Clericalismo

Egregio direttore,

ritorno sull’argomento «clericalismo» non per polemica, ma per favorire un libero dibattito sul «laicato missionario».

La Civiltà Cattolica, nel recensire il volume del sacerdote Gian Franco Poli «Osare la svolta», ha scritto: «La svolta che bisogna avere il coraggio di fare deve essere ampia e profonda…».

Con molta amarezza, dopo aver letto il volume citato ed altre opere sull’argomento, devo concludere che è di attualità la frase del vangelo dove si parla di scribi e farisei: «Fate ciò che dicono e non quello che fanno, perché non fanno ciò che dicono».

È tuttora estraneo al pensiero e alla mentalità della maggioranza del clero secolare e regolare la necessità di valorizzare i laici, riconoscendo concretamente il loro ruolo di autentici collaboratori all’attività della chiesa (cfr. 1 Corinti 12, 24-25).

Non demorda, signor Ferruccio. La sua giusta causa è avallata anche dal magistero della chiesa.
Tenga pure conto delle osservazioni di un missionario, che affermava: non servono né «chierici» né «laici» (Missioni Consolata, maggio 2003).

Ferruccio Gandolini




Idiozie e idioti

Spettabile redazione,

da tempo ho modo di apprezzare il vostro lavoro, ma lo stimolo per dirvelo mi viene dall’articolo di Giulietto Chiesa su Missioni Consolata, settembre 2003. A lui e a voi va la mia solidarietà.

Condivido ogni riga di Chiesa (insegno storia e qualcosa ne so), ne dico bene e benedico la sua semplice, lineare lucidità e obiettività. Forse Giulietto non voleva concludere amaramente la sua pagina, ma l’epilogo coerente con l’articolo non sembra essere l’ottimistica constatazione che «l’Italia di oggi sia ben migliore di quella delle leggi razziste e di quella del 1939».

Oggi l’Italia dovrebbe essere migliore, proprio perché è passata attraverso le cose di allora e non ci si può più nascondere dietro l’ingenuità della prima volta. I fatti del ’39 si mostravano da prima, e si mostrano oggi. Ma al presente c’è una rabbiosa, pericolosa voglia di rivincita verso «la cultura che ha imposto la sua egemonia dal dopoguerra a oggi», e che ha impedito che si potessero dire idiozie come quelle del signore di Perugia.

Ben venga quell’egemonia culturale! Peccato, invece, che tale cultura non sia riuscita a divenire patrimonio genetico degli italiani. L’Italia qualunquista, impolitica e fascistella sta rialzando la testa? Forse non siamo migliori di allora. E spiace constatare che ciò avvenga anche tra i lettori di una rivista come la vostra: il che lascia supporre si tratti di gente anche caritatevole e pronta a spandere lacrime sui negretti malnutriti, ma non un pensiero sulle cause e sui possibili rimedi, che sono (e sono!) economici e politici, non estemporanei e caritatevoli. Per non parlare del vangelo.

Ma di questo non sempre si parla negli ambienti cattolici.

Tutti possiamo incappare in qualche idiozia, ma nessuno è idiota.

Claudio Belloni




Serenate nostalgiche

Cari missionari,

era necessario, per mantenersi «progressisti e anticonformisti», assumere Giulietto Chiesa? Siamo ancora legati al pregiudizio che essere marxisti o di estrazione marxista sia garanzia di apertura mentale?
L’affermazione che fu la Russia ad abbattere la dittatura nazista richiede una precisazione. Con la battaglia di Stalingrado si decisero le sorti della potenza militare germanica, non l’avvento della libertà dopo il nazismo: in molti stati liberati ci fu la sostituzione con una dittatura altrettanto feroce. Quanto ai 20 milioni di morti russi, essi non furono vittime del conflitto, ma delle «purghe» del sistema marxista (leggere «Il libro nero del comunismo»).

Sono stanca di serenate nostalgiche ad un’ideologia aberrante e dalla complicità ideologica con i suoi ultimi esponenti…

Giulia Guerci

Ci sforziamo di essere evangelici, non anticonformisti. Né siamo di estrazione marxista: l’abbiamo affermato, ancora una volta, con l’editoriale di maggio prendendo le distanze, per esempio, da Fidel Castro.

Giulia Guerci




Una pace che non dà pace

Cari amici di Missioni Consolata, prima di tutto vogliamo ringraziarVi per le attestazioni di simpatia con cui avete accolto il numero speciale della nostra rivista su «La guerra. Le guerre». Non ci aspettavamo una risposta così straordinaria: per telefono, posta e via elettronica, abbiamo ricevuto tante testimonianze di apprezzamento, alcune delle quali pubblicheremo nel numero di gennaio.

Qualcuno ci ha detto che siamo stati coraggiosi. Diciamo semplicemente che abbiamo fatto il nostro dovere, un servizio alla pace e alla verità, perché «la pace ha bisogno di verità – scriveva Giovanni Paolo ii nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1980 -. Verità significa, anzitutto, chiamare col proprio nome l’omicidio e i massacri di uomini e donne, qualunque sia la loro appartenenza etnica, chiamare col loro nome la tortura e tutte le forme di oppressione e di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, dell’uomo da parte dello stato, di un popolo da parte di un altro popolo».

Tempo fa, Beppe Grillo disse che «ormai restano poche voci a cantare fuori dal coro: quelle dei comici e dei missionari». Ne siamo lusingati; ma diciamo che sono tante, prima tra tutte quella del papa; anzi, è una schiera innumerevole di persone di ogni etnia, popolo e nazione che, a gran voce, condanna la guerra e chiede la pace. E ci siete anche voi, cari lettori, perché siete convinti, come noi, che la prima vittima della guerra è la verità.

Come ogni anno, il natale di Cristo Signore fa risuonare il suo annuncio: «Pace in terra agli uomini di buona volontà». Non si tratta, però, di una pace qualsiasi, che si acquista al supermercato, fatta di pacchetti, nastri e palle colorate, ma di quella vera, totale, che viene solo da Dio. È dono suo; anzi, è beatitudine da chiedere, accogliere, coltivare, costruire: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

Ma non la si costruisce con la potenza e la prepotenza delle armi. Non basta disarmare le mani, come ci ricorda spesso il papa; ma occorre «disarmare le coscienze e i cuori», dove si annidano i nemici della pace: egoismo, odio, vendetta, prepotenza, menzogna, ingiustizia…

Dalla grotta di Betlemme al Calvario, il Dio della pace non si presenta con il braccio armato, ma nell’umiltà e nello svuotamento, nella mitezza e nel perdono, in una parola, nell’amore.

Per i credenti, e per ogni uomo di buona volontà, le armi della pace si chiamano: giustizia, solidarietà, mutua convivenza, accoglienza reciproca, ascolto e stima dell’altro, accettazione, perdono, riconciliazione, dialogo a tutti i livelli…

«La pace, prima che traguardo, è cammino, cammino in salita. Ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi. I suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere partito, ma chi parte» (don Tonino Bello).

Buon natale, cari amici lettori. In voi e attorno a voi trabocchi la pace, quella vera, che viene dall’alto, annunciata e promessa a tutti gli uomini di buona volontà.

Ricordiamo, però, che tale pace è dono dinamico, che «non lascia in pace», ma rimette in marcia.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




CARI LETTORI

Come riconoscere il confine tra informazione e propaganda? Gli Stati Uniti di George W. Bush sono gli stessi dello sbarco in Normandia? L’Urss contribuì alla liberazione dal nazismo?

Stimato direttore, ho letto con cura le lettere (1) che le sono arrivate, alcune delle quali duramente critiche – uso un eufemismo, perché in qualche caso le definirei insultanti – nei miei confronti. Chi espone in pubblico le proprie opinioni si espone alla critica, ed è normale che sia così. Non c’è, in questo, alcuno scandalo. Ciò che mi fa pensare è il tono aggressivo, l’insofferenza nei confronti delle posizioni altrui, che alcune delle lettere manifestano. E devo dire subito che trovo sconcertante il tono «molto militante» e assai poco evangelico di alcuni che, come il signor Luigi Fressoia, da Perugia, sono molto contenti che «nel mondo c’è qualcuno che le suona ben bene ai fanatici dell’islam».
Immagino che il signore in questione abbia già fatto i conti con la propria coscienza, incluso quanto concee le affermazioni calunniose nei miei riguardi, in base alle quali io sarei «in cima alla lista Mitrokhin». Il signore in questione non sa neppure, evidentemente, cos’è la lista Mitrokhin. Nella quale, comunque io non sono presente, né in cima, né a metà, né in fondo. Resta da chiedersi chi siano coloro (giornali, riviste, canali televisivi) che informano così male il signor Fressoia. E, infine, cosa c’entra la lista Mitrokhin con quello che io ho scritto?

