MORTI E… RISORTI

Doncello, Colombia. Il paese cresce a vista d’occhio da quando il
governo ha diviso la foresta circostante in tante fette e le ha assegnate
a un centinaio di famiglie, fuggite dalla violenza e insicurezza di altre
regioni del paese. Con un prestito della Banca agraria, tirano su un ranchito
(capanna), disboscano tutto attorno qualche ettaro di selva e cominciano a
seminare riso, granturco, banane… finalmente felici di essere padroni di un
pezzo di terra. Ma il denaro scarseggia…
Francesco, padre di quattro figli, un giorno si presenta addolorato e piangente:
mi annuncia che sua moglie è morta. Conoscevo bene la sua signora; più di una
volta, visitando le famiglie, avevo dovuto fermarmi, accettare un caffè e benedire i
figli. Mi commuovo anch’io, quando mi chiede di aiutarlo a pagare il funerale e le
spese sostenute per la degenza della defunta all’ospedale di Florencia.
Svuoto il portafoglio; vado in chiesa, apro la cassetta delle elemosine,
raggranello 50 mila pesos e glieli consegno. «Grazie, padre!» e sparisce.
Ma 15 giorni dopo, ecco apparire la defunta. «Non sei morta» le domando.
Ignara di tutto, mi chiede di aiutarla con 20 pesos, per liberare dal carcere il
marito: aveva rubato e venduto un maiale e si era ubriacato.
«Eccoti i 20 pesos; ma di’ a Francesco di non combinare altre marachelle».
Due mesi dopo sono a Puertorico, circa 30 km da Doncello, per sostituire un
padre che deve assentarsi per alcuni giorni. Una sera, sull’imbrunire,
arrivano tre ragazzi e mi dicono trafelati: «Vieni, padre, c’è un morto
laggiù, in quella casa semiabbandonata». E mi accompagnano.
Su un tavolaccio c’è un uomo «morto», scalzo e senza camicia; quattro candele
illuminano l’ambiente e un catino posto ai suoi piedi. La gente è già arrivata
per pregare; prima di uscire, tutti depositano nel catino un’offerta per il
funerale. Faccio anch’io la mia elemosina.
Mentre prego, cerco di conoscere il tipo che, avendo la testa piegata
e nell’ombra, non riesco a riconoscere. Domando ai
presenti. Mi rispondono due sconosciuti: «Siamo venuti
a pescare ed è stato colto da infarto. Domani faremo i
funerali e toeremo a casa».
Ma il giorno dopo il morto è scomparso. Verso
mezzanotte, quando non c’era più nessuno a pregare, il
morto si era alzato, aveva raccolto i soldi nel catino e se
l’era svignata con i due amici: era il solito Francesco,
morto e risorto.

Giovanni De Michelis




ISTITUTI MISSIONARI la loro azione in Italia oggi

PRENDERE IL LARGO, INSIEME

Radiografia
(quasi scientifica)
di una presenza:
dati, statistiche,
percentuali…
E qualche punto
interrogativo.

All’inizio di febbraio dello scorso
anno, 15 istituti esclusivamente
missionari presenti in
Italia (cfr. inserto) si sono incontrati
ad Ariccia (Roma) all’insegna del tema:
«Insieme, prendere il largo».
Dall’analisi e discussione delle risposte
date dai singoli istituti a un
previo questionario, emergono i
problemi, difficoltà, timori e speranze
sul futuro della loro presenza
nella chiesa italiana. Oltre ai dati numerici
(quanti e dove sono i missionari
in Italia, che età hanno, quali i
loro impieghi, ecc.), sono importanti
le motivazioni e prospettive di tale
presenza, per un cammino di collaborazione.

NON SONO SOLO NUMERI
Quanti sono i missionari di origine
italiana e che percentuale occupano
nella composizione degli istituti?
Una domanda essenziale per «misurare
» il grado di inteazionalità.
Il primo dato stabilisce che sono
5.283 i missionari italiani appartenenti
ai vari istituti, su un totale di
19.797. Per il secondo dato, circa i
missionari e missionarie di origine
nordamericana, latinoamericana, asiatica
e africana, le percentuali sono
diverse, dovute all’origine, storia
e campi di azione dei singoli istituti.
Essi contano complessivamente
7.910 membri: 4.603 italiani e 3.307
non italiani (58,2% di origine italiana
e 41,8% non italiana). L’ultima
cifra rappresenta il grado d’inteazionalità
degli istituti missionari di
origine italiana.
Quanti sono i missionari in Italia
oggi? I numeri dicono 2.566. Ma
non tutti sono qui per lavoro; molti
sono in Italia per compiti istituzionali
(direzioni generali) o per riposo,
cura, aggioamento. Tale numero
comprende 84 stranieri, 27 dei quali
africani.
Ciò significa che l’inteazionalità
procede anche qui. Non si dà alcun
giudizio di valore: se è bene o male;
né si dice se il numero deve crescere
o diminuire. Si registra solo il dato.
Abbiamo pure la descrizione di alcune
categorie all’interno delle varie
comunità. Per gli istituti maschili, i
sacerdoti sono 630 e 135 i non sacerdoti.
Per gli istituti femminili, le
suore professe perpetue sono 1.366
e 22 le professe temporanee.
Più importante è la divisione nella
successiva categoria: in attività
1.264 (61,5%); in formazione 56
(2,7%); in riposo-malattia 733
(35,7%). Se appare impressionante
l’alta percentuale del personale in riposo-
malattia, stupisce la bassa percentuale
di coloro che sono in formazione.

DISPARITÀ TRA NORD E SUD
Un tempo in Italia c’erano molti
studentati di filosofia-teologia e noviziati.
Oggi la situazione è decisamente
cambiata. Il cambiamento diventa
più evidente quando si stabiliscono
le classi di età: il 68,8% dei
missionari e missionarie in Italia supera
i 65 anni, mentre solo il 6,6%
ha meno di 45 anni. L’invecchiamento, anagraficamente parlando, è
drammatico, anche in considerazione
del numero di opere che gli istituti
hanno. L’invecchiamento appare
più alto negli istituti femminili.
Circa la distribuzione del personale
nelle regioni italiane, 1.675
membri sono nel nord, 250 nel centro
(e Sardegna) e 167 nel sud (compresa
la Sicilia).
Dei membri «in attività», viene
specificato il tipo di impegno: incaricati
della formazione 52; e ciò desta
meraviglia, se si pensa come i
membri in formazione sono solo 56;
si potrebbe dire che sono quasi più
i formatori che i formati. Impegnati
nella guida e amministrazione delle
comunità sono 258.
Nell’animazione missionaria sono
impegnate 155 persone. Questo
numero appare veramente piccolo,
confrontato con le 420 persone occupate
nella pastorale e nell’insegnamento
(scuole e asili).
Un’attività che impegna numeroso
personale è quella riguardante la
cura-assistenza: 289 individui, pari
al 22,8% del personale attivo. Se da
una parte è da ammirare l’impegno
di missionari e missionarie in tale
campo, c’è da chiedersi se questa sia
la forma migliore per farsi sentire vicini
a loro, se siano le persone più adatte
per tale compito, se l’impegno
non provochi in alcuni frustrazione,
se non esistano modi alternativi.
Un altro dato: del personale missionario
in Italia, 1.825 su 2.207 sono
stati in missione. Questo solleva
due problemi: un percorso di reinserimento
e l’opportunità che la presenza
(specialmente di testimonianza)
sia adeguatamente valorizzata.
Molto importanti sono i dati sull’aspetto
vocazionale. Negli ultimi
11 anni gli istituti missionari hanno
avuto, nel loro insieme, 304 nuove
reclute di origine italiana, con una
media di 23,4 membri per istituto e
2,1 all’anno. In tale arco di tempo
non si notano tendenze significative,
né di crescita né di calo.
Circa la «provenienza» delle vocazioni,
sono ricordati in ordine decrescente:
parrocchie, movimenti,
volontariato, seminari e associazioni.
Sono nominati anche i gruppi
missionari giovanili, interni o collegati
alle parrocchie. I dati possono
stimolare una riflessione in questo
senso: le vocazioni provengono in
prevalenza da ambienti in cui è più
curata la formazione cristiana di base
o da ambienti in cui sono coltivati
i valori della solidarietà e mondialità,
ma senza uno specifico o implicito
riferimento alla fede cristiana?

CHE DIRE DI LORO?
Com’è giudicata la presenza dell’istituto
in Italia, sia dai missionari
fuori del paese sia da quelli presenti
sul territorio? Il confronto è importante,
perché misura, in maniera abbastanza
sottile, il grado di «frustrazione
» che possono avere i membri
degli istituti impegnati in Italia.
Vediamo le posizioni: mentre in
11 istituti su 12 i membri fuori Italia
dicono che l’istituto è adeguatamente
o eccessivamente presente, in
8 istituti i missionari che operano in
Italia dicono che la loro presenza è
insufficiente. Per tradurre i dati in
una battuta popolare, è come se in
11 casi su 12 i membri dicessero a
quelli in Italia: «Per ciò che fate, siete
anche troppi!»; e quelli in Italia
rispondessero, in 8 casi su 12: «Se
riusciamo a fare poco, è perché siamo
troppo pochi; o troppo pochi
sono quelli che possono veramente
fare qualcosa».
Percezioni del genere, se molto
diffuse, possono produrre scoraggiamento
nei missionari e missionarie.
Si potrebbe ipotizzare che gli istituti
debbano cogliere meglio «il
senso e la portata» della loro presenza
in Italia.
Che dire dell’opportunità di formare
comunità missionarie «miste»?
Con chi sarebbero disposti i membri
degli istituti a fare comunità, al di
fuori dei loro confratelli o consorelle?
Il quesito, forse, fa balenare una
prospettiva troppo nuova; tant’è vero
che 7 istituti su 13 la rifiutano; 6,
in particolari circostanze, sarebbero
disponibili a fare comunità con individui
di altri istituti; solo 3 con laici
e 2 con preti diocesani. Da notare
che, fra i 6 disponibili a comunità miste,
5 sono maschili e 1 femminile; i
3 disponibili a fare comunità con laici
e i 2 con sacerdoti diocesani sono
maschili.
In conclusione: solo 1 istituto femminile
su 7 è disposto a creare comunità
con membri diversi dal proprio
istituto e solo con membri di istituti
missionari.
ITALIA, TERRA DI MISSIONE?
C’è una domanda che pone un
problema molto attuale, dibattuto
anche a livello ufficiale: bisogna assumere
in Italia impegni assimilabili
a quelli della missione ad gentes?
Cinque istituti (3 maschili e 2 femminili)
sono nettamente contrari.
La ragione è che l’ad extra fa parte
integrale della vocazione missionaria
specifica. Qualcuno precisa che
non si tratta di un teorico ad extra
geografico, ma del fatto che gli spazi di prima evangelizzazione sono
immensamente più ampi in altri
paesi e continenti che in Italia.
Sono favorevoli, invece 8 istituti (5
femminili e 3 maschili) e le ragioni
sono riassunte così: dove c’è un compito
di prima evangelizzazione, questo
rientra nelle finalità di un istituto
esclusivamente missionario.
Ma quali sono i campi di azione
specificamente missionaria in Italia?
Le risposte sono in questa linea:
i missionari in Italia per le finalità
tradizionali (formazione, animazione
missionaria, cura degli anziani e
malati) possono meglio legare la loro
presenza ad ambienti che sono,
in qualche misura, «campi di azione
specificamente missionari». E
cioè: presenza e azione fra gli «ultimi
» (5) ed extracomunitari non cristiani
(6); nuova evangelizzazione
(5); dialogo interculturale e interreligioso
(11); rinnovamento del «modo
di essere chiesa» (3); impostazione
della pastorale in senso missionario
(9); catecumenato (6).
Tra le risposte tanto disparate,
spicca l’alta disponibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso,
come pure la forte tendenza a impegnarsi
per un’impostazione della
pastorale delle chiese locali in senso
missionario. È questo lo scopo dell’animazione
missionaria, ma è percepita
in modo più ampio di quanto
non lo fosse tradizionalmente e
non appare legato a finalità intee
all’istituto.
Domanda finale: i missionari di altri
continenti, presenti in Italia, sono
da considerare ad extra e, quindi,
pienamente in linea con la condizione
di ad gentes? Per 9 istituti, sì; per
5, no. Ma la questione è molto dibattuta
e con argomenti diversi:
quello in positivo sostiene che tale situazione
risponde pienamente sia all’ad
gentes che all’ad extra.
Fra gli argomenti in negativo, invece,
ne emergono due: l’Italia non
può essere considerata un paese di
primo annuncio, ma solo di nuova evangelizzazione;
inoltre, la presenza
di non italiani finirebbe per rafforzare
le strutture dell’istituto, a scapito
delle nuove chiese.

DUE CONCLUSIONI
Pur non offrendo conoscenze
nuove all’interno di ogni istituto,
l’indagine può dare una visione
d’insieme e aiutare a raffrontare sia
le situazioni sia gli orientamenti di istituti
diversi, che però hanno la
stessa finalità. Alcuni problemi e risorse
possono essere messi meglio a
fuoco, per un migliore discernimento
e collaborazione.
In secondo luogo, negli istituti
missionari appare una certa rigidità,
intendendo con ciò che ogni istituto
è sensibile alla sua identità (e questo
è bene), ma la interpreta in senso difensivo,
avendo quasi il timore che
gli adattamenti alle situazioni, impegni
creativi e collaborazioni rappresentino
delle «contaminazioni».
Gli istituti missionari stanno vivendo
un momento di crisi: basti solo
pensare alle poche «nuove entrate» e alle difficoltà di collaborazione.
Tuttavia resiste la convinzione
sulla validità della loro presenza, pur
con interrogativi sulla sua valorizzazione
in novità di stili, di
modalità e di più vaste
collaborazioni.

Francesco Grasselli




IMPARARE… PER SERVIRE

Il missionario novello atterra,
per esempio, a Maputo
(Mozambico). E che fa?
Certamente impara la lingua.
E poi? Prima di annunciare
il vangelo,deve capire.
Meglio «intelligere».

Sono un missionario fidei donum
di Brescia. Ho partecipato
con piacere al «Corso di inserimento
» in Mozambico, organizzato
presso il Centro pastorale di
Guiua, nella diocesi di Inhambane.
Eravamo in 36: religiose e religiosi,
sacerdoti e laici. Varia la provenienza:
Italia, Spagna, Portogallo,
Brasile, Angola, India, Argentina.
Tutti uniti nella fedeltà a Cristo e in
ascolto delle chiese locali, che vogliamo
servire ogni giorno.
Guidati da amici ed esperti, abbiamo
focalizzato i contenuti dell’azione
missionaria di Gesù Cristo. In
lui «il volto della missione» è chiaro,
come pure lo stile: è quello dell’incarnazione,
che non ha niente a che
vedere con le violenze estee, che
stravolgono tutto. L’incarnazione richiede
rispetto e pazienza, se si vuole
che il «seme» cresca e maturi.
Infine abbiamo condiviso le motivazioni
del nostro annuncio, già tutte
contenute nella vita del Maestro:
bellezza, verità, amore.

Quando si partecipa
a un evento bello, lo si racconta;
quando si conosce un fatto vero, lo si
annuncia; quando si gusta l’ebbrezza
dell’amore puro, lo si condivide.
Il lavoro di analisi e sintesi è stato
alimentato da un’intensa preghiera
liturgica. La preghiera è il respiro
della missione. L’evangelizzatore è
un contemplativo in azione e un attivo
in contemplazione. Questo ci ricorda
la vocazione alla santità. La
santità poi va fatta risplendere nella
multicolore sapienza di Dio (cfr. Ef
3, 10). Solo se vivremo plasmati dal
magistero e dalla logica della preghiera,
potremo invitare a credere in
Gesù Cristo.

