MAUA (MOZAMBICO): la grande occasione della pace

SE LA ZAPPA PARLA AL COMPUTER

Non è il titolo di una favola nell’era dell’informatica,
ma la strategia culturale elaborata da un missionario
in un contesto agricolo.
Per valorizzare la ricchezza della tradizione
di fronte alla modeità.

Da Beira, la seconda città del
Mozambico, sono in partenza
per Cuamba, nel cuore
della regione del Niassa. Il viaggio
sarà in aereo fino a Nampula e
poi in auto.
Il velivolo ritarda. Fortunatamente
sono con Raffaele Carpaneto, ingegnere
(per gli amici Lino), e padre
Filipe J. Couto, rettore dell’università
cattolica, che ammazzano il tempo
in sala di attesa discutendo persino
di matematica pura. Io sbadiglio
al cospetto di una gigantografia,
che raffigura il primo volo aereo dal
Portogallo alla colonia del Mozambico.
Di botto mi assale il detto di
Karl Kraus: «L’uomo che sbadiglia
assomiglia ad un animale».
Dopo quasi cinque ore, decolliamo
per Nampula e, subito, puntiamo
verso Cuamba. Sono le 14,30.
Ci attendono 400 chilometri in terra
battuta, con la Toyota che arranca
sui dossi, sprofonda nelle buche,
sbanda sulle inclinazioni, sussulta
sui tratti corrugati: e noi con essa.
Ora l’ingegnere e il rettore non
discettano più di matematica pura,
ma (soprattutto padre Couto, affabulatore
instancabile) si abbandonano
al genere «barzellette». Cessano
anche queste, come il sole che
tramonta. Ed è subito «Africa nera», rischiarata appena dai fari dell’auto
che mettono in fuga qualche
lepre sulla via. Si scorge solo l’erba
alta ai margini della strada, che la
Toyota schiaffeggia. Sembra di avanzare
tra due pareti interminabili
e ondeggianti.
Alle 22,30 ecco Cuamba e il sorriso
ospitale di padre Adriano Prado,
brasiliano, che ci offre cena. Ma,
con gli sballottamenti sofferti, preferiamo
ritirarci. Ci attendono una
branda traballante e la compagnia
delle zanzare. Ma, sulla porta della
cameretta, si affaccia il rettore magnifico
Couto con uno zampirone.
«Accendetelo! Meglio il fumo che le
zanzare malariche». Un bel gesto.

POICHÉ «LUI» NON C’È
Il giorno seguente padre Couto si
separa. L’ingegnere Lino ed io partiamo
alla volta di Maua, a tre ore di
auto. Altri sobbalzi, ma questa volta
la strada è da «formula uno» rispetto
a quella di ieri.
Giunti a destinazione, «lui»… non
c’è. «Sta visitando una comunità. Ritoerà
certamente prima di notte»
ci risponde fratel Gerardo Secondino
con uno sguardo un po’ ironico.
Quasi a dire: «Qui si lavora!». Però,
di fronte alla nostra delusione, soggiunge:
«Forse ritoerà nel primo
pomeriggio. Intanto pranzate con
noi. Poi, se Deus quiser…». Dio vuole
che gustiamo un buon risotto (un
piatto luculliano in Mozambico) in
compagnia anche di padre Julius
Mwangi, kenyano.
Nel pomeriggio (poiché «lui» non
è ritornato) visitiamo una scuola per
«l’insegnamento a distanza» a pochi
chilometri da Maua. Gli allievi sono
tutti adulti: frequentano il centro una
volta al mese e acquisiscono alcune
nozioni basilari; a casa si esercitano
nei compiti da consegnare all’insegnante
il mese successivo. Ideata
dai missionari, la scuola viene incontro
alle esigenze degli adulti nei villaggi
sprovvisti di strutture educative.
Gli studenti provengono da distanze
notevoli: anche tre ore di bici.
Ritorniamo alla missione. «Lui» è
sempre assente. Passeggiamo lungo
la strada principale di Maua. È sorprendente
il movimento: donne in
fila verso il mulino per macinare granoturco,
uomini che trasportano pesanti
e lunghi pali per costruire una
nuova casa e un viavai costante al
mercatino per acquistare o vendere
pesce secco, olio, scampoli coloratissimi
di stoffe. C’è pure una piccola
banca: segno che gira denaro.
Sulla facciata di una scuola statale
campeggiano le parole «produrre,
studiare, combattere», ispirate a
suo tempo dalla Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico), il partito
al potere dall’indipendenza del
paese (1975). Alcuni ragazzi siedono
davanti ad un modesto monumento
a piramide (opera anch’esso
della Frelimo), che ostenta una zappa,
un martello e una stella rossa; su
un blocco di cemento bianco si legge:
«Difendere la patria, vincere il
sottosviluppo, costruire il socialismo
(Maua, aprile 1983)». La
data ricorda un congresso
del partito nel cuore della
guerra civile. Oggi tuttavia,
dal 1992, il paese vive
in pace.
Durante la guerra civile i
cristiani di Maua non disponevano
di una chiesa ove celebrare
i funerali di
tante vittime, pregare
per la riconciliazione
nazionale
e la pace. Né potevano
costruirla in
cemento e ferro, perché
tali mezzi erano
irreperibili. Ma padre
Franco Gioda ragionò
davanti a tutti: «La chiesa
è fatta soprattutto di
cristiani, e i fedeli,
graças a Deus, non
mancano; poi servono cose materiali.
Vi domando: i nostri foaciai
non possono cuocere mattoni e tegole,
i nostri falegnami non sono in
grado di squadrare con l’accetta le
finestre e i fabbri forgiare i serramenti?
I muratori non possono erigere
muri e i pittori decorarli con colori
tratti dalle argille locali? Così si
supera anche il cruciale problema
della dipendenza dall’estero…».
In pieno conflitto è sorta la chiesa
di Maua, opera del popolo.
Stiamo per entrare. L’occhio ammira
il portone d’ingresso in legno
massiccio, finemente intarsiato con
immagini bibliche dagli artigiani del
paese. L’interno è una sinfonia di colori,
che i bagliori del sole tonificano.
La suggestione smorza la parola.
Diventa contemplazione.
«Che ne dite?». La domanda risuona
alle nostre spalle. È «lui», che
ha pure realizzato il sogno di padre
Franco.