L’altra cosa che, a quanto pare, ha molto indignato, è la mia semplice constatazione che a vincere il nazismo è stata una «coalizione» di cui fecero parte Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti. Ma poiché la propaganda corrente ha stabilito un’identità tra sconfitta del nazismo e apporto degli Stati Uniti, ecco che una semplice constatazione storica appare alle vittime della propaganda come una bestemmia. Ho aggiunto che l’Unione Sovietica rovesciò le sorti del conflitto a Stalingrado, dopo avere sopportato, da sola, l’urto più potente delle divisioni naziste e quando la Francia era già stata occupata, mentre Churchill era sotto i bombardamenti della Luftwaffe.

Chiunque abbia letto una qualunque pagina di storia in materia lo dovrebbe sapere. Ma la propaganda pro-americana è diventata così ossessiva da far dimenticare perfino le ovvietà. Si possono definire «baggianate» queste constatazioni, ma la storia, volendo, la si può ancora studiare. Del resto io non ho scritto, e non penso, che l’Unione Sovietica ci ha portato la libertà. Non credo infatti che fosse questo il disegno di Stalin. Ma non credo che fosse nemmeno il disegno di Roosevelt.

Trovo inoltre un po’ strano negare l’evidenza del contributo dato dai sovietici, che sono morti a milioni, per difendere la loro terra (e che, indirettamente, hanno difeso anche la nostra) e la nostra libertà. Se Hitler avesse sconfitto l’Urss, lo sbarco in Normandia sarebbe stato semplicemente impossibile perché tutte le divisioni naziste, invece che essere schierate nel centro Europa, per fronteggiare l’offensiva sovietica, sarebbero state sulle rive della Manica, intatte e vittoriose.

Capisco che la propaganda abbia offuscato la realtà, ma non tutto si può occultare. Io credo sia molto ingenuo pensare che Roosevelt sia venuto in guerra per portare la libertà. Quando si motiva un’azione politica si cerca sempre una ragione nobile. Ma si sa che la maggioranza degli americani era contro l’intervento in Europa, e Roosevelt agì contro la maggioranza. E agì perché comprese che la vittoria del nazismo sarebbe stata molto pericolosa per gli Stati Uniti. E comprese che, al contrario, una vittoria degli Stati Uniti avrebbe consentito di impiegare immensi capitali e il loro potenziale economico nella ricostruzione dell’Europa. Infine tutti sanno che l’intervento americano fu fatto anche perché l’Urss faceva molta paura e occorreva impedirle di conquistare l’intera Europa. Negli Stati Uniti c’erano circoli influenti, all’epoca, che pensavano che sarebbe stato opportuno continuare subito la guerra contro l’Urss, una volta sconfitto Hitler. Così la pensava anche Churchill.

Il fatto che gli Stati Uniti vennero in Europa per conquistarsi una testa di ponte decisiva per difendere i loro interessi è infine dimostrato dal fatto (incontrovertibile) che lasciarono al potere, senza neppure sfiorarlo, il dittatore fascista della Spagna, Francisco Franco. Se la libertà fosse stato il motore delle loro azioni, si presume che avrebbero dovuto portarla dovunque. Invece si fermarono ai confini spagnoli e Franco divenne un loro grande amico. Una libertà, dunque, da interpretare a piacimento.

Per quanto concee gli «enormi aiuti» che Mosca avrebbe ricevuto dagli Stati Uniti, si tratta – questo sì! – di «baggianate», che non sono suffragate da nessun documento attendibile e sono invece smentite da tutta la documentazione disponibile. So bene che circolano, ogni volta, cifre sbalorditive, di aiuti americani alla Russia che avrebbero richiesto un ponte navale di dimensioni impressionanti. Ne hanno scritto sul Gioale, su Libero, e su altri fogli della destra, quel tipo di giornalisti che il papa ha duramente invitato a evitare di essere «agenti di propaganda e disinformazione» (2). Nulla di tutto questo è avvenuto: gli aiuti ci furono, ma furono molto marginali.

Dire infine che non si deve criticare gli Stati Uniti perché ci liberarono dal nazismo equivale ad affermare che gli Usa di oggi sono uguali a quelli di 50 anni fa. Io non lo penso. Io penso che gli stati mutano con il tempo e con gli uomini che li guidano. Gli Usa del 1945 erano altra cosa, e ben migliore, degli Usa di Bush.
Dire che un paese e un popolo rimangono identici sempre, in ogni circostanza, equivarrebbe a dire che l’Italia non potrà mai redimersi, per esempio, dalla colpa di essere stata fascista. Io penso invece che l’Italia di oggi sia ben migliore di quella delle leggi razziste e di quella del 1939.

Giulietto Chiesa




KENYA- Anche gli africani hanno il mal di denti


Questa è la storia dell’Apa, una piccola associazione di dentisti italiani, che, quando possono, fanno i volontari in Africa.

Il Kenya, uno degli stati più belli del continente nero, è spesso preso come immagine oleografica dell’Africa letteraria o turistica. A molti richiama alla memoria i romanzi di Hemingway o Karen Blixen, oppure le immagini viste nei documentari televisivi e nelle agenzie di viaggio: tribù quasi «primitive», grandiosi paesaggi naturali, savane e foreste abitate da animali feroci.
Anch’io, fino a qualche anno fa, così immaginavo il Kenya e quando, nel 1992, i missionari della Consolata mi invitarono a lavorare come dentista volontario nel loro Consolata Hospital di Nkubu, uno sperduto villaggio del Kenya equatoriale, non esitai a dare la mia disponibilità.
Gli immensi scenari erano un’attrattiva irresistibile e l’idea di offrire gratuitamente la mia professione a persone che avevano necessità di cure dentarie, ma impossibilità di ottenerle, mi appagava la coscienza. Certo non mi sarei mai immaginato di trovarmi immerso in una natura così fantastica, ma soprattutto di fronte a una miseria così diffusa e profonda, accettata dagli africani con stupefacente dignità.
In realtà, chiunque abbia visitato il Kenya, come del resto gran parte dell’Africa, al di fuori dei lussuosi villaggi turistici o lontano dalle classiche rotte turistiche, avrà constatato l’estrema povertà che colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Milioni e milioni di persone che vivono dimenticate nel loro tragico presente ed escluse da ogni benevolo futuro. Abitano villaggi sperduti, desolanti suburbi a ridosso delle grandi città o spaventose baraccopoli che non hanno nulla da offrire, se non povertà, fame, malattie.
Quando per la prima volta ho visto la miseria in cui versa l’Africa, i bambini affamati che cercano cibo fra i rifiuti delle discariche, la gente che muore come le mosche per l’Aids (700 al giorno solo in Kenya) o per malattie curabili (come la malaria o la tubercolosi), i giovani che non potranno mai imparare a leggere e scrivere per indisponibilità di mezzi e di scuole, la mia vita è un po’ cambiata e con i miei amici mi sono chiesto se noi non potevamo fare qualcosa.

POVERTÀ E INDIFFERENZA
Sì, la povertà, una parola scomoda, complessa nelle sue implicanze, che non definisce soltanto uno stato di indigenza materiale, ma una più tragica e vasta realtà che caratterizza gran parte della popolazione del nostro pianeta; in espansione anche nei paesi ricchi, ma nel Sud del mondo rappresenta un problema di vera e propria sopravvivenza.
Per quale ragione i media continuano ad ignorare la miseria africana che si consuma così nell’indifferenza generale? Perché la tragedia delle Torri gemelle di New York, ha riempito per mesi le pagine dei giornali e i programmi televisivi, ma nessuno parla mai dei 9.000 bambini (fonti Unicef) che ogni giorno in Africa muoiono per malattie da denutrizione? Forse esistono morti di serie A e morti di serie B? Forse bisogna produrre immagini shock, affinché i media parlino della piaga della fame?
Ormai mi sono reso conto che esistono almeno due modi di vedere l’Africa: il primo tristemente realistico; l’altro mediato dai sistemi informativi di massa che, quasi sempre per ragioni economico-politiche, dipingono il continente con toni erroneamente ottimistici. Ma poiché ho avuto la ventura di conoscere la prima Africa e la gente stupenda che la abita, con alcuni amici ho pensato che anche noi, nel nostro piccolo mondo di odontorniatri, potevamo fare qualcosa; senza pensare a progetti faraonici o a chissà quali grandi mete, ma così, in semplicità, e soprattutto senza quella fastidiosa ostentazione o senso di superiorità che caratterizza una parte del volontariato umanitario.
Perché interessarsi dei poveri dell’Africa, mi si chiede, quando sono tanti i poveri qui in Italia, alcuni dei quali provenienti proprio dal continente nero? È vero. Però da noi fortunatamente non si muore di fame e chiunque può accedere a un ospedale per farsi curare o può frequentare una scuola elementare per imparare a leggere e scrivere, a meno che non viva nella clandestinità.
È altresì vero che l’Africa è flagellata da malattie ben più gravi che non le malattie dentali, basti pensare alla lebbra, la malaria, la febbre gialla, la poliomielite e oggi l’Aids, la nuova malattia dei poveri che sta causando in questo continente la più devastante epidemia a memoria storica. Se però consideriamo che la patologia dentale è la più diffusa al mondo, in quanto ne colpisce il 95% della popolazione, viene da sé che il «mal di denti» è una pena aggiuntiva per persone già martoriate da fame, analfabetismo, siccità, penuria di mezzi, sfruttamento.