Oltre ad essere
«un dimorare con il Signore», la
missione è pure un andare verso i
fratelli e sorelle che vivono in terre
lontane.
Però l’annuncio del vangelo non
può essere improvvisato. È vero che
la parola annunciata ha in sé tutta la
sua efficacia; ma è altrettanto vero
che, per essere buoni missionari, è
necessario amare, conoscere e valorizzare
la persona che s’incontra e il
contesto culturale nel quale l’annuncio
risuona, soprattutto quando
recano il sigillo della differenza. In
tutto questo il corso ci è stato di valido
aiuto.
Parlare dell’Africa e degli africani
non è facile. Sono realtà complesse,
che presentano stratificazioni di
tempi e, pertanto, differenti culture.
Sono realtà instabili, perché animate
e attraversate da fatti molteplici e
a volte contraddittori. La tradizione
africana, pur affondando le radici in
un humus vitale comune, si presenta
con varietà di forme: visione della
vita, simboli sacri, proibizioni morali e religiose, costumi che cambiano
da gruppo a gruppo e da villaggio
a villaggio. Così è delle persone.
L’Africa è molto interculturale a livello
nazionale e locale. Ogni nazione
e luogo influenza i comportamenti
personali. Sulle persone ci sono
state date indicazioni precise e
dettagliate circa la nascita, crescita,
riti di iniziazione, maturità, matrimonio,
scelta di consacrazione, malattia
e morte. La questione femminile
è particolare.
Una speciale
attenzione è stata riservata alle religioni
tradizionali. Il mondo religioso
africano è complesso. Tale complessità
deriva dall’esperienza in sé
stessa, dai tentativi teorici messi in atto
per spiegarlo, dal vasto ambiente
sociale in cui si esplica, dagli interessi
culturali che suscita. Ciò che più ci
ha fatto riflettere è il valore e l’influsso
della tradizione, che non deve
essere minimizzata.
La religione africana è di natura
esperienziale, non teorica. Si esprime
con un vocabolario teologico
preso dalla vita vissuta in un preciso
contesto geografico. Si tratta di esperienze
senza «autori», prive di strutture
cultuali chiare, prive di libri sacri:
perciò è difficile evidenziae gli
aspetti dottrinali e determinare i
contenuti.
Per qualificare il fenomeno religioso,
si raccomanda di respingere i
termini feticismo, animismo, paganesimo,
antenatismo, totemismo.
L’africano crede in due mondi, uno
visibile e l’altro invisibile, e nella loro
interazione. Crede nella comunità
gerarchizzata e, soprattutto, in un
Essere supremo, creatore e padre di
tutto ciò che esiste.
Con questa ricchezza il cristianesimo
deve dialogare. Nel dialogo ciascuno
dovrà donare non tanto idee
e dottrine, ma storie vissute. Il dialogo
richiede di esprimersi con parole
e gesti autentici, che sappiano porre
a confronto tutta la propria storia di
fede. Il passato emerge con grandezza
e forza. Chi oggi non ricorda
ciò che lo ha preceduto ieri (antenati,
eventi…) vive senza meta.

Sono state illustrate
le dinamiche e problematiche della
vitalità ecclesiale odiea.
La chiesa in Africa è chiamata ad
essere «chiesa-famiglia», ambiente
dove Dio riunisce i suoi figli dispersi
nel mondo (Gv 11,52), luogo dove
coloro che invocano Gesù Cristo
(2 Cor 1,2) si accolgono reciprocamente
come dono di Dio (Gv 17,6-
24) per vivere l’amore del Padre e
del Figlio; luogo di vita caratterizzato
dalla premura verso l’altro, solidarietà,
calore delle relazioni, accoglienza
e fiducia.
Per rendere incisiva l’evangelizzazione,
i vescovi mozambicani sollecitano
la creazione di «piccole comunità
cristiane»: cellule di base ecclesiale,
progetto per un’autonomia
delle giovani chiese e punto di riferimento
per una pastorale a dimensione
d’uomo.
In tali comunità tutti sono chiamati
ad essere responsabili; esse sono
luoghi di convivenza quotidiana
e aiutano a vincere i tribalismi; stimolano
a cogliere i segni dei tempi
nel contesto sociopolitico del paese.
Il laico, con la grazia di Cristo, è una
pietra angolare della nuova costruzione.

Ringrazio il Signore
per il Corso di inserimento in
Mozambico. Esprimo gratitudine,
soprattutto perché si è svolto a
Guiua, una località dove alcuni cristiani
sono stati martirizzati per la fede
(*). Pregando sulle loro tombe
pensavo: la missione avanza lentamente
all’insegna della croce e da essa
si caratterizza.
Essere missionari significa credere
che la chiesa cresce con la testimonianza
del martirio.
Anche del mio martirio.
(*) Ai 24 catechisti, martirizzati
in Mozambico il 22 marzo 1992,
Missioni Consolata di Marzo 2002
ha dedicato un dossier.

Adriano Dabellani




PERÙ viaggio nelle carceri

LA DIGNITÀ SEQUESTRATA

Dopo il decennio di Fujimori, da due anni il Perù è tornato alla democrazia.
Ma nelle carceri la strada da percorrere è ancora lunga.

«VENGO DALL’ITALIA.
VORREI VISITARE IL DETENUTO…»

Un’insegnante di italiano passa dalle conversazioni
con i genitori dei suoi alunni a quelle con i detenuti
nelle carceri del Perù.
Un’esperienza «sconvolgente, ma anche arricchente
e stimolante».

di Franca Pesce (*)
(*) Laureata in lettere all’Università cattolica
di Milano, FRANCA PESCE è insegnante
di italiano a Torino. Dall’anno
del giubileo si occupa della situazione
nelle carceri peruviane, aiutata
anche dai figli Melissa ed Alessandro.
Fa parte dell’associazione «Yanamayo»,
con sede a Vicenza.
Dall’anno del giubileo sono
entrata in corrispondenza
con alcuni prigionieri politici
peruviani del Movimento Rivoluzionario
Tupac Amaru (M.R.T.A.),
che nel luglio scorso sono andata a
visitare, per rendermi conto della situazione
che mi veniva esposta attraverso
le loro lettere.
È stata un’esperienza sconvolgente,
ma anche arricchente e stimolante,
da cui ho tratto insegnamenti
morali ed umani che oggi cerco
di comunicare e condividere con
i miei alunni.
Il Perù sta vivendo in una democrazia,
ma mantiene in carcere numerosi
prigionieri politici processati
da tribunali militari in base a leggi
emanate durante la dittatura di
Fujimori. Spesso la detenzione si
svolge in carceri situate lontano dai
luoghi d’origine e crea quindi difficoltà
oggettive per la visita dei familiari.
Lo stato sembra presente solo nel
suo aspetto repressivo: non riconosce
i suoi torti e non risarcisce, se
sbaglia. Chi è povero non può difendersi
da accuse ingiuste, perché
non può permettersi di assumere un
avvocato che si occupi del suo caso.
In un paese che oggi vuole giustamente
essere definito democratico,
si continuano a costruire carceri,
si reprime, ma non si eliminano
le cause del malessere sociale e
non si aiuta chi si trova in difficoltà.
Durante il mio viaggio, ho avuto
l’opportunità di visitare alcune carceri
(a Lima, Chorrillos, Chimbote,
Trujillo, Chiclayo) e parecchi prigionieri
politici del movimento Mrta,
osservare la loro situazione e
quella dei loro visitatori.
Queste sono alcune delle impressioni
che ne ho ricavato.

L’UMILIAZIONE
DELLE PERQUISIZIONI

All’entrata delle carceri le difficoltà
sono nate dall’arbitrio delle
guardie che quasi sempre cercano
di creare problemi, di intimidire i
visitatori e scoraggiae le visite.
Il giorno in cui mi sono recata al
carcere (penal) di Castro Castro a
Lima (dove ho visitato Juan Antonio
Leon Montero, Maximo Gargate
Cerda ed altri), quando ho presentato
i miei documenti al primo
controllo, non mi è stato reso quello
attestante il mio soggiorno. Alla
mia richiesta di restituzione, la
guardia ha finto di cercare e poi me
l’ha porto.
Alla porta d’ingresso, invece, si è
presentato il problema di una torta,
acquistata poco prima; essa non poteva
entrare perché, a detta della
guardia, poteva contenere droga. In
seguito alla mia richiesta di parlare
col direttore, mi è stato detto che avrei
dovuto tagliarla. Alla fine, la
torta è stata fatta passare intatta.
Alcuni giorni dopo, il problema si
è presentato con alcuni libri che io
avevo fotocopiato. Erano libri foitimi
da un interno e dunque portavano
già la stampigliatura della revisione
carceraria. Eppure mi hanno
detto che dovevano essere
sottoposti ad una nuova revisione.
Forse, per evitare questi inconvenienti,
avrei dovuto essere più gentile
facendo «cadere» o «perdendo»
qualcosa…
La perquisizione corporale viene
fatta da personale femminile, ma sovente
il suo comportamento umilia
chi subisce il controllo: madri, sorelle,
fidanzate, amiche dei carcerati.
Una madre mi ha confidato che si
possono subire palpeggiamenti osceni.
In un’occasione lei non ce
l’ha più fatta e ha reagito dando uno
schiaffo alla guardia e dicendole
che avrebbe dovuto vergognarsi e
pensare a che cosa proverebbe se
un domani accadesse a lei una cosa
simile.

MATRIMONIO NEL CARCERE
DI CHORRILLOS

Anche per entrare nel carcere
femminile di Chorrillos, alla periferia
di Lima, ho dovuto affrontare
qualche discussione.
Una guardia mi rispondeva dallo
spioncino, ma mi negava l’entrata.
Alle mie insistenze, è stato chiamato
un superiore.
Egli, evidentemente lusingato di
parlare con un’italiana, prima si è
intrattenuto con me a discutere di
mafia, di Roma e Venezia, di vini,
poi mi ha fatto entrare. Ringalluzzito,
ha dichiarato che le italiane sono
belle. Io ho risposto che anche le
peruviane lo sono, così come i peruviani. Ormai conquistato, finalmente
mi ha portato dalle detenute,
che ormai temevano avessi rinunciato
a visitarle.
Mi sono intrattenuta con loro:
Carolina Curahua Huerta, sua sorella
Delia, Hormecinda Feandez
Bravo, Lucinda Rojas Landa, Lucy
Garcia Lopez, Marcela Gonzales
Astudillo, Maria Concepcion Pincheira,
Milagros Chavez Gonzales,
Mirka De La Pietra Oliva, Nancy
Cuyubamba Puente, Pilar Hinojosa
Tellez, Yanire Bautista Saavedra,
Yolanda Cruz Santillan.
Tutte erano contente di vedere una
persona che arrivava da tanto
lontano e avevano un atteggiamento
dolce ed affettuoso.
Una di loro, la cilena Marcela, si
era sposata la settimana prima con
un suo amico d’infanzia, anch’egli
cileno, con una cerimonia officiata
dal cappellano, il comboniano padre
Luigi Gasparini, che le seguiva
con dedizione da anni (ma che, purtroppo,
pochi giorni dopo sarebbe
stato trasferito negli Stati Uniti, interrompendo
un lavoro di autentica
solidarietà cristiana e lasciando
un grande vuoto tra coloro che ne
avevano ricevuto aiuto e attenzione).
La cerimonia è stata molto
commovente, mista a sorrisi e lacrime.
Quasi tutte le settimane lo sposo,
innamoratissimo, si reca dal Cile
a visitare sua moglie, con cui non
può avere alcun momento di intimità,
in quanto alle donne è impedito
appartarsi da sole con uomini,
anche se questi sono mariti o fidanzati.
Le visite avvengono in presenza
di una guardia, che ne controlla
la «moralità».
Nelle carceri maschili, invece, tali
impedimenti non esistono, ma
spose, fidanzate e anche prostitute
possono entrare nelle celle degli uomini,
senza «controlli».

SOLTANTO
CON MENTE E CUORE

Al Penal Cambio Puente di Chimbote,
una prima guardia mi ha chiesto
soldi per l’acquisto di una scopa;
da una seconda guardia mi sono
stati chiesti 20 soles per articoli
di pulizia per i carcerati. Ho rifiutato,
chiedendo di poter parlare col
direttore, che però non era presente.
Mi sono allora avviata verso un
breve corridoio, stretto tra il muro
dell’ufficio e una parete di maglie di
ferro. La guardia mi ha richiamata,
dicendomi che non potevo stare lì,
perché pericoloso.
Le ho risposto che non capivo cosa
ci fosse di pericoloso, in quanto
non ero armata, ma soltanto dotata
di mente e cuore. Ho dovuto comunque
tornare indietro. Nel frattempo,
però, la mia presenza era
stata notata dagli interni, detenuti
comuni, che avevano iniziato a protestare
perché potessi visitarli. Grazie
a loro mi è stato concesso di accedere
al patio e parlare a lungo con
alcune intee (Anatolia Falceto,
Nelida Mundaca Diaz, Celina
Saenz ) e uno sfortunato marocchino,
Barry Palhavi Amar.
Mi ha colpito vedere che si aggirava
in mezzo a loro un bambino di
circa 5 anni, anche lui prigioniero in
quanto figlio di una detenuta, che
non aveva alcun familiare che si occupasse
di lui.
Quando sono entrata nel Penal El
Milagro di Trujillo, a non andare bene
erano le mie scarpe da ginnastica
color rosa. Ho chiesto spiegazioni
e mi è stato nuovamente risposto,
in tono arrogante, che non sarei potuta
entrare con quelle scarpe. Ho
protestato, chiedendo di parlare
con un superiore; mi è stato detto
che dovevo risolvere il problema
con la guardia. Alla fine, al gesto di
togliermi le calzature, mi è stato
permesso di entrare con le stesse ai
piedi.
A Trujillo ho visitato, nella parte
maschile, Moises Sancez, Victor Saquinaula,
Alberto Huaman e, nella
parte femminile, la signora Victoria
Salgano, moglie di Victor Saquinaula.

EMILIO, IL DETENUTO
CHE AMAVA L’ITALIANO

I problemi maggiori si sono presentati
nel Penal Picsi di Chiclayo,
dove ho incontrato Edisson Mori
Barrientos, Oscar Ordonez Huaman
e soprattutto Emilio Villalobos
Alva, ingegnere di 46 anni, condannato
all’ergastolo, molto interessato
alla lingua italiana e alla nostra
cultura.
In questo carcere le guardie spesso
attuano perquisizioni corporali
umilianti, che hanno indotto i detenuti
a protestare e ottenere che la
perquisizione avvenga solo alzando
gonna e camicetta e mostrandosi in
mutande e reggiseno.
Per quanto mi riguarda, i problemi
maggiori sono venuti dallo stesso
direttore del carcere, comandante
Victor De la Cruz Chafalote. Cosa
ha fatto il direttore? Di tutto pur
di rendere difficile il mio incontro
con i detenuti e, soprattutto, impedirmi
l’insegnamento dell’italiano e
della nostra cultura attraverso lezioni,
libri e videocassette. Mi ha indignato
che, invece di favorirlo, il
direttore e personale di guardia fossero
impegnati ad annientare il progresso
spirituale e culturale dei carcerati,
nonché a umiliare e allontanare
i loro familiari.
Per la mia ultima settimana, Emilio
Villalobos Alva aveva richiesto
che io potessi entrare al di fuori del
giorno di visita (permesso che viene
normalmente concesso a familiari
ed amici che vivono lontano e
che raramente possono recarsi in visita).
Il direttore Chafalote non ha stilato
alcun permesso scritto, ma verbalmente
ha consentito che io potessi
entrare il lunedì, martedì, giovedì,
venerdì seguenti.
Purtroppo il lunedì, non essendoci
un permesso scritto, mi hanno
fatto attendere per circa due ore al
primo posto di controllo. Poi, anche
a seguito di proteste fatte dagli
interni del carcere, sono entrata, ma
ho chiesto chiarimenti al direttore.
Questi, in presenza dei suoi collaboratori,
mi ha assicurato che l’indomani
sarei potuta entrare dalle 10
alle 11.
Il giorno dopo, però, presentatami
puntuale alle 10, mi hanno fatto
attendere perché non esisteva un
permesso scritto. Verso le 11,30 è
arrivato il direttore: a lui mi sono rivolta
per chiedere spiegazioni sull’accaduto
e mi ha assicurato che sarei
entrata subito. Ho invece dovuto
aspettare ancora, poi sono stata
invitata a parlare col direttore, che
si era sentito offeso per le mie rimostranze
e che perciò aveva deciso
che quel giorno dovevo ritornare
a casa.
Io ho risposto che, se questa era
la sua decisione, io l’avrei accettata,
ma comunque sarebbe stato meglio
da parte sua una posizione più chiara.
Gli ho accennato al ruolo rieducativo
delle carceri, ma non credo
che abbia inteso.
Poco dopo, stranamente, il direttore
ha capovolto la sua decisione,
consentendomi di entrare, ma relegandomi
nell’ufficio di psicologia,
un locale sporco e squallido. Non
potendo usare i libri, che erano nella
cella di Villalobos, ho utilizzato il
tempo parlando del contenuto e dei
personaggi de I promessi sposi, che
per molti versi propongono situazioni
simili a quelle che si stanno verificando
in Perù (Chafalote mi ha
ricordato la figura di don Abbondio).
Nel frattempo EmilioVillalobos,
è stato chiamato a rapporto. Il direttore
gli ha fatto intendere che era
disposto ad aiutarlo per l’ingresso
dell’apparecchio televisivo e del
videoregistratore fermi in «revisione
» (erano gli strumenti didattici
che io e alcuni amici gli avevamo regalato)
e anche a favorire una visita
«intima», «particolare».
Davanti alla reazione indignata
del detenuto, il direttore voleva che
mi informasse di riportare via quegli
strumenti. Villalobos si è rifiutato
di farlo, aggiungendo che egli in
persona avrebbe dovuto informarmi
di questa sua decisione. (Ho saputo
che in seguito il direttore ha
stilato un rapporto di mala conducta
del prigioniero politico in questione,
che potrebbe ritardargli
l’applicazione di eventuali «benefici
» carcerari).

