazione, come area continua, della terra indigena Raposa Serra do Sol e allontanamento degli invasori.
• Incentivi economici prioritari all’agricoltura familiare, con investimenti in infrastrutture basilari nelle zone rurali, e «stop» agli incentivi fiscali ai latifondisti: risicoltori e piantatori di acacia mangium o soia.
• Creazione di posti di lavoro per i lavoratori urbani e «stop» agli incentivi fiscali e all’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista, dato l’altissimo costo sociale e ambientale.
• Combattere la violenza, l’impunità e la corruzione a tutti i livelli, con indagini e pene comminate agli implicati (a cominciare, per esempio, dalla Lista dos Gafanhotos) e la restituzione dei fondi sviati.
• Regolamentazione della presenza militare nelle aree indigene di frontiera.
I promotori di Nós existimos
– Diocesi di Roraima
– Missionari e missionarie della Consolata / Brasile
– Centri di difesa dei diritti umani / Roraima
– Pastorale urbana / Roraima
– Pastorale indigenista / Roraima
– Consiglio indigenista missionario (Cimi) / Brasile
– Consiglio indigenista di Roraima (Cir)
– Commissione pastorale della terra / Roraima
– Centrale unica dei lavoratori / Roraima (Cut)
1. Sottoscrivendo questo testo ed inviandolo per posta ad uno dei seguenti recapiti:

n Missioni Consolata (signora Gloriana)
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino
n Co.Ro. (Comitato Roraima) presso Barone
Via Tolmino 67 – 10141 Torino
n Movimondo (Vincenzo Pira)
Via di Vigna Fabbri 39 – 00179 Roma
2. Collegandosi al sito www.giemmegi.org/nos1.htm
(adesione via informatica). Da questo sito è possibile scaricare dei moduli che, sottoscritti, potranno essere spediti per posta ad uno dei suddetti recapiti.
3. Partecipando ai progetti di solidarietà della campagna con offerte di denaro. Si può servirsi del conto corrente postale numero 33.40.51.35,
intestato a Missioni Consolata Onlus,
Corso Ferrucci 14 – 10138 Torino.
Specificare la causale del versamento
con «Nós existimos».

aa.vv.




Perché camminare non basta

L’intervistato è il cornordinatore
della campagna «Nós existimos» a Roraima,
il quale fa il punto della situazione.
Si sofferma sugli incontri fra indios, agricoltori
ed emarginati della città:
a Maturuca, Apiaú, Boa Vista e Rorainopolis.
La volontà di non demordere di fronte a potenti
e prepotenti si accompagna alla speranza
nella solidarietà degli amici italiani,
che appoggiano la campagna.

Da Rorainopolis quattro proposte

Signor Vasconcelos, ci descriva l’ultimo incontro fra indios e non-indios avvenuto nella cittadina di Rorainopolis nel settembre scorso.

All’incontro, nel sud dello stato di Roraima, hanno partecipato 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori emarginati delle città. Sono stati accolti dalla comunità locale, da famiglie che li hanno ospitati e si sono dimostrate interessate.
L’incontro ha affrontato la necessità di formulare una proposta che unisse indios, agricoltori e lavoratori emarginati delle città alla ricerca di una maggiore dignità fra loro. In tale senso, tutti gli incontri di «interscambio» che si realizzano sono molto interessanti. Sono incontri di solidarietà, cui partecipano le tre componenti dello stato di Roraima, e fanno parte della strategia della campagna Nós Existimos.
Noi non vogliamo che la diocesi di Roraima ci presenti qualcosa di già preconfezionato, ma, a partire dal dialogo e dall’ascolto reciproco, vogliamo raggiungere una convivenza armoniosa tra indios, lavoratori rurali ed emarginati delle città, e costruire quindi nuove strategie e alternative di lotta.

Cosa si è detto a Rorainopolis delle situazioni «non normali»?

I precedenti tre incontri, nel primo semestre del 2003, sono stati di pura conoscenza; nell’ultimo invece, di Rorainopolis, abbiamo cercato di essere dinamici e concreti. La campagna si propone di interagire meglio fra i tre gruppi e di offrire prospettive alternative.
Rorainopolis è un caso lampante di disattenzione dello stato verso la popolazione. Vi sono opere pubbliche incompiute, che sono già costate al governo federale 1.330.000 euro. E noi le abbiamo esaminate.

Può portare qualche esempio?

Il sistema fognario non è finito: si sono già spesi circa 660.000 euro, e tuttora mancano gli allacciamenti alle abitazioni. La stessa cosa è successa ad un ospedale: le installazioni sono costate 330.000 euro, ma l’opera non funziona e per mancanza di personale e perché è stata costruita in forma inadeguata: non si può neppure installare una apparecchiatura per raggi X o altri strumenti.
Un’altra opera incompiuta è la casa per la produzione di farina di manioca, realizzata con l’intervento di un deputato. Inaugurata oltre due anni fa, non funziona, perché nessuno si è preoccupato di produrre la manioca con cui ottenere la farina. Si è costruita una casa abbastanza esuberante, ma non è utilizzabile.
Poi abbiamo visitato un mercato comunitario (anch’esso non terminato, che non risponde alle aspettative della comunità), un campo sportivo, una palestra all’aperto costata 33.000 euro, di cui esiste solamente la struttura metallica… In totale abbiamo visto sette opere che non rispondono agli obiettivi per i quali erano stati stanziati i soldi.
L’esperienza di visitare opere pubbliche (e quindi di interagire con la realtà locale) è stata molto elogiata. Le persone si rendono conto che non possono più accettare una situazione imposta, ma debbono cercare nuove strade, che richiedono riflessione e dibattito.