UNA MONTAGNA DI CARTE
«Lui» è GIUSEPPE FRIZZI (*), missionario
della Consolata, come il
rettore Couto, fratel Gerardo
e i padri Julius e Franco. Però
è specialmente un mio compagno del liceo e della filosofia. Incontrarlo
a Torino, alla redazione di
Missioni Consolata, è un piacere; ma
abbracciarlo a Maua, fra il popolo
dei macua, è una commozione.
Mise piede in Mozambico quando
il paese era ancora colonia portoghese
e lottava per l’indipendenza
nazionale. In seguito soffrì con la
gente i 16 anni di guerra civile ed esultò
per la pace nel 1992.
Durante gli anni drammatici del
conflitto, padre Giuseppe non se ne
stette in casa ad aspettare la fine delle
ostilità; ma visitava le comunità
per settimane e settimane, a piedi e
in bicicletta: informava, ascoltava,
interrogava, rifletteva, annotava, incoraggiava.
Ha pregato e cantato
ovunque, soffrendo la penuria
come tutti e rischiando
il sequestro di persona
da parte della Renamo
(Resistenza nazionale mozambicana,
il partito armato
che si opponeva alla
Frelimo).
Ritornato a Maua, trascriveva organicamente
i miti e proverbi raccontati
dagli anziani, le favole e gli
indovinelli delle nonne, le ricette
psicosomatiche del curandeiro (medico
tradizionale). Il suo ufficio è diventato
una montagna di carte.
«I proverbi sono 9.708 – precisa
padre Giuseppe prendendo in mano
un fascio di fogli -. Le favole sono
un migliaio; poi abbiamo circa 2
mila indovinelli e tanti canti sull’iniziazione
femminile e maschile».
Mentre l’ex compagno parla, sul
suo tavolo di studio mi incuriosisce
un «coso», ricoperto da un drappo
rosso che sollevo e, stupito, tocco
un computer, alimentato da pannelli
solari. Ebbene: quel
vasto e prezioso materiale
etnografico è
stato elencato, catalogato.
La cultura
macua non
sarà più soltanto
orale, bensì scritta,
anzi computerizzata.
E, nel profondo dell’Africa,
computerizzati sono pure numerosi
disegni di artisti locali.

