MATIRI (KENYA): progetto «Acqua per la vita»

STREGATI DA UN SOGNO
È quello di padre Orazio
Mazzucchi, parroco di Matiri
(Kenya): dare elettricità,
acqua potabile e irrigua
alle popolazioni assetate
della sua missione.
Il progetto ha contagiato
numerose persone
e organismi, fino a tradurre
il sogno in realtà.

Indimenticabile Matiri! Vi arrivai
una sera dell’ottobre 1998, dopo
un paio d’ore di viaggio, fendendo
la polvere sollevata dall’auto
che ci precedeva. Nonostante i finestrini
chiusi, penetrava implacabile e
si amalgamava al sudore provocato
dal calore crescente a mano a mano
che dall’altopiano del Meru si scendeva
verso la regione del Tharaka.
Una bella doccia era in testa a tutti
i desideri; ma dovetti mettermi in
fila e attendere un paio d’ore prima
che il serbatornio dell’acqua si riempisse
nuovamente.
Il giorno dopo compresi le cause
dell’inghippo, quando padre Orazio
Mazzucchi mi portò sul ciglio della
collina dove sorgono le numerose
strutture della missione, mi indicò il
fiume Mutonga, sotto uno strapiombo
di un centinaio di metri, e una
pompa asmatica che rifoiva l’acqua
a tante opere.
«Presto un grande acquedotto foirà
acqua in abbondanza per le attività
della missione e le coltivazioni
agricole della gente della zona» disse
padre Orazio. E cominciò a spiegare
il progetto che aveva in mente e
i contatti già avviati con alcune associazioni
di sostegno.
In verità, quelle spiegazioni furono
subito cancellate dalla memoria,
sia dal sole canicolare che mi annubilava
la mente, sia perché mi sembravano
un progetto faraonico.
A quattro anni di distanza il sogno
si è materializzato: un tubo di 5 pollici
rifornisce in continuazione acqua
potabile a tutta la missione.

SAVANA INFUOCATA
Matiri è la prima missione fondata
nel cuore del Tharaka, una regione
dove il termometro sfonda spesso
i 40° gradi all’ombra e che i missionari
hanno sempre descritto
come un «foo», per non dire «inferno
». Anche il paesaggio, disseminato
di colline e neri massi vulcanici,
per la maggior parte dell’anno
non ha nulla di paradisiaco, ma solo
erba bruciata dal sole, cespugli spinosi
e serpenti velenosi.
Per questo il Tharaka e i suoi abitanti
furono sempre ignorati dall’amministrazione
coloniale, ma non
dai missionari che, stabilitisi negli altipiani
del Meru, cominciarono ad esplorare
la zona già nel 1911, vi costruirono
le prime scuole e, nel 1957,
si stabilirono definitivamente a Matiri,
dando poi origine ad altre due
missioni in quella landa infuocata.
Il Tharaka rimane ancora una delle
zone più povere del Kenya a causa
di diversi fattori: isolamento geografico,
mancanza d’acqua, scarsità di
strade e mezzi di comunicazione, disoccupazione
e malanni vari, come
alcolismo e presenza endemica di varie
malattie (malaria, tubercolosi, lebbra,
parassitosi, tracoma…).
La regione, dal tipico paesaggio
della savana, ha scarso potenziale agricolo;
ma esistono, lungo i pendii
delle colline e negli avvallamenti, aree
fertili, dove la gente cerca di trarre
il sostentamento per una vita grama,
coltivando miglio, sorgo, legumi
e fazzoletti di granoturco. Nel resto
pascolano alcune capre, pecore e pochi
bovini, allevati per avere un po’
di latte e carne, ma solo in occasioni
di feste e celebrazioni: il bestiame,
secondo il costume tradizionale, serve
per «comperare» la sposa.
Ma la sopravvivenza di uomini e
bestie è alla mercé del cielo: se un anno
non piove, è fame nera.
Le strade sono sterrate e impraticabili
durante la stagione delle piogge
e polverose nel periodo asciutto.
Manca lavoro e futuro, per cui si assiste
a una continua emorragia di
giovani, che cercano fortuna a Nairobi
o nelle città della costa.
Non esistono ospedali nella zona;
quei pochi sono lontani e proibitivi e
qualche volta si rifiutano di attendere
ai pazienti del Tharaka, sapendo
che non hanno un soldo in tasca.
Per rispondere alle esigenze della
popolazione della parrocchia, 46 mila
abitanti su un territorio di 600
kmq, Matiri si è sviluppata enormemente
e offre servizi d’importanza vitale:
un dispensario, dove ogni giorno
vengono curate circa 300 persone
e che sta diventando un piccolo ospedale,
grazie alla presenza continua
di una infermiera professionale, Rita
Drago, e alla presenza periodica di
medici volontari; una mateità con
20 posti letto, dove nascono circa 50
bambini al mese; una scuola matea
con 50 allievi, una scuola elementare
con 300 alunni, una scuola secondaria
maschile con 80 allievi; il Village
Politechnic (scuola professionale)
con 90 studenti.