«AMICI PER L’AFRICA»
In questo contesto, nel 1999, dopo anni che già si lavorava in Kenya come dentisti volontari, noi colleghi medici, insieme ad amici di vecchia data, abbiamo pensato di fondare un gruppo di volontariato odontorniatrico, che abbiamo chiamato Apa.
Queste tre lettere sono l’acronimo di «Amici per l’Africa», ma «apa» è anche una parola che in lingua swahili significa «giuramento», una felice coincidenza suggeritaci da un missionario, che richiama un patto di amicizia tra noi e l’Africa. Un giuramento per un impegno di amicizia fra odontorniatri e professionisti del dentale, che ha l’ambizioso proposito di coniugare professione medica e volontariato, nel complesso mondo della povertà africana. Non un’associazione dalle idee grandiose (che poi magari non trovano realizzazione), bensì un gruppo agile e consolidato di colleghi e vecchi amici, ognuno con un proprio ruolo preciso, che non intende far l’elemosina agli africani, ma condividere tempo, mezzi, capacità professionali, con riguardo alle loro diversità e senza sensi di superiorità nei confronti di alcuno.
Mentre nel mondo occidentale vi è abbondanza di dentisti e di tutte le più sofisticate tecniche di cura, in quello che genericamente è ancora definito «Terzo mondo», il ridotto numero di professionisti, l’elevato costo delle apparecchiature e dei materiali odontorniatrici, rendono di fatto impossibile la cura dei denti alla maggioranza delle persone. Questo spiega perché la percentuale di dentisti ammonti, per esempio, a 1 su 1.000 abitanti in Italia, mentre in Kenya si riduca drasticamente a 1 su 200.000, in prevalenza concentrati nelle grandi città.
Oggi lavoriamo in 5 ambulatori, che sono ubicati alla periferia di Nairobi, a ridosso delle bidonville di Kahawa e di Embul Bul, e in zone rurali del Kenya centro-settentrionale (Nkubu, Sagana e Isiolo). Si trovano all’interno di strutture ospedaliere o di ambulatori missionari cattolici, e sono stati da noi allestiti ex novo, oppure erano già esistenti prima del nostro arrivo, ma di fatto non utilizzati per mancanza di operatori.
Il centro di Nkubu, dove iniziò la nostra attività nel lontano 1992, da cinque anni è stato ceduto all’ospedale missionario di sua pertinenza, il Consolata Hospital, sotto la direzione di un dentista keniano e di una suora del medesimo ospedale, che si è recata due anni nei nostri studi in Italia per acquisire le nozioni di odontorniatria di base, qual’è quella richiesta in quei luoghi. Non intendiamo infatti lavorare soltanto in prima persona, ma cerchiamo di istruire personale locale, che possa portare avanti l’attività anche in nostra assenza. Riteniamo infatti che l’africano a cui offriamo la nostra professionalità, debba essere motivato ad uscire dal circolo vizioso dell’aiuto fine a sé stesso, che gli addormenta la mente senza incentivarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Daniele Comboni, fondatore dei missionari comboniani, più di un secolo fa, sosteneva che «bisogna aiutare l’Africa con gli africani».

PERCHÉ VOLONTARI?
Nel tragico scenario di povertà e sventure di questi popoli abbandonati, nell’ indifferenza del mondo, quale significato può avere il lavoro di noi dentisti volontari?
Più di una volta ce lo siamo chiesti. Ovviamente noi dell’Apa non ci siamo prefissati l’impossibile obiettivo di ribaltare la situazione; semplicemente non possiamo stare con le mani in mano ad assistere alla miseria di popoli e paesi, di cui abbiamo conosciuto l’inimmaginabile povertà e le continue privazioni.
Ciò non di meno, quando pensiamo alle migliaia di persone che abbiamo curato in tutti questi anni e a tutte quelle persone che beneficiano degli studi medici che abbiamo loro donato, oggi affidati a personale locale africano, allora diventa chiara la validità del nostro operato, dimostrata anche dalle parole e dai gesti di riconoscenza dei nostri pazienti.
Non sono incline alla retorica o all’esibizionismo e spero che nessuno di noi dell’Apa voglia ritenersi chissà quale campione della causa dei poveri o aspiri ad arrivare primo a una qualche fiera delle vanità, ma al di là del mio credo religioso, penso (e continuo a pensarlo da 11 anni, di là dalle mode e dai sentimentalismi passeggeri) che per quanto poco importanti, anche piccole e volontarie azioni solidaristiche di singole persone o di piccoli gruppi come il nostro, possano avere una loro utilità.
Forse serviranno più a noi che agli africani, ma non penso sia un gran male; forse serviranno per una gratificazione personale, ma anche questo ritengo sia umano e non mi dispiace che un’«umana debolezza» in questo frangente si rilevi utile e preziosa. Martin Luther King diceva: «Non mi fa paura la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio degli onesti».
Come si racconta nelle pagine di Pole Pole, da questa nostra lunga e mai conclusa esperienza, noi se non altro impariamo quanto piccoli siano in verità i nostri problemi davanti a chi non ha cibo per cibarsi, acqua per gli usi quotidiani, farmaci e ospedali per curarsi, scuole per imparare a leggere e scrivere e non possa confidare sull’aiuto di nessuno. Persone tuttavia che accettano queste sventure con un’incredibile e toccante dignità, che lungi da un’inutile retorica, dovrebbe esserci di insegnamento.

Andrea Moiraghi




INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri



AMBIENTE Acqua delle mie brame

ACQUA DELLE MIE BRAME

Il problema della scarsità d’acqua
si sta rapidamente aggravando,
come dimostrano le sempre
più frequenti guerre per
l’«oro blu» (in Medio Oriente,
regione nilotica,
subcontinente indiano).
Intanto, in Italia il consumo
giornaliero medio pro capite
è di 213 litri e negli Stati Uniti
raggiunge la stratosferica
cifra di 600 litri. È questo
lo «stile di vita»
che vogliamo difendere?

SPRECHI INACCETTABILI

Nel 2000, i paesi afflitti da problemi idrici o da scarsità d’acqua erano 31; secondo le previsioni, entro il 2025 la cifra salirà a 48, compresi India e Cina. Anche se il problema della scarsità d’acqua riguarda tutti i paesi del mondo, i più pregiudicati sono quelli del Sud.
È il Kuwait, con i suoi 10 metri cubi pro capite, il fanalino di coda della classifica sulla disponibilità d’acqua, inserita nel rapporto dell’Unesco. Lo seguono la Striscia di Gaza (52 metri cubi) e gli Emirati Arabi (58 metri cubi). I paesi più ricchi d’acqua sono invece la Guyana Francese con oltre 800 mila metri cubi e l’Islanda (circa 60.000 metri cubi). L’Italia non è esente da questi problemi: a causa della cattiva gestione delle acque, al Sud il 18% della popolazione soffre di carenza idrica.
Si parla di grave crisi idrica quando la disponibilità di acqua pro capite è inferiore a 1.000 metri cubi di acqua all’anno. Al di sotto di tale quantità sono fortemente ostacolati la salute e il benessere economico del paese, mentre sotto i 500 metri cubi è la sopravvivenza stessa ad essere compromessa.
Di fronte a queste cifre, risultano contrastanti i dati sul consumo di acqua nei paesi del Nord: molte famiglie dei paesi ricchi arrivano a consumare oltre 2 mila litri al giorno di acqua di buona qualità (secondo l’Oms la quantità ottimale sarebbe di 150 litri al giorno).
In Italia il consumo giornaliero medio pro capite è di 213 litri, negli Stati Uniti è di 600 litri. Nella seconda metà del secolo scorso la domanda di acqua si è triplicata rispetto all’inizio del secolo, e si stima che, d’ora in poi, raddoppierà ogni vent’anni.
Il contrasto diventa inaccettabile se si analizzano gli sprechi d’acqua, enormi in tutto il mondo:
– il 40% dell’acqua usata per l’irrigazione si perde per evaporazione
– le perdite negli acquedotti oscillano in media fra il 30 ed il 50% (anche nei paesi sviluppati)
– una lavatrice standard consuma mediamente 140 litri a ciclo; lo sciacquone 10-20 litri alla volta; una lavastoviglie 60 litri.
È facile prevedere che l’aumento della popolazione mondiale determinerà un’ulteriore crescita della domanda di acqua, ma intanto è necessario essere consapevoli di chi oggi ne consuma eccessivamente.