LE PORTE APERTE
Per fare che cosa?
«Ho già inserito proverbi e disegni
nel libro del catechismo e nella
bibbia appena tradotta in macua –
risponde il missionario -. Ma il materiale
può servire anche per una riflessione
antropologica nel contesto
del Mozambico moderno».
All’università la facoltà di pedagogia
o diritto, ad esempio, non dovrebbe
sorvolare sui valori culturali
dell’iniziazione tradizionale. L’insegnamento
di etica (una disciplina
presente in tutte le facoltà dell’università
cattolica) non dovrebbe ignorare
la ricerca del missionario di
Maua. È una ricerca non individuale,
ma comunitaria, che si è avvalsa
degli anziani (uomini e donne), degli
esperti del culto agli antenati, degli
operatori tradizionali della salute:
i depositari della cultura macua
insomma.
Lo studio delle radici culturali, da
applicarsi alla società attuale, è terminato?
«Stiamo completando l’applicazione
alla liturgia e alla catechesi. A
Maua, grazie anche alla Conferenza
episcopale italiana e alle Suore di
san Pietro Claver, abbiamo composto
e pubblicato canti e preghiere,
abbiamo tradotto, commentato e illustrato
la sacra scrittura. Oggi, dopo
alcune esperienze, può iniziare il
lavoro nelle scuole medie e superiori,
introducendo magari il bilinguismo
(macua e portoghese)».
Con quale risultato?
«Alcuni risultati sono sorprendenti:
ad esempio, chi sa scrivere il
macua impara meglio il portoghese.
Uno studente, dopo essersi identificato
con la propria cultura macua,
ora sta specializzandosi con successo
in Cina. Se dal macua si passa al
portoghese, il processo non è solo
più facile, ma più ricco. Se si dà all’alunno
la coscienza che, fin dal suo
villaggio, egli non è un selvaggio ignorante,
entrerà nella scuola modea
più convinto dei propri mezzi
e imparerà meglio le nuove discipline.
La matematica occidentale è
astrusa per i macua; invece diventa
più facile se si passa dalla loro alla
nostra matematica».
E tu, straniero, come sei stato accolto
dalla gente?
«Questa domanda dovresti farla
alla gente. L’accettazione dell’“altro”
dipende sempre dalla sua simpatia
e sintonia verso la cultura locale.
Nel mio caso, posso dire che
mi si aprono tutte le porte».
Non è poco. Infatti, se è vero che
la cultura tradizionale avalla lo spirito
comunitario, è vero altresì che
non elimina una «riserva mentale»
verso l’«altro» fra gli stessi macua.
La riserva è più accentuata, a fortiori,
per uno straniero. Se di fronte
a padre Giuseppe Frizzi la riserva
è caduta, il fatto è straordinario.