È vero che qualcuno voleva impedirvi di fotografare le opere visitate?
È vero. Un giovane wapichana stava filmando le fognature non finite ed è stato fermato dalla polizia. Poi è arrivato il gruppo dei partecipanti all’incontro (60 persone), e la polizia non ha più potuto impedire le riprese.
Io, come giornalista, non ero lì, perché impegnato in una riunione con la Cut (Centrale unica dei lavoratori). Mi trovavo con 11 sindacalisti, che hanno un’esperienza maggiore dei contadini sul come affrontare la polizia. Quando sono arrivato, ho cercato di forzare un po’ la situazione. Gli indios hanno commentato l’episodio dicendo che, se fossero stati in territorio indigeno, avrebbero sequestrato i poliziotti; però, essendo in territorio bianco, hanno rispettato l’azione dei leader bianchi.
Questa dichiarazione è bella: dimostra che, se i bianchi avessero deciso di affrontare la polizia, gli indios si sarebbero schierati dalla loro parte. Un’esperienza molto interessante.

Quali sono stati i tratti salienti dell’incontro di Rorainopolis?
Oltre alla visita delle opere pubbliche non finite, importante è stato stabilire rapporti di solidarietà con la popolazione.
Nell’incontro di Maturuca si è creata una forte solidarietà tra agricoltori e indios, perché le lotte sono simili: per esempio la lotta per il diritto alla terra. Con gli emarginati urbani i rapporti sono diversi, perché la città ha una realtà più complessa, e le lotte vertono soprattutto sulla ricerca di un impiego e contro la corruzione. L’incontro in area Apiaú ha segnato la vita di quella comunità. Il terzo incontro, a Boa Vista, è terminato con una marcia per le strade contro la corruzione.
Nel quarto incontro, a Rorainopolis, abbiamo fatto un’altra marcia; e, poiché la città è più piccola, ha avuto un impatto maggiore rispetto a Boa Vista. Molte persone si sono aggregate, sebbene non avessero partecipato agli incontri anteriori. Abbiamo dimostrato che la gente non è soddisfatta.
È stata una marcia contro la corruzione, ma anche a favore degli indios della Raposa Serra do Sol, dell’agricoltura familiare, degli incentivi agricoli, della creazione di nuovi impieghi. Siamo passati, marciando, davanti alle opere incompiute, ed è stato un momento di formazione per la popolazione locale. Si è proposta l’analisi della realtà. Questo non è ben visto da chi ha il potere.
Dopo la marcia, l’incontro è continuato. È stata importante la discussione per trovare proposte concrete di azione.

Quali sono state le proposte emerse?
Le proposte possono essere divise in quattro aree.
1. Necessità di informazione.
Nelle zone rurali arriva solo la radio del governo, internet non esiste, non c’è tivù (esiste solo in città). Si avverte l’urgenza di scambiare informazioni che portino ad una conoscenza migliore. Se indios, agricoltori e lavoratori delle città non si sono uniti prima, ciò è dovuto in parte alla non conoscenza delle problematiche di ciascuno. Esiste fra loro contrapposizione, favorita dal governo locale, che gli incontri si propongono di ridurre. Al riguardo, è importante fare un giornale popolare.
2. Formazione e interazione.
Gli enti che hanno lanciato la campagna Nós existimos offrono già una formazione ai loro dirigenti. I leader indigeni si incontrano sovente; gli agricoltori, attraverso la Cut la Pastorale della terra, realizzano diversi programmi; in città la Cut ha un costante processo di formazione. Però manca l’interazione tra queste realtà: ecco ciò che proponiamo. La formazione di ogni settore è importante, così pure la socializzazione. Noi non proponiamo programmi alternativi, ma all’interno di quelli già esistenti consigliamo una metodologia, affinché ogni gruppo non discuta solo di se stesso, ma interagisca con tutti. Questo è il lavoro che stiamo iniziando. Per ora sono coinvolte 60 persone. Noi vogliamo interagire con tutti quelli che già si occupano di indios, agricoltori, emarginati delle città. Con le strutture già esistenti, possiamo coinvolgere circa 3 mila persone.
3. Una banca di solidarietà.
Si tratta di organizzare un’agenzia finanziaria che sostenga, a partire dai fondi (limitati) esistenti, iniziative nel campo della produzione economica. L’idea è nuova, audace e rivoluzionaria. L’obiettivo ha bisogno di studio; il dibattito è incentrato sul come liberare le persone dalle strutture di potere da cui dipendono, dalle false promesse elettorali.
4. Commercializzazione dei prodotti.
L’efficacia di Nós existimos passa, anche, per l’autonomia economica. Esistono oggi in Brasile i mediatori, che speculano e guadagnano su ciò che noi produciamo. La ricerca di un commercio di giustizia è affascinante. Bisogna fare in modo che indios e agricoltori possano commercializzare tra loro i prodotti, perché l’indio non deve comprare riso dal latifondista (che ha invaso le sue terre) e l’agricoltore non può smettere di coltivare riso o fagioli solo perché i latifondisti già lo fanno. Occorre generare una domanda che rompa la struttura di monopolio, che soffoca la popolazione. Bisogna costruire un interscambio tale che tutti possano guadagnare.
I politici corrotti approfittano della situazione: ad esempio, nel settore dei trasporti, dove i contadini sono alla mercé dei politici; se gli agricoltori non sono d’accordo con loro, non hanno la possibilità di commercializzare i prodotti, perché viene loro negato il trasporto.
L’idea è di creare una commercializzazione giusta dei prodotti, per arrivare all’autonomia economica e politica. Si possono organizzare delle cornoperative che trasportino direttamente le merci in città.

Questi obiettivi, dall’inizio della campagna ad oggi, sono cresciuti? Esiste maggiore presa di coscienza?
Un agricoltore, leader sindacale, durante l’ultimo incontro ha detto: «Dobbiamo essere prudenti, perché il nostro progetto è audace, e non dobbiamo commettere sbagli nell’esecuzione. Il governo locale, sebbene corrotto, può attaccarci con i suoi avvocati, perché rompere la dipendenza economico-politica e costruire una sinergia tra indios, agricoltori ed emarginati delle città significa cambiare la storia di Roraima». Questo intervento è stato appoggiato da tutti.
Noi abbiamo la coscienza che la campagna destruttura il potere locale. Esiste la consapevolezza della necessità di costruire una proposta economico-politica alternativa, ma non possiamo risolvere la situazione da un momento all’altro.