POCA ACQUA, POCA SALUTE

La scarsità d’acqua si ripercuote direttamente sulla salute dei suoi abitanti: si stima che l’80% di tutte le malattie ed il 33% delle morti nei paesi del Sud del mondo siano legate alla mancanza d’acqua, alla sua cattiva qualità, all’assenza di impianti di depurazione.
Trentamila persone al giorno muoiono per:
– malattie trasmesse dall’acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenteriti, epatiti)
– infezioni della pelle e degli occhi
– parassitosi
– malattie dovute ad insetti vettori (ad es. mosche e zanzare)
– infezioni da mancanza di igiene.
Il paradosso tra Nord e Sud ritorna anche in tema sanitario: il convegno medico internazionale sulle malattie infiammatorie, tenutosi a Capri il 14 aprile 2003, mette in guardia contro i rischi di un’igiene e pulizia eccessiva (legata inevitabilmente a spreco di acqua potabile), responsabili della distruzione e dell’indebolimento di batteri che difendono l’intestino dalle infiammazioni.
Scarsità d’acqua significa inoltre diminuzione della produzione alimentare e quindi aumento della fame. In questa drammatica situazione, è evidente che troppi uomini si vedono negato il proprio diritto all’acqua, ossia alla vita stessa.

L’ACQUA,
DA DIRITTO A MERCE

Se la risorsa acqua è stata finora considerata un «diritto inalienabile» dell’umanità, al 2° Forum mondiale dell’acqua all’Aia ( 2000) il termine diritto è stato sostituito da «bisogno». Però, mentre «diritto» obbliga le istituzioni ad assicurare a tutti quel diritto fondamentale, «bisogno» attenua i toni e trasforma l’acqua in un bene economico, una merce come qualsiasi altra, sottoponibile a concorrenza, da quotare in borsa, da privatizzare.
Tre sono i principi fondatori della politica promossa dai fautori dell’economia di mercato applicata anche all’acqua: considerandola un bene economico, l’acqua può essere venduta, comprata, scambiata; essendo un bisogno, e non più diritto, gli uomini diventano consumatori/clienti di un bene/servizio da rendere accessibile secondo le logiche di mercato; deve essere trattata come una risorsa preziosa (l’oro blu), destinata ad essere sempre più rara e quindi anche strategicamente importante.
Da ciò conseguono la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi idrici, e quindi la priorità all’investimento privato. Tuttavia, la privatizzazione dei servizi d’acqua non si è tradotta necessariamente e dappertutto in un miglioramento dei servizi o in una riduzione dei prezzi, né in una diminuzione della corruzione o nella creazione di un circolo virtuoso di investimenti.
Nella maggior parte dei casi e specialmente nei Paesi del Sud, i prezzi sono saliti alle stelle (basti pensare al caso di Cochabamba in Bolivia, di Manila nelle Filippine, di Santa Fé in Argentina…), la corruzione si è manifestata nelle concessioni ai privati, l’indebitamento dei paesi poveri è aumentato, il miglioramento dei servizi ha paradossalmente avvantaggiato i gruppi sociali più abbienti. La decisione in materia di gestione delle risorse idriche passa quindi dai soggetti pubblici ai privati: è la mercificazione della vita stessa (vedi Dichiarazione conclusiva del 1° Forum alternativo mondiale dell’acqua, Firenze 21-22 marzo 2003). Affinché l’acqua rimanga un bene comune dell’umanità, è nato un movimento internazionale d’opinione che opera per un «Contratto mondiale per l’acqua».
Uno dei prossimi boom economici sembra inoltre essere legato all’acqua in bottiglia: secondo uno studio preliminare commissionato dal Wwf, in tutto il mondo i consumatori pagano dalle 500 alle 1000 volte di più per una bottiglia d’acqua che, almeno nel 50% dei casi, ha le stesse caratteristiche dell’acqua di rubinetto, con solo un po’ di sali e minerali aggiunti. Intanto i fiumi, che dovrebbero rappresentare la fonte della maggior parte dell’acqua potabile, sono sempre più minacciati dall’inquinamento. Disinquinare le risorse di acqua pubblica, piuttosto che affidarsi ciecamente all’acqua imbottigliata, diminuirebbe invece l’entità di due problemi ambientali: il trasporto delle bottiglie e l’elevata produzione di rifiuti di plastica.

GUERRE E CATASTROFI

In alcuni paesi le tensioni politiche per l’accesso all’acqua potabile sono cresciute a livelli allarmanti. Secondo alcuni le «guerre per l’acqua» potrebbero essere alle porte, se non già sotto i nostri occhi; secondo altri rappresentano già la causa di oltre 50 conflitti nel mondo, tra i quali la stessa guerra contro l’Iraq.
La metà dei villaggi palestinesi non ha acqua corrente, mentre tutte le colonie israeliane ne sono provviste. In Brasile sono presenti l’11% delle risorse idriche dolci del pianeta, ma 45 milioni di brasiliani non hanno accesso all’acqua potabile. Entro il 2025 è previsto che le popolazioni delle 5 regioni considerate punti caldi del conflitto idrico (regione del Lago d’Aral, bacini del Gange, del Giordano, del Nilo, del Tigri-Eufrate) aumenteranno tra il 32% e il 71% (vedi box).
Secondo Vandana Shiva, le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura: ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Possono presentarsi come guerre tradizionali, oppure come conflitti fra culture, su come si percepisce e si vive l’esperienza dell’acqua. Conflitti tra la cultura della mercificazione e quella opposta del dare, ricevere acqua come dono gratuito. «Immaginate un miliardo di indiani che, abbandonata la pratica dell’offerta dell’acqua presso i piyao, ricorrono a quella in bottiglie di plastica per placare la sete. Quante montagne di rifiuti di plastica ne deriverebbero? Quanta acqua sarà distrutta dalla plastica buttata via?» (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, 2003).
C’è ancora un ulteriore insospettabile aspetto legato al problema acqua. Come si è visto in MC marzo 2003, spesso catastrofi come alluvioni, cicloni o siccità sono tutt’altro che naturali. Al contrario, a causa dell’effetto serra ed al conseguente riscaldamento del pianeta, questi fenomeni estremi sono destinati ad aumentare.
La quantità totale dell’acqua rimane la stessa, ma i tempi impiegati a precipitare sottoforma di pioggia possono essere molto più rapidi che in passato, causando ad esempio fenomeni alluvionali devastanti. Ogni giorno, una quantità di acqua poco maggiore di quella contenuta nel Mar Caspio (il lago più grande del mondo) evapora dalla superficie del pianeta per ricadere sottoforma di pioggia, grandine e neve. Al contrario, fenomeni di siccità prolungata e di progressiva desertificazione potranno rendere sempre più critica la già grave situazione legata alla disponibilità di acqua.

E NOI, NEL NOSTRO PICCOLO?

Nonostante lo sforzo di distinguere le varie problematiche legate all’acqua nelle implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è evidente come tutte le sfaccettature della questione siano strettamente legate fra loro e come non sia possibile cercare di risolvere un aspetto del problema tralasciandone gli altri.
Anche se a prima vista pare impensabile, anche in questo caso una parte importante della responsabilità ricade su tutti noi, singoli cittadini:
– dal punto di vista del nostro comportamento quotidiano
– come attenzione e senso critico che dovremmo manifestare nei confronti delle politiche perseguite dai governi e dagli organismi inteazionali
– dal punto di vista delle capacità e voglia di formarsi ed informare.
Capire allora che l’acqua può essere considerata rinnovabile soltanto:
– se il suo prelievo non è più veloce della formazione delle riserve d’acqua (ad esempio delle acque sotterranee) e
– se il livello di inquinamento dell’acqua restituita all’ambiente dopo il suo uso non ne pregiudichi il suo riutilizzo.
Noi beviamo la stessa acqua che bevevano gli antichi romani, i nostri pronipoti berranno la stessa acqua che beviamo noi. Come scrive Vandana Shiva: «Il ciclo dell’acqua ci connette tutti e dall’acqua possiamo imparare il cammino della pace e la via della libertà».