IL TOPOLINO NON SALTA
A Maua è nato il Centro di cultura
macua, oggi collegato anche alla
facoltà di agricoltura di Cuamba
dell’università cattolica.
Perché proprio la facoltà di agricoltura?
«La proposta al rettore dell’università,
padre
Couto, è stata
q u e s t a :
poiché la facoltà di agricoltura è frequentata
soprattutto da macua, facciamo
loro delle lezioni sulla cultura
tradizionale per spiegare il rapporto
“cordiale e religioso” dei loro
anziani con la terra».
Non ti sembra di sognare il tempo
passato?
«Me l’aspettavo tale obiezione!
Dopo 28 anni vissuti con i macua,
prima di utilizzare i mezzi dell’agricoltura
modea, ritengo necessario
partire dalle radici culturali di quella
tradizionale, che rappresenta una
filosofia di vita. Non vogliamo polemizzare
con le facoltà di agricoltura
occidentali: sappiamo che non dobbiamo
essere dei nostalgici e sappiamo
pure che, oggi, si possono
mungere le mucche utilizzando il
computer. Ma, per favore, il computer
non disprezzi la mano che, fino a
ieri, mungeva la vacca. Né l’aratro a
dischi disprezzi la zappa della donna
del villaggio. Giova, invece il dialogo
tra la zappa e il computer…».
Bussano. All’«avanti», una ragazza
posa sul tavolo un vassoio di vimini
con tre tazze in terracotta (tutta
produzione locale) e un thermos
di tè. Indicando il thermos e gli altri
oggetti, esclamo: «Ecco il frutto del
dialogo tra computer e zappa!».
L’ingegner Lino sorride divertito,
mentre gli occhi azzurri del compagno
di scuola sprizzano serenità.
In attesa che il tè bollente diventi
bevibile, chiedo a padre Giuseppe
qualche considerazione sulla vita
di tutti i giorni, dopo la firma della
pace nel 1992.
«Le cose potrebbero andare meglio.
I macua hanno l’impressione di
essere ignorati dal governo. Però, se
tieni presente che durante la guerra
a Maua circolavano solo due bici,
mentre oggi se ne contano due in ogni
famiglia… La pace è stata raggiunta
quando si è capito che essa
vale di più (anche economicamente!)
del commercio delle armi. Questo
è stato l’argomento che ha disarmato,
ad esempio, la Renamo».
Dal punto di vista etico…
«Ecco il nocciolo della questione
– interrompe il missionario -. Non
dimentichiamo che la guerra è stata
civile: non solo tra Frelimo e Renamo,
ma anche tra famiglie, tra genitori
e figli all’interno della stessa
casa con odi, furti e omicidi da ogni
parte. Che ci siano strascichi è deprecabile,
ma comprensibile. Però,
con la pace, la vita a Maua è ripresa
senza vendette. Non conosco un solo
caso di vendetta personale».
Finita la guerra, si è parlato subito
di riconciliazione nazionale; qualcuno
ha suggerito di invitare da America
e Europa tecnici per la pacificazione.
Ma gli anziani di Maua
hanno scosso la testa citando il proverbio
«il topolino salta la strada solo
per necessità». Però, se non c’è alcun
pericolo, il topo segue la strada,
cioè la tradizione.
Così a Maua un combattente della
Renamo, uxoricida, ha rischiato
il linciaggio; però, consigliato dal
missionario e appellandosi alla tradizione
che prevede il perdono, ha
confessato il delitto in pubblico, ed
è stato graziato. «Ecco la riconciliazione
» conclude padre Giuseppe.
Seduto su una dura sedia da circa
un’ora, mi è spontaneo allungare
le gambe sotto il tavolo.
Un piede tocca una pila di legni
accatastati, che si ribaltano rumorosamente.
«Piano! Tu non sai che c’è qui sotto
». Giuseppe raccoglie un legno. È
un crocifisso. Uno fra tanti, tutti
modellati sulla sagoma dell’albero.
«Provengono dalla nostra scuola
d’arte. La croce-albero ricorda la filosofia
tradizionale della pianta: la
pianta che rinfresca con la sua ombra,
che dona cibo con i suoi frutti e
medicine con le foglie e cortecce…
L’albero è vita. Pertanto, modellata
a forma d’albero, la croce rimanda
doppiamente all’albero della vita,
perché il crocifisso è il figlio di Dio…
Signor Lino, posso farle questo omaggio?».
L’ingegnere, confuso, riceve
il crocifisso dalle mani
del missionario.

(*) PADRE GIUSEPPE FRIZZI,
missionario della Consolata in Mozambico
dal 1975, licenziato in filosofia all’Università
urbaniana (Roma) e laureato
in teologia biblica all’università di
Münster (Germania). Ha scritto un catechismo
in macua e tradotto l’intera
bibbia. In italiano ha pubblicato «Gesù
mediatore e maestro», ricco di illustrazioni
(Istituto di San Pietro Claver
via Marmolada 40 – 00048 Nettuno).

Francesco Beardi




BUONI E CATTIVI CHI LO STABILISCE?

