A proposito di verità e libertà di critica: «Guai a toccare l’America»!

È possibile criticare gli Stati Uniti senza essere etichettati come «anti-americani»? È sempre stato difficile.
Oggi lo è ancora di più. Ma…
Perché ho scelto di chiamare questa mia personale
rubrica su Missioni Consolata «luoghi comuni»?
Perché la strada dell’inferno è appunto lastricata di
luoghi comuni. Saltellando sui quali si ha l’impressione
di stare al sicuro, mentre sono voragini – questa è la
caratteristica principale dei luoghi comuni – in cui la
verità scompare sempre, soverchiata dall’interesse, dall’ignoranza,
dall’ignavia, dalla presunzione.
I luoghi comuni sono anche le armi per eccellenza dei
manipolatori, specie di quelli televisivi, degli editorialisti
dei grandi giornali cosiddetti d’informazione. Chi
oserà mai contrapporsi ai luoghi comuni, in cui si rifugiano
i pigri e quelli che pensano di sapere già tutto?
Iluoghi comuni sono infiniti. Ce n’è uno che gira per
il mondo da decenni. È quello dell’anti-americanismo.
Guai a toccare l’America! Che, come diceva quel
filantropo di Ronald Reagan, è il «Regno del Bene».
Io pensavo che il Regno del Bene fosse più difficile da
identificare e, per questa ragione, sono stato spesso accusato
di anti-americanismo. Luogo comune per eccellenza,
come si può dimostrare.
Perché se è anti-americano chi critica il governo degli
Stati Uniti, allora è anti-francese chi critica quello di
Parigi e anti-italiano chi critica quello di Roma. Cioè
si giungerebbe alla conclusione che, per esempio, gli
americani che manifestano contro la guerra irachena
sono anti-americani e gl’italiani che criticano questo o
quel governo nazionale sono anti-italiani.
Andando avanti su questa strada si arriverebbe presto
alla conclusione che non si deve criticare più niente,
perché si finirebbe comunque sotto qualche anatema.
Invece dovrebbe essere evidente che un governo, buono
o cattivo che sia, non rappresenta mai la totalità di
un paese e di un popolo. Se c’è democrazia, questa non
si manifesta mai in forma di unanimità (questa è caratteristica
dei regimi totalitari, come sappiamo).
Dunque, un governo, nella migliore delle ipotesi, rappresenta
sempre e soltanto la maggioranza, non la totalità.
Per cui chi dissente dalle sue decisioni non manifesta
un atteggiamento di spregio nei confronti di un
popolo intero. Si limita a esercitare il diritto, individuale
e collettivo, della minoranza. Spesso poi accade
che un governo (com’è il caso dell’attuale governo degli
Stati Uniti) non solo non rappresenta la maggioranza,
ma è espressione di una minoranza di elettori.
E il presidente attuale degli Stati Uniti non risulta neppure
eletto in base alla conta dei voti, ma in base a un
editto di un tribunale della Florida, il cui governatore
è suo fratello. Per cui dare dell’anti-americano a chi critica
George Bush è davvero un’operazione troppo
sbrigativa. Ma, tant’è, i prigionieri di questo luogo comune
– come, in genere, coloro che amano starsene accucciati
nelle nicchie dei luoghi comuni – non badano
ai dettagli.
Così, continuando ad affibbiare agli altri la critica di
anti-americanismo non appena manifestano il minimo
dubbio circa le decisioni di questo o quel presidente
degli Stati Uniti d’America, gli adoratori di una certa
America perdono il bene dell’intelletto. Per esempio
sostenendo – altro luogo comune – che l’America ci ha
salvati dall’egemonia mondiale del nazismo. La verità
storica, come sa chiunque abbia studiato la storia invece
che leggerla attraverso gli occhiali di Angelo
Panebianco, dice che la vittoria contro il nazismo fu ottenuta
con il contributo assolutamente essenziale
dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti arrivarono
dopo, con ritardo – c’è chi pensa che sia stato un ritardo
molto grave – a prendersi una parte del merito e
la quasi totalità del risultato.
Il comunismo sovietico poteva e può non piacere; anzi,
può essere visto con orrore, ma questo non autorizza
a negare la verità storica in nome del luogo comune,
ormai dominante, secondo cui noi tutti saremmo
stati salvati dall’America. Il fatto che questo luogo
comune stia trionfando da tutti i giornali e da tutti i teleschermi
non lo fa diventare, per questa sola ragione,
più vero.