«MA È UN PRIGIONIERO
DI “MAXIMA”!»

Al termine della mia lezione d’italiano,
una guardia mi ha comunicato
la decisione del signor direttore.
Io ho risposto che non mi sarei
ripresa né televisione né videoregistratore
e che inoltre avrei portato
a conoscenza del fatto i superiori, le
associazioni di diritti umani e i giornali.
A quel punto, il direttore mi ha
convocato e in disparte mi ha detto:
«Ma cara signora questo è un
prigioniero di Maxima!», aggiungendo
che io non avevo capito come
occorreva comportarsi. Ho risposto
che sarebbe stato più intelligente
e fruttuoso chiedermi un
programma sugli argomenti che avrei voluto trattare ed estendere
questa opportunità a più prigionieri,
invece di impedirmi di fatto di
poter insegnare.
Esausta per tanto mercanteggiare,
il giovedì e venerdì non mi sono
più recata nel carcere, ma, preoccupata
per la sorte delle nostre strumentazioni,
sono andata dal console
onorario di Chiclayo, Antonio Rinaldi,
cui ho consegnato la mia
testimonianza scritta. Il console mi
ha accolta con gentilezza e mi ha
fatto conoscere la direttrice dell’Associazione
italiana di Lambayeque,
nonché insegnante di italiano,
Carmen Clara Gamallo Palao. Per
suo merito siamo state ricevute dal
direttore regionale delle carceri del
Nord (Inpe Norte), Manuel Silva
Palacios, che ci ha assicurato che
tutto si sarebbe sistemato. Anzi,
questi si è spinto più in là dichiarando
che il signor Villalobos era un
prigioniero di grande intelligenza e
ottima condotta.

UNA STORIA DI LIBRI,
DIZIONARI E CULTURA

Dopo essere rientrata in Italia, ad
agosto ho inviato una grammatica,
un libro di proverbi e due di narrativa
ad una signora peruviana (per
precauzione, non ne scriviamo il
nome), che li ha portati nel carcere
di Picsi alla fine del mese.
Qui ha dovuto subire una perquisizione
corporale molto intrusiva,
per un evidente scopo punitivo
e intimidatorio. Infine gli stessi libri,
dopo circa due mesi di «revisione
», senza alcuna giustificazione
da parte delle autorità carcerarie e
senza alcuna comunicazione al signor
Villalobos cui erano destinati,
sono stati riportati da due guardie a
Lima, a casa della signora che li aveva
portati.
Contro tale episodio è stata fatta
formale denuncia dal detenuto interessato
alle autorità competenti.
Emilio Villalobos non si è dato
per vinto. Il 16 settembre ha iniziato
a insegnare gratuitamente ciò che
conosce dell’italiano ad una trentina
di suoi compagni, in un’attività
scolastica intitolata «Papà Cervi».
Venuta a conoscenza dell’iniziativa,
il 26 settembre ho inviato in Perù altri
testi (una grammatica, un vocabolario,
I promessi sposi), questa
volta al console onorario di Chiclayo.
Purtroppo questi libri sono arrivati
al signor Villalobos solo il 27
novembre (due mesi dopo), quando
egli aveva iniziato da due giorni
uno sciopero della fame per ottenere
che libri, riviste o materiale simile
possano circolare liberamente;
che non sia impedito l’accesso a
strumentazioni per uso didattico;
che venga istituito un servizio di ricezione
della posta nel carcere, evitando
di dover ricorrere a terzi per
la corrispondenza.
L’assurdo è che, mentre si è ostacolata
l’attività di diffusione della
nostra lingua e cultura, l’Aliance
Francaise, dopo poco più di un mese
di trattative, ha potuto entrare
nello stesso carcere e iniziare un
corso, a pagamento, per l’insegnamento
della lingua francese.
Grazie alle proteste dei prigionieri
e anche alle nostre, l’11 dicembre
la situazione sembrava essersi risolta
positivamente. Invece…

VIA DA PICSI:
«TUTTI A YANAMAYO!»

Alle tre di notte del 12 dicembre
c’è stato un improvviso trasferimento
di massa a Yanamayo, un
carcere a 4.000 (!) metri d’altezza,
giudicato da varie associazioni inteazionali
non adatto a una detenzione
rispettosa dei diritti umani.
I prigionieri trasferiti indossavano
indumenti leggeri, propri per una
città di mare come Chiclayo, ma
non ovviamente per un carcere d’alta
montagna. Tra i detenuti c’era anche
Emilio Villalobos Alva (*), reduce
da 16 giorni di sciopero della
fame.
Il trasferimento è stato comunicato
attraverso un documento firmato
dal direttore delle carceri del
Nord, quello stesso che mi aveva ricevuto
e che aveva avuto parole di
apprezzamento ed elogio per Emilio
Villalobos Alva, «il detenuto che
amava la lingua italiana».

«COM’È CAMBIATO IL MONDO,
FUORI?»

A colloquio con alcuni detenuti del carcere
di Ayacucho, nei luoghi dove (era il 1970)
nacque «Sendero Luminoso»,
uno dei più sanguinari movimenti rivoluzionari
della storia.

di Paolo Moiola

Ayacucho è una bella cittadina
coloniale sugli altopiani centrali
delle Ande peruviane. Il
carcere di Yanamilla è poco fuori il
centro abitato, in un posto panoramico,
accanto alla base militare e all’aeroporto.
Dopo una veloce perquisizione, le
guardie ci pongono un timbro sul
braccio destro. Al secondo controllo
ci vengono ritirate le borse e posto
un altro timbro, questa volta sul
braccio sinistro. Ci accompagna
Luis Bastidas Cuentas, responsabile
della sicurezza intea, che lavora
in ambito carcerario da 14 anni.
«La prigione di Yanamilla – spiega
– è stata inaugurata nel 1996. Attualmente
ospita 707 detenuti, tra i
quali 72 donne. La maggioranza è
qui per reati connessi al traffico di
droga. Ci sono poi una cinquantina
di persone imprigionate per terrorismo».
Come la gran parte delle carceri
peruviane, anche Yanamilla è diviso
in due sezioni: maxima per i delitti
più gravi (terrorismo, droga) e minima
per i delitti più lievi. A loro
volta, ciascuna sezione è divisa in
«padiglione A» e «padiglione B».
«Purtroppo – ammette l’ufficiale
-, almeno il 60% di loro è ancora in
attesa di sentenza. È cioè inculpado,
ma non sentenciado».
Ci muoviamo veloci, perché il direttore
ci attende. Sarà lui a dirci se
possiamo scattare delle foto e conversare
con i detenuti.
Siede a lato di una grande bandiera
del Perù. Alle spalle
un’immagine di Cristo, su cui
si legge «Amigo que nunca falla!»
(un amico che non sbaglia mai). Sull’ordinata
scrivania, accanto allo
stemma dell’Inpe (Instituto nacional
penitenciario), la targhetta con il nome:
Walter Gutierrez Zambrano.
Sembra giovane il direttore di Yanamilla.
«Ho 33 anni, ma già da 13
lavoro nell’amministrazione penitenziaria
», ci spiega subito.
Chiediamo come funziona Yanamilla.
«Nel nostro carcere – risponde
con visibile orgoglio -, il 90% dei
detenuti lavora nei laboratori artigiani
(tallers), soprattutto di carpenteria
e tessuti. Il “Centro educativo
occupazionale” del ministero
dell’educazione ci fornisce gli insegnanti
per istruire i prigionieri. Per
incentivare i reclusi, l’articolo 44
della legge 654 prevede dei benefici:
due giorni di lavoro (o studio) significano
un giorno in meno di pena».
Dunque, a sentire il direttore, Yanamilla
sembrerebbe un’isola di serenità.
Ma naturalmente non è proprio
così. «Anche noi – ammette –
soffriamo di sovraffollamento. In
questo momento ci sono 200 persone
in più rispetto alla capacità. Questo
significa che l’attenzione verso i
detenuti non può essere come si vorrebbe.
Inoltre, la disponibilità di
fondi pubblici è insufficiente; mancano
mobili, carta, computers, oggetti
quotidiani».
A giudicare dall’essenzialità del
suo ufficio, non dubitiamo che il direttore
stia dicendo il vero. Chiediamo
il permesso per la cosa che
più ci interessa: una visita ai padiglioni.
Il direttore ci affida a Jesus
Vidalon Robles, responsabile del lavoro
e dell’educazione.
Il cortile interno (patio) è pavimentato
con lastre di cemento.
Su un lato ci sono alcuni gradoni
per sedersi a conversare o per
guardare chi gioca a palla. Sui muri
bianchi campeggiano due grandi
scritte di ammonimento: «educa al
nino y no tendras que castigar de adulto
» (educa il bambino e non castigherai
l’adulto) e «la libertad es
don de Dios y la justicia obra del
hombre» (la libertà è dono di Dio,
la giustizia è opera dell’uomo).
È una giornata particolare per il
carcere di Yanamilla. Domani ci
sarà la fiera dei prodotti fatti dai prigionieri.
Si stanno preparando i
banchetti.
«Mi consigliavano di pentirmi.
Ma di cosa, se non avevo commesso
alcun delitto? Mi volevano utilizzare
per denunciare altre persone,
scritte in una lista da loro preparata.
Ma io non me la sentivo di incolpare
degli sconosciuti soltanto per avere
uno sconto di pena». Rosario
Rondinel Palomino è una bella signora
di 35 anni con gli occhi tristi
e una treccia che le scende sulle spalle.
È in carcere dal 1994. «Quando
mi arrestarono, mi rinchiusero nella stazione di polizia sottoponendomi
a 15 giorni di torture psicologiche
inimmaginabili. “Sendero – mi
dicevano – ti ha preparata a non parlare,
ma con noi non funzionerà”.
Poi, un tribunale di giudici senza
volto mi condannò a 20 anni per terrorismo».
Rosario faceva l’educatrice e studiava
filosofia e psicologia all’Università.
Sostiene di essere stata accusata
da una pentita e da prove
fabbricate. «A questo punto, soltanto
la mia avvocata può tirarmi
fuori da quest’incubo. Vorrei tornare
dalle mie tre figlie».
Mentre ci avviamo ai corridoi
che portano all’uscita, da
dietro una grata due detenuti
richiamano la nostra attenzione.
Vorrebbero scambiare qualche
parola con noi, ma il tempo della visita
sta per finire. Il più loquace dice
di chiamarsi Persy Hugo Francia:
«Mi hanno dato 14 anni per terrorismo
e ne ho già scontati 10. Com’è
cambiato il mondo fuori?».

Franca Pesce Paolo Moiola




«Nestlé? No, grazie!»

Quando il latte uccide
Il prodotto della multinazionale uccide migliaia di bambini.
Come un attacco alle Torri gemelle. Quotidiano.

Da qualche tempo siamo impegnati in una campagna
di boicottaggio contro la NESTLÉ, appoggiati
alla «Rete italiana boicottaggio
Nestlé» (R.i.b.n.) (1). La multinazionale promuove
la vendita del latte in polvere con metodi ritenuti illegali
dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) e spaccia addirittura per «aiuti»
le sue scorrette pratiche di marketing. «Ogni giorno
4.000 bambini nel sud del mondo potrebbero essere
salvati dalla morte per malattie e denutrizione se
fossero allattati al seno e non con latte in polvere» dice
l’Unicef.
Quattromila bambini al giorno! Nel terribile attacco
alle Torri gemelle sono morte circa lo stesso numero
di persone: i mezzi di comunicazione ne hanno
dato amplissimo risalto, condannando gli atti terroristici.
Ma nel caso della Nestlé, sebbene i dati Unicef siano
da brivido, pochissimi ne parlano e, comunque, anche
quando ne veniamo a conoscenza, sembrano cifre
esagerate.
Eppure non è così. Anche noi stentavamo a credere
che il problema fosse di tali dimensioni e quindi abbiamo
scritto all’Unicef, che dopo poco tempo ci ha
risposto nella persona del presidente Gianni Micali,
che ha confermato la veridicità dei dati.
«Ovunque – scrive Micali nella lettera di risposta
– i benefici dell’allattamento al seno
sono incontestabili, ma nei Paesi in
via di sviluppo (Pvs) l’allattamento naturale è indispensabile.
Infatti, la sopravvivenza dei bambini di
questi paesi dipende dalle proprietà del latte materno,
in grado di aumentare le difese immunitarie e di
proteggerli contro la diarrea e le infezioni intestinali
e respiratorie, cause principali della mortalità infantile
nei Pvs. A determinare la pericolosità dell’allattamento
artificiale è soprattutto la scarsa igiene dei
contesti in cui viene utilizzato. Spesso le famiglie povere
diluiscono eccessivamente questi prodotti con acqua
non potabile e li versano in biberon sporchi, aumentando
il rischio di malattie. Rispetto ai neonati allattati
esclusivamente al seno, quelli nutriti con latte
artificiale sono esposti ad un rischio dieci volte maggiore
di infezioni batteriche che richiedono il ricovero
in ospedale, e ad un rischio quattro volte superiore di
meningite e di infezioni all’orecchio medio e gastroenteriti.
Nonostante gli indubbi benefici del latte
materno, solo il 44% circa dei bambini nei Pvs viene
allattato esclusivamente al seno e il fattore determinante
di tale realtà è sicuramente l’inesorabile promozione
gratuita dei surrogati artificiali.
Il fatto che questi campioni vengano distribuiti gratuitamente
dagli stessi medici e infermieri invita facilmente
una madre a passare dall’allattamento al seno a
quello dal biberon. Dopo che il bambino è stato nutrito
con latte artificiale anche solo per pochi giorni e
si è abituato alla tettarella di gomma, è difficile che accetti
nuovamente il seno. Inoltre, in quest’arco di tempo
la produzione di latte materno diminuisce notevolmente.
Quindi, la madre dovrà ricorrere definitivamente
al latte artificiale, che a questo punto sarà
costretta a comprare con un conseguente dispendio di
denaro. E chi non può permettersi scorte sufficienti,
spesso diluisce il prodotto oltre misura, provocando
così al bambino casi di diarrea e infezioni intestinali.
Tali problemi vengono raramente spiegati alle donne
durante la consegna dei campioni-omaggio e per tale
motivo è ancora alto il tasso d’allattamento artificiale,
così come è alto il numero delle piccole vittime.
L’Unicef, insieme a diverse Organizzazioni non governative
(Ong) e l’Organizzazione mondiale della sanità
da 20 anni condanna e combatte la promozione dei
surrogati artificiali del latte materno nei reparti mateità
degli ospedali e nelle altre strutture sanitarie dei
Pvs.
Dal 1981 esiste un apposito “Codice internazionale
sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno”,
sottoscritto dall’Unicef, dall’Oms, da varie Ong
e da rappresentanti dell’industria di alimenti per bambini.
Numerose violazioni commesse da alcune industrie
multinazionali del settore sono state denunciate
nel 1996 con il rapporto Cracking The Code (“Infrangere
il codice”). La Nestlé è stata riconosciuta tra i
maggiori responsabili di questo tipo di violazioni, ed è
quindi stata fatta oggetto di una campagna di denuncia
che è tuttora in atto, dato il reiterarsi di questi comportamenti».
Ora, lanciamo un appello a voi lettori di Missioni
Consolata: al fine di spingere la Nestlé a mutare
politica e a rispettare il Codice internazionale,
vi chiediamo, di astenervi dal comperare Nesquik
e Nescafé (prodotti simbolo della multinazionale) fino
a quando la Nestlé non rispetterà il Codice internazionale
e per i più coscienziosi, di esporre per iscritto
alla Nestlé il motivo di tale decisione (2).
Contiamo nella vostra collaborazione, per evitare che
ogni giorno 4.000 bambini continuino a morire ai margini
della storia, con il silenzio-assenso di noi tutti.
(*) Gruppo missionario di Casella D’Asolo (Treviso)
(1) Per contattare la «Rete Italiana Boicottaggio Nestlé»:
E-mail: ribn@yahoo.com
Sito internet: www.ribn.it
Fax: 06.8270876
(2) Indirizzare a:
NESTLÉ ITALIANA SPA,
viale G. Richard n.5,
20143 Milano
www.nestle.it

Paolo Baruffa Patricia Xillo




«ALLA GUERRA! ALLA GUERRA!»

Tutti dietro a George W. Bush?
L’ossessione per la guerra del presidente statunitense,
la sudditanza dei governi,
la propaganda dei media, l’impotenza dei popoli.