Su «Battitore libero» di Missioni Consolata, ottobre
2002, compare un intervento di GIUSEPPE TORRE che
definisce bene alcuni fatti bellici recenti: dall’aggressione
alla Jugoslavia da parte della Nato, all’Afghanistan
e ai reiterati tentativi (finora solo verbali) verso
l’Iraq. Circa la Nato: essa nacque solo per difenderci
dai «rossi», giusto? Ora che i «rossi» non ci sono più,
da chi ci difendono le basi della Nato disseminate ovunque?
Da Bin Laden, Saddam Hussein?
L’Iraq, con poco più di 20 milioni di abitanti, può veramente
mettere in pericolo l’equilibrio del mondo? Armi
non convenzionali sono possedute da tanti paesi:
e chi ci dice che questi ne facciano un uso assennato?
La corsa alle armi parte dalla militarizzazione di «qualcuno
», che oggi ha il colore e i tratti a stelle e strisce
(vedi l’ultimo capitolo di spesa Usa).
Bin Laden è una creatura Usa. Non solo: ma Bin Laden
esiste realmente o le «prove» su di lui sono solo
immagini di non si sa bene quale provenienza?… La
storia (laica) recente è carica di bugie: dalla «strage
del mercato» in Bosnia-Erzegovina a quella serba di
Racak… «prove» per attaccare l’Afghanistan, o prove
accampate (ma non verificate) dal dossier di Blair su
Saddam Hussein…
Dopo «l’11 settembre 2001», gli Stati Uniti, per
autodefinizione interpreti del bene, si riservano ogni
scelta su altri popoli: se a loro non piacciono, prima
intervengono con la propaganda, poi con le «bombe
umanitarie». Anni fa il presidente pakistano Musharraf,
dopo la proliferazione nucleare del suo paese, fu
messo dagli Usa al bando, mentre nella guerra in Afghanistan
si è rivelato un alleato. Un tempo Saddam
Hussein era un amico: nel 1983 gli Usa «derubricarono
» l’Iraq dai paesi «fomentatori di terrorismo» e aprirono
a Baghdad un’ambasciata… poi divenne «peggio
di Hitler». Sorge la domanda: chi tiene l’elenco
dei «buoni» e dei «cattivi»?
Ancora: Israele da chi ottiene l’impunità per l’inottemperanza
a circa 200 risoluzioni Onu e per il genocidio
palestinese? Dal 1967 occupa la terra d’altri e se
i legittimi proprietari si lasciano esplodere è perché,
forse, sono giunti ad una disperazione senza ritorno.
Il 18/10/2002 su «La 7», con Ferrara e Leer, è stato
concesso uno spazio non piccolo a Norman Filkenstein,
autore de «L’industria dell’olocausto», dove è
scritto che dietro all’olocausto c’è una rendita (detto
da un figlio di sopravvissuti fa effetto). Lo stesso Ferrara
gli ha chiesto: «Professore, è motivo di sorpresa
se gli ebrei di questa vicenda hanno fatto un affare?».
Io non sono sorpreso… Filkenstein scrive che «l’olocausto
più che insegnato viene venduto».
Ritorna la domanda di fondo: chi compila l’elenco
dei «buoni» e dei «cattivi»? Chi non ha capito il disegno
strategico Usa per aggredire a tutti i costi l’Iraq?
Analogamente al dottor Torre, mi compiaccio nel
constatare come Missioni Consolata, nel mare della disinformazione
corrente, mantenga molto equilibrio: oltre
la «destra» e la «sinistra», due forme di paralisi
mentale.

LETTERA FIRMATA




Russia: IL NEMICO CATTOLICO

Ho letto con costeazione la lettera del vescovo
TADEUSZ KONDRUSIEWICZ, metropolita di Mosca. Mi ha
amareggiato perché ero convinto che certe cose potessero
accadere solo in paesi islamici.
Mi sono sentito interpellato dal grido del vescovo
«esprimete la vostra solidarietà!». Così ho fatto centinaia
di fotocopie della sua lettera; le ho inviate a
quotidiani, riviste e le ho diffuse presso la parrocchia
dove lavoro come catechista. Ho scritto anche al presidente
Putin e farò volantinaggi in tutti gli ambienti
dove ci saranno conferenze e dibattiti.
La lettera è stata pubblicata dalla rivista Vita Pastorale,
ottobre 2002. Vi prego di pubblicarla (almeno
in parte), perché sensibilizzi i lettori… voi che siete
così attenti ai diritti dei poveri, delle minoranze.

«È in atto davanti ai nostri occhi – scrive Tadeusz
Kondrusiewicz, presidente dei vescovi cattolici –
il dramma della chiesa cattolica in Russia, che dopo aver
sopportato le crudeli persecuzioni del secolo XX,
che l’avevano distrutta quasi completamente, dopo un
decennio di faticosa ricostruzione è sottoposta a nuove
prove…
Negli ultimi tempi si è attivata nel paese una campagna
anticattolica a tutto campo: manifestazioni e
picchettaggi, divieti di costruire chiese, atti di vandalismo
e profanazioni di edifici di culto, diffusione
dell’immagine mitizzata del “cattolico nemico”, ecc. I
cattolici russi sopportano le prove che gli vengono inferte
con la preghiera e la temperanza cristiana. Tuttavia,
negli ultimi mesi è iniziata la sistematica espulsione
dal paese di sacerdoti stranieri. Ciò viene
compiuto a scopo dimostrativo, con l’accompagnamento
di volgarità e offese, senza la minima spiegazione
dei motivi dell’espulsione…
Nessuna risposta chiara è stata data alle nostre richieste,
rivolte alle autorità statali della Federazione
russa con la preghiera di spiegare le cause del rifiuto
d’ingresso. Come cittadino della Federazione rivendico
la necessità di osservae le leggi. La chiesa cattolica
in Russia è una chiesa di russi, che collabora alla
costruzione di uno stato democratico di diritto. Le associazioni
religiose, secondo la legislazione russa e i
propri statuti, hanno diritto di invitare sacerdoti da
altri paesi…
Viene messa in dubbio la libertà religiosa, garantita
dalla costituzione, e l’uguaglianza di tutte le religioni
davanti alla legge. La situazione che si è creata fa sorgere
sospetti e diffidenze; non aiuta il consolidamento
della società né il dialogo intercristiano e interreligioso».

LUIGI PANICO




Se acquisti il cellulare…

Cari missionari,
è proprio vero quel che ha
scritto SILVIA BATTAGLIA a
proposito dei mobilieri italiani
e dello sfruttamento
non sostenibile delle
foreste tropicali (Missioni
Consolata, marzo 2002).
Nonostante le numerose
iniziative, tese a rassicurare
i consumatori più
sensibili, i bulldozer continuano
a farsi beffe di
tutte le raccomandazioni
delle Ong e di tutti gli appelli
del papa (ribaditi
con particolare intensità
in occasione della Giornata
giubilare del mondo
agricolo) contro la deforestazione
e la desertificazione.
Nonostante sia ampiamente
risaputo che lo
sfruttamento sostenibile,
alla lunga, è più produttivo
anche da un punto di
vista economico (non è
forse l’industria farmaceutica
a premere perché le
specie vegetali e animali
delle giungle tropicali non
scompaiano prima ancora
di essere state scoperte e
non si portino nella tomba
segreti chimici che potrebbero
essere utilizzati
per la messa a punto di
nuovi farmaci?), le compagnie
del legname continuano
imperterrite nei loro
programmi di annientamento
della natura nel
nome del progresso, nel
nome della competitività,
nel nome dell’impegno
per la creazione degli ormai
leggendari nuovi posti
di lavoro.
Quando l’intervento
delle compagnie avviene
in concertazione con bande
criminali e centri di
potere occulto, che controllano
l’estrazione e il
commercio di diamanti,
oro, uranio e coltan (la
pregiata combinazione di
tantalite e colombite che i
produttori di telefonini e
personal computer considerano
una materia prima
assolutamente indispensabile),
allora anche il termine
«deforestazione» diventa
un eufemismo: la
foresta subisce un vero e
proprio sventramento.
Se sono veri i dati diffusi
dall’associazione britannica
Global Witness, i nostri
connazionali che operano
nel settore
dell’arredamento danno
un contributo tutt’altro
che trascurabile alla spirale
della violenza e della
guerra, all’escalation della
corruzione, alla crescita
del degrado ambientale e
sociale in paesi come Liberia,
Congo (R.D.), Camerun.
L’Italia figura al 5° posto
nella classifica delle
nazioni che approfittano
della tragedia della guerra
civile in Liberia per importare,
a prezzo stracciato,
legname di primissima
qualità; e, checché ne dica
Mondo Legno (la rivista
dei mobilieri italiani), partecipa
in maniera significativa
alla desertificazione
del Camerun, dove, nel
90% dei casi, le operazioni
di taglio vengono effettuate
in modo illegale.
Quando allestiscono saloni
del mobile, esposizioni
di nuovi modelli di
telefonini e personal computer,
mostre di oro, perle
e diamanti, i nostri imprenditori,
managers e
mecenati vari non si sognano
neppure lontanamente
di dire una parola
sulle tragedie ecologiche
e umanitarie che hanno
reso possibile un nuovo
«24 carati», la fabbricazione
di un arredo sofisticato
e la realizzazione di
un cellulare della III o IV
generazione…

«Negli ultimi spazi verdi
dell’Africa occidentale
e centrale – scrive ancora
il dottor Rondina – vivono
alcune minoranze etniche,
uomini e donne di
piccola statura. Li abbiamo
sempre chiamati
“pigmei”, ma in realtà sono
dei “giganti” quanto a
conoscenza di piante e animali
(non a caso gli antropologi
li considerano
vere biblioteche viventi).
Per i pigmei la foresta
è acqua, cibo, riparo, casa.
Ricordiamocelo
quando, per abbellire la
nostra casa, ci viene voglia
di ordinare un nuovo
parquet, una nuova
cucina, una nuova camera
da letto. O, per paura
di “rimanere indietro”,
sentiamo l’impulso di
comprare un altro cellulare
o un altro personal
computer».

Francesco Rondina




Ancora sul Kenya

Caro direttore,
grazie del numero speciale
sul «nostro» Kenya, tanto
amato. Col marito Feando
e i figli ho visitato questa
terra affascinante da
Mombasa a Loyangallani.
Seguo ancora le vicende
del paese attraverso gli
scritti dei missionari, che
donano se stessi per i fratelli
kenyani… Mi sono goduta
il numero «Kenya, amore
nostro» dalla prima
parola all’ultima. Ancora
grazie, direttore.

Il grazie va soprattutto
al popolo del Kenya, alla
chiesa locale, ai missionari,
oltre che ai redattori
di Missioni Consolata.

Paola Andolfi Mariani




Kenya: l’ospedale di Wamba

Egregio direttore,
a nome degli «Amici di
Wamba» mi congratulo
per il numero speciale di
ottobre, in occasione del
centenario dei missionari
della Consolata in Kenya.
In particolare gli «Amici» ringraziano l’autore
del servizio sulla diocesi
di Marsabit, per non aver
dimenticato l’ospedale di
Wamba e l’«insostituibile
figura di medico dalla
sconfinata generosità»
che è Silvio Prandoni.
Colgo l’occasione per
suggerire di dedicare un
«servizio» al Catholic Hospital
di Wamba e ai 36
anni di costante e silenziosa
presenza del dott. Silvio
Prandoni, vero esempio
di missionario laico.
Da 30 anni la nostra associazione
auspica una valorizzazione
del «laicato
missionario» nella chiesa
cattolica: siamo ancora ai
primi timidi passi.
Coraggio, direttore, è
dalle missioni che bisogna
partire per debellare il
«clericalismo, che è la malattia
infantile del cattolicesimo».

Rilanciamo la palla: tra
gli Amici di Wamba c’è
una penna che possa scrivere
tale «servizio»? Saremmo
felici di pubblicarlo
e dare un altro colpo
al clericalismo.

Ferruccio Gandolini




La provvidenza

Egregio direttore,
sono una lettrice di Missioni
Consolata. Apprezzo
molto la rivista, perché
molto istruttiva… Questa
estate, durante alcune notti
insonni, ho scritto un fascicoletto
sulla divina
provvidenza. Pensieri dettati
dal cuore.

Ecco una riflessione
della signora Giulia, dettata
dal cuore.
«Rivolgo un pensiero a
mia madre, perché ha saputo
allevare con amore,
sacrificio e dedizione sette
figli, fidandosi sempre
della divina provvidenza.
In casa non c’era il superfluo.
Mio padre era un
semplice impiegato delle
ferrovie dello stato, ma a
noi non è venuto mai meno
l’indispensabile, il necessario,
il minimo. Mia
madre aveva capito quale
era il “pozzo d’oro” ove attingere.
Quando si trovava
in forte difficoltà pregava,
e la manna dal cielo
scendeva. Riusciva a risolvere
le situazioni impossibili,
riusciva a tenere sempre
alto l’umore di noi figli
(quattro maschi e tre
femmine).
Malgrado i grandi sacrifici
non mancava mai l’allegria,
il buon umore, la
serenità. Il motto era:
“Non preoccuparti. La
provvidenza vede e provvede”.

Giulia Sciarretta




Scandalo «silenzio»

Cari missionari,
scrivo perché (non per la
prima volta) ho visto un
programma su Rai 3
(«C’era una volta»). Parlava
della prostituzione
minorile in Brasile.
Il giornalista (un «vero»
giornalista) intervistava le
bambine che si prostituiscono
per strada a 9, 10,
12 anni, perché «non hanno
da mangiare», per
«aiutare la mamma»; intervistava
i genitori, taluni
ignari e taluni consenzienti
(per necessità); intervistava
anche alcuni turisti
(italiani) del sesso, non
sempre minorile…
Perché questi programmi
vengono dati in tarda
serata? Perché scandalizzano?
Forse, se venissero
dati all’ora di cena, sarebbe
meglio: molti di noi
smetterebbero di mangiare
e inizierebbero a pensare,
a pensare veramente.
Dopo quel programma,
non sono riuscito a dormire,
pensando al volto di
quelle bambine, una in
particolare… Io conosco il
problema abbastanza bene…
ma non ho mai visto
il volto di una bambina
«di vita».
Mi sono detto: non sentirti
in colpa, perché non
fai quelle cose. Eppure mi
sento in colpa, perché faccio
parte di quel tipo di
società che sfrutta la fame
di una bambina per un…
Dopo quello che ho visto,
tutto diventa piccolo,
insignificante, inutile… di
fronte al volto di quella
bambina, i cui occhi, pieni
di rassegnazione, con la
voglia di sognare ma senza
la speranza di un sogno,
mi guardano ancora
mentre vi scrivo.
Fra poco andrò al lavoro.
Ma quale attività, professione,
impiego o perdita
di tempo è più importante
di quella bambina?
Quale sport, quale «ragazza», quali parole sono più
importanti?
Forse è questo che spinge
voi missionari a partire
per andare da chi ha veramente
bisogno; ma penso
anche che parecchi di noi,
cristiani «perbenisti», non
vogliono vedere quei programmi,
perché «si scandalizzano». Questo mi
riempie di tristezza e, soprattutto,
di indignazione.
Certe cose è meglio non
saperle: rimuovono l’appetito
ed anche la voglia
(probabilmente) di comprare
inutili oggetti che la
pubblicità ci propone o di
ascoltare le stupidate dei
quiz televisivi!
Cari missionari, non abbiate paura di scandalizzare.
L’unico vero scandalo
è stare zitti.

A proposito di «veri»
scandali (come il turismo
sessuale, che sfrutta persino
i bambini), Gesù
disse: chi scandalizza anche
uno solo di questi
piccoli, sarebbe meglio
che fosse buttato in mare.
Gli scandali sono inevitabili.
Ma guai a chi li
provoca (cfr. Mt 18, 7).

Alessio Anceschi




Israele/Palestina e la «181» del 1947

Egregio direttore,
commento la risposta alla
mia lettera (Missioni Consolata,
settembre 2002).
1) Dossier di giugno sul
Medio Oriente: apprezzato
da incolpevoli filoarabi
e filopalestinesi, come è la
maggioranza dei media e
dei politici fin dai tempi di
Andreotti (forse per la nostra
dipendenza da petrolio
e gas).
2) Sì alla pietà cristiana
per le vittime delle azioni
militari israeliane (condannando
gli eccessi).
Nessuna pietà per i kamikaze
e terroristi, siano
essi palestinesi, baschi, ceceni,
dell’IRA o di Bali.
Non metterei sullo stesso
piano vittime e carnefici.
3) Di Mary Robinson
non mi interessa la storia
personale, ma quello che
ha detto sugli ebrei.
4) Ho letto un paio di
volte Nigrizia e mi basta:
dovrebbe fondare un partito
politico; la leggerei
più volentieri.
5)1882: inizia la colonizzazione
ebraica della Palestina.
29 novembre 1947:
l’Onu approva la risoluzione
181 (Palestina-Israele-
Gerusalemme zona
internazionale). 14 maggio
1948: Ben Gurion proclama
lo stato d’Israele, ed
è subito guerra, perché gli
stati arabi non accettano
lo stato di Israele (se non
sbaglio, ancora oggi sulle
carte geografiche arabe
non esiste Israele)… Da
qui sono nati tutti i guai
per i palestinesi, che dovrebbero
ringraziare i loro
«fratelli arabi».
Non ho mai letto questo
su Missioni Consolata,
oppure mi è sfuggito.

A tutti può sfuggire
qualcosa… Su Missioni
Consolata, dicembre
1998, si legge: «Chiaro,
nel 1947, era il progetto
dell’Onu di costituire in
Palestina uno stato arabo
e uno ebraico. Ma il progetto
fu respinto dai palestinesi:
un grave errore,
perché impedì la nascita
di uno stato palestinese».
La risoluzione 181 dell’Onu
del 1947 e il dramma
dei palestinesi (derivato
dal rifiuto degli stati
arabi) vengono ricordati
anche da Missioni Consolata,
giugno 2002.
A proposito di vittime e
carnefici, si veda la lettera
di Max, da Brescia, a pagina 9.

Rinaldo Banti




«Aifo» precisa

Gentile direttore,
Missioni Consolata di settembre
2002 cita l’agenzia
Fides, che ricorda gli interventi
in Yunnan (Cina)
per i malati di lebbra.
Precisiamo che tali interventi
sono in parte sostenuti
dalla associazione
Aifo: questa, nell’anno
corrente, ha destinato al
progetto Yunnan, realizzato
con le suore Maria Pia
e Deolinda, 63 mila euro.
Tale somma è da aggiungersi
al budget di 142 mila
euro per interventi che
l’Aifo realizza in collaborazione
col governo della
provincia dello Yunnan.
Ci sembra doverosa la
precisazione, in quanto i
fondi sono tutti relativi a
donazioni private.

«Aifo» sta per «Associazione
Amici di Raoul
Follereau»: organizza anche
la Giornata dei malati
di lebbra (26 gennaio).

Michela Di Gennaro