ISTITUTI MISSIONARI la loro azione in Italia oggi

PRENDERE IL LARGO, INSIEME

Radiografia
(quasi scientifica)
di una presenza:
dati, statistiche,
percentuali…
E qualche punto
interrogativo.

All’inizio di febbraio dello scorso
anno, 15 istituti esclusivamente
missionari presenti in
Italia (cfr. inserto) si sono incontrati
ad Ariccia (Roma) all’insegna del tema:
«Insieme, prendere il largo».
Dall’analisi e discussione delle risposte
date dai singoli istituti a un
previo questionario, emergono i
problemi, difficoltà, timori e speranze
sul futuro della loro presenza
nella chiesa italiana. Oltre ai dati numerici
(quanti e dove sono i missionari
in Italia, che età hanno, quali i
loro impieghi, ecc.), sono importanti
le motivazioni e prospettive di tale
presenza, per un cammino di collaborazione.

NON SONO SOLO NUMERI
Quanti sono i missionari di origine
italiana e che percentuale occupano
nella composizione degli istituti?
Una domanda essenziale per «misurare
» il grado di inteazionalità.
Il primo dato stabilisce che sono
5.283 i missionari italiani appartenenti
ai vari istituti, su un totale di
19.797. Per il secondo dato, circa i
missionari e missionarie di origine
nordamericana, latinoamericana, asiatica
e africana, le percentuali sono
diverse, dovute all’origine, storia
e campi di azione dei singoli istituti.
Essi contano complessivamente
7.910 membri: 4.603 italiani e 3.307
non italiani (58,2% di origine italiana
e 41,8% non italiana). L’ultima
cifra rappresenta il grado d’inteazionalità
degli istituti missionari di
origine italiana.
Quanti sono i missionari in Italia
oggi? I numeri dicono 2.566. Ma
non tutti sono qui per lavoro; molti
sono in Italia per compiti istituzionali
(direzioni generali) o per riposo,
cura, aggioamento. Tale numero
comprende 84 stranieri, 27 dei quali
africani.
Ciò significa che l’inteazionalità
procede anche qui. Non si dà alcun
giudizio di valore: se è bene o male;
né si dice se il numero deve crescere
o diminuire. Si registra solo il dato.
Abbiamo pure la descrizione di alcune
categorie all’interno delle varie
comunità. Per gli istituti maschili, i
sacerdoti sono 630 e 135 i non sacerdoti.
Per gli istituti femminili, le
suore professe perpetue sono 1.366
e 22 le professe temporanee.
Più importante è la divisione nella
successiva categoria: in attività
1.264 (61,5%); in formazione 56
(2,7%); in riposo-malattia 733
(35,7%). Se appare impressionante
l’alta percentuale del personale in riposo-
malattia, stupisce la bassa percentuale
di coloro che sono in formazione.

DISPARITÀ TRA NORD E SUD
Un tempo in Italia c’erano molti
studentati di filosofia-teologia e noviziati.
Oggi la situazione è decisamente
cambiata. Il cambiamento diventa
più evidente quando si stabiliscono
le classi di età: il 68,8% dei
missionari e missionarie in Italia supera
i 65 anni, mentre solo il 6,6%
ha meno di 45 anni. L’invecchiamento, anagraficamente parlando, è
drammatico, anche in considerazione
del numero di opere che gli istituti
hanno. L’invecchiamento appare
più alto negli istituti femminili.
Circa la distribuzione del personale
nelle regioni italiane, 1.675
membri sono nel nord, 250 nel centro
(e Sardegna) e 167 nel sud (compresa
la Sicilia).
Dei membri «in attività», viene
specificato il tipo di impegno: incaricati
della formazione 52; e ciò desta
meraviglia, se si pensa come i
membri in formazione sono solo 56;
si potrebbe dire che sono quasi più
i formatori che i formati. Impegnati
nella guida e amministrazione delle
comunità sono 258.
Nell’animazione missionaria sono
impegnate 155 persone. Questo
numero appare veramente piccolo,
confrontato con le 420 persone occupate
nella pastorale e nell’insegnamento
(scuole e asili).
Un’attività che impegna numeroso
personale è quella riguardante la
cura-assistenza: 289 individui, pari
al 22,8% del personale attivo. Se da
una parte è da ammirare l’impegno
di missionari e missionarie in tale
campo, c’è da chiedersi se questa sia
la forma migliore per farsi sentire vicini
a loro, se siano le persone più adatte
per tale compito, se l’impegno
non provochi in alcuni frustrazione,
se non esistano modi alternativi.
Un altro dato: del personale missionario
in Italia, 1.825 su 2.207 sono
stati in missione. Questo solleva
due problemi: un percorso di reinserimento
e l’opportunità che la presenza
(specialmente di testimonianza)
sia adeguatamente valorizzata.
Molto importanti sono i dati sull’aspetto
vocazionale. Negli ultimi
11 anni gli istituti missionari hanno
avuto, nel loro insieme, 304 nuove
reclute di origine italiana, con una
media di 23,4 membri per istituto e
2,1 all’anno. In tale arco di tempo
non si notano tendenze significative,
né di crescita né di calo.
Circa la «provenienza» delle vocazioni,
sono ricordati in ordine decrescente:
parrocchie, movimenti,
volontariato, seminari e associazioni.
Sono nominati anche i gruppi
missionari giovanili, interni o collegati
alle parrocchie. I dati possono
stimolare una riflessione in questo
senso: le vocazioni provengono in
prevalenza da ambienti in cui è più
curata la formazione cristiana di base
o da ambienti in cui sono coltivati
i valori della solidarietà e mondialità,
ma senza uno specifico o implicito
riferimento alla fede cristiana?

CHE DIRE DI LORO?
Com’è giudicata la presenza dell’istituto
in Italia, sia dai missionari
fuori del paese sia da quelli presenti
sul territorio? Il confronto è importante,
perché misura, in maniera abbastanza
sottile, il grado di «frustrazione
» che possono avere i membri
degli istituti impegnati in Italia.
Vediamo le posizioni: mentre in
11 istituti su 12 i membri fuori Italia
dicono che l’istituto è adeguatamente
o eccessivamente presente, in
8 istituti i missionari che operano in
Italia dicono che la loro presenza è
insufficiente. Per tradurre i dati in
una battuta popolare, è come se in
11 casi su 12 i membri dicessero a
quelli in Italia: «Per ciò che fate, siete
anche troppi!»; e quelli in Italia
rispondessero, in 8 casi su 12: «Se
riusciamo a fare poco, è perché siamo
troppo pochi; o troppo pochi
sono quelli che possono veramente
fare qualcosa».
Percezioni del genere, se molto
diffuse, possono produrre scoraggiamento
nei missionari e missionarie.
Si potrebbe ipotizzare che gli istituti
debbano cogliere meglio «il
senso e la portata» della loro presenza
in Italia.
Che dire dell’opportunità di formare
comunità missionarie «miste»?
Con chi sarebbero disposti i membri
degli istituti a fare comunità, al di
fuori dei loro confratelli o consorelle?
Il quesito, forse, fa balenare una
prospettiva troppo nuova; tant’è vero
che 7 istituti su 13 la rifiutano; 6,
in particolari circostanze, sarebbero
disponibili a fare comunità con individui
di altri istituti; solo 3 con laici
e 2 con preti diocesani. Da notare
che, fra i 6 disponibili a comunità miste,
5 sono maschili e 1 femminile; i
3 disponibili a fare comunità con laici
e i 2 con sacerdoti diocesani sono
maschili.
In conclusione: solo 1 istituto femminile
su 7 è disposto a creare comunità
con membri diversi dal proprio
istituto e solo con membri di istituti
missionari.
ITALIA, TERRA DI MISSIONE?
C’è una domanda che pone un
problema molto attuale, dibattuto
anche a livello ufficiale: bisogna assumere
in Italia impegni assimilabili
a quelli della missione ad gentes?
Cinque istituti (3 maschili e 2 femminili)
sono nettamente contrari.
La ragione è che l’ad extra fa parte
integrale della vocazione missionaria
specifica. Qualcuno precisa che
non si tratta di un teorico ad extra
geografico, ma del fatto che gli spazi di prima evangelizzazione sono
immensamente più ampi in altri
paesi e continenti che in Italia.
Sono favorevoli, invece 8 istituti (5
femminili e 3 maschili) e le ragioni
sono riassunte così: dove c’è un compito
di prima evangelizzazione, questo
rientra nelle finalità di un istituto
esclusivamente missionario.
Ma quali sono i campi di azione
specificamente missionaria in Italia?
Le risposte sono in questa linea:
i missionari in Italia per le finalità
tradizionali (formazione, animazione
missionaria, cura degli anziani e
malati) possono meglio legare la loro
presenza ad ambienti che sono,
in qualche misura, «campi di azione
specificamente missionari». E
cioè: presenza e azione fra gli «ultimi
» (5) ed extracomunitari non cristiani
(6); nuova evangelizzazione
(5); dialogo interculturale e interreligioso
(11); rinnovamento del «modo
di essere chiesa» (3); impostazione
della pastorale in senso missionario
(9); catecumenato (6).
Tra le risposte tanto disparate,
spicca l’alta disponibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso,
come pure la forte tendenza a impegnarsi
per un’impostazione della
pastorale delle chiese locali in senso
missionario. È questo lo scopo dell’animazione
missionaria, ma è percepita
in modo più ampio di quanto
non lo fosse tradizionalmente e
non appare legato a finalità intee
all’istituto.
Domanda finale: i missionari di altri
continenti, presenti in Italia, sono
da considerare ad extra e, quindi,
pienamente in linea con la condizione
di ad gentes? Per 9 istituti, sì; per
5, no. Ma la questione è molto dibattuta
e con argomenti diversi:
quello in positivo sostiene che tale situazione
risponde pienamente sia all’ad
gentes che all’ad extra.
Fra gli argomenti in negativo, invece,
ne emergono due: l’Italia non
può essere considerata un paese di
primo annuncio, ma solo di nuova evangelizzazione;
inoltre, la presenza
di non italiani finirebbe per rafforzare
le strutture dell’istituto, a scapito
delle nuove chiese.

DUE CONCLUSIONI
Pur non offrendo conoscenze
nuove all’interno di ogni istituto,
l’indagine può dare una visione
d’insieme e aiutare a raffrontare sia
le situazioni sia gli orientamenti di istituti
diversi, che però hanno la
stessa finalità. Alcuni problemi e risorse
possono essere messi meglio a
fuoco, per un migliore discernimento
e collaborazione.
In secondo luogo, negli istituti
missionari appare una certa rigidità,
intendendo con ciò che ogni istituto
è sensibile alla sua identità (e questo
è bene), ma la interpreta in senso difensivo,
avendo quasi il timore che
gli adattamenti alle situazioni, impegni
creativi e collaborazioni rappresentino
delle «contaminazioni».
Gli istituti missionari stanno vivendo
un momento di crisi: basti solo
pensare alle poche «nuove entrate» e alle difficoltà di collaborazione.
Tuttavia resiste la convinzione
sulla validità della loro presenza, pur
con interrogativi sulla sua valorizzazione
in novità di stili, di
modalità e di più vaste
collaborazioni.

Francesco Grasselli