«Le umiliazioni – scrive Simone Weil (Lettera a
Georges Beanos, 1938) – che il mio paese infligge
sono per me più dolorose di quelle che può subire».
Non sappiamo con certezza se l’Italia parteciperà alla
guerra di George W. Bush contro l’Iraq. Pare però
che la strada sia segnata. Il ministro Martino ha già
fatto sapere (17 dicembre) che le forze militari statunitensi
saranno gradite ospiti sul territorio e nello spazio
aereo italiani (1).
Parlare di pace e non violenza di questi tempi non è
facile. Si rischia di essere ridicolizzati, perché sputiamo
(noi pacifisti) nel piatto in cui mangiamo, perché
non capiamo (o non vogliamo capire) come vanno le
cose del mondo, perché non siamo riconoscenti con
chi ci sta salvando dal male e dai cattivi. Ma questo è
un rischio che si deve correre, almeno per essere a
posto con la propria coscienza: «Quello che ciascuno
di noi deve fare – ha scritto il premio Nobel José Saramago
– è rispettare in primo luogo le proprie convinzioni,
non tacere in nessun caso e in nessun luogo.
Pur sapendo che non cambierà niente, ma con la certezza
che almeno tu non stai cambiando».
IL PAPA O… LA NATO?
«La bibbia è piena di guerre» ci scrisse una volta un
lettore molto irritato per le nostre posizioni pacifiste
rispetto all’ennesima guerra «giusta» (quella del Kosovo)
(2).
In queste occasioni, è interessante notare come le dichiarazioni
del papa vengano utilizzate. Quando esse
sono «funzionali» a un obiettivo, allora tutti sono pronti
a citarle, chinando il capo: «Il santo padre ha detto…».
Quando invece «disturbano», allora, come d’incanto,
nei discorsi dei politici, nei telegiornali, nelle pagine dei
giornali tutto cambia. Forse le dichiarazioni non scompaiono
del tutto, ma certo diventano meno rilevanti,
più piccole, sfumate, nascoste tra le righe o relegate
dopo altre notizie, altre dichiarazioni, altre immagini.
Nel messaggio per la giornata mondiale della pace
(1°gennaio 2003), Giovanni Paolo II non ha nascosto
la propria delusione per l’Organizzazione delle Nazioni
Unite: «la prospettiva di un’autorità pubblica internazionale
a servizio dei diritti umani, della libertà
e della pace, non si è ancora interamente realizzata»
(3). Inoltre, si legge più avanti, la mancanza di fiducia
porta la gente a «credere sempre meno all’utilità del
dialogo e confidare invece nell’uso della forza come
via per risolvere le controversie».
A natale non soltanto il papa ha parlato chiaramente
in favore della pace e contro la guerra. In Gran Bretagna
(il cui governo è un fedelissimo socio degli Usa)
anche Rowan Williams, neoarcivescovo di Canterbury
e primate della chiesa anglicana, è stato molto duro
contro i leaders del mondo, pronti ad infliggere nuove
sofferenze a popolazioni innocenti. Eppure sui media
è stato dato più rilievo all’opinione di George Robertson,
segretario generale della Nato. Secondo Robertson,
l’Alleanza Atlantica ha l’«obbligo morale» di
appoggiare gli Stati Uniti in caso di guerra all’Iraq.
Nell’era dell’iper-informazione, paradossalmente (ma
non tanto) è sempre più difficile essere informati correttamente
(4). A meno di non trascorrere il tempo a
mettere insieme i tasselli del «puzzle». Prendiamo, ad
esempio, la chiesa cattolica statunitense, sotto fortissima
pressione (soprattutto mediatica) a causa dello
scandalo della pedofilia. Domandiamoci questo: come
mai proprio ora e in modo così virulento? Non è
che il governo Usa voglia mettere al muro potenziali
e pericolosi oppositori ai propri progetti di guerra e
dominio? Come mai non si parla degli scandali che
coinvolgono l’esercito americano (dall’aereo militare
che fece strage in Trentino alle violenze perpetrate in
Giappone e da ultimo in Corea del Sud)?
Non è un azzardo affermare che queste sono scelte
del potere, per portare la gente dalla propria parte.
«CUI PRODEST?»
Che dietro la guerra all’Iraq ci siano interessi economici
sono quasi tutti ad ammetterlo (magari sottovoce).
Petrolio, industrie belliche, recessione statunitense
«vogliono» questa guerra.
Gli Usa non si fidano più dell’Arabia Saudita e quindi
debbono rimpiazzare il petrolio di Riyadh con quello
di Baghdad. D’altra parte, George W. Bush viene da
una famiglia di petrolieri e annovera tra i propri sponsors
elettorali le maggiori aziende mondiali nel campo
della produzione militare (aerei, missili, sistemi elettronici,
artiglieria): Lockheed Martin, Northrop
Grumman, General Dynamics, Raytheon. Nonostante
la fortissima depressione che caratterizza tutte
le borse mondiali, queste compagnie hanno visto
un costante incremento del valore delle loro azioni (fino
all’85%) a partire dall’11 settembre 2001 (5). Fatto
abbastanza comprensibile, se si guarda al crescente
budget militare statunitense, che da solo rappresenta
il 40% della spesa mondiale per la difesa. Già prima
dell’incremento per il 2003, gli Usa spendevano
più del doppio di tutti i 15 membri dell’Unione europea
messi insieme.
Infine, c’è la crisi economica degli Stati Uniti (finora
rimasta nascosta sotto la retorica della priorità della
lotta al terrorismo), che potrebbe essere attenuata (almeno
nel breve periodo) da una guerra a Saddam.
Insomma sono tanti gli interessi «privati» collegati al
conflitto. Proprio per questo George W. Bush e il suo
entourage hanno deciso da tempo che la guerra s’ha
da fare, indipendentemente dalle Nazioni Unite, dalle
relazioni degli ispettori, dalla contrarietà della maggior
parte dell’opinione pubblica mondiale.

NECESSARIA, DOVEROSA, POSSIBILE
Ha scritto Giorgio La Pira (Utopia o morte, 1974):
«No. La pace non è un’utopia, è il fine universale, fondamentale
della storia dell’umanità intera… La pace
è necessaria. La pace è doverosa. La pace è una certezza.
La pace è possibile». Purtroppo, l’insigne giurista
e politico democristiano non poteva prevedere
quanti progressi avrebbe fatto la propaganda di guerra,
assieme alla capacità di stravolgere i fatti (6) e soprattutto
i concetti di bene e male, di giusto e ingiusto.
Durante la prima guerra del Golfo i militari scrivevano
«frasi augurali» sui missili destinati ai bombardamenti,
oggi sui carri armati statunitensi è stato scritto:
«All the way to Baghdad». Che questa sia la sicurezza
dei «giusti» è tutto da dimostrare.
Si calcola che la guerra costerà un milione di dollari
al giorno. Nel computo economico mancano le vite umane,
le devastazioni materiali e l’esacerbarsi degli
«odi» in molte parti del mondo. «È il prezzo da pagare
alla pace futura, al mondo senza Saddam ecc. ecc.»
dirà qualcuno. Rispondiamo con le parole del professor
Ahmed S. Hashim (7): «Nel mondo arabo molti sono
convinti che i rappresentanti dell’amministrazione
Bush non siano motivati da un sincero desiderio di vedere
realizzata la democrazia in questa regione, bensì
da ragioni strumentali: nel senso che qualsiasi futuro
regime arabo verrebbe considerato democratico
purché non si opponga ai disegni degli Stati Uniti e di
Israele in questa parte del mondo (…). Se il Congresso
nazionale iracheno (8) giungesse al potere e decidesse
di rinunciare alle armi di distruzione di massa,
vendere a basso prezzo il petrolio alle compagnie americane,
stabilire rapporti con Israele e dissociarsi
dal resto del mondo arabo, il nuovo governo verrebbe
considerato democratico, anche se si dimostrasse
incapace di assicurare davvero la libertà».
Necessaria, doverosa, possibile non è la guerra, ma
la pace. Eppure ancora in troppi sono convinti del contrario.

IL CAMMINO VERSO LA GUERRA
(dal 19 dicembre 2002 al 27 gennaio 2003) (*)
19 dicembre: LA CONDANNA DI POWELL
Il rapporto di Baghdad sullo stato del proprio arsenale bellico non
soddisfa le attese degli Stati Uniti. Il segretario di stato Colin Powell
parla di violazione palese della risoluzione 1441.
20 dicembre: BUSH VUOLE LA GUERRA
George W. Bush non è soddisfatto del contenuto delle 12.000 pagine
del dossier stilato dall’Iraq. Il presidente Usa autorizza l’invio
nella regione di altri 50.000 militari, che si vanno ad aggiungere
ai 60.000 già in loco. La guerra sembra dietro l’angolo, anche se
l’Onu non ha ancora sentito gli ispettori né votato.
25 dicembre: GIOVANNI PAOLO II INVOCA LA PACE
Durante il messaggio «Urbi et Orbi», il papa invoca la pace per «spegnere
i sinistri bagliori di un conflitto, che con l’impegno di tutti
può essere evitato».
26 dicembre: IL «DOVERE MORALE» SECONDO ROBERTSON
Il segretario generale della Nato, George Robertson, afferma che
l’Alleanza Atlantica ha il «dovere morale» di appoggiare un eventuale
intervento armato statunitense contro Baghdad.
1-3 gennaio 2003: L’ENTUSIASMO DEI MILITARI USA
Mentre il papa ripete che la pace è doverosa e possibile, Bush (con
giubbotto militare) arringa gli uomini e le donne in partenza per il
Golfo. I soldati, entusiasti, sventolano bandierine a stelle e strisce.
3-6 gennaio: ANCORA BOMBARDAMENTI ANGLO-AMERICANI
Continuano i bombardamenti anglo-statunitensi nelle «no-fly zones
» dell’Iraq. Le azioni sono ormai quotidiane. Le zone di non-volo
NON sono mai state autorizzate dall’Onu.
27 gennaio: GLI ISPETTORI PARLANO ALL’ONU
Arriva la relazione definitiva degli ispettori. Da essa dovrebbe dipendere
ogni futura mossa. Bush accetterà un’eventuale decisione
del Consiglio di sicurezza contraria alla guerra?
(*) La prima parte di questa cronologia della guerra è stata pubblicata
nel nostro dossier sull’Iraq di dicembre 2002.

NOTE:
(1) Basi Usa in Italia: Aviano, Camp Darby, Capodichino,
Maddalena, Trapani, Brindisi, Sigonella. Basi Nato:
Gaeta, Bagnoli, Decimomannu, Augusta, Gioia del Colle.
(2) Per le lettere pro e contro la guerra pervenute alla
nostra redazione si veda M.C., settembre 1999.
(3) Messaggio pubblicato su L’Osservatore romano del
18 dicembre 2002.
(4) Si legga il capitolo Manuale per la propaganda di
guerra, nel libro di Carlo Gubitosa, L’informazione
alternativa, Emi 2002.
(5) Si veda il dossier sul supermarket delle armi pubblicato
sul numero di novembre di Mosaico di pace, la rivista
di Pax Christi.
(6) Sulla «guerra infinita» inventata da George W. Bush
esiste un’ampia letteratura. Qui segnaliamo: Michel
Chossudovsky, Guerra e globalizzazione, Ega, Torino
2002; John Pilger, I nuovi padroni del mondo,
Fandango Libri, Roma 2002; Giulietto Chiesa, La guerra
infinita, Feltrinelli, Milano 2002; Aldo Musci, La quarta
guerra mondiale, Datanews, Roma 2002.
Sugli affari tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden
nell’ambito del gruppo «Carlyle» si veda il settimanale
Internazionale del 6 dicembre 2002.
(7) Si veda Limes di novembre-dicembre 2002.
(8) L’eterogeneo raggruppamento che si oppone a
Saddam Hussein.

Paolo Moiola




IRAQ incontro con la gerarchia cattolica

«QUANTI PRETESTI PER ATTACCARCI!»
Saddam Hussein e le armi sono soltanto pretesti per controllare le ricchezze dell’Iraq.
Perché si attua una politica di 2 pesi e 2 misure? Israele è libero di non rispettare
le risoluzioni dell’Onu senza subire conseguenze, l’Iraq no.
Dichiarazioni fatte da esponenti del governo di Saddam? No, da due alti prelati
della gerarchia cattolica irachena: mons. Warduni, patriarca vicario di Baghdad,
e mons. Isaak, segretario del sinodo caldeo e rettore dell’università.
Due personaggi diversi nel valutare la situazione dei cristiani in Iraq, ma identici
nel denunciare l’ingiustificata aggressione al paese.

INTERVISTA/1: MONS. WARDUNI
Monsignor Ishlemoun Warduni è
patriarca vicario della chiesa cattolica
caldea, a Baghdad.
Monsignore, qual è la situazione
dei cristiani in Iraq oggi?
«Parlare della situazione dei cristiani
in Iraq vuol dire parlare non
di persecuzioni, quanto piuttosto di
restrizioni.
Nel 1980 la comunità cristiana irachena
contava circa un milione di
fedeli, ma proprio da quell’anno,
con l’inizio della guerra contro l’Iran,
la sua situazione ha cominciato
a peggiorare. La guerra del Golfo e
l’embargo imposto nel 1990 l’hanno
fatta poi precipitare, producendo
varie conseguenze come l’emigrazione.
Oggi il numero di cristiani
in Iraq è sceso a 600.000 fedeli.
Con due ulteriori problemi: il fatto
che, nella percezione comune, i cristiani
vengono sentiti come alleati
degli occidentali, piuttosto che come
iracheni; e la progressiva trasformazione
dell’Iraq da paese laico
a paese musulmano, complice la
“Campagna di fede” lanciata dal
governo a metà degli anni 90».
Eppure in Iraq, a differenza dell’Arabia
Saudita per esempio, i cristiani
hanno libertà di culto…
«Per questo parlo di restrizioni e
non di persecuzioni vere e proprie.
Le restrizioni che il governo cerca
di imporre hanno spinto tutti i
vescovi cristiani a protestare, e questa
protesta ha portato alla creazione
di una commissione mista, formata
da rappresentanti del ministero
del culto, dell’istruzione, degli
interni e da vescovi. La commissione
ha prodotto un documento consegnato
al Consiglio supremo della
rivoluzione, e firmato da monsignor
Hawa, vescovo siro-ortodosso e da
me, che non ha avuto però ad oggi
(25/09/2002) nessuna risposta da
parte del governo.
I punti di discussione sono vari.
Alcuni riguardano l’identità dei cristiani
iracheni. Un recente decreto,
per esempio, vieta l’imposizione di
nomi stranieri ai bambini, costringendo
a scegliere tra i nomi “arabi,
iracheni ed islamici”. Sebbene si sia
ancora in attesa di una lista ufficiale
dei nomi permessi, per adesso si
possono usare i nomi biblici riconosciuti
anche dall’islam, ma la loro
forma deve essere quella araba:
Mariam e non Maria, quindi.
Un altro decreto, già applicato
pur non essendo ancora ufficiale, riguarda
più specificatamente la religione.
Se fino ad ora sui documenti
di identità era possibile dichiarare la
propria fede religiosa scegliendo tra
musulmano e cristiano, adesso la
scelta è solo tra musulmano e “non”
musulmano. Un decreto che trasforma
l’identità dei cristiani, che
passano da un “essere” ad un “non
essere” quanto mai incerto nelle eventuali
conseguenze future».
Direbbe quindi che sta diventando
sempre più difficile essere cristiani
in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello
che riguarda i figli minorenni di una
coppia in cui uno dei genitori decida
di convertirsi all’islam. I figli,
che prima potevano attendere il
compimento del diciottesimo anno
di età per diventare musulmani, ora
vengono forzatamente e immediatamente
considerati come appartenenti
all’islam. I vescovi hanno
chiesto che a questa conversione
forzata possa almeno far seguito la
libertà di ritorno al cristianesimo alla
maggiore età, una richiesta che
però è stata respinta dato che dall’islam
non si può tornare indietro.
Oltre a ciò, sebbene la costituzione
irachena garantisca la libertà di
culto, il governo a volte chiude un
occhio su episodi che mettono in
dubbio tale libertà. Nella zona di
Mosul, per esempio, un tempo culla
del cristianesimo iracheno e ora
spopolata dai nostri correligionari
per l’emigrazione verso l’estero o
verso la capitale, e dove si sta imponendo
l’islam wahabita di stampo
saudita, ci sono molte pressioni psicologiche
affinché i cristiani rimasti
si convertano all’islam. Pressioni sui
giovani da parte dei loro coetanei di
fede musulmana, e pressioni più
forti, fatte di biglietti attaccati nottetempo
alle porte delle case dei cristiani
e dove è scritto: “Diventa musulmano
e sarai salvato”».
Allora le fonti che parlano di violenze
nei confronti dei cristiani non
sono false. Si citano episodi di incendi
di negozi appartenenti a cristiani,
di una suora uccisa a Baghdad
lo scorso agosto…
«Il governo iracheno ha indagato
su alcuni episodi di violenza, e li ha
imputati alla delinquenza comune,
che affligge questo paese come il resto
del mondo.
Per quanto riguarda la suora uccisa
a Baghdad è successo proprio
vicino alla mia chiesa di Mariam al
‘Adhra. Sorella Cecilia, di 71 anni,
era sola nella casa dove abitava. Le
consorelle erano assenti e lei aveva
rifiutato l’invito dei familiari a fermarsi
a dormire a casa loro. Non voleva lasciare la casa incustodita. È
stata una cosa terribile, hanno chiamato
me e sono stato io a trovarla.
Era svestita, mani e piedi legati insieme,
era stata picchiata… non mi
faccia dire di più, è troppo penoso,
aveva 71 anni e l’hanno uccisa barbaramente.
Hanno portato via i soldi
che aveva in casa, 35 dollari in
tutto e alcuni oggetti d’oro.
La polizia ha indagato e ha trovato
i colpevoli. Sono tre, tutti di questa
zona, uno abita proprio qui dietro
la chiesa. Le autorità hanno assicurato
che subiranno la giusta
punizione per quello che, malgrado
la ferocia con la quale è stato perpetrato,
è stato considerato un atto
di rapina. Un reato comune quindi…».
Una situazione non tranquilla
quindi…
«Sì. Il controllo delle chiese cristiane
è ora passato completamente
al ministero degli affari religiosi,
e la protesta che tutti i vescovi hanno
elevato nei confronti di questa
pesante ingerenza nella vita ecclesiale
non ha ancora avuto risposta.
In più dobbiamo registrare l’aumento
di attacchi nei confronti dei
cristiani apparsi su varie riviste e
giornali, come Babel, il quotidiano
più diffuso a Baghdad e controllato
dal governo, gli insegnamenti anticristiani
che si diffondono in ambito
scolastico, dove spesso si ricorre
alla similitudine: cristiani = crociati,
e il tentativo di minare i fondamenti
della nostra fede, per esempio
censurando i libri e le riviste che
contengano il riferimento a Gesù
come Figlio di Dio, in favore della
visione islamica della stessa figura
di Gesù: non più Figlio di Dio, ma
semplice profeta anteriore a Maometto».
Come influiscono i 12 anni di embargo?
«L’embargo ha colpito tutti gli iracheni,
indipendentemente dalla
fede. Ha creato una situazione di
tensione sociale prima sconosciuta,
nella quale valori consolidati, come
il rispetto per il credo altrui, si stanno
perdendo, e la Campagna di fede
varata dal governo sta ulteriormente
allontanando il paese dalla
laicità che lo contraddistingueva.
In questo contesto, fatto anche
dei continui attacchi dell’Occidente
(che mira ad impossessarsi delle
risorse del paese) e della politica di
due pesi e due misure applicata all’Iraq
e ad Israele (libero di non rispettare
le risoluzioni delle Nazioni
Unite senza subie alcuna conseguenza),
i cristiani, visti come più
vicini all’Occidente nemico che all’Iraq,
subiscono discriminazioni e
restrizioni. Malgrado, e voglio sottolinearlo,
il nostro essere e sentirci
iracheni. Si può dire che, se come
comunità fossimo sistematicamente
perseguitati, soffriremmo due
volte, in quanto perseguitati e sottoposti
ad embargo; non è così, ma
in quanto minoranza, noi soffriamo
una volta e mezza gli iracheni musulmani.
La sola speranza è che l’embargo
finisca, che l’Iraq riprenda ad essere
un paese normale, e che nella
normalità anche i cristiani, presenti
in questa terra dall’inizio della cristianità,
ritrovino la pace e la sicurezza».