L’AFA, IL GOVERNO, I CITTADINI:
BENESSERE PRIVATO, MALESSERE PUBBLICO

Ma i consumi non dovevano «far girare l’economia»? Siamo stati tormentati per mesi con l’ormai (purtroppo) nota pubblicità televisiva che ci ricordava come i consumi facciano bene all’economia… e oggi, 26 giugno 2003, il ministro per le attività produttive Antonio Marzano in persona, alle 13.30 sul Tg1, ci implora di consumare meno energia, di risparmiare, di usare meno possibile i condizionatori, addirittura di spegnere anche la lucina rossa del televisore… Se il ministro ci parla in questo modo in prima notizia, se la notizia dura ben 9 minuti, se tutti i Tg la ripropongono, allora c’è da preoccuparsi: la situazione dev’essere proprio grave.
Ma andiamo con ordine. Nella puntata precedente abbiamo sottolineato come i consumi facciano girare non solo l’economia, ma facciano anche impazzire il clima. Nessuno scienziato negherà l’eccezionalità del mese di giugno 2003, dominato da un caldo rovente fuori da qualsiasi media stagionale: avvisaglie dell’effetto serra? Scatta comunque la corsa all’acquisto non solo di ventilatori, ma dei famigerati condizionatori d’aria: 400-1.000 euro in cambio del tanto desiderato fresco. Peccato che i condizionatori consumino molta energia elettrica, troppa… Chi si azzarda a criticarne l’uso smodato per motivi ambientali viene tacciato di petulanza, di «terrorismo» ambientale e via dicendo.
Le autorità dell’energia decidono di programmare, in tutto il territorio nazionale, dei blackout a macchia di leopardo, perché non c’è energia elettrica sufficiente per soddisfare tutte le richieste. E, quasi come una beffa, scatta il «caloroso» invito a diminuire i consumi: «Non prendete l’ascensore, non aprite il freezer, il traffico può andare in tilt…». Ma allora è vero che c’è un limite ai consumi, che i limiti sono imposti dalla natura e non dall’economia? Come si sentiranno i milioni di cittadini che pensavano di risolvere tutto con i soldi, e che invece si ritrovano un condizionatore nuovo di zecca senza (teoricamente) poterlo usare?
Il fatto tragico non è comunque questo: al contrario, la «necessità» di energia elettrica sarà il pretesto per la costruzione di nuove centrali elettriche, nuove dighe, nuove strutture che impatteranno il nostro già ferito territorio, che incentiveranno nuovamente i consumi, che di conseguenza incrementeranno il fenomeno dei cambiamenti climatici… in un circolo vizioso senza fine. Forse toerà la «necessità» di costruire le famigerate centrali atomiche: con il loro sfrenato consumismo, gli italiani rischiano di far tornare in auge il problema del nucleare che essi stessi avevano allontanato con il referendum del 1987. In questi casi, il paradosso è una costante: in caso di costruzione di nuove centrali, non mancheranno le manifestazioni di protesta della popolazione locale (che le centrali non le vuole sul proprio territorio) o quelle di soddisfazione di coloro che vogliono più energia per utilizzare i condizionatori (che «fanno girare l’economia»…). La stessa giornalista del Tg1 ci presenta l’invito a risparmiare energia, vestita in giacca nera, mentre fuori ci sono 38 gradi…
Come se non bastasse, un altro «invito» ci viene rivolto in questi giorni: risparmiare acqua. In molti comuni, non dell’Africa ma del ricco ed industrializzato Nord Italia, l’acqua viene razionalizzata e distribuita in container di plastica, a causa della siccità. Così, mentre la AEM di Torino propone con entusiasmo al cittadino «proiettato nel futuro» di cambiare il contratto di casa da 3KW
a 4,5 o addirittura a 6KW, in modo che possa utilizzare tutti gli elettrodomestici che desidera (in particolare il condizionatore), molti gestori di centrali elettriche sono costretti a chiudere gli impianti per mancanza di acqua.
Che cosa sta succedendo? Forse dovremmo fermarci un momento, sederci, iniziare a pensare, con calma, su cosa stiamo combinando.

Si.Ba.

Le guerre per l’«oro blu»

ISRAELE-GIORDANIA: Israele dipende, per i 2/3 dell’acqua che consuma, dai paesi confinanti con cui condivide il fiume Giordano (Giordania, Palestina, Siria). Nel 1994 è stato firmato un accordo tra Israele e Giordania, ma l’equilibrio è precario, essendo non lontana la penuria d’acqua.

ISRAELE-PALESTINA: durante il Forum Alteativo dell’acqua tenutosi a Firenze nel marzo 2003, un membro della delegazione palestinese in Italia, Belal Mustafa, ha denunciato che l’80% delle risorse idriche palestinesi viene usato da Israele, che ha un controllo pressoché totale delle acque del Giordano. «Per scavare nuovi pozzi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’esercito israeliano… la maggior parte degli insediamenti dei coloni sono stati realizzati proprio in base alla presenza di falde acquifere nella zona… gli israeliani hanno a disposizione 260 litri di acqua al giorno pro-capite, mentre i palestinesi solo 70, meno degli 80 litri considerati dal processo di pace di Oslo il loro fabbisogno minimo» (da Rocca, 1 maggio 2003). Problema sottolineato anche da Jonathan Laronne, docente israeliano dell’università Ben Gurion di Tel Aviv, secondo il quale sarebbe necessaria ed indispensabile una gestione comune e pubblica della risorsa idrica per entrambi gli stati.

TURCHIA-SIRIA-IRAQ: le tensioni riguardano la Turchia da un lato e Siria e Iraq dall’altro. Sia il Tigri che l’Eufrate nascono in Turchia, attraversano per un breve tratto la Siria, per poi entrare in Iraq. Questi paesi, dato il clima molto arido, confidano sulle acque dei due fiumi, minacciati però dalla costruzione di 222 dighe, la cui conseguenza è la diminuzione del 35% dell’acqua entrante in Iraq. La Turchia sta inoltre provocando la distruzione di storia e cultura del popolo curdo, a causa delle evacuazioni e deportazioni per la creazione dei nuovi bacini.

IL FIUME NILO: questo fiume è fonte di tensioni per tutti i paesi che attraversa: Uganda e Tanzania, Sudan, Etiopia, Egitto. Questo paese è l’ultimo ad essee attraversato in ordine spaziale: il suo approvvigionamento idrico dipende, quindi, dagli stati a monte. Le tensioni più gravi sono tra Egitto ed Etiopia e tra Sudan e Uganda. Punto strategico è la città di Damazin, sede della diga che fornisce l’80% dell’acqua consumata dalla capitale del Sudan, contesa tra gli eserciti nemici.

IL FIUME GANGE: il Gange, uno dei più grandi fiumi del mondo, attraversa India, Nepal, Bangladesh. Nel 1975 l’India ha costruito una diga nei pressi di Farrakka, riducendo drasticamente l’apporto d’acqua al Bangladesh, e innescando una disputa non ancora risolta.

Si.Ba.

(rielaborato da: Civiltà dell’Acqua, www.provincia.venezia.it/cica; Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, 1 maggio 2003)

Silvia Battaglia




I COLORI NON SONO NEUTRI

A volte anche parole e simboli diventano,
senza che ce ne rendiamo conto, «violenti».
Questione di abitudine, mentalità, cultura.
Così il razzismo è sempre in agguato…

I l «simbolo» non è un prodotto di natura, come l’acqua, l’aria, la luce, la pioggia che scende dal cielo… ma è un manufatto.
Un certo interesse, alquanto intellettuale, per un tema del genere, non dipende da motivi artistici o astratti: avendo dovuto insegnare in Mozambico per diversi anni ho voluto, usando tutto il tatto possibile per non ingenerare suscettibilità inutili, chiedere ai miei allievi che mi dessero il significato di alcuni vocaboli esistenti nelle loro lingue, tra cui anche quello di «simbolo». Avevo notato una certa perplessità nel rispondermi e mi ero convinto sempre più che probabilmente noi occidentali importiamo concetti che esulano dalla loro mentalità.
Il vocabolo «simbolo» (dal greco sun ballo) significa «mettere insieme» due elementi, di cui uno esistente in natura (come cosa) e l’altro con proprietà spirituali, dall’uomo e dalla sua capacità creativa. I simboli esistono perché esistono gli uomini, come il tempo. Forse i simboli sono il primo prodotto dell’uomo in quanto uomo.
Un giorno un africano scrisse una lettera ad un bianco (un bianco ipotetico) del seguente tenore:

Caro fratello bianco,
quando sono nato ero nero.
Quando sono cresciuto ero nero.
Quando mi metto al sole resto nero.
Quando muoio sarò sempre nero.