Altre osservazioni sull’incontro di Rorainopolis?
Rorainopolis è una città costruita senza alcun progetto; più del 90% della gente è immigrata o di famiglie immigrate: lavora, è onesta, lotta. Ma è senza protezione. Vive in una condizione di miseria e sfruttamento estremo; proviene già dalla povertà del nord-est brasiliano, alla ricerca di una terra promessa, perché qui c’è acqua e terra fertile. È uscita da una vita di fame e siccità, e oggi incomincia a capire che vuol dire essere cittadini. Non si accontenta più delle «briciole» dei politici. Con un po’ di organizzazione, sta prendendo coscienza dei propri diritti.
Gli incontri ad Apiaú, maturuca e Boa Vista
Parliamo anche degli altri incontri, come quello dell’Apiaú (aprile 2003).
Nel 1999 alcuni agricoltori dell’Apiaú parteciparono ad un incontro di animatori pastorali a São Luis de Anauá. Uno di loro, nel 1953, abitava dove esisteva una maloca indigena. Lo feci notare. Egli mi aggredì: «È tutto falso. Non ci sono mai stati indios in quest’area». Risposi: «Vuoi che ti mostri centinaia di fotografie che attestano il contrario?». Rispose urlando: «Voi, preti, siete solidali solo con gli indios…».
L’incontro dell’Apiaú ha fatto capire che cosa si può fare in futuro. La proposta di incontrarci a Rorainopolis è venuta proprio dall’Apiaú. Qui prevale il mondo agricolo; non è molto diverso dagli altri mondi, ma ha la sua peculiarità. Apiaú è più vicina a Boa Vista, ha avuto un processo di colonizzazione recente, una organizzazione più forte dei lavoratori. Apiaú è vicina agli indios yanomami (con terre strappate a loro), c’è più consapevolezza di abitare vicino ad un’area indigena.
Nell’Apiaù si sfrutta il legname, ma, diversamente da Rorainopolis, non ci sono segherie. Rorainopolis è esplosa demograficamente negli ultimi 6-7 anni, da quando è divenuta municipio. È città piccola, ma con un grande caos sociale: droga, avventurieri, violenza, assassini, prostituzione femminile e infantile…
L’incontro di Rorainopolis, rispetto a quello dell’Apiaú, è stato più intenso. Il confronto con la realtà è stato maggiore. Abbiamo capito come l’organizzazione popolare possa cambiare i cammini della storia.

E in area indigena? Cosa c’è stato di importante nell’incontro di Maturuca di marzo-aprile?
L’incontro di Maturuca è stato il primo, ed è emersa la novità di Nós existimos. La sorpresa di capire, da parte degli indios, di avere degli alleati. I popoli indigeni, nel corso di questi anni, pensavano che i loro alleati fossero solo fuori dello stato di Roraima: cittadini stranieri e organizzazioni in difesa dei diritti umani. Gli indios hanno sempre considerato il popolo di Roraima anti-indigeno. A Maturuca gli indios hanno anche chiesto scusa per avere parlato male dei bianchi.
Gli indios hanno un grande rispetto per la chiesa, ma anche per la Cut. Si sono interessati per capire che cos’è il sindacato, la Commissione pastorale della terra, il Centro di difesa dei diritti umani e le altre organizzazioni della campagna. Paolo, leader degli agricoltori, dopo l’incontro di Maturuca, ha detto: «Ho la consapevolezza che esiste un movimento bene organizzato in Roraima. È il movimento indigeno, che ha tanto da insegnare ai non indios». E gli indios hanno risposto che hanno molto da imparare dai bianchi.

Nell’incontro di Boa Vista (1-2 maggio), con i lavoratori urbani, quali novità sono emerse?
C’erano 124 persone, mentre se ne aspettavano 60. Il tema principale è stato la corruzione nel pubblico impiego. Il problema grosso per i lavoratori urbani è il lavoro, per gli indios la terra e per gli agricoltori ancora la terra con una agricoltura familiare sostenibile.
Si è discusso dell’installazione di una fabbrica di cellulosa a Boa Vista e sul suo impatto ambientale. Una fabbrica che, secondo dati governativi, dovrebbe generare 634 posti di lavoro che lo stato presenta come la salvezza di Roraima. Ma la fabbrica causa un grande inquinamento; 634 posti di lavoro sono insignificanti, ma il governo li presenta come il toccasana e offre incentivi fiscali per favorire l’azienda. Noi consumatori pagheremo l’impatto ambientale, ma anche il costo in dollari dell’energia importata dal Venezuela, necessaria alla fabbrica. Una fabbrica, proprietà di un gruppo svizzero-canadese, che produrrà cellulosa su 150.000 ettari di acacia mangium. Ecco l’impatto ambientale disastroso.
Si è discusso pure del governatore di Roraima che ha aderito al Partito dei lavoratori. Il governatore, su cui pesano denunce di corruzione, è stato invitato ad entrare nel partito del presidente Lula, quando tutti sanno che Lula appoggia il movimento sociale della sinistra. È un problema inquietante.
la campagna diventa «movimento»
Parliamo della Cut, delle caratteristiche e prospettive di questo grande sindacato.
La Cut è entrata subito in Nós existimos. Quando abbiamo lanciato la campagna nel Forum mondiale sociale di Porto Alegre, per esempio, l’abbiamo fatto nella sede dei sindacalisti della Cut.
C’è stata una reazione violenta del governo di Roraima contro la Cut, la quale voleva realizzare il proprio congresso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. C’è stata la reazione dura di alcuni leader della Cut, legati al governo di Roraima, i quali sono intervenuti contro la realizzazione del congresso.

Chi sono questi sindacalisti della Cut legati al governo?
C’è il sindacato della scuola, dei lavoratori rurali e alcuni segmenti del sindacalismo pubblico; c’è un deputato del Partito dei lavoratori di Roraima, che ha subìto l’influsso del governo locale ed è intervenuto perché la Cut abbandoni la campagna. L’opposizione dura del governo è avvenuta allorché la Cut ha deciso di riunirsi in area indigena, invitando persino alcuni indios.