INTERVISTA/2: MONS. ISAAK
Monsignor Jacques Isaak è segretario
generale del Sinodo dei vescovi
caldei e rettore del «Pontifical
Babel College for Philosophy and
Theology», a Baghdad.
Che importanza ha avuto, nell’ambito
del cammino ecumenico tra le
chiese caldeggiato da Giovanni Paolo
II, il decreto sinodale congiunto
del 1997, sottoscritto dal patriarca
della chiesa cattolica caldea, Mar
Raphael Bidawid I, e dall’eminenza
Mar Dinkha IV in rappresentanza
della chiesa assira dell’Est?
«L’ecumenismo è una caratteristica
delle chiese presenti in Iraq, e
in questo senso il decreto sinodale
non fa altro che sancire legalmente
una pratica già applicata normalmente.
Lo stesso fatto che nella nostra facoltà
teologica gli studenti appartengano
a varie chiese, dipendenti
o meno da Roma, pone delle solide
basi per l’ecumenismo vissuto come
condivisione della comune fede in
Cristo.
È capitato, per esempio, che due
seminaristi, uno caldeo ed uno assiro,
siano stati destinati per la loro azione
sacerdotale in due piccoli villaggi
nel nord dell’Iraq. Il fatto di aver
studiato e vissuto insieme per 7
anni, nel nostro collegio, ha cementato
la loro amicizia al punto che
quando uno dei due doveva assentarsi,
l’altro lo sostituiva, con piena
soddisfazione di entrambe le comunità
di fedeli.
Gli ostacoli al ritorno ad una sola
chiesa, com’era prima del 1551, non
esistono nella vita di tutti i giorni;
semmai sono posti dalle gerarchie
delle due chiese. A livello gerarchico,
per esempio, la chiesa assira dell’Est
ha due patriarchi: Mar Dinkha
IV, la cui sede è negli Stati Uniti, e
Mar Addai II, residente a Baghdad.
Se il decreto congiunto è stato ratificato
dal patriarca con sede in America
non è perché il Vaticano gli
riconosca una maggiore autorità,
ma perché Mar Addai è più conservatore,
pone maggiori resistenze all’ecumenismo,
e non intende cedere
l’indipendenza della sua chiesa in
favore di una qualsiasi forma di riconoscimento
dell’autorità papale.
Autorità che, peraltro, noi cattolici
caldei non ci sogneremmo mai di
mettere in discussione».
Nessun problema quindi tra i cristiani
in Iraq… e i rapporti con i
musulmani?
«Tutte le minoranze, in qualsiasi
paese, hanno dei problemi; tutto
sommato però il quadro della situazione
in Iraq è buono. In passato sono
stato per quattro anni vescovo di
Arbil, nel nord del paese, dove mi
trasferii con mia sorella. A Baghdad
rimase solo mia madre che continuò
a vivere in questa casa, in una strada
in cui la nostra era ed è l’unica famiglia
cristiana. Ebbene mia madre
non ha mai avuto nessun problema,
e ha trovato nei musulmani dei buoni
vicini, pronti a darle una mano
quando necessario».
Ed i rapporti tra le chiese e il ministero
degli affari religiosi che controlla
ogni aspetto della vita religiosa
del paese, anche quella dei
cristiani, in che termini sono?
«È una disputa, questa, di vecchia
data. Il precedente patriarca, Paul
Checko II, ebbe molti anni fa una
violenta discussione a proposito
dell’indipendenza delle chiese cristiane
dal ministero degli affari religiosi,
con l’allora ministro Faïsal
Chaher.
La faccenda si risolse con la rimozione
dal suo incarico del ministro,
voluta dal governo. Attualmente
il ministro è un laico laureato
in teologia, Abdul Munem, al
quale, sempre a proposito dello
stesso argomento, è stata indirizzata
una lettera di protesta da parte
dei vescovi. Non c’è ancora stata risposta;
per cui adesso la questione
è congelata».
Lei nega l’esistenza di problemi di
convivenza tra la popolazione, e mi
cita l’esempio di sua madre, a Baghdad.
La situazione è uguale nel
resto del paese? Cosa dice della dislocazione
forzata che colpisce le
popolazioni non arabe della zona
di Kirkuk?
«Tale processo esiste, ma non riguarda
i cristiani, bensì i kurdi ed i
turcomanni. Ai cristiani, anzi, il governo
ha concesso delle terre proprio
in quelle zone…».
Perché questo favoritismo nei confronti
dei cristiani?
«Perché il governo tiene alla cultura
dei cristiani, perché la preservazione
di una piccola, ma comunque
colta comunità cristiana, può
essere utile a fronteggiare il vero pericolo,
quello degli integralisti islamici.
Dopo i fatti dell’11 settembre anche
l’Occidente si è accorto del pericolo
che un certo islam può rappresentare.
Noi lo dicevamo da anni
con il risultato di essere stati
tacciati di fondamentalismo cristiano».
Questo interesse comune tra governo
e cristiani contro il fondamentalismo
islamico spiegherebbe
l’ordine del governo iracheno di
punire eventuali attacchi ai cristiani
all’indomani dell’inizio della
guerra in Afghanistan. Ora che l’Iraq
si trova ad affrontare «direttamente
» il pericolo di una guerra, lei
pensa che tale protezione ai cristiani
verrà di nuovo accordata?
«Sì. Il governo è il partito Baath.
E il Baath è laico e, se non accordasse
la protezione ai cristiani, negherebbe
la sua stessa essenza. Il governo
è contro l’islam fondamentalista,
tanto è vero che la censura
colpisce di più i libri provenienti
dall’estero di matrice islamica che
quelli di argomento religioso cristiano.
È vero che per decreto non si può
menzionare in un libro Gesù come
figlio di Dio, ma il controllo non è
così severo. Recentemente la commissione-
censura del ministero degli
affari religiosi ha preteso la cancellazione
di tale riferimento in un libro
sulla santissima Trinità, ma l’autore,
che è un sacerdote, ha reinserito la
formula e lo ha dato alle stampe nella
versione originale, e per adesso
nessuno ha trovato niente da dire.
Una situazione tranquilla quindi…
Ma allora perché le fonti d’informazione
estere sui cristiani iracheni,
americane soprattutto, parlano
di persecuzioni e violenze?
«L’esagerazione dei problemi è
volta a favorire la fuga dei cristiani
verso l’estero; cristiani che possono,
nella loro ricerca di una nuova patria,
fare appello alle persecuzioni
religiose. Tale esagerazione, però, è
dannosa per i cristiani che rimangono
in Iraq, tanto è vero che io
stesso, durante il mio ultimo viaggio
in America, ho accusato la nostra
comunità di egoismo, di non
pensare a chi, qui, potrebbe essere
danneggiato da una tale campagna
denigratoria verso il nostro governo.
Non c’è ragione per cui i cristiani
abbandonino il paese.
Se il nostro futuro è incerto è per
la guerra che il mondo ci muoverà,
per controllare le nostre ricchezze.
Il nostro petrolio è ciò che l’Occidente
vuole; tutto il resto (il governo
guidato da Saddam Hussein,
le armi di distruzione
di massa) sono
solo pretesti».

Luigia Storti




L’università cattolica del MOZAMBICO

Intervista con il rettore Filipe J. Couto
Per non essere
accattoni

All’università cattolica abbiamo soprattutto incontrato
padre Filipe J. Couto, rettore magnifico:
nell’arco di 13 giorni ci ha accompagnati in aereo,
auto e treno in tutte le facoltà.
Un pomeriggio a Nampula, all’ombra di un mango,
ci ha rilasciato la seguente intervista.
È troppo poco definire le risposte «interessanti».

Signor rettore, non c’è rosa senza
spine. C’è qualche spina all’università
cattolica?
Nel 1997 c’è stato uno sciopero
generale nella facoltà di diritto, perché
il decano, il vicedecano e tre docenti
portoghesi si erano dimessi. E
questo ad appena un anno dall’apertura
dell’università.
Cos’è avvenuto?
È avvenuto che i suddetti docenti,
non concordando con la linea del rettore,
si sono appellati al gran cancelliere
dell’università, l’arcivescovo
Jaime Pedro Gonçalves. Ma questi ha
risposto: non posso rimuovere il rettore
per causa vostra, e gli interessati
in 24 ore si sono
dimessi. Poi gli studenti,
per evitare ulteriore
caos, si sono schierati con
il rettore.
L’università cattolica è nata per
ridurre l’«asimmetria» rappresentata
anche dall’università
statale di Maputo. Oggi come
sono i rapporti fra i due atenei?
Sono come le mani del corpo: fra
i due atenei c’è collaborazione.
L’università statale considera
quella cattolica un fattore di sviluppo,
che cornopera con il governo
ed altri enti dello stato al bene comune.
E l’università cattolica
non intende staccarsi dal contesto
nazionale: proprio come
una mano nel corpo umano.
La statale opera nel sud
del paese (Maputo e dintorni);
invece la cattolica
lavora nel centronord.
Però l’università
cattolica è presente anche
a Maputo con l’istituto
«Maria, madre dell’Africa», dove si insegna
teologia della vita consacrata
e si tengono corsi
per educatori sociali.
Oggi il Mozambico
necessita di esperti
che sappiano
anche rimboccarsi
le maniche…
Ben detto! Proprio a questo mira
l’università cattolica. Ecco perché si
stabilisce il periodo di studio: da un
minimo di quattro anni ad un massimo
di sette. Poi si deve andare a
lavorare come impiegati statali o nel
settore privato come imprenditori.
Vogliamo che l’università sia legata
al mondo del lavoro in genere: scuole,
negozi, imprese… Una università
aperta anche ad altri paesi: Malawi,
Zimbabwe, Sudafrica, Tanzania.
La «cattolica» è frequentata anche
da protestanti, musulmani,
induisti. Quale clima interreligioso
si respira?
Ieri a Nampula siamo passati davanti
ad una università islamica, che
ha iniziato con una piccola facoltà di
agraria ed economia. Che Allah l’aiuti!
Dobbiamo tenere conto anche di
questa esperienza: per esempio, non
vedo perché qualche nostro professore
non possa insegnare anche in un
centro musulmano.
Allora in che consiste l’«identità
cattolica» dell’università?
L’università si ispira alla dichiarazione
pontificia Ex corde Ecclesiae.
Premesso che in tutte le facoltà si
parla di Gesù Cristo e si insegna etica,
occorre anche ricordare che un
cattolico perde la sua identità se si
isola: in tale caso, non è più cattolico,
ma settario. L’identità cattolica
comporta assai di più della recita
del breviario ad un’ora precisa, della
lectio divina… Hai presente l’esperienza
di san Pietro con Coelio?
Sì, ma ricordala tu ai lettori della
rivista.
Secondo gli Atti degli apostoli (10,
9-30), un giorno san Pietro vede un
lenzuolo con degli animali ritenuti
impuri dagli ebrei osservanti, e una
voce che gli dice: mangia. Ma lui, da
bravo ebreo, risponde: no. E la voce:
tu non devi considerare impuro ciò
che Dio ha creato. Poi Pietro incontra
Coelio, un romano pagano, animato
però dallo Spirito Santo. L’apostolo
dice a se stesso: io non posso
negargli il battesimo solo perché
non è ebreo.
Che c’entra questo con l’identità
cattolica?
C’entra, c’entra! A volte chi vuole
salvare l’identità cattolica è un credente
pigro, chiuso in se stesso, non
aperto alla voce dello Spirito Santo,
e considera impuro ciò che impuro
non è.
Per accedere all’università uno
studente deve pagare ogni anno
da 500 a 1.000 euro, secondo le
facoltà. Non sono cifre alte in un
paese povero?
L’università fa tutto il possibile
per abbassare i costi e venire incontro
agli studenti bisognosi. Ma,
per aiutare, ci vogliono mezzi: l’università
cattolica non ne possiede
molti. Allora ben vengano le borse
di studio! Se la chiesa ha dei soldi,
ben vengano, anche perché l’università
non li trova per strada… E
senza denari, non è possibile comprare
libri, avere buoni professori…
Però mi domando: fino a quando
dobbiamo continuare a dare e dare?
Si raccomanda l’autonomia economica
nel terzo mondo; ma non basta
auspicarla, bisogna farla… Oggi abbiamo
2.300 studenti (che pagano
facendo sacrifici), e si va avanti.
L’università cattolica impressiona
positivamente anche per la
disciplina che vi regna… Qual è
l’atteggiamento di fronte a comportamenti
sessuali che possono
causare sieropositività?
Siamo severi e raccomandiamo il
massimo controllo di se stessi. Tuttavia
il sieropositivo non è escluso
dall’università, ma gli si suggerisce
come curarsi.
Entrando all’università, si richiede
allo studente il test dell’Aids?
Lo si consiglia con tatto. Molti studenti
vi si sottopongono liberamente.
Però i testimoni di Geova, contrari
a trasfusioni di sangue, rifiutano
il test.
Come vedi il futuro dell’università
cattolica?
La speranza è di poter contare su
persone competenti, non fanatiche,
che credono in ciò che fanno: persone
che con la loro presenza diano
un’impronta all’università. L’ho detto
anche al cardinale Saraiva, ex rettore
della pontificia università urbaniana
(Roma), prefetto delle «cause
dei santi». Egli mi ha risposto: questo
è «il» problema di tutte le università
cattoliche.
Inoltre vorrei che all’università ci
fossero più insegnanti seri di etica
che riflettano profondamente.
L’etica dell’«homo ludens» (la
persona che gioca) o quella
dell’«homo faber» (la persona
che costruisce)?
Soprattutto l’etica dell’homo faber.
La Germania, sia in ambito cattolico
che protestante, ha dei consiglieri di
etica, e ritiene che nel rapporto fra
capitale e forza-lavoro la presenza di
tali consiglieri debba essere del 50%
in ambo le parti.
Infine all’università noi dovremmo
avere docenti apartitici, dediti solo
all’insegnamento.
Tu hai sposato il pensiero del
partito Frelimo, ne conosci tutti
i leaders del passato e presente.
Qual è la tua posizione, se l’università
non deve schierarsi con
alcun partito?
Io non sono il segretario di un partito;
lavoro in una università della
chiesa cattolica.
Quindi hai dimenticato la tua
appartenenza al Frelimo!
No!… In Italia a chi ti chiede «per
quale partito voti?», tu giustamente
puoi rispondere che il voto è segreto…
All’università io non faccio
propaganda per il Frelimo. Ma questo
non significa che non abbia una
preferenza di partito. Se la mia posizione
politica non è gradita, i vescovi
mi possono sempre rimuovere.
I vescovi, nello scegliermi come rettore,
non mi hanno detto niente.
Mia Couto ha scritto: «Un tempo,
quando c’era una visita di politici
o stranieri, avevamo l’ordine
di non mostrare un paese mendicante…
Ora invece bisogna mostrare
la popolazione con la fame
e le malattie contagiose. La nostra
miseria sta diventando positiva.
Per vivere in un paese di
mendicanti, è necessario esibire
le ferite, mostrare i bambini con
le ossa fuori».
Rettore Couto, qual è il tuo parere
al riguardo?
Il romanziere Mia Couto colpisce
nel segno giusto… L’università cattolica
non è solo una sfida alla povertà,
ma anche al comportamento
da mendicanti.