Per molti anni corrispondente da Mosca per il quotidiano
«La Stampa», Giulietto Chiesa è uno dei più noti
giornalisti italiani. Tra i suoi ultimi libri: Afghanistan,
anno zero (Guerini e Associati, 2001), G8/Genova
(Einaudi, 2001), La guerra infinita (Feltrinelli, 2002).

Giulietto Chiesa




I grandi missionari: Giovanni Bonzanino MILLE E UN SOGNO

Giovanni Bonzanino

Missionario di frontiera, irresistibilmente attratto dal più difficile,
lontano e bisognoso, padre Giovanni Bonzanino moriva a Shashemane
(Etiopia) 20 anni fa, il 30 gennaio 1983. Amò la «sua Africa» con
passione contagiosa, fino a consumarsi a soli 56 anni.
«Non sono nato in Africa.
Questo mi dispiace un
poco. Avrei voluto essere
sfornato in questa verde, dolce, ubertosa
Africa, dove si viene al mondo
inguantati in un’ambra vellutata
e soave e la vita scorre smorzata come
un venticello che sfarfalla tra ramificazioni
di alberi giganteschi».
Così inizia una specie di diario in cui
padre Bonzanino racconta l’esperienza
dei suoi primi anni in Africa.

SOGNANDO L’AFRICA
«Invece sono nato a Biella» continua.
Era il 29 gennaio 1927. Prima
ancora che venisse al mondo, sua
madre lo aveva offerto alla Madonna,
conservando quel segreto per 30
anni, fino a quando visitò il figlio in
Kenya: padre Giovanni l’abbracciò,
sollevandola da terra e, in un impeto
di gioia, le disse: «Mamma, quel
giorno mi hai fatto il più bel regalo».
Alberta Maria era una donna che
«sapeva il fatto suo, dai battibecchi
con le vicine al far filare dritto i figli,
dallo speculare fino all’osso per sbarcare
il lunario a lavorare in fabbrica
e passare tra posti di blocco in bicicletta
con un carico di granoturco».
Papà Vittorio non era da meno.
«Tutto casa e lavoro, vecchio socialista,
dovette assoggettarsi a portare il
fez in testa per campare, rischiare la
galera per racimolare due chili di farina
al mercato nero, poiché il pane
della tessera finiva troppo in fretta».
Erano i tempi duri del fascismo e
della seconda grande guerra. Ciò
non impedì al piccolo Giovanni di
coltivare sogni e avventure, come un
ragazzo normalissimo. Nei tempi liberi
dalla scuola faceva qualche lavoretto
in fabbrica, per arrotondare
il bilancio familiare. In classe si appassionava
di storia e geografia, ma
era allergico alla matematica. «Non
fui mai uno sgobbone – confessa -. La
mia specialità era il pallone e il tifo
per la Juventus: primo amore che mi
portai in Africa come un soldato il
suo fucile».
A volte, con la banda del quartiere,
marinava la scuola per esplorare
la campagna o alleggerire la pianta di
fichi nell’orto del prevosto. «Un
giorno Tavio, il vecchio sacrestano,
mentre si riallacciava la cinghia dei
calzoni appena usata sui piccoli furfanti,
mi domandò cosa sarebbe stato di una canaglia come me da grande;
risposi innocentemente: “Mi farò
missionario”. Si sbellicò dalle risa.
Ma quando celebrai la prima messa,
mi diede una pacca sulle spalle e sorrise:
“L’ho sempre detto che ti saresti
fatto prete”».
Entrato nel seminario di Biella,
Giovannino sognava di essere torturato
dagli africani e finire martire. In
quinta ginnasio decise di farsi missionario
della Consolata. «Coi miei
17 anni, lieto, baldanzoso e impaziente
– racconta -, iniziai il liceo a Varallo.
Non all’algebra e trigonometria.
Avevo qualche ebbrezza poetica,
ma il mio ideale era l’Africa. In
noviziato, alla Certosa di Pesio, non
ho avuto sussulti mistici, né impennate
carismatiche. Tra i miei compagni
c’era un africano: fu il migliore
stimolo missionario».
Durante gli studi teologici continuò
a respirare aria di missione, più
dalle figure di missionari incontrate
nella casa madre di Torino che dalle
lezioni accademiche. Arrotondò il
suo curriculum con discipline utili
per l’Africa: diploma magistrale, fotografia,
dattilografia. Finché fu ordinato
prete nel 1953, a 26 anni. L’anno
seguente partì per il Kenya: «Fu il
giorno più bello della mia vita».