Non è rivoluzionario ciò che è successo?
La partecipazione della Cut è fondamentale per la campagna, perché è un’istituzione molto rappresentativa. La Cut di Roraima è molto giovane e piccola; però la sua alleanza con il mondo indigeno è molto importante; se si alleasse con il governo di Roraima, sarebbe un disastro per tutti noi. È necessaria una proposta politica che coinvolga la Cut, il cui gruppo dirigente è ottimo. Ma ha bisogno di autonomia.
È un processo nuovo anche per i sindacalisti, che prima non conoscevano gli indios; la campagna permette l’integrazione tra sindacato e indigeni. La direzione della Cut, per tutto il 2004, non si lascerà comprare e farà gli interessi dei lavoratori. Crediamo che questa Cut sarà solidale con tutti.

Dagli incontri è emersa anche un’«azione estea» al Brasile, che potrebbe avere una finalità economica ricercando aiuti all’estero. Come giudica, per la campagna, l’aiuto finanziario esterno?
Gli amici stranieri sono preoccupati non solo per la nostra situazione economica, ma sono anche coinvolti nelle loro realtà con azioni politiche. Dobbiamo interagire di più con chi appoggia la campagna. Siamo giunti alla proposta di incontrare, qui a Roraima, i nostri alleati per chiarire cosa noi possiamo loro offrire e cosa essi possono darci. Siamo coscienti del lavoro che ci aspetta, a partire dagli scambi culturali e politici tra le varie entità della campagna.
È importante chiarire che noi siamo un piccolo gruppo di persone. C’è una sola persona che lavora a tempo pieno nella campagna. Io ne sono il cornordinatore, ma lavoro anche come giornalista nel Consiglio indigeno di Roraima. È difficile avere altri professionisti.
Ho incontrato una ragazza, di origine palestinese; le ho proposto di lavorare con noi, visto che sta finendo il corso universitario di giornalismo. Si è detta interessata, ma due giorni dopo ha dichiarato che non è possibile. Sicuramente c’è stata la pressione dei genitori, perché qui è pericoloso lavorare con gli indios e nella campagna.

Non pensa che il progetto economico, come l’avete elaborato, vi costringa a impegnarvi oltre le vostre possibilità?
Il progetto economico è nato dopo molta riflessione. Siamo in difficoltà per mancanza di professionisti (avvocati, giornalisti) che assumano il lavoro. Se li inviate dall’Italia, noi li accettiamo!

Senza professionisti, la campagna è ancora possibile a Roraima?
Mah, potrebbe esserlo! Noi facciamo tutto il possibile, ma siamo al limite. Stiamo affrontando necessità estreme. La speranza è di trovare persone che programmino, proprio per uscire dalla logica dell’urgenza. Noi non siamo il potere politico, però abbiamo quello della giustizia, della verità, della conoscenza, della lotta. Affrontare il potere politico è difficile, ma è anche entusiasmante.
Però, senza un’équipe di lavoro, ci sarà un momento di stallo. Allora diremo: l’idea è buona, ma non possiamo realizzarla.

Intanto però lavorate nella campagna.
Gli indios lottano per l’affermazione dei loro diritti, così gli agricoltori e gli emarginati delle città.
Noi, della campagna, nelle quattro domeniche di ottobre, abbiamo organizzato marce di protesta contro l’impunità e la corruzione, contro la centrale idroelettrica di Cotingo, perché in area indigena. Il nostro lavoro ha creato così numerose aspettative; a tal punto che, invece di una campagna, dovremmo parlare di un movimento permanente «Nós existimos». Come fare?
Le proposte che abbiamo presentato hanno ottenuto molti consensi; siamo stati invitati, per esempio, ad una conferenza sull’ambiente organizzata dall’università. Siamo invitati a numerose iniziative promosse a Roraima dal governo federale; però non sempre abbiamo la possibilità di presenza.
Ciò vuol dire che, invece di organizzare la festa per l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol, forse finiremo per organizzare il funerale di… André!
Recuperare il tempo perduto
André, lo so, tu sei un cornordinatore senza cornordinati. (Ndr: improvvisamente l’intervistatore ricorre al «tu», abbandonando il «lei»).
Mi auguro che tu abbia anche persone da cornordinare. I nostri gruppi in Italia capiranno che i loro aiuti sono essenziali perché possiate continuare la campagna.
Noi porteremo avanti il nostro progetto con o senza appoggi finanziari estei. Parlo del progetto ideale della campagna. È un cambiamento strutturale, e abbiamo una responsabilità enorme.
Noi vorremo fare, in un anno o poco più, il cammino perso nei 10 anni precedenti. Dal 1991, quando Roraima diventò stato, i politici hanno rubato il denaro del popolo. Ora dobbiamo rifare uno stato, recuperando 10 anni. C’è anche una pesante eredità storica di circa 300 anni, quando arrivarono i primi colonizzatori a Roraima con la convinzione che l’indio dovesse essere sempre schiavo. Dobbiamo convincere i «bianchi comuni» che sono stati sfruttati, come lo sono stati gli indios, e che devono organizzarsi, come hanno fatto gli indios.
E capire che gli indios non sono esseri inferiori o incapaci.
Abbiamo bisogno di correre contro il tempo.

Tu puoi correre, André, perché hai solo 27 anni.
Lei, padre Silvano, è più vecchio e, quindi, conosce meglio le fasi difficili della crescita: agricoltori in aree indigene, strade aperte in terre degli indios, loro stermini intenzionali, come ha documentato nel suo libro «Massacre» (Ndr: traduzione italiana «Sangue nell’Amazzonia»).
Io sono di un’altra generazione. Negli anni ‘80 ero ragazzino, ma ho visto che l’élite di Roraima si è appropriata di tutte le ricchezze, dimenticando i cittadini.