LA PERLA
DELLO SVILUPPO

In ricordo di Paolo Carpaneto
Ho visitato il Mozambico con uno scopo: verificare
in loco le strutture, l’impostazione, l’efficienza, la
situazione generale dell’università cattolica (UCM), retta
da due missionari della Consolata, per eventuali borse di
studio a nome di mio figlio Paolo.
Dopo la sua morte (21 ottobre 1996), sorse in mia
moglie Mariuccia e in me il desiderio di prendere qualche
iniziativa per aiutare, in ricordo di Paolo, la promozione
culturale di giovani in paesi in via di sviluppo.
Padre Francesco Beardi ci parlò della UCM, da poco
nata, con l’invito ad attendee gli sviluppi… Maturati i
tempi, il missionario suggerì di recarsi in Mozambico
per capire meglio la situazione. Decidemmo di metterci
in viaggio nell’estate scorsa. E così fu.
All’aeroporto di Torino-Caselle, la prima piccola avventura:
le forbici da barbiere! Padre Beardi aveva riposto
le forbici nel bagaglio a mano; quindi, passando
attraverso i controlli di sicurezza, furono evidenziate dal
metal detector e fatalmente sequestrate. A nulla valsero
le spiegazioni e suppliche del missionario: «Mica sono
un terrorista!». Così le forbici, che da 30 anni lo avevano
accompagnato nei suoi viaggi per il mondo, finirono
in un inverecondo contenitore di oggetti di scarto.
Lascio immaginare la costeazione dell’interessato.
Quali le impressioni sul viaggio e sull’università? Si
possono riassumere in una frase: sono partito con
molte buone intenzioni e sono ritornato pieno di ragionato
entusiasmo.
Buone intenzioni, perché? Forte e profondo è stato
il desiderio di ricordare Paolo in modo duraturo e a certe
condizioni; finalmente si è presentata l’occasione che
rispondeva ai nostri desideri. Ragionato entusiasmo, perché?
Quello che ho visto in Mozambico in generale e nell’università
in particolare è andato oltre ad ogni ottimistica
aspettativa; di qui l’entusiasmo che, quasi con fatica,
ho dovuto razionalizzare.
Cosa mi ha colpito di più? La gente: questi bantu con
le loro tradizioni, la cultura, semplicità e disponibilità al
sorriso, l’affetto verso i missionari e il desiderio di vivere,
quasi a voler recuperare in pace il tempo perduto in
guerra. Altre favorevoli impressioni: l’innata eleganza del
portamento (soprattutto delle donne), la dignitosa povertà,
non miseria (non ho incontrato un solo mendicante,
al di fuori di Maputo; ma – si sa – le capitali sono
sempre crogiuoli dove si fondono gli elementi più eterogenei
e con maggiori difficoltà). Mi ha colpito il ruolo
fondamentale della donna, il rapporto mamme-bambini,
il rispetto di questi verso gli adulti, la consapevole e
composta partecipazione alle celebrazioni religiose.
Mozambico, una nazione veramente in via di sviluppo
con un costante indice di crescita, che si ripercuote
su particolari abbastanza significativi della vita quotidiana.
Un esempio: in alcune zone del nord, considerate le
più arretrate, il numero di biciclette, dopo 10 anni dall’accordo
di pace (4 ottobre 1992), si è quasi centuplicato.
E non sono poche le donne che ne fanno uso.
Ma è l’università cattolica, scopo del viaggio, la «perla
» dello sviluppo in corso. L’università, voluta dai
vescovi mozambicani e realizzata dai missionari della
Consolata (con il coraggio di padre Franco Gioda, allora
superiore, e il duro, costante lavoro di padre Francesco
Ponsi, attuale amministratore e vicerettore), è la prima
organizzazione nazionale con sede fuori della capitale
Maputo. È stata riconosciuta dal Consiglio dei
ministri del Mozambico quale unità autonoma di utilità
pubblica a beneficio della società. Padre Filipe J. Couto,
mozambicano, ne è il rettore.
L’università nasce nel 1996 con tre priorità: è un
mezzo al servizio della pace; è attenta ad evitare gli errori
commessi in altre università; è un’entità universale,
non settaria, aperta a tutti, per formare persone con un
servizio di qualità alla comunità. Non a Maputo, dove già
esiste l’università statale e dove gravita quasi tutta la vita
del paese, ma nel centro/nord, per dare ai giovani di
quelle province, spesso dimenticate, la possibilità di una
valida formazione e iniziare a correggere gli squilibri causati dal potere accentratore della capitale.
All’UCM si respira aria pulita, in quanto regnano ordine,
serietà, competenza, desiderio di far bene. Entrando
nelle diverse facoltà si avverte il senso di responsabilità
e la carica di entusiasmo che anima tutti: il rettore,
i professori, gli ultimi assunti, gli studenti. Tutti
contribuiscono con impegno alla vita e alla crescita dell’università.
Interessante è il coinvolgimento degli studenti nelle
facoltà di medicina, agricoltura e turismo, dove è stato
introdotto dall’inizio il metodo di «apprendimento basato
sui problemi» (problem based leaing): un metodo
che verrà assunto presto anche nelle altre facoltà,
che hanno iniziato con l’impostazione tradizionale.
Secondo l’«apprendimento basato sui problemi», si
assegna un argomento agli studenti (in gruppi di otto),
che lo sviluppano avvalendosi di testi in biblioteca; lo dibattono
fra loro affiancati da un assistente; periodicamente
gli studenti devono rispondere sul lavoro svolto;
nel corso dell’anno il gruppo stesso elimina eventuali studenti
svogliati, di rendimento insufficiente. A fine anno
ogni studente affronta gli esami personali, dove si valuta
l’idoneità al passaggio all’anno successivo. Non esiste
la figura del professore titolare di cattedra.
Il metodo responsabilizza gli studenti, li rende parte
attiva e forma in essi una mentalità di ricercatori, qualità
indispensabile quando, laureati, eserciteranno la professione.
Il successo dell’UCM presso i giovani del centro-nord
del paese è confermato dal numero crescente di presenze
che, nell’anno accademico 2002/03, supera le
2.300 unità con una massiccia partecipazione di ragazze:
quasi la metà degli studenti. Questo è il fatto
che maggiormente stupisce, ma che a sua volta sottolinea
l’evolversi positivo della promozione della donna.
Inoltre, se il corpo accademico è costituito per metà da
personale straniero, l’altra metà è mozambicano, con la
certezza di aumentare il numero nei prossimi anni.
Molte sono le persone di spicco. Basti citare i coniugi
Jan e Frouke Draisma, responsabili della facoltà di
Scienza dell’educazione (Nampula), che hanno rinunciato
alla cittadinanza olandese per naturalizzarsi mozambicani.
Però sopra tutti svettano il rettore, padre
Couto, e vicerettore-amministratore, padre Ponsi: due
personalità diverse e complementari.
Padre Couto è una mente vulcanica lanciata verso il
futuro, prolifico di nuove idee, conosciuto ed apprezzato
in tutto il paese per il suo impegno nella lotta di liberazione
nazionale, con ampie entrature in tutte le direzioni,
sostenitore di una ferma disciplina in seno all’università.
Padre Ponsi, piemontese pacato, figura di gentleman
inglese, con una profonda esperienza di studioso e
docente, amministratore provetto di assoluta affidabilità.
Entrambi animati da una solida fede, da un elevato spirito
missionario, fermamente convinti del valore dell’università
cattolica. È la migliore garanzia per il futuro.
LINO CARPANETO

Francesco Beardi Lino Carpaneto




L’università cattolica del MOZAMBICO

UN FIORE NATO SULLA PACE

«L’identità cattolica
comporta assai di più
della recita del breviario
ad un’ora precisa,
della “lectio divina”…»
(padre Filipe J. Couto, rettore
dell’università cattolica
del Mozambico).
«Ho preso possesso
in uno sgabuzzino della
Conferenza episcopale
mozambicana,
con una sedia,
un tavolino
e senza un centesimo…»
(padre Francesco Ponsi,
vicerettore e amministratore
dell’università cattolica).

Scena e retroscena di un grande evento
E non è mancato
un sorso di whisky

L’università cattolica del Mozambico è un evento, un grande evento.
Nasce per volontà dei vescovi come strumento di giustizia, pace e democrazia.
La realizzazione è affidata ad un missionario della Consolata.
Inaugurata nel 1996, il rettore e vicerettore «inventano» poi le facoltà
di medicina e agraria. Meglio: valorizzano un liceo malandato dello stato
e una caserma di guerra. I carri armati sono ancora là…
Oggi l’università conta oltre 2.300 studenti in sei facoltà (economia,
medicina, scienza dell’educazione, diritto, agraria, turismo-informatica)
a Beira, Nampula, Cuamba e Pemba.

FRA DUE LITIGANTI
La guerra in Mozambico impazziva
da anni. E il popolo, esasperato,
«impose» il cammino verso la pace…
Così i belligeranti si ritrovarono
a Roma, presso la Comunità di S.
Egidio, per concertare la fine delle
ostilità. Però le discussioni si protraevano
sterili, interminabili. L’uomo
della strada insorse ancora: «Finitela!
Da oltre un anno e mezzo
mangiate e bevete a sbaffo, mentre
i nostri figli si scannano con i vostri
bazooka».
Nel giugno 1992 le trattative tra i
contendenti Frelimo e Renamo (Fronte
di liberazione del Mozambico e
Resistenza nazionale mozambicana)
erano ad un punto morto. Nel disegno
di ricostruire il paese, la Renamo
rinfacciava al Frelimo l’«asimmetria
regionale», ossia una specie di
colonialismo interno del sud rispetto
al centro-nord.
È possibile firmare l’accordo di pace
anche subito – incalzava la Renamo
-; però le cose continueranno immutate.
Per esempio: i giovani del
nord resteranno esclusi dalla formazione
universitaria; per ottenerla dovrebbero
raggiungere Maputo, dove
esistono tutte le strutture specializzate,
ma dove i nostri giovani non
hanno appoggi familiari o conoscenti.
Per non parlare di strade e trasporti.
Restando così le cose, tutti gli
sforzi di recare democrazia e giustizia
al paese rimarranno frustrati.
In tale contesto, per superare lo
stallo, Jaime Pedro Gonçalves, arcivescovo
di Beira e mediatore fra i
contendenti, lanciò un messaggio:
la chiesa cattolica si sarebbe impegnata
a fondare una università nel
centro-nord del paese. La coraggiosa
proposta sgelò l’ambiente di diffidenza
e recriminazione.
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo
firmarono gli accordi di pace dopo
16 anni di guerra civile, che aveva
prodotto un milione di morti, milioni
e milioni di profughi interni,
devastazioni incalcolabili e aveva seminato
2 milioni di mine. Il paese,
con un reddito annuo pro capite di
soli 63 dollari, era da bonificare e ricostruire
dall’«a» alla «z», materialmente
e socialmente.
Si cominciò anche dall’università
cattolica, proposta da dom Gonçalves a nome dei vescovi del Mozambico.
Il progetto aveva entusiasmato
il presidente della repubblica Joaquim
Chissano. Era piaciuto anche al
papa Giovanni Paolo II.
Ma chi avrebbe posto «mano all’aratro»?

MA LE VIE DEL SIGNORE…
«I vescovi del Mozambico hanno
chiesto a me di mettere mano all’aratro…
». È la schietta affermazione
di padre Francesco Ponsi (*), vicerettore
e amministratore dell’università
cattolica. Con il rettore, padre
Filipe J. Couto, ci accoglie a braccia
aperte nella loro abitazione di Beira,
non facendoci mancare neppure un
pacchetto di wafers e un bicchierino
di Ballantine.
«Però, questi poveri missionari con
il Ballantine in tavola!» abbiamo malignato
mentalmente. Poi, osservando
il loro modestissimo alloggio, ci
siamo subito ricreduti. Biscotti e whisky
erano solo l’espressione di una
ospitalità squisita.
«Per iniziare l’università – racconta
padre Ponsi, in T-shirt bianca e
ciabatte nere nell’afa della sua camera
seminterrata -, il presidente
della Conferenza episcopale mozambicana,
dom Paulo Mandlate, si è rivolto
a vari istituti missionari, che
tuttavia non se la sono sentita di assumere
l’iniziativa. Però padre Franco
Gioda, superiore dei missionari
della Consolata, ha risposto: “Noi,
forse, noi uno che può farcela l’abbiamo”…». Cioè Francesco Ponsi,
docente nel seminario maggiore di
Maputo.
Questi rievoca sorridendo: «Il 1°
luglio 1993, dopo gli esami dei seminaristi
a Maputo, ho assunto l’incarico
in uno sgabuzzino della Conferenza
episcopale… con una sedia,
un tavolino e senza un centesimo».
Sennonché le vie del Signore sono
infinite. Ed ecco che, attraverso padre
Beniamino Guidotti e i professori
Felice Rizzi e Stefania Gandolfi (in
Mozambico a nome della Conferenza
episcopale italiana – Cei), al missionario
furono assegnati 25 mila euro:
non un granché per iniziare una università
da zero. Ma furono un catalizzatore,
come… i cinque pani e due
pesci (di evangelica memoria) che,
miracolosamente, sfamarono oltre 5
mila persone (cfr. Mc 6, 35-42). Infatti,
poi, la Cei donò altri 250 mila
euro per le sedi universitarie di Beira
e Nampula, nonché 200 mila euro
per le case dei professori a Nampula.
Oggi la chiesa italiana garantisce,
ogni sei mesi, 250 mila euro.
Né si scordi il contributo dei vescovi
del Portogallo, pari a 550 mila
euro, da aggiungersi a quello della
società filantropica Gulbenkia (Lisbona)
e della banca tedesca Merkur,
che offrì un prestito senza interesse.
Né è mancato il prezioso «obolo
della vedova», ancora di evangelica
estrazione: si tratta di donazioni di
istituti missionari, diocesi, parrocchie,
solo «offerte-
Couto,
un prestito
banca del
Mozambico Standard Tota (restituiti
con interesse). E gli studenti pagano…
Soprattutto si sta operando con
intelligenza e coraggio per raggiungere
l’autonomia finanziaria. La facoltà
di economia l’ha già conseguita
e quella di diritto quasi.