L’INAFFERRABILE JOHN
Destinato alla missione di Mujwa,
nel Meru, John cominciò subito a
studiare la lingua locale, familiarizzare
con usi e costumi della gente e
smontare qualche idee preconcette,
alla scuola della figura poliedrica e
briosa di padre Chiardo.
Appena riuscì a masticare qualche
parola in kemeru, prese a scorrazzare,
prima con una vecchia moto, poi
con una Land Rover scassata, per visitare
le comunità, portare uno all’ospedale,
un’altra alla mateità, un
terzo al brefotrofio. «Mai paura! Passo
per uno che pialla le curve e mangia
i freni» scriveva nel diario.
A giugno del 1954 era professore
d’inglese e storia nella scuola secondaria
di Nkubu. «Come è impartita
qui – scriveva -, la storia ha una piuma
bianca sul cappello scozzese: testi
in inglese di autori inglesi. È una
storia colonialista». Ma ci pensò lui a
metterci la penna nera dello struzzo
africano, evidenziando le scoperte archeologiche
fatte in Africa orientale,
sciorinando imprese coloniali e tratta
degli schiavi, «pagine che facevano
impazzire gli studenti».
Alla fine del 1956 fu nominato
parroco di Meru, capitale dell’omonimo
distretto, dove si stava costruendo
la cattedrale. «Sono uscito
dalla fase di amore avventuroso-romantico
per l’Africa e posso dire, parafrasando
san Paolo: sono cittadino
africano» scriveva nel diario.
E continuò a sognare e dare sfogo
alla creatività vulcanica con innumerevoli
iniziative di successo: pubblicazione
del Twi ba Meru, mensile
di 10 mila copie; compilazione, con
l’aiuto di un prete africano, di innumerevoli
fascicoli, libri, sussidi, catechismi
in lingua locale; uso di modei
strumenti di comunicazione
come radio e cinema, guadagnandosi
il nome di Patere Kameme (padre
radio); fondazione del Meru Sport
Club e organizzazione di popolarissime
competizioni sportive, corse ciclistiche
e toei di calcio, collezionando
un altro titolo onorifico: Thuranira,
l’organizzatore.
«La nostra squadra ha vinto la
coppa del distretto – scriveva nel
1960 -. I ragazzi sono in orbita; io ho
un ginocchio gonfio. Naturalmente
la maglia indossata dalla squadra era
quella della Juve».
John era uno specialista nel coinvolgere
la gente in progetti di chiese,
cappelle, scuole, asili o altre opere
sociali e si meritò un altro gallone:
Patere Lotari (padre lotteria). Quasi
tutte le costruzioni da lui promosse
nascondono nelle fondamenta, come
«pietra» angolare, una manciata
di due scellini, il prezzo del biglietto
della lotteria.
In una parrocchia di 5 mila cristiani
e 60 mila abitanti, padre John si
buttava a pesce nel lavoro missionario:
catecumenati e battesimi a bizzeffe.
«Vacci piano, mi dicono – scrive
nel quarto anniversario dell’arrivo
in Kenya -. Piano un corno. Non
sono io