Il vostro è un lavoro ottimo. Potete contare sul nostro appoggio, non solo economico. Faremo in modo che non sia il ricco che dà al povero, ma uno sforzo di solidarietà.
Noi desideriamo proprio questo. Chi lavora con lei in Italia è preoccupato per l’ingiustizia presente anche da voi, così come noi lo siamo qui. È così che nasce la consapevolezza di aiutarci tra fratelli…
Grazie, padre Silvano, di averci dato ascolto.

La redazione ringrazia vivamente
Roberto Giacone e Paolo Guglielminetti,
che hanno sbobinato e tradotto dal portoghese l’intervista.

a cura di Silvano Sabatini




Una svolta per mutare la storia

Poveri sono gli indigeni,
ma anche i piccoli contadini
e gli emarginati della città.
Tutti bisognosi di terra e lavoro,
di riconoscimento dei loro sacrosanti diritti,
di fronte a politici che, invece, privilegiano
la «Brancocell» (industria della cellulosa
con capitale svizzero-canadese)
o la giapponese «Mitsubishi».
I «piccoli» si arrenderanno ai «grandi»?
«L’unione fa la forza» recita un adagio.
Vale anche per le formiche.

Nelle mire della globalizzazione
Roraima (Brasile) per gli indigeni Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona e Taurepang, che abitano questa terra da tempi immemorabili, è la «madre dei venti», la montagna sacra da cui il dio Macunaima fece sgorgare tutti i fiumi che danno vita e alimento. Per i non-indios, che arrivano dal sertão (le zone desertiche dell’interno), Roraima è il «Nuovo Eldorado», uno spazio vergine da colonizzare e occupare, dove trovare acqua e sostentamento per i propri figli. Inoltre, per latifondisti, forze armate e multinazionali, è terra di conquista, l’ultima frontiera da sfruttare, da integrare al resto del paese e «globalizzare».
Secondo Flamarion Portela, attuale governatore dello stato più settentrionale del Brasile, il Roraima rappresenta una fonte ancora non sfruttata di opportunità per tutti, migranti ed imprenditori, soprattutto stranieri.
Con un linguaggio da spot pubblicitario, Portela ritrae Roraima come il luogo dove «il sole splende due ore in più che in qualsiasi altra regione del Brasile; per tale motivo il metabolismo delle piante si accelera e permette, nel caso della soia, di guadagnare circa 19 giorni, tra semina e raccolto, rispetto al centro-ovest e al sud». Ancora, trovandosi nell’emisfero nord, lo stato è capace di produrre soia quando il sud si trova in piena stagione delle piogge, permettendo così una produzione continua.
Soia, parola magica in Brasile, da quando il colosso sudamericano è diventato il primo esportatore al mondo. Soia in parte transgenica, allorché il governo del presidente Luis Ignacio Lula Da Silva (detto Lula) ha varato, soprattutto per le pressioni di Blairo Maggi, governatore dello stato del Mato Grosso (grande imprenditore di soia) e della multinazionale americana Cargill, una misura provvisoria che ne prevede la liberalizzazione in Brasile e l’esportazione.
L’inaspettata (e sofferta) decisione del «compagno» Lula ha scioccato la ministra dell’Ambiente, Marina Silva. Secondo alcuni giornali, Silva in lacrime avrebbe reagito alla notizia così: «Sono costretta ad ingoiare il transgenico, però, se mettono le mani sulle terre indigene, mi dimetto».
A parte il transgenico, Silva non deve avere gradito nemmeno i suoi nuovi compagni di partito, tra cui in primis il governatore di Roraima Flamarion Portela, grande fan del transgenico e degli investimenti di capitale internazionale.
È il caso della Brancocell, industria della cellulosa a capitale svizzero-canadese, che produrrà carta digitale ricavata da 150.000 ettari di acacia mangiun, in mano (anche questi) ad uno svizzero. La produzione, prevista per il 2006, dovrebbe generare 6.000 posti di lavoro ed investimenti per circa 300 milioni di dollari.
Il progetto della Brancocell prevede l’acquisto, da parte dello stato di Roraima (e dei suoi contribuenti), di energia elettrica dal Venezuela, da destinarsi al funzionamento della fabbrica, con acacie capaci di produrre carta di ottima qualità.
Secondo i politici locali, l’industria cambierà profondamente la fisionomia economica di Roraima. Con un investimento di 300 milioni di dollari, l’impresa ha dichiarato che produrrà, nel 2004, 800 tonnellate di carta al giorno; questa sarà esportata verso il mercato europeo ed americano per un fatturato di 120 milioni di dollari. Grazie a ciò, il Pil di Roraima dovrebbe salire del 17%. «Saremo un polo di attrazione per altri investimenti nello stato» ha affermato il direttore della Brancocell.
Il prossimo gruppo ad approdare in Roraima (questa volta per la coltivazione di soia nel lavrado) sarà, con molta probabilità, la giapponese Mitsubishi, con la quale l’ex governatore Neudo Campos aveva avuto frequenti contatti. Secondo Portela, la realizzazione di tale impresa dipende dal trasferimento di terre dall’Incra (Istituto nazionale per la riforma agraria) allo stato di Roraima.
Infine sette grandi produttori di riso (tra cui Luiz Afonso Faccio di Riso Acostumado, considerato il primo nello stato) espandono senza limiti le proprie coltivazioni, fino ad invadere le aree indigene.
Così si incoraggiano monocolture estremamente dispendiose per la produttività del suolo e si danno incentivi fiscali per investimenti stranieri, con possibilità limitate di assorbire manodopera locale, ma con beneficio dei pochissimi todos poderosos di sempre.
Invece, per la popolazione roraimense, non si realizza nello stato alcun programma di sostegno all’agricoltura familiare e di tutela e assistenza dei piccoli agricoltori. Questi migrano senza posa in Roraima, in cerca di un pezzo di terra da coltivare e di una vita più degna.
La terra promessa
Da circa 30 anni il Roraima è invaso da ondate di migranti provenienti da tutto il Brasile, specialmente dal Maranhão, lo stato più povero del nord-est. Gli effetti di tale invasione (circa 1.000 persone al mese) sono preoccupanti.
Secondo l’ex presidente della repubblica, Feando Henrique Cardoso, l’Amazzonia rappresenta tuttora la valvola di sfogo delle tensioni sociali presenti in altre regioni, come dimostra la localizzazione nello stato di Roraima della maggioranza dei lotti di terra distribuiti nell’ambito della riforma agraria da lui proposta.
In verità queste migrazioni forzate evitano oggi, come 40 anni fa, il varo di una vera riforma agraria che elimini, una volta per tutte, lo scandalo del latifondo.
Fino a qualche tempo fa era facile trovare maranhensi al lavoro, come tante piccole formiche, nei garimpos (miniere all’aperto) di Serra Pelada, nello stato del Pará, o nella terra yanomami. Adesso sono loro i migranti per eccellenza del Brasile. Secondo l’Istituto brasiliano di geografia (Ibge), negli anni ’90 circa 700.000 persone hanno abbandonato il Maranhão. La mancanza di incentivi governativi all’agricoltura familiare e il dilagare del latifondo hanno spinto i contadini a lasciare le campagne, trasformandosi in potenziali portatori di conflitti sociali, una volta giunti a destinazione.
Molti agricoltori sono stati cornoptati, con false promesse, nelle stesse terre d’origine e attratti verso il Roraima con l’unico scopo di aumentare i «serbatorni» elettorali del governo locale, e poi abbandonati al proprio destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta.
Delle 15.000 famiglie stanziate dal governo Cardoso, 11.000 hanno già abbandonato i lotti che erano stati loro assegnati e sono andate ad allargare le favelas della periferia di Boa Vista. I municipi più distanti dalla capitale si svuotano, determinando una forte concentrazione urbana.
Le ragioni di questo esodo rurale vanno ricercate nella mancanza di assistenza, sostegno e incentivi economici per le comunità stanziate nei lotti; per quanto riguarda il sud dello stato, nelle pressioni dei grileiros (invasori illegali di terre dell’Unione, destinate a progetti di riforma agraria), che minacciano ed espropriano le famiglie, determinando la riconcentrazione della terra nelle mani di pochi.
Verso il
«nuovo eldorado»
Dunque, mentre nel nord-est prosperava l’industria della siccità, nel Roraima emergeva quella dell’immigrato.
Scopo ultimo era quello di riempire un territorio disabitato (siamo nei primi anni ‘80), attirando migranti, principalmente dal sertão nordestino verso il «Nuovo Eldorado» e creare così serbatorni elettorali per i coroneis, appartenenti a grandi famiglie di proprietari terrieri che, trasferitisi in Roraima dal nord-est, avevano creato una nuova élite politica, conservatrice, corrotta e fortemente anti-indigena.
Nel 1991, quando Roraima si trasformava da «territorio» in «stato», la popolazione passava dai 70.000 abitanti del 1980 a 217.000. Così i politici locali disponevano di un elettorato stabile attraverso la costante importazione di miserabili, soprattutto contadini senza terra, posseiros e garimpeiros del nord-est. Intanto questo si spopola, mentre il latifondo avanza.
Da qualche tempo, tale tattica è utilizzata anche nel Roraima. I beneficiari dei lotti di terra nei municipi dell’interno, abbandonati al loro destino, senza incentivi e la minima assistenza sanitaria, lasciano le terre concesse e raggiungono la famiglia rimasta in città, nei quartieri periferici, che per questo motivo crescono a vista d’occhio.
I lavoratori rurali sono stati trasferiti in Roraima con la promessa di denaro facile, terra fertile e appoggio alla produzione.
I lavoratori urbani (ex operatori rurali costretti ad abbandonare lotti e garimpos) e gli indios (che hanno lasciato le loro malocas per vivere in città) sono vittime dell’esclusione sociale; subiscono la violenza della polizia (risultato dell’impunità), le conseguenze dello squilibrio causato dal sovraffollamento nelle città, la disoccupazione, la fame, la mancanza di opportunità e di una politica seria per i migranti.
Molti di loro hanno paura di parlare e si trincerano, pertanto, in una umiliante omertà.
Però… da oltre un anno tutte le sfere tradizionalmente escluse dalla società roraimense (popoli indigeni, piccoli agricoltori ed emarginati urbani) si sono unite nella campagna Nós existimos (Noi esistiamo), per tentare di invertire il quadro di ingiustizia sociale e di costanti violazioni dei diritti umani, combattendo l’impunità di cui godono i criminali e la corruzione che prolifera in ogni sfera della società.
Lo scandalo «cavallette»

È di qualche tempo fa la denuncia della grande truffa conosciuta come «lo scandalo delle cavallette».
La truffa fu architettata dalle massime autorità politiche, amministrative e giudiziarie del Roraima, con la partecipazione di vari signorotti dei municipi più isolati, ai danni delle casse dello stato. Alcune persone (le «cavallette» appunto) entravano in rapporto, grazie a procure, con funzionari veri o fantasma (ne sarebbero stati identificati circa 5.500), inseriti nelle liste di pagamento dello stato, per ritirare in loro vece il salario, che poi avrebbero ripassato al loro «padrone» per avere protezione, una percentuale in denaro e una posizione nel caso di vittoria elettorale.
Le «cavallette», in verità, sono anch’esse delle vittime: persone molto semplici, semi-analfabete, sfruttate da vari politici artefici della truffa, che rimangono con più del 95% dei salari «mangiati» dalle loro «cavallette».
Maria Ivanilde Arruda era una di loro. All’inizio del 2002 aveva chiesto aiuto ad un deputato statale. Per ottenere l’appoggio richiesto, si era dovuta recare presso un notaio, accompagnata dagli assessori del deputato, e aveva firmato una procura a loro nome. Alla fine del mese questi ritiravano il salario di Ivanilde, di 300 euro, lasciandole appena tra i 30 e 60 euro.
L’operazione «cavallette» avrebbe sviato finora 100 milioni di euro dalle casse dello stato. Tra i principali imputati dello scandalo c’è l’attuale governatore, Flamarion Portela, che rischia di perdere l’incarico per impeachment. Gli subentrerebbe Ottomar Pinto, il brigadiere già due volte governatore del Roraima e noto nemico dei popoli indigeni.
Un’alleanza per cambiare la storia
L’alleanza dei tre segmenti, tradizionalmente esclusi dalle politiche economico-sociali dello stato di Roraima, fu ufficializzata al 3° Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel gennaio 2003. Tuttavia le sue basi furono gettate attraverso alcuni incontri fra le stesse realtà realizzati nel corso dei mesi precedenti.
Ora gli incontri hanno cadenza fissa (ogni due mesi) e prevedono una rotazione fra le tre realtà ospitanti (indigena, rurale e urbana), nonché uno scambio di esperienze attraverso la visita e la permanenza (di durata variabile) di membri di un gruppo presso la realtà dell’altro.
Il primo incontro ufficiale fra le tre entità fu realizzato alla fine di marzo 2003 nella maloca di Maturuca, in area indigena macuxi.
Qui emergeva subito una novità nei rapporti tra indios e non-indios: la sorpresa e poi la coscienza, da parte dei primi, di avere degli alleati all’interno del loro stesso stato. Fino a quel momento, infatti, i popoli indigeni pensavano che i loro alleati fossero solo gente estea: singoli cittadini e/o organizzazioni straniere di difesa dei diritti umani.
Fino a quel momento, gli indios avevano considerato la società roraimense e tutto il popolo locale fortemente anti-indigeni. Di fronte alla scoperta della solidarietà nei loro confronti da parte di un gruppo abbastanza consistente di non-indios, interno a quella stessa società, gli indios si scusarono con i loro nuovi alleati: «Ci scusiamo per aver parlato male dei bianchi. Ma noi non parliamo male di voi presenti. Parliamo male dei bianchi che hanno interessi nelle aree indigene, che invadono la nostra terra, che ci maltrattano e ci uccidono». Infatti l’incontro avveniva appena due mesi dopo l’assassinio del macuxi Aldo da Mota.
Nel gennaio 2003 Aldo fu brutalmente giustiziato dai jagunços della fazenda Retiro, appartenente al politico Chico das Chagas (conosciuto come Chico Trippa), che nascosero il cadavere in una fossa. Dopo una settimana, gli indios della regione, attirati da avvoltorni, ritrovarono il corpo in uno stato di avanzata decomposizione.
Visto che l’Istituto medico legale di Boa Vista affermava che Aldo era morto per causa «naturale indeterminata», il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) e la Fondazione nazionale dell’indio (Funai), non convinti dell’autopsia, mandarono il corpo a Brasilia, dove i periti dell’Istituto di medicina legale indicarono che Aldo era stato assassinato con un colpo di pistola, mentre era con le braccia alzate. I presunti colpevoli dell’esecuzione, arrestati e poi rilasciati senza essere identificati, sono ancora a piede libero.
Aldo è uno dei 24 indigeni uccisi nei primi mesi del governo Lula. Solo in un paio di casi gli esecutori sono stati arrestati, mentre i mandanti sono tutti in libertà.
La percezione della nascita di un qualcosa assolutamente nuovo nei rapporti tra indios e non-indios, nel Roraima, fu avvertita anche da Paulo, leader degli agricoltori presente a Maturuca: «Esco da questo incontro con la consapevolezza che esiste un movimento ben organizzato in Roraima. E questo è il movimento indigeno, che ha molto da insegnare ai non-indios. La stampa e una parte dell’opinione pubblica roraimense ritraggono sovente gli indios come inetti, indolenti e incapaci; ora che li abbiamo conosciuti da vicino sappiamo che non è così; anzi, abbiamo capito che possiamo imparare molto da loro».
Gli indios, a loro volta, affermavano di avere molto da imparare dai non-indios.
Altri importanti incontri
A quello di Maturuca fece seguito, nell’aprile 2003, un secondo incontro nell’area rurale dell’Apiaù, che rafforzava ulteriormente la solidarietà creatasi nella prima assemblea. La solidarietà tra indios e contadini si basa su una rivendicazione comune: il diritto alla terra e ad una vita dignitosa, attraverso opportuni progetti di sviluppo economico sostenibile.
Le relazioni con i lavoratori urbani sono, invece, di natura diversa, in quanto le loro rivendicazioni vertono più che altro sulla ricerca di un impiego e la lotta alla corruzione.
Il terzo incontro si tenne a Boa Vista in maggio. I temi di discussione furono: l’installazione della fabbrica di cellulosa della Brancocell, attraverso lo sfruttamento di 150.000 ettari di piantagioni di acacia; i costi in termini di impatto ambientale ed economico per la popolazione; l’iscrizione al Partito dei lavoratori (PT) del governatore Flamarion Portela, sul quale pesano le denunce di partecipazione allo «scandalo delle cavallette». L’incontro terminava con una marcia contro la corruzione per le strade della città.
Il quarto incontro avvenne in settembre nel municipio di Rorainopolis, una cittadina attraversata dalla strada Br-174 che lega Manaus a Boa Vista, al quale parteciparono 21 leader indigeni, 21 agricoltori e 21 rappresentanti dei lavoratori urbani.
L’incontro verté sul bisogno di raggiungere, sulla base del dialogo e dell’ascolto dei problemi di ciascuna realtà, una convivenza armoniosa e di costruire una proposta comune, con nuove strategie di azione finalizzate ad una maggiore partecipazione alle politiche statali, ma anche federali.
Attraverso tale partecipazione, è necessario realizzare un graduale mutamento nell’inclusione dei settori esclusi, nel rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni e nei diritti al lavoro degli agricoltori e del proletariato urbano e, infine, nella «moralizzazione» degli apparati amministrativi, giudiziari e politici dello stato, di fronte ad una situazione di corruzione estesa a tutti i livelli, e di impunità tanto radicata da apparire come la regola per l’intera società.
Nell’incontro di Rorainopolis i tre gruppi poterono verificare con i loro occhi, nei politici dello stato, la totale indifferenza al benessere della popolazione: una città costruita senza alcun progetto e costituita per il 90% da famiglie immigrate dal nord-est; alcune opere incompiute, per le quali il governo aveva stanziato più di 1.300.000 euro, nonché un sistema di fognature inoperante, a causa della mancanza di allacciamenti alle abitazioni (per cui fu speso inutilmente oltre 1 milione di euro) e, infine, attrezzature per l’ospedale, costate più di 300.000 euro, non funzionanti.
Quello di Rorainopolis, comunque, non è un caso isolato: i municipi dell’interno abbondano di opere pubbliche-fantasma.
Rompere il monopolio
Dai vari incontri, da quello di Maturuca a quello di Rorainopolis, i partecipanti uscirono con la consapevolezza di aver combattuto, fino a quel momento, una guerra voluta da poteri a loro opposti.
Era una vera e propria guerra tra poveri, orchestrata secondo il principio divide et impera, dove le parti in lizza, ignare l’una dei problemi e ragioni dell’altra, nonché dei possibili punti di incontro, si affrontavano alla cieca, spinte dal sospetto reciproco inculcato soprattutto attraverso la propaganda dei mezzi di informazione, completamente nelle mani del potere locale.
Gli incontri, quindi, si sono proposti e si propongono di ridurre la distanza e la tradizionale contrapposizione fra le tre componenti, e di giungere all’elaborazione di proposte comuni.
Particolarmente interessante e rivoluzionaria è l’idea della creazione di una banca di solidarietà: un’agenzia finanziaria che, a partire da un fondo comune, possa appoggiare delle iniziative nell’area della produzione; ad esempio la coltivazione di riso, alternativa a quella dei sette grandi produttori dello stato. Nascerebbe un sistema in cui indios e agricoltori potrebbero commercializzare liberamente i prodotti tra loro e, inoltre, venderli all’esterno senza che i primi siano più costretti a comprarli dal latifondista, che ha invaso le loro terre, e senza che i secondi siano costretti a lavorare per i loro tradizionali sfruttatori.
È necessario generare una domanda estea che incoraggi la produzione indigena e degli agricoltori familiari, rompendo così il monopolio che li soffoca, e creare una rete alternativa di commercializzazione dei prodotti. Le proposte mirano a liberare gruppi potenzialmente produttivi dalle strutture di potere da cui dipendono e dalle false promesse da cui troppo spesso sono allettati.
Avere creato una sinergia tra indios, lavoratori rurali e urbani significa, come ha dichiarato nel corso di un incontro un agricoltore, cambiare la storia di Roraima.
Significa che indios e non-indios decidono di abbandonare le loro armi tradizionali (frecce e fucili) e la reciproca diffidenza, per combattere finalmente contro il loro vero nemico: i todos poderosos, i potenti di sempre, e la loro cultura di sfruttamento, violenza e ingiustizia. Il tutto garantita dall’impunità.

Silvia Zaccaria




Introduzione – Noi ci siamo e contiamo

N egli ultimi 25 anni, per i lettori di «Missioni Consolata», lo stato di Roraima (Brasile) è divenuto quasi un sinonimo di «campagne». Tutte a favore degli indios. Ricordiamo le principali.
p La campagna per gli indios Yanomami del 1979-80. Promossa dai missionari della Consolata, si svolse soprattutto in Italia. Dal nostro paese partirono circa 700.000 lettere e/o cartoline, con oltre un milione di firme, che sollecitavano il presidente della repubblica del Brasile a creare il parco per gli indios Yanomami. Dopo altee vicende, l’obiettivo fu raggiunto nel 1991, allorché il parco fu demarcato e omologato.
p La campagna indios/Roraima, realizzata nel 1988-89 ancora dai missionari della Consolata (a livello europeo), si proponeva la raccolta di firme, da presentare al segretario dell’Onu, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni dello stato; le firme consegnate furono circa 400.000. Inoltre la campagna lanciò il progetto una mucca per l’indio in favore dei Macuxi, Wapichana, ecc., che si concretizzò in 10.000 capi di bestiame (oggi 42.000).
p Ma la caserma no! È la campagna del 2001: si opponeva ad un insediamento militare nel villaggio macuxi di Uiramutã. Purtroppo la caserma fu costruita. Ma gli indios non si sono demoralizzati: incoraggiati anche da oltre 17 mila firme raccolte in Italia (in un solo mese), hanno pressato il presidente Lula per l’omologazione in area continua della regione «Raposa Serra do Sol». Il 28 novembre 2003 Lula ha assicurato che l’area sarà omologata, ma «senza fretta». Tuttavia, il 19 dicembre, c’è stata una doccia fredda: la Commissione «relazioni estere e difesa nazionale» della Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge, che consente la costruzione di nuove caserme nelle aree indigene di Roraima. Un passo avanti e due indietro?
p Nós existimos è la campagna in corso, ma con tre novità rispetto alle precedenti. La prima: la campagna è nata e cornordinata in Brasile da realtà locali (diocesi di Roraima, missionari e missionarie della Consolata, Consiglio indigenista missionario, Consiglio indigeno di Roraima, ecc.). Seconda novità: la campagna è «globale», perché investe non solo i popoli indigeni, ma anche i piccoli contadini e i lavoratori emarginati della città; insomma tutti i poveri. La terza novità è, a nostro parere, sorprendente: è una campagna che sta diventando «movimento». Un movimento che continuerà anche quando la campagna chiuderà i battenti.

P er anni abbiamo sentito i popoli indigeni di Roraima affermare: «Vogliamo vivere!». È stato un grido di fronte ad una costante minaccia di morte.
Oggi tutti i poveri dello stato ostentano con giusto orgoglio il fatto di esistere. «Nós existimos e… resistiamo. L’unione di indigeni, lavoratori rurali ed emarginati della città è un segno di cambiamento» dichiarano con forza gli interessati.
E in altre parole: «Noi ci siamo, eccome! Ma soprattutto contiamo. E vogliamo contare sempre di più nella vita del nostro paese».

Francesco Beardi