Ma tu, uomo bianco,
quando sei nato eri rosa.
Quando sei cresciuto eri bianco.
Quando vai al sole diventi marrone.
Quando sei arrabbiato di collera
diventi rosso.
Quando hai freddo diventi blu.
Quando hai paura diventi verde.
Quando sei ammalato diventi giallo.
Quando muori sei grigio.

E hai il coraggio di chiamare me
«uomo di colore»?

I colori sono simboli. Ma tra tutti, quello nero viene caricato generalmente di significati perversi e violenti.
LA NATURA DEI SIMBOLI
I simboli sono forme visibili di realtà invisibili. Ciò avviene quando un oggetto materiale si carica di valori o significati che vi mette l’uomo. Una bandiera, un mazzo di fiori, il canto della Marsigliese (è stata cantata anche nella rivoluzione russa del 1917!) o di alcune arie del Nabucco, l’uso magico del fuoco o dell’acqua (in tutte le culture)… vanno al di là della loro pura materialità.
Il simbolo è come un’impronta digitale ed è sempre allusivo. Tra i simboli, il più eccellente (e che non ha limiti nelle sue forme quasi infinite) è il dono. Tutto può essere trasformato in dono: un fiore di campo come una gemma preziosa; ma possiede sempre, oltre al valore dell’oggetto materiale, un plus valore di carattere spirituale, che aggiunge chi dona o chi riceve il dono.
Il simbolo è sempre un’uscita libera e concreta del nostro io verso altri. In genere i simboli, quelli veri, sono dei tentativi di perpetuare nel tempo qualcosa di noi. Come si fa con i testamenti e nei giuramenti di fedeltà. I simboli non sono delle forme algebriche, ma arabeschi e melodie. Non illuminano soltanto l’intelligenza, ma riscaldano il cuore.
È pure certo che l’uomo sente il bisogno di creare dei simboli. Perché tanta gente ha reso omaggio ad una donna di nome Diana? Il popolo non l’ha trasformato in un «mito», ma in simbolo: il che è diverso. Tutti noi siamo assetati e affamati di simboli.
Però c’è anche un risvolto negativo e pericoloso (come in tutte le cose belle) in questa necessità di creare e di servirci di simboli, specie quando quest’uso fosse inconscio. L’animo umano è generoso, specie nei «doni»; ma sovente è anche aggressivo e può servirsi dei simboli per ferire più ferocemente o, addirittura, uccidere: se non fisicamente, moralmente.
Viene in mente il romanzo di François Mauriac, Groviglio di vipere: il vecchio e ricco avvocato consuma la sua esistenza nell’odio contro tutti, compresi moglie e figli, e lo fa diseredando tutti, con un testamento feroce; osserva di nascosto i membri della famiglia in attesa del bottino, come si guarda una mosca alle prese con un ragno… Ma la moglie muore prima e così tutta la sua carica di vendetta sfuma.
Si pensi anche alla carica simbolica, non sempre positiva, che c’è nella nostra «domenica» cristiana, in confronto al «sabato» ebraico o al «venerdì» musulmano. Nel nostro mondo questi giorni sono legati anche alla pausa nel lavoro, quindi ci sono problemi finanziari e problemi sindacali, ma anche di carattere puramente simbolico. È solo con Costantino, infatti, quando la chiesa diventa istituzione di stato, che la «domenica» prevarica e si carica anche di violenza verso chi non è cristiano.
L SIMBOLO,
INESAURIBILE MINIERA

Si tratta di uno degli aspetti della creatività dell’uomo. Simboli sono anche le parole che ci escono dalla bocca: hanno una loro vita segreta e non esiste nulla che sia più soggetto alle bizzarrie della moda delle parole che sono nei nostri vocabolari. Come c’è accuratezza nella scelta dei vestiti, che possono anch’essi trasformarsi in simboli (presentarsi alla Camera dei deputati in jeans o vestiti da pagliacci!), così c’è accuratezza e varietà di sfumature nell’uso delle parole; ad esempio, storpiamo volutamente il nome di una persona.
Le parole possono scatenare una guerra sui nomi delle persone (ad esempio nelle etnie bantu, quasi tutta l’Africa subequatoriale, in India e altre località, i bambini ricevono tre nomi che hanno tutti un significato particolare). Con le parole si può giocare; le si può far camminare sul filo come se fossero dei funamboli, con sottintesi, analogie, paragoni, metafore. Per esempio, nelle lingue africane i nomi hanno i prefissi che indicano le categorie (o classi). C’è quindi la categoria degli animali, delle piante, ecc. L’uomo ha un certo prefisso: se per disprezzo a una persona, anziché mettergli il prefisso di uomo, gli si mette il prefisso di un animale, evidentemente gli si fa un’offesa profonda.
Nella nostra lingua italiana le parole «nero» e «negro» di per se non assumono un carattere dispregiativo, mentre negli Stati Uniti era in uso, e forse lo è ancora, in senso dispregiativo la parola nigger (in slang «niga»). Noi italiani, forse, faremmo bene a scrivere le parole negro, nero, afro-americano, africano, quando sono sostantivi, con l’iniziale maiuscola per eliminare nelle persone di razza nera ogni suscettibilità.
In pittura si potrebbe, ad esempio, citare il caso di Goya con le sue cosiddette «pitture nere»: in un momento triste della sua vita, ritiratosi in solitudine nella Quinta del sordo, dipinse le pareti di questa sua abitazione con immagini tragiche e ossessive, riflesse nella visione tetra della sua mente angosciata, per l’appunto pitture nere! Oppure nei dipinti di Van Gogh colori, immagini e vita fanno un tutt’uno.
C’è una carica simbolica nel velo. Nel medioevo il velo era considerato un capo elegante del vestiario femminile. Ne abbiamo uno stupendo sviluppo nell’arte italiana dei velari. Ma quale significato ha il velo imposto alle donne musulmane? Il racconto di Nataniel Hawthoe dal titolo Il pastore dal nero velo sul volto, velo mai deposto, neppure nella tomba, ha del macabro.
Nell’argentino Jorges Luis Borges, cieco, ci sono i simboli dello specchio e del labirinto; in Umberto Eco c’è il simbolo del pendolo, in Elsa Morante quello dell’isola e del mare.
IL SIMBOLO DEI COLORI

Un proverbio recita: «Non ha importanza il colore del gatto, purché acchiappi i topi». Un maestro delle elementari un giorno fece questa domanda ai suoi bambini: «Se tutte le persone buone fossero bianche e tutte quelle cattive fossero nere, voi di che colore sareste?». Una piccola risposta: «Signor maestro, io sarei a strisce». Ma una domanda del genere sarebbe opportuna in Africa, dove tutti i bambini sono neri o qui tra noi in una classe con bambini bianchi e neri?
Pare che gli antichi egiziani fossero raffinatissimi nell’uso dei colori, tanto da identificare l’essere di una persona con il colore. Cosa non insolita, perché nella cultura greca, ad esempio, la persona era qualificata dalla maschera che portava sul viso, il cosiddetto prosapon, che significava dare un colore, dare un valore alla persona.
In Egitto quando si affermava che non si conosceva il colore di una divinità, significava affermare la sua trascendenza e imperscrutabilità. Nelle nostre città del nord domina il nero-fumo; i semafori hanno il verde per indicare via libera, il rosso per indicare senso vietato.
Le bandiere sono dei simboli a colori per eccellenza (vedi riquadro). Si discute sul nostro «tricolore». Pare derivi dalla bandiera della rivoluzione francese (bianco, rosso, azzurro); l’azzurro, simbolo della rivoluzione, sarebbe stato sostituito al verde, colore massonico, ereditato dai giacobini e adottato dai fautori del risorgimento.
In Africa, su 51 stati almeno 17 hanno nelle loro bandiere il nero. Il verde, poi, appare in quasi tutte le bandiere degli stati musulmani: quella libica è tutta verde, l’algerina per metà è verde, perché il verde è il colore dell’islam. Forse anche l’accecamento causato dalla sabbia del deserto porta a considerare il verde, come un colore riposante.
Nella bibbia l’innamorata dice al suo amato: «Nigra sum, sed formosa» (ho la pelle scura, eppure sono bella, Cant 1,5). «Scura come le tende dei beduini, bella come i tendaggi del palazzo di Salomone».
Ma, al contrario, gli assediati in Gerusalemme, al tempo di Geremia, erano diventati tutti «neri». Di loro si diceva che «sembravano più neri della fuliggine e non si riconoscevano per le strade» (Lam 4, 8).
Nella liturgia cattolica sono in uso i quattro colori: bianco, rosso, verde, viola: colore, quest’ultimo, segno di penitenza e tristezza. C’era anche il nero nella liturgia dei defunti, ma fu abolito con la riforma liturgica.
In un testo cristiano molto antico, composto nel secondo secolo, la cosiddetta Lettera di Baaba, c’è un capitolo dal titolo «La via della luce» e un altro «La via delle tenebre». Quest’ultimo inizia così: «La via del Nero (con la «n» maiuscola!) invece è tortuosa e piena di maledizione». È evidente che qui «nero» sta per diavolo.
In Africa i colori basici sono il rosso, il nero e il bianco. Il rosso indica vita (dal sangue); il nero la notte, la sofferenza, le prove; il bianco la morte. Quindi tutto il contrario della nostra mentalità.
Senghor, ex-presidente del Senegal, cattolico, scriveva: «L’uomo nero con il suo colore è come immerso nella notte, notte primordiale: egli non vede l’oggetto, ma lo sente, l’intuisce, aperto com’è a tutte le onde della natura». Quindi il nero si distinguerebbe dai bianchi perché ha l’istinto pronto, intuisce le cose; è nella notte, però le percepisce ugualmente. E questa capacità intuitiva, più che raziocinante, starebbe alla base, secondo lui, della cosiddetta négritude.
Una cantante francese cantava: «Il nero è un colore di festa, di sera, di notte sfavillante, di dignità, di danza, di seduzione, e anche di dispiaceri. Bien sûr».
Montale inizia una sua poesia (Il raschino) con questo verso: «Crede che il pessimismo / sia davvero esistito»; e termina così: «… Ora tutti i colori esaltano / la natia tavolozza, escluso il nero». Il Corriere della sera (luglio 1997), a riguardo del concorso di «Miss Italia», vinto da Denny Mendez, intitolò un articolo: «Miss Italia, mai più nera».
Nel nostro linguaggio italiano (o nella nostra mentalità) il colore «nero» è sempre legato a qualcosa di tremendamente negativo, malefico e diabolico. Esso indica tutto ciò che c’è di più negativo in noi e intorno a noi. È una litania senza fine: umore nero, lavoro nero, mercato nero, borsa nera, toto nero, peste nera, pozzo nero, messe nere, persino «grazia nera»…
Il caso più patetico (oltre al film «Indovina chi viene a cena?») incontrato nella letteratura è il romanzo, dal titolo «Storie di bianchi», scritto da un americano nero, Langston Hughes. In questo romanzo troviamo una lettera scritta da un mulatto, di caagione però completamente bianca. La lettera è inviata alla madre negra. Questo giovane è ormai inserito nel mondo dei bianchi, ha una bella fidanzata bianca. In questa lettera chiede scusa a sua madre perché, avendola incontrata per strada a braccetto con la fidanzata, aveva fatto finta di non conoscerla. Egli scrive: «Quando ci si fa passare per bianchi, la cosa tragica è proprio questa, che si deve rinnegare in pubblico la propria famiglia e persino la propria madre. È una cosa terribile, mamma, e detesto il doverlo fare, anche se tu mi dici che ciò non ha importanza. Io sposerò una bianca… e se arrivasse un figlio nero, giurerò che non è mio figlio. Perché non intendo ricadere nel pantano nero».
Ciò che colpisce sono le parole «pantano nero». Si tratta di un romanzo, ma la fiction non è molto lontana dalla realtà.
Qui la violenza del simbolo è terribile e non solo da un punto di vista psicologico. I neri li abbiamo schiavizzati e umiliati anche così.

BANDIERE DI PACE
Ogni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.O gni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.
Bandiere, stendardi e vessilli hanno una funzione: in passato, aveva grande importanza sui campi di battaglia dove, mancando ogni trasmissione radiofonica, distinguere i propri colori da quelli dell’avversario significava praticamente avere salva la vita. Ancora oggi le bandiere utilizzate sulle navi sono mezzo di segnalazione e riconoscimento.
In prospettiva psicologica, la bandiera suscita nel cuore di milioni di persone emozioni e sentimenti legati a valori assoluti; essa diventa il segno più semplice ed efficace per assumere e «tradurre» tali valori in scelte esistenziali, coinvolgendo la persona nella sua globalità, fino a dare la vita per l’ideale da essa rappresentato o per la bandiera stessa.
Quando avvenimenti epocali sconvolgono assetti ed equilibri sociali e politici, le bandiere «parlano da sole». Ne è un esempio la portata storica che ebbe il tricouleur durante la rivoluzione francese e la bandiera rossa con la falce e martello durante la rivoluzione russa, modelli ripresi con molteplici varianti in vari paesi del mondo.

Si hanno testimonianze di simboli ed emblemi «nazionali» fin dall’antico Egitto, subito imitati da Assiri e Babilonesi. Nella bibbia sono ricordate le insegne delle 12 tribù d’Israele in marcia verso la terra promessa.
I Romani avevano i signa (insegne) per la fanteria e i vexila (vessilli) per la cavalleria; il simbolo dell’aquila era utilizzato dalle legioni romane in ogni angolo dell’impero.
Ai tempi di Costantino iniziò l’adozione di un labaro con la croce, simbolo poi largamente utilizzato dalle nazioni europee nate dallo sfascio dell’impero romano e bizantino.
Nelle conquiste del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, gli arabi dispiegavano bandiere bianche, nere e verdi, rispettivamente degli omayyadi, abbasidi e alidi: colori tutt’ora preminenti (col rosso degli ottomani) nelle bandiere dei paesi arabi odiei.
A partire dal medioevo, la bandiera si affermò in tutti i regni europei come simbolo nazionale.
Suggestiva è la storia del dannebrog, la più antica bandiera del mondo, ancora in uso in Danimarca: narra una leggenda nordica che, durante una terribile battaglia contro gli estoni, a quel tempo ancora pagani, i danesi implorarono l’aiuto divino e dal cielo scese un drappo di lana rossa con una croce bianca, che terrorizzò i nemici e li mise in fuga.
Con diverse varianti di colore, il dannebrog è stato adottato da tutti i paesi del Nord Europa.
Curiosa è pure l’origine della bandiera pontificia: bianco e giallo erano i colori caratteristici degli stendardi di Goffredo da Buglione: dopo che il famoso condottiero conquistò Gerusalemme, nella prima crociata, tali colori furono adottati come simbolo dello Stato Pontificio, con l’aggiunta delle chiavi di san Pietro.
La bandiera è un simbolo che provoca ancora un grande impatto sull’opinione pubblica. Che emozioni abbiamo provato nel vedere migliaia di americani con le bandierine a stelle e strisce in mano nei momenti di preghiera dopo l’attentato delle Torri Gemelle; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino sostituendola con il tricolore in uso sin dai tempi degli Zar; durante il «mitico 1989», quando i popoli dell’Est strappavano gli emblemi comunisti dalle bandiere nazionali per inalberare orgogliosamente bandiere lacere e strappate, finalmente affrancate dai simboli del dominio marxista. Abbiamo provato anche noi la sensazione dell’inizio di una nuova epoca di libertà per tutti.
Ma chi non sente un brivido per la schiena, vedendo giovani muscolosi e incoscienti brandire le svastiche, mentre inneggiano al nazismo e ostentano violenza e odio?
E come non sentire un’istintiva simpatia, di fronte alla mobilitazione dei popoli indigeni delle Ande che, rivendicando diritti e dignità, sventolano la whipala, la multicolore bandiera degli aymara e quechua: essa è composta da una serie di riquadri colorati, disposti su linee diagonali, il cui suggestivo riferimento cromatico raffigura l’iride e allude alle istanze della gente andina.
Sono gli stessi colori dell’arcobaleno, che un formidabile movimento di massa ha rilanciato su scala nazionale e mondiale, identificando in quel simbolo l’anelito di pace che gli arroganti di tuo hanno cercato di sbeffeggiare e soffocare. Forse è dai tempi del risorgimento che l’Italia non vede milioni di persone «vibrare» così intensamente di fronte a una bandiera.
La pace, anelito fondamentale di tutti gli uomini di buona volontà, ha fatto fiorire i balconi di tutta la penisola e garrire al vento questa immensa voglia di giustizia e libertà. Una bandiera questa, da non ammainare mai più.

don Mario Bandera

Igino Tubaldo




INCHIESTA Multinazionale Gisas

Jesus (pronuncia gisas) risuona anche in Italia, da televisioni gestite da culti made in Usa e loro adepti. La Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), per esempio, piazza prodotti religiosi miracolosi. Alcuni abboccano, ma non molti.

Negli ultimi anni, l’offerta televisiva italiana si è «arricchita» di un nuovo prodotto: la Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), un canale televisivo di esclusiva programmazione religiosa, derivata dalla Tbn, televisione evangelical statunitense. (Evitiamo il termine evangelico, proprio delle chiese storiche del protestantesimo che si riconoscono nelle posizioni del Consiglio ecumenico delle chiese).
La Tbn è un colosso forte di 800 stazioni televisive sparse per il mondo e un patrimonio pari a 2 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone: la capitalizzazione della Fiat ammonta a 5 miliardi di euro.
Ispirata da un pastore pentecostale dell’Assemblea di Dio, Paul Crouch, la Tbn fu fondata a Los Angeles nel 1978. Televisione eclettica, inizialmente molto spartana, essa dava voce ai predicatori più carismatici e di moda del tempo, alcuni dei quali coinvolti poi in scandali giudiziari e morali.
La Tbne italiana ha come scopo il proselitismo, ma non direttamente, non essendo una denominazione definita. Di fatto ai suoi microfoni si alternano predicatori dei gruppi più svariati. Costoro sono al vertice di para-chiese vicine alla Tbne, agenzie di servizio per persone che, ascoltati i predicatori, sono liberi di scegliere il gruppo che più piace, senza indicazione da parte della televisione.
A Torino, per esempio, sono decine le para-chiese segnalate dalla Tbne. Essa funge da centro di smistamento per persone che andranno a finire in molte altre denominazioni. Ovviamente l’ampiezza dell’offerta dipende dalla condivisione della teologia evangelicale, che è conservatrice, di stampo pentecostale o carismatico.
Nonostante gli sforzi, il travaso dal cattolicesimo al protestantesimo evangelicale è quasi assente, tranne in alcune zone del meridione, come l’hinterland napoletano e la Sicilia, dove risulta fondamentale il carisma dei predicatori di successo.
RELIGIONE… SPETTACOLARE
Non è facile trovare parole adatte per descrivere funzionamento e programmazione televisiva della Tbne. Due esempi possono evidenziare gli aspetti più grotteschi e pittoreschi del fenomeno nel suo complesso.
Il primo esempio riguarda la figura di Benny Hinn, un predicatore riconducibile al Faith Movement (movimento della fede, nato nel mondo pentecostale, molto diffuso in Svezia e Usa, che attribuisce alla preghiera la possibilità di conseguire successo, ricchezza e denaro).
In un libro autobiografico, «Buongiorno Spirito Santo», egli racconta la sua storia di anima persa e del risveglio avvenuto a Boston, grazie alla chiamata dello Spirito Santo.
Fine conoscitore della bibbia, aria mistica e grande comunicatore, mister Hinn è forse il più importante predicatore evangelical degli Stati Uniti e guarisce decine di ossessi, storpi, paralitici, malati di cancro, esauriti mentali grazie all’aiuto dello Spirito Santo con cui vive, lui dice, in comunione.
La televisione lo mostra in azione in uno stadio stracolmo, davanti a decine di migliaia di persone estasiate o in trance, braccia alzate, occhi socchiusi, guance rigate dalle lacrime, canti, urla. Benny inizia a soffiare nel microfono e il suono viene amplificato per tutto lo stadio. Gruppi di persone svengono, cadendo al suolo come pere mature.
Ecco il nostro Benny in un’altra scena spettacolare: sul palco di un palazzetto dello sport sfilano davanti a lui decine di casi umani che, a suo dire, hanno ottenuto grazie di vario genere; quindi arriva il suo magico tocco e le persone cadono stecchite; non si fracassano la testa grazie all’intervento di forzuti aiutanti, che acchiappano al volo i miracolati.
Talvolta però anche i migliori piazzisti si tradiscono…
Ecco salire sul palco una famigliola: spiegazione di disgrazie a profusione e relativi miracoli; poi Benny tocca papà e mamma che crollano al suolo. Ma i pargoli vengono cautamente evitati… Non si sa mai, con i bambini dispettosi che ci sono oggi, potrebbero rimanere in piedi.
Un secondo esempio, importante anche se non occupa molto spazio nella programmazione, delle rappresentazioni religiose della Tbne è quella dei Power Team: alcuni energumeni invocano il Cristo morto in croce per la remissione dei peccati di tutti i presenti; poi spaccano tronchi e mattoni, fanno scoppiare lattine di coca piene, oppure si esibiscono in altre prove di forza bruta e demenziale. Tali imprese sono accompagnate da paurosi momenti di estasi da parte degli spettatori, che pregano convinti affinché il muscoloso di tuo compia la prodezza che inizialmente non riesce a fare.
Un’americanata, si dirà. Vedere stadi stracolmi, in preda a un delirio collettivo, con mancamenti, lacrime, guarigioni, conversioni e molto altro, è impressionante, ma non aiuta a crescere nella fede, specialmente se si pensa alle nostre sparute parrocchie di campagna, dove il prete, che non veste griffato come le stars religiose made in Usa, fa i salti mortali tra una chiesa e l’altra.
La figura del profeta predicatore, guaritore non è un’invenzione di mister Hinn, della Tbne o altri predicatori che si alternano nei vari spettacoli religiosi. Il copione è il solito, cambia solamente l’approccio tecnologico: in un mondo perduto, il profeta, specie se carismatico, che crede in comunione con lo Spirito Santo, raccoglie adepti dalle correnti protestanti tradizionali che vedono in lui l’unica «arca della salvezza».
Miracoli e guarigioni sono mezzi con cui fare proselitismo, utilizzati per convincere della propria unicità e divina elezione.
PREDICATORI E MISSIONARI
C’è turbamento quando si confrontano questi quotidiani spettacoli miracolosi, rivolti a persone ricche e ben pasciute, con il lavoro di chi i miracoli li fa sul serio, mandando avanti scuole e ospedali a rischio della propria vita, nella foresta amazzonica, tra malaria e acqua fetida, o in altri posti del mondo anche peggiori. Di questi silenzio assoluto!
Centinaia di migliaia di persone corrono da tempo dietro una religione che assomiglia sempre più a un business show, dove chi la spara più grossa vince la partita: si accaparra fedeli e quindi fa incasso.
Gente in lacrime che sviene, ossessi che sbraitano, visioni collettive, paralitici che fanno volare le stampelle… in un tripudio di autosuggestione collettiva tutto è fattibile.
E poiché tra i film di Hollywood e realtà ormai non c’è più distinzione, anche la religione risulta inquinata dall’ossessiva richiesta da parte del pubblico di spettacolo mozzafiato.
Certo stiamo parlando di una cosa americana, che però viene propinata con la forza dirompente della televisione nelle case di milioni di persone in tutta Europa.
In una società che stravede per tutto quanto arrivi da oltre oceano, che luccichi di grandezza e opulenza, sfarzo e lusso sfrenato, la megalomania emanata dai vari predicatori ha successo. Denaro, potere, ricchezza passano per segni della benevolenza di Dio, in un’ottica calvinista-weberiana.
SODDISFAZIONE DEL CLIENTE
Durante il giorno vengono mandati in onda cartoni animati biblici per i bimbi, gruppi rock e rap che inneggiano al Signore, dibattiti religiosi, telegiornali e molto altro. E la programmazione è completa.
Parte dei programmi sono spezzoni ripresi dalla Tbn statunitense; l’altra è prodotta in Italia, nei nuovi studi di Varese. Tutto con una netta impostazione ultraconservatrice.
L’appoggio alla guerra in Iraq ne è un esempio eloquente; e tutto condito di accenni apocalittici, dal momento che i luoghi si dove si svolgevano i combattimenti è la biblica Babilonia.
Nell’abbondante parte di programmi prodotti in Italia, grande spazio è riservato a Chuck e Nora che, bibbia alla mano, portano avanti la raccolta di fondi per il finanziamento della Tbne, con iniziative come il lodathon: fai un’offerta e essi pregano per te in televisione.
In un ambiente ultra kitch, con ori e troni, ogni giorno vengono lette decine di lettere di persone che chiedono grazie e guarigioni da malattie più o meno serie.
SANTI E PECCATORI
Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli.
Il mondo dei predicatori televisivi presenta due aspetti: il primo, il più appariscente, è quello dell’opulenza e dello sfarzo; il secondo è più povero, dove persone idealisticamente motivate giungono a pagare di tasca propria gli spazi televisivi.
Un mondo di santi e peccatori. In fondo la Tbne non ha inventato nulla di originale: i fenomeni più inquietanti sono ripresi da ambienti già esistenti nel mondo protestante, soprattutto quello più caldo. Tutto, però, è ora unito alla potenza comunicativa della televisione, vero elemento innovatore di tutta questa storia.
Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono. Ma il suo proselitismo è scarso, indice che il tutto si ferma a un fenomeno di costume, almeno in Italia, dove più salda è la presa della chiesa cattolica. Oppure, molto più semplicemente, i nostri parroci sono più credibili degli spettacolari predicatori made in USA.

Maurizio Pagliassotti