SUPERATA L’ASIMMETRIA
Il 10 agosto 1996 l’università ha
aperto i battenti a Beira con la facoltà
di economia e con quella di diritto
a Nampula. Il superamento della
temuta «asimmetria» è apparso
subito evidente con le due sedi universitarie
decentrate rispetto alla capitale
Maputo.
Dal 1998 Nampula ospita anche la
facoltà di scienza dell’educazione,
mentre dal 2000 Beira si è arricchita
dell’impegnativa medicina. Di più:
a Cuamba (nella dimenticata provincia
del Niassa), dal 1999 opera la facoltà
di agraria e, dall’anno scorso,
nella pittoresca e nordica Pemba si
studia informatica e turismo.
Complessivamente 2.300 giovani
frequentano l’università: sono cattolici
e musulmani, induisti e protestanti,
agnostici e credenti; appartengono
a sei facoltà, dislocate
in quattro città su una linea di circa
1.500 chilometri. «Cinque nostri
diplomati, dopo la specializzazione
in Zimbabwe e Botswana, operano
già in alcune sedi: uno è cornordinatore
alla facoltà di turismo e sarà
presto affiancato da un altro; il terzo
è direttore aggiunto alla facoltà
di agraria; la quarta persona è una
signorina, che sarà l’amministratrice
della facoltà di medicina, e la
quinta entrerà pure nell’organo direttivo
della medesima facoltà…».
Il vicerettore manifesta legittima
soddisfazione.
Il tutto in soli sei anni, mentre il
paese è ancora sanguinante per le
ferite della guerra civile ed è sottoposto
a drammatiche emergenze,
come l’alluvione di tre anni fa. Ma la
pace opera prodigi. E l’università
cattolica lo è.
«Dopo lunghe e faticose trattative
– annota padre Ponsi – lo stato ha
restituito alla chiesa cattolica alcune
strutture educative nazionalizzate:
come il grande liceo dei missionari
maristi di Beira e quello Nossa
Senhora das Victorias (Madonna delle
vittorie) di Nampula». Durante il
colonialismo erano centri efficienti
di studio; ma alla riconsegna le «crepe
» non si contavano. Oggi quegli
edifici, ristrutturati, sono la sede decorosa
di alcune facoltà.
L’università cattolica è nata con la
«c» maiuscola, al servizio del bene
comune, della giustizia sociale, della
pace… oltre che al servizio di una
professione ad alto livello. Questo è
sancito pure dallo statuto, dopo numerosi
incontri con l’università cattolica
del Portogallo e quella (all’inizio
cattolica) di Durban, in Sudafrica;
per non contare gli estenuanti
negoziati con i ministeri dell’educazione e della giustizia del governo
mozambicano. L’idea che l’università
fosse «per la gente del centro-nord»
si è fatta strada faticosamente tra alcuni
politici del sud.
«Però ce l’abbiamo fatta. Abbiamo
superato l’asimmetria. La nostra università
è la prima organizzazione nazionale
fuori della capitale».
Sembra davvero soddisfatto padre
Francesco, che si concede una pausa
ed accende la pipa.

SPADE IN ARATRI?
La facoltà universitaria che ci sorprende
di più è quella di agraria a
Cuamba: primo, perché è la più povera
ed isolata; secondo, perché sorge
in un’ex caserma di guerra. Sul
fondo, dietro gli edifici, alte erbacce
coprono autoblindo e carri armati,
con uccelli che cinguettano rincorrendosi
e bimbi che giocano. Dalle
carcasse arrugginite sono stati
divelti dei rottami. Per fae zappe
e badili?
… Forgeranno le spade in vomeri
per arare e le lance in falci per
mietere il grano, e i popoli non si
eserciteranno più nell’arte immorale
della guerra: fu il grande sogno di
un poeta sommo, 2.300 anni fa (cfr.
Is 2, 4). La profezia sta avverandosi
nel cuore del Mozambico dalla facoltà
di agraria?
A prescindere dai sogni, la facoltà
avrà un futuro roseo se Cuamba diventerà
un nodo stradale per le province
di Niassa, Cabo Delgado, Tete,
Zambesia e Sofala, province che non
possono ignorare l’agricoltura: un’agricoltura
che deve crescere tecnologicamente
superando la soglia della
zappa. Una agricoltura che, perfezionandosi,
potrà occupare con successo
anche i giovani, arrestando l’esodo
verso le città, cariche di lusinghe
e menzogne.
Ragiona padre Ponsi: «Un figlio di
contadini, diplomato in agraria, se
lo chiudi in ufficio a Maputo, non si
sente realizzato; egli ha bisogno del
campo, di incontrare gli agricoltori,
di vedere le loro condizioni per aiutarli.
Preparare un dottore in agraria
con tali orientamenti è un servizio
all’intera nazione. Intanto, mentre
frequenta l’università, deve accedere
alla biblioteca, al computer… Speriamo
di ottenere presto anche l’accesso
ad internet. Ma non basta conoscere
i problemi; bisogna risolverli
positivamente secondo la cultura locale».
Per venire incontro a tale esigenza
fondamentale, ecco che la facoltà
di agraria ha accettato l’apporto del
Centro di cultura della missione di
Maua, specializzato nello studio dell’etnia
dei macua (cfr. Missioni Consolata,
gennaio 2003).

«MAASTRICHT»
FA LA DIFFERENZA

E le altre facoltà?
Economia raccoglie il numero più
alto di studenti: quasi 800. Il fine è
quello di creare piccoli imprenditori
nei villaggi, capaci di gestire in proprio
un’attività, produrre posti di lavoro:
quindi sviluppo. A tale scopo,
si richiedono minicrediti iniziali, ma
anche fantasia innovativa. Alla facoltà,
i futuri piccoli imprenditori si
sentono spesso ripetere: «Osservate
i venditori del mercato informale nel
centro di Beira. È, come ben sapete,
il Chunga moyo (fatti coraggio). Attingete
da quei venditori (assai meno
istruiti di voi!) idee e costanza».
Ma, ad un tiro di sasso dal mercato
informale, spicca il supermercato
Shoprite: appartiene ad una catena
del Sudafrica. Il nome «shoprite» (il
rito di acquistare) è già un messaggio,
molto equivoco però. Non lontano
s’impone anche «il monumento
alla globalizzazione»: è una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola che, da un
basamento circolare in cemento, si
staglia solenne sotto il cielo… La facoltà
di economia è chiamata a remare
anche controcorrente.
Sempre a Beira, un tardo pomeriggio
visitiamo la facoltà di medicina,
con il sole che ne illumina gloriosamente
la facciata. Ci accompagna il
rettore Couto. Una guardia giurata,
in divisa grigio-verde, scatta sull’attenti
al passaggio del «capo»… facendoci sentire noi stessi un po’ importanti.
L’apertura di medicina è merito del
rettore, che ha saputo fronteggiare
resistenze serie. Il Mozambico – si
obiettava – più che di medici necessita
di infermieri; e poi non è equipaggiato
per formare cardiologi, chirurghi…
Ma Couto replicava: puntiamo
prima su medici e, se non ce la
faremo, avremo ugualmente ottimi
infermieri. Ha vinto la scommessa.
Il problema non è solo la preparazione
professionale di medici, bensì
disporre di esperti di sanità in sintonia
(ancora una volta!) con la cultura.
La stragrande maggioranza dei
medici mozambicani lavora a Maputo;
solo un’esigua minoranza accetta
di operare nei villaggi. Occorre invertire
la tendenza.
«Si tratta di creare un “nuovo” medico
di eccellente qualità – spiega padre
Ponsi -, ma disposto a servire i
poveri e dimenticati dalle strutture.
Non per forza deve essere un missionario,
ma con il suo spirito, sì. È necessario
un professionista che, dopo
la laurea, continui a leggere la realtà
in cui vive. Formare professionisti
con una mentalità di ricerca e aggioamento
permanente comporta
una struttura di sostegno, che non si
limita alla facoltà di medicina; implica
che l’università formi medici per
la società e continui ad accompagnarli
con libri, computers e incontri
fra loro via internet e congressi inteazionali…
Esiste pure una medicina
a distanza, che si estende a tutti
i centri di salute dove le comunità
devono essere seguite…».
«La nostra facoltà di medicina deve
essere non solo un luogo dove si
studia, ma anche una sede di scambio
di esperienze: una facoltà che
utilizzi, come metodo di studio, il
problem based leaing (apprendere
partendo da problemi concreti),
già sperimentato in Olanda da 20
anni all’università di Maastricht. Anche
noi l’abbiamo assunto…».
In facoltà incontriamo alcuni docenti,
fra cui padre Elias Arroyo, medico
missionario comboniano messicano,
e suor Donata Pacini, anch’essa
dottoressa comboniana. È poi la
missionaria ad accompagnarci nella
visita a medicina.
Ci soffermiamo davanti ad un murale
naif, che esprime bene l’animus
dello studio nella facoltà secondo il
problem based leaing: partito dal
villaggio, il dottore neolaureato vi
ritorna per servire la comunità secondo
le esigenze e lo stile di vita
locali. All’università studia in gruppo,
ricorre constantemente alla biblioteca
(è necessario quindi conoscere
l’inglese), fa pratica su manichini
anatomicamente perfetti, non
su cavie umane.
La novità del problem based leaing
non è solo di metodo, ma (e soprattutto)
di approccio tra professore
e studente, dove il primo non è il
soggetto protagonista e il secondo
oggetto. Tra i due si sviluppa un rapporto
alla pari, simile a quello della
«maieutica» di Socrate. Nel dialogo,
il grande maestro greco aiutava l’allievo
a cogliere la verità con domande
«curiose»: «Non ti pare che io fossi
nel giusto?… O tu avresti paura
che…?» (Platone, Fedone, passim).

STUDENTI CHE RECUPERANO
Purtruppo non incontriamo studenti,
perché sono in vacanza. Tuttavia
ne salutiamo alcuni in biblioteca.
«Sono in ritardo con il piano di
studi rispetto ai compagni di gruppo
– spiega la professoressa Karin,
austriaca, della facoltà di economia
-. Se non vogliono essere emarginati
dai loro stessi colleghi, devono recuperare».
Sugli studenti si sofferma anche
suor Dominique, delle orsoline italiana,
responsabile dell’immatricolazione
ad economia e impegnata a
Beira nella pastorale della donna. Il
mondo femminile esige soprattutto
rispetto e riconoscimento della propria
dignità. «Quanto alla lotta contro
l’Aids – aggiunge la missionaria –
si punta sulla prevenzione, secondo
il principio dell’amore responsabile.
Il preservativo è accettato come ultimo
mezzo di prevenzione».
Dominique non nasconde la propria
apprensione di fronte al comportamento
di alcune studentesse
universitarie, perché vi sono gravidanze
extramatrimoniali e aborti.
Le consorelle Damiana e Raffaella
insegnano etica, basata sulla dottrina
sociale della chiesa, una disciplina
che caratterizza la «cattolica».
Se condividono la preoccupazione di
suor Dominique, sottolineano anche
i fattori positivi.
«Noi privilegiamo gli studenti poveri
– ci confida suor Damiana -, ma
non escludiamo i ricchi, quasi tutti
appartenenti all’induismo e all’islam.
I musulmani tirano un sospiro di sollievo
quando affermiamo che la religione
non può essere imposta… che
la democrazia non è né comunismo,
né capitalismo, né teocrazia… che
occorre valorizzare la cultura tradizionale,
fondata pure sulla disciplina…
Uno studente della campagna,
mi ha detto: “Suor Damiana, ora non
mi vergogno più di essere figlio di
contadini…”. Io conosco universitari
che dormono in capanne e studiano
al lume di candela. Questi vanno
aiutati».

SOFFERENZE E GIOIE
Qual è il «peso» della chiesa nell’università
cattolica?
«È sufficiente dire che l’università
è della chiesa – risponde padre Ponsi
– : una chiesa esperta in umanità,
che lotta per la giustizia, la pace, il
dialogo e la riconciliazione fra le religioni,
le etnie, i partiti… La gerarchia
ecclesiale si è attirata anche critiche,
perché si assiste ad una certa
competizione tra seminaristi e universitari.
Fino a ieri si entrava in seminario
anche per studiare e poi, magari,
fare strada in politica. Oggi è un
po’ diverso: chi sogna una carriera civile
non entra in seminario. Questo è
positivo. Qualcuno dice che l’università,
proprio perché cattolica, è settaria,
fondamentalista. Non è vero. I
frutti lo dimostrano»…
Siamo sempre nell’afosa stanza seminterrata
di padre Francesco Ponsi,
dove l’abbiamo ascoltato a lungo, ora
in attesa anche della cena con il Ballantine
per aperitivo.
Nel frattempo poniamo al vicerettore-
amministratore dell’università
cattolica il seguente ed ultimo
quesito: «Che cosa ti ha maggiormente
rallegrato e rattristato nella
tua esperienza?».
«Mi ha rattristato lo scetticismo
di alcuni uomini di chiesa, che ci
hanno ritenuti dei matti ridendo alle
nostre spalle. Certo, ci sono stati
dei rischi, ma anche delle opportunità,
che mi hanno fatto toccare
con mano valori evangelici che prima
ignoravo. Come prete missionario,
mi sono trovato in un cammino
di crescita personale e spirituale. Mi
ha rallegrato il fatto che il cammino
sia avvenuto in compagnia di
Gesù Cristo: lo dico però “balbettando”.
Se avessi continuato a insegnare
in una situazione di sicurezza,
non avrei avuto questa esperienza
unica nella vita…».
«Basta con le chiacchiere! La minestra
si raffredda in tavola…». È il
rettore magnifico dell’università,
padre Filipe José Couto, che parla e
comanda.

(*) PADRE FRANCESCO PONSI,
cuneese di 61 anni, missionario
della Consolata, laureato in sociologia
statistica e demografia
a New York.
È docente per otto anni all’università
di Addis Abeba (Etiopia)
e per cinque è in Kenya come ricercatore
nella pastorale dei nomadi.
In Mozambico insegna nel
seminario di Maputo. «Fonda»
l’università cattolica, di cui oggi
è vicerettore e amministratore.

Università cattolica
PERSONAGGI, DATE, LUOGHI, NUMERI
Nel giugno del 1992 l’arcivescovo
di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, durante
i colloqui di pace a Roma tra
Frelimo e Renamo, lancia l’idea di
una università cattolica. Dopo l’approvazione
dei vescovi mozambicani,
la realizzazione del progetto è affidata
a padre Francesco Ponsi.
Il 10 agosto 1996 l’università inizia
con due facoltà: economia-amministrazione
a Beira e diritto a Nampula.
Successivamente si aggiungono altre
quattro facoltà:
– scienza dell’educazione a Nampula
(1998)
– agraria a Cuamba (1999)
– medicina a Beira (2000)
– turismo-informatica a Pemba
(2002).
Gran cancelliere: Jaime Pedro
Gonçalves, arcivescovo di Beira.
Rettore magnifico: Filipe José Couto,
missionario della Consolata mozambicano.
Vicerettore e amministratore: Francesco
Ponsi, missionario della Consolata.
I docenti sono 230: i mozambicani
sono il 50%; poi portoghesi, italiani,
spagnoli, brasiliani, austriaci, russi,
messicani, ecc. (religiosi e laici).
Gli studenti sono 2.336 (di cui il
48% donne), così distribuiti per facoltà:
economia-amministrazione
750, medicina 180, diritto 580,
scienza dell’educazione 490, agraria
236, turismo-informatica 100.
Tasse annuali di iscrizione: 500, 750
e 1.000 euro, secondo le facoltà. Alcuni
studenti bisognosi usufruiscono
di borse di studio.
Dall’apertura dell’università, 252
studenti conseguono il bacellierato
(una sorta di laurea breve) nelle varie
facoltà (il 50% donne). Particolarmente
soddisfatti sono i primi cinque
bacellieri in agraria, la facoltà più
povera. L’avvenimento viene festeggiato
anche con una eucaristia, il 28
agosto 2002, presieduta dal vescovo
di Lichinga Luis Ferreira Gonçalves,
che consegna i diplomi.
PER INFORMAZIONI:
Missionarios da Consolata
Avenida Eduardo Modlane 715
CP 544 – Beira (Mozambico)
e-mail: imc.beira@teledata.mz

L’ESEMPIO DI CHISSANO
Don Matteo Zuppi, della comunità di S. Egidio, è stato uno dei mediatori
negli accordi di pace del 1992. Il sacerdote è tornato in
Mozambico nel giugno scorso e ha celebrato a Nampula il 10° anniversario
degli accordi, alla presenza di 2.800 giovani. Ad essi ha ricordato
che la pace non si conquista una volta per sempre, ma si costruisce
giorno per giorno dall’«interno». Dall’«esterno» si può dare una
mano. Ma saranno i mozambicani a dover ricostruire il loro paese.
Parole opportune per una nazione fragile culturalmente e ideologicamente.
Gli anni di indottrinamento marxista e il successivo periodo
hanno minato i valori della società tradizionale. Ora il paese si apre al
futuro senza molti punti di riferimento. I pericoli di prendere la strada
sbagliata sono molti. I politici sono tentati dal denaro facile, dall’arroganza,
dalla corruzione. Il popolo, sentendosi defraudato, può essere
tentato dalla violenza o dall’indifferenza, dalla corruzione a basso livello
e dal furto.
L’attuale presidente Joaquim Chissano ha deciso di non ripresentarsi
alle elezioni del 2004: una decisione lodevole, dato che sono pochissimi
i presidenti africani che lasciano il proprio posto volontariamente.
Il candidato alla successione è Armando Guebuza, storico del Frelimo,
che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza al fianco di Samora
Machel. È stato anche il rappresentante del Frelimo durante i
colloqui di pace del 1992.
S iamo ottimisti sul futuro del Mozambico. I mali della nazione sono
una realtà; ma è altrettanto innegabile che questi ultimi anni hanno
rappresentato un importante passo
avanti: la pace è stata mantenuta;
anche se con ritardi, si stanno realizzando
diversi programmi di sviluppo;
i partiti politici stanno imparando la
ginnastica della democrazia; la corruzione,
specialmente se paragonata
a quella di altri paesi, è contenuta
entro limiti tollerabili.
Mozambico, buona fortuna!
JUAN GONZÁLEZ NUÑEZ

Francesco Beardi Lino Carpaneto




DIRITTI UMANI libertà religiosa negata

DI MALE IN PEGGIO
In barba alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo,
la libertà religiosa
è sempre più calpestata,
specialmente in Asia, dove
le minoranze cristiane sono
le più esposte a repressioni
e persecuzioni.
Presentiamo alcuni casi.

Oltre 410 milioni di cattolici
soffrono limitazioni alla libertà
religiosa nel mondo.
Nei paesi islamici i cristiani sono sistematicamente
discriminati e posti
in condizione di inferiorità sociale,
quando non sono oggetto di massacri
e pulizie da parte di milizie islamiche:
in quelli con regimi comunisti
continuano a subire persecuzioni
e repressioni; negli stati a maggioranza
buddista e induista la situazione
non è affatto migliore.
L’Asia, soprattutto, si rivela il continente
in cui, anche nel 2001, la libertà
religiosa è stata maggiormente
negata: lo testimoniano i rapporti annuali
su tale argomento del Dipartimento
di stato americano, Amnesty
Inteational, Aiuto alle chiese che
soffrono e altri organismi inteazionali
in difesa dei diritti umani.
Gli esempi che riportiamo non sono
i peggiori, ma bastano a dare un’idea
di un problema sempre più grave
e di cui si parla sempre meno. Dove
il diritto alla libertà religiosa non
è rispettato, anche gli altri diritti fondamentali
vengono calpestati.

MYANMAR: proibito… cantare
Nell’ex Birmania è presente circa
un milione di cristiani, di cui 400 mila
cattolici, su una popolazione di
quasi 46 milioni di abitanti.
Dal 1996 il regime militare birmano
non concede licenze di costruzione
per edifici di culto e, dal luglio
2001, è in vigore un ordine governativo
per cui «le comunità cristiane
non possono riunirsi in luoghi di culto
costruiti meno di un secolo fa».
Da allora sono state chiuse oltre 80
chiese nella capitale Rangoon; altre
20 a Shwe Pyi Tar; a Haling Tai Yar,
invece, sono stati chiusi tutti gli edifici
di culto: i cristiani hanno il permesso
di riunirsi privatamente, ma
con l’ordine di non cantare.
A 5 ministri cristiani del culto è
stato ordinato di lasciare il paese; altri
17 hanno scelto la latitanza. È ancora
in carcere la pastora battista
Gracie, arrestata il 13 febbraio 2001
e inteata nel campo militare di
Haka con l’accusa di aver dato rifugio
a separatisti di etnia chin: il tribunale
le ha inflitto una condanna a
due anni di lavori forzati. Stessa condanna
è stata inflitta al fratello maggiore,
accusato dello stesso reato.
Per i fedeli del luogo, però, tali accuse
sono infondate e mirano a ridurre
la libertà religiosa.
In Myanmar è da anni in corso una
guerra civile contro vari gruppi etnici
separatisti e una spietata repressione
contro l’opposizione. A volte la
tensione politica sfocia in scontri a
sfondo religioso, soprattutto tra buddisti
e musulmani, provocando vittime
e distruzioni di case e moschee.
Nei confronti della minoranza islamica
(3,3%, contro il 69% buddista),
il governo persegue una politica
particolarmente repressiva, confinando
i musulmani in determinate
aree del paese e limitandone la libertà
di movimento. Nel corso del
2001, nello stato di Arakan, il governo
ha provveduto a distruggere 10
moschee e a programmare l’abbattimento
di altre 30.

BHUTAN:
cambiare religione… o paese

L’8 aprile 2001, domenica delle
palme, la polizia bhutanese schedò i
fedeli radunati davanti ai luoghi di
culto; molti pastori protestanti furono
arrestati e sottoposti a interrogatori
e minacce di detenzione. Altri fedeli
fuggirono per paura di essere identificati.
Il prezzo più salato lo
pagò il pastore Yakub, arrestato per
15 giorni e sottoposto a percosse affinché
abiurasse.
La campagna persecutoria è scattata
nel 2000, con l’invio a impiegati
pubblici e privati di speciali moduli
da compilare, in cui si chiedeva di
sottoscrivere «norme e regole che sovrintendono
la pratica della religione
»; la distribuzione dei moduli era
accompagnata da minacce ai cristiani:
«Abbandonate la vostra religione
o lasciate il paese».
Il governo del Bhutan, naturalmente,
nega schedature e ultimatum
e afferma che nel paese ognuno è libero
di professare e praticare la propria
fede. Ma la testimonianza dei
cristiani conferma che i non buddisti
soffrono discriminazioni politiche
e sociali e la persecuzione contro i
cristiani è ora estesa e sistematica, villaggio
per villaggio; in alcune città i
cristiani sono malmenati e non possono
riunirsi se non in case private;
non hanno promozioni sul lavoro;
subiscono licenziamenti immotivati,
la revoca di licenze commerciali,
vengono loro negati i benefici dell’assistenza
pubblica.
Su 1,8 milioni di abitanti, il 70,1%
della popolazione del Bhutan è costituita
da buddisti lamaisti, 24%
indù, 5% musulmani e 0,33% cristiani.
Il Bhutan è l’unico regno buddista
nel mondo: l’inno nazionale è
dedicato a Budda; il buddismo è religione
di stato; molti uffici pubblici
sono situati all’interno di monasteri
buddisti. Non ha una costituzione
che garantisce i diritti dei cittadini.

LAOS:
una chiesa da spazzare via

«Tutti i cittadini hanno diritto e libertà
di credere o non credere nelle
religioni» recita l’art. 30 della Costituzione
del Laos, quasi a sancire l’indifferenza
dello stato verso la religione,
anche se l’art. 9 afferma che «lo
stato rispetta e protegge tutte le attività
legali dei buddisti e dei fedeli
delle altre religioni; mobilita e incoraggia
monaci e novizi buddisti, così
come i preti di altre religioni, a partecipare
alle attività che sono di beneficio
al paese e al popolo… Sono
proibiti tutti gli atti che creano divisione
di religioni e classi di persone».
Tale conclusione, piuttosto vaga, è
fatta apposta per giustificare le restrizioni
all’esercizio della libertà religiosa.
L’art. 66 del Codice criminale
«proibisce a qualsiasi individuo di
organizzare o prendere parte a incontri
per creare disordine sociale».
Nel 1998, citando tale articolo, l’ambasciatore
laotiano in Usa spiegava
la filosofia del regime, affermando
che il governo «si oppone fermamente
all’abuso della libertà di religione
per promuovere il dissenso
politico e disordine interno».
Tale politica di «prevenzione» si
traduce in repressione, specialmente
contro la chiesa cattolica. I permessi
per costruire nuove chiese, per
esempio, sono dati solo in quei posti
dove già c’è stata una chiesa cattolica;
per qualsiasi tipo di riunione deve
essere richiesto un permesso speciale
dalle autorità locali a cui va presentata
anche la lista completa dei
partecipanti.
Vari testimoni riferiscono che a subire
maggiormente la repressione è
«la popolazione rurale nel nord del
paese». In diversi villaggi «le autorità
locali hanno esercitato una grande
pressione sulla gente in modo da
prevenire ogni possibile conversione
al cattolicesimo. A tale scopo ci
sono stati numerosi arresti di sacerdoti
e operatori pastorali. Sembra
che il governo usi ogni mezzo per evitare
la crescita del cattolicesimo».
Anche le altre confessioni cristiane
sono nel mirino del regime.
La repressione contro le comunità
cristiane, si è intensificata negli
ultimi anni ’90. Nel mirino ci sono
soprattutto i cristiani, presenti principalmente
tra le etnie minoritarie
hmong e khmu. In alcuni villaggi,
oltre alla rinuncia scritta al cristianesimo,
le autorità forzano i cristiani
a seguire riti animisti, che includono
sacrifici degli animali, bere il
loro sangue e parlare agli spiriti.
Ma anche in quella lao, maggioritaria,
non si fanno eccezioni: tra il
2000 e il 2001, il governo laotiano
ha arrestato e imprigionato oltre
550 cristiani hmong e lao e ha chiuso
in varie province oltre 65 chiese
cristiane e istituti religiosi. Il rapporto
del Dipartimento di stato americano
afferma che nel 2001 vari
cristiani lao «sono stati arrestati, detenuti,
minacciati con la perdita del
lavoro nel governo, fisicamente impediti
dalle forze di sicurezza di
partecipare alle celebrazioni delle
principali festività religiose».
Un caso esemplare: otto leaders
cristiani passarono il mese di giugno
2001 in prigione, perché si erano rifiutati
di firmare un documento in
cui rinunciavano alla fede cristiana.
Fu un mese di torture: venivano regolarmente
trascinati nel cortile della
prigione e «invitati» a firmare tale
rinuncia con una pistola puntata alla
testa. Al momento del rilascio, tre
di essi non erano più neanche in grado
di camminare.
Una trentina di cristiani sono ancora
in carcere, alcuni dei quali da oltre
due anni, per la maggior parte, in
totale isolamento. Altri vengono regolarmente
picchiati.
Il governo comunista del Laos
sembra impegnato a spazzare via la
chiesa dal paese. Impressioni confermate
dai membri della burocrazia
laotiana, in disaccordo con la persecuzione
dei cristiani, riportate dal Telegraph
di Bangkok nel luglio 2001:
«Il Politburo e le maggiori autorità
hanno ripetutamente espresso l’intenzione
di liberare il paese da ciò
che è sprezzantemente descritta come
una fede aliena».

NEPAL: i nipotini… di Mao
Il Codice penale nepalese sanziona
con la detenzione fino a tre anni
chi esercita qualsiasi forma di proselitismo
nei confronti di cittadini
indù. Tale sanzione è sfruttata dagli
estremisti induisti per accusare i
membri di una confessione diversa,
provocandone l’immediato arresto.
Ne hanno fatto le spese il missionario
protestante norvegese Trond
Berg e tre cittadini nepalesi: arrestati
nell’ottobre 2000 con l’accusa di aver
cercato di convertire con denaro
un indù, sono stati rilasciati dopo
quattro mesi, perché al processo non
si sono presentati gli accusatori.
Dal 1996 il Nepal respira un pesante
clima di tensione politica e sociale,
provocata dalla campagna dei
ribelli maoisti per rovesciare la monarchia
costituzionale e istituire una
repubblica comunista. Nella seconda
metà del 2001, numerose stragi
hanno mietuto centinaia di vittime
tra forze dell’ordine e terroristi.
Nel mirino maoista ci sono soprattutto
le scuole private, molte delle
quali hanno ricevuto lettere intimidatorie,
minacce e distruzioni. Dal
2000 hanno già chiuso 150 istituti. La
soppressione del sistema scolastico
privato danneggerebbe un milione di
studenti e 75 mila insegnanti.
Le scuole cattoliche del Nepal occidentale
sono state particolarmente
colpite, ma continuano a lottare
per rimanere aperte. Tali pressioni e
rappresaglie vengono da organizzazioni
politiche filo-cinesi, che si oppongono
alla presenza della chiesa
cattolica nel paese.

TURKMENISTAN:
ritorno alle… catacombe

Quella di Shagildy Atakov è una
storia esemplare di ciò che sta capitando
nel paese. Convertito alla chiesa
battista, 39 anni, moglie e quattro
figli, nel dicembre 1998 Atakov fu incarcerato
e pestato a sangue, fino a
perdere temporaneamente la vista.
Condannato per frode a due anni
di lavoro forzato, in appello la sentenza
fu commutata a quattro anni di
carcere e una multa pari a 12 mila euro.
Nessuno dubita che la sua condanna
sia stata una punizione per la
sua conversione al cristianesimo.
Rifiutatosi di rinunciare alla sua fede
e giurare fedeltà al presidente
Niyazov, Atakov fu sottoposto a maltrattamenti
e vessazioni; ricoverato
all’ospedale per un attacco cardiaco
(2000), fu subito rispedito al campo
di lavoro, poi in cella di isolamento in
un carcere di massima sicurezza.
Per un certo periodo, anche moglie
e figli furono messi agli arresti
domiciliari in un villaggio ai confini
con l’Iran e subirono varie pressioni
dai funzionari di sicurezza, affinché
si convertissero all’islam.
Il caso Atakov ha suscitato scalpore
a livello mondiale. Perfino il Parlamento
europeo e l’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) si sono interessati del
suo caso. Ed è, forse, grazie alla pressione
internazionale che Atakov è
stato rilasciato nel febbraio 2002, prima
che scontasse l’intera pena. Ma,
privo di documenti d’identità, egli si
trova ancora sotto sorveglianza.
Casi come quelli di Atakov ne segnalano
a bizzeffe gli organismi in difesa
dei diritti umani. Fin dall’indipendenza
(1991), in Turkmenistan
c’è un crescendo di attacchi contro i
gruppi religiosi minoritari, tanto da
fae il più repressivo dei paesi dell’ex
Unione Sovietica in materia di libertà
religiosa.
Tale diritto è garantito dalla Costituzione
solo sulla carta. Secondo la
legge turkmena, ogni gruppo religioso
deve essere registrato; per ottenere
tale registrazione deve provare di
essere composto da almeno 500 persone
di età superiore ai 18 anni e residenti
nella stessa città. Tali requisiti
fanno sì che nessun gruppo, tranne
i musulmani sunniti (87% dei 4
milioni e mezzo di turkmeni) e la
chiesa ortodossa russa (6,4%), possa
ottenere il riconoscimento legale. I
cattolici (5 mila) e le altre chiese cristiane
hanno comunità di poche decine
di fedeli. Inoltre, col vento che
tira, i cristiani di origine turkmena sono
riluttanti a inserire i loro nomi in
un documento pubblico, rivelando
la loro conversione. Il passaggio dall’islam
al cristianesimo è malvisto dallo
stato e dalla società.
Le comunità religiose non riconosciute,
pur presenti nel paese, non
possono radunarsi, fare proselitismo
o distribuire materiale religioso. Non
è consentito neppure di incontrarsi
in case private: se vengono scoperti,
e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia
di sicurezza, i partecipanti sono
soggetti a multe e arresti amministrativi
e accuse penali, che si traducono
in carcerazioni, torture, deportazioni
ed espulsioni, sequestri e distruzioni
di proprietà. L’accanimento
si riversa soprattutto sui leaders dei
gruppi cristiani, per spezzae la resistenza
e forzarli a rinunciare alla fede
o a lasciare il paese.
La chiesa cattolica è autorizzata a
celebrare le funzioni e a svolgere attività
religiose solo sul territorio della
nunziatura apostolica, coperto da
immunità diplomatica.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi
riconosciuti dallo stato sono
soggetti a controllo, i musulmani soprattutto.
Per impedire l’ingresso di
movimenti islamici stranieri, il governo
usa vari modi: vieta la distribuzione
di materiale religioso islamico
pubblicato fuori del paese; paga
lo stipendio al clero islamico e
vieta l’insegnamento a certi imam;
chiude scuole coraniche; seleziona e
riduce al minimo i partecipanti al
pellegrinaggio annuale alla Mecca.
La ragione della politica di crescente
repressione della libertà religiosa
è spiegata chiaramente dall’ex
ministro degli esteri turkmeno,
Boris Shikhmuradov, in dissidio col
regime e per questo rifugiatosi a
Mosca: «Il presidente Niyazov
prende personalmente tutte le decisioni
su ogni aspetto della vita del
paese, incluse le questioni religiose,
sebbene egli non abbia alcuna idea
di cos’è la religione. Egli non
tollera alcun dissenso e si serve dei
servizi segreti e polizia di
sicurezza per controllare
il paese».

Dati e fatti riportati sono desunti da varie
fonti, non citate per non appesantire la
lettura, ma consultabili via internet:
– Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (Aiuto alla chiesa che soffre)
www.alleanzacattolica.org
– Inteational Religious Freedom Report
for 2002 (Dipartimento di stato Usa)
www.state.gov/g/drl/rls/irf/2002
– Amnesty Inteational (www.amnesty.it)
– Keston News Service (www.keston.org)
– Human Rights Watch (www.hrw.org)

Benedetto Bellesi