UN LAVORO A OPERA D’ARTE
Con tante opere e persone, l’acqua
è questione di vita o di morte. Stufo
dei grattacapi causati dalla pompa asmatica, tre anni fa padre Orazio lanciò
una duplice sfida, riassunta nel
motto «Acqua per la vita»: portare
acqua potabile alla missione e quella
del fiume nei campi della popolazione
circostante.
Nel 2001 il guanto fu raccolto dal
gruppo missionario «La sola verità è
amarsi» di Barzanò, da decenni legato
al missionario, e dall’associazione
non governativa «Mondo giusto
» di Lecco, che stesero il progetto
e cominciarono ad attuarlo.
Un gruppo di volontari brianzoli
raggiunse Matiri e spianò la strada
per il passaggio dei macchinari dalla
missione al fiume. Altri membri delle
due associazioni avviarono la raccolta
di fondi, coinvolgendo in una
catena di Sant’Antonio persone, organismi
e istituzioni varie, compreso
il comune di Mairago, paese natale di
padre Orazio, sindaco in testa.
Proprio a Mairago, in una giornata
di raccolta, era intervenuto per caso
Osvaldo Felissari, presidente del
Consorzio acque potabili di Milano
(Cap), che fu contagiato dal progetto
e lo presentò al consiglio di amministrazione:
seduta stante fu deciso di
fornire tubature e assistenza tecnica.
Prima, però, bisognava studiare
bene la fattibilità del piano. Mappe,
elementi tecnici e indicazioni verbali
non erano sufficienti per un’impresa
così seria. Il Cap decise di inviare
un tecnico per studiae meglio
la fattibilità sul luogo. Si offrì volontario
un ex dipendente in pensione,
Marino Anselmi, che il 20 maggio
2002 raggiunse Matiri. Per un mese
e mezzo egli studiò il terreno e, via telefono,
chiedeva gioalmente aiuto
all’ingegnere capo del Cap per risolvere
i problemi che incontrava.
Quindi, da Milano furono spediti
vari container con tubi, pompa, filtri,
generatore e materiale di consumo;
da Barzanò furono inviati una ruspa,
martello pneumatico e ricambi; dalla
Malpensa partirono idraulici ed elettricisti
che, arrivati a Matiri, si misero
subito al lavoro, attorniati da un
nugolo di ragazzini e altri curiosi.
Si cominciò a riattivare un pozzo,
trivellato da tecnici svedesi a poche
decine di metri dal fiume Mutonga e
mai usato. Con l’impiego di 60 operai
locali, ne fu ampliata la bocca fino
a 37 metri di profondità e posta
la pompa: dopo una settimana il
pozzo era riattivato.
Ma il diavolo ci mise subito la coda:
la pompa si rivelò inadeguata e si
guastò irrimediabilmente. Nel giro
di pochi giorni, il Cap spedì per via
aerea altre due pompe (una di riserva)
di potenza superiore alla prima.
Ma i funzionari della dogana di Nairobi,
con scuse cavillose, fermarono
la cassa con i macchinari per una decina
di giorni, mettendo a dura prova
la pazienza dei tecnici milanesi.
Le nuove pompe erano perfette
per il pozzo africano: potevano erogare
1.000 litri di acqua in 8 minuti,
il tempo necessario per svuotare il
pozzo, che ritorna al livello primitivo
dopo 40 minuti. Una scelta tecnica
azzeccata: consentiva di risparmiare
carburante e non si rischiava il cedimento
delle pareti del pozzo, essendo
questo circondato dalla roccia.
A questo punto iniziò la seconda
fase dell’intervento: la posa delle tubature,
per una lunghezza complessiva
di 1.200 metri e con un dislivello
di 200.
Con la ruspa venne scavata la trincea
e disposta una duplice linea di
tubi: l’una in plastica (Pvc), destinata
all’acqua potabile; l’altra, molto
più grande, in acciaio, per il futuro
impianto di irrigazione. La saldatura
di questi ultimi richiese un lavoro
acrobatico, data la natura rocciosa e
il dislivello della collina.
Mentre si ponevano i tubi, i volontari
di Barzanò cornordinarono il
lavoro dei muratori nella costruzione
di una cabina per il pozzo riattivato
e un locale per la stazione di
pompaggio, a fianco del quale Anselmi
istallò un filtro a sabbia, per
depurare l’acqua dall’argilla, e un
bypass per il contro lavaggio, per facilitare
la manutenzione dell’impianto.

BRINDISI CON ACQUA GELATA
Il 2 giugno 2002 è un giorno storico
per Matiri: da un tubo di 5 esce la
prima acqua potabile, tra il tripudio
della gente. La sera, missionari, volontari
e tecnici brindano con bottiglie
di acqua refrigerata, quella che,
con ironia e malcelato orgoglio, Anselmi
battezza col suo nome: «Acqua
Marino: ha un sapore gradevole, incomparabilmente
migliore di quella
del fiume, da cui attinge la gente del
posto, mettendo a rischio la salute».
Le analisi successive ne confermeranno
la bontà.
Il signor Anselmi è tornato a casa
entusiasta dell’esperienza africana,
non solo per la riuscita del progetto,
ma per le tante cose imparate dalla
gente. «Da quando sono in pensione,
ho fatto tanti viaggi all’estero, in
Cina, Nepal, Africa, Messico; ma
tutti insieme non valgono questa esperienza».
Ciò che maggiormente lo ha sorpreso
è la preparazione tecnica di alcuni
collaboratori, usciti dalla scuola
professionale di Matiri. «Tutti eccellenti
– precisa Anselmi -, uno lo
era in modo particolare, Joseph: si è
dimostrato un bravissimo saldatore,
operaio affidabile e molto intelligente.
A qualcuno ho dovuto insegnare
come tenere il badile: lo imbracciava
all’apice del ferro, facendo fatica
doppia; ma una volta imparato, lavorava
con lena e ammirevole efficienza».

IL SOGNO CONTINUA
Terminato il primo acquedotto, i
tecnici del Cap hanno lasciato Matiri,
ma non è detto che non possano
tornare a dare gli ultimi ritocchi al lavoro
compiuto fino a oggi e a quello
ancora in corso e provvedere all’addestramento
di personale locale per
la manutenzione dei vari impianti idraulici.
Nella missione, infatti, è rimasto un
volontario di Barzanò per chiudere il
cerchio del progetto «Acqua per la
vita»; un sogno non meno ambizioso
di quello già portato a termine.
Superati gli intoppi provocati dalle
rivalità dei clan, è già stato scavato
un canale di 2,5 km per prelevare
l’acqua a monte del fiume e, con una
caduta di 15 metri, alimentare una
turbina elettrica, per poi essere convogliata
nei tubi di acciaio e irrorare
alcune aree agricole attorno alla missione.
Tale acquedotto permetterà alla
popolazione di rendersi economicamente
autonoma, coltivando prodotti
non solo per il sostentamento
familiare, ma destinati anche alla
commercializzazione.
La centrale idroelettrica, invece,
foirà la corrente necessaria alle numerose
strutture della missione. Il
surplus energetico diuo e notturno
sarà utilizzato per il pompaggio
dell’acqua potabile e irrigua.
Si prevede che per la seconda metà
di quest’anno l’opera sarà in funzione.
«Avremmo potuto ingaggiare
una compagnia di Nairobi, che avrebbe
fatto il lavoro in pochi mesi –
spiega Franco Godina, presidente
del gruppo “La sola verità è amarsi”
e sindaco di Barzanò -, ma abbiamo
preferito coinvolgere la gente, dando
lavoro e facendo in modo che
sentano il progetto come cosa propria,
anche se la realizzazione definitiva
richiederà un paio d’anni. Al
tempo stesso si prepara il personale
che possa curare la manutenzione
e gestione ordinaria
della struttura».

Benedetto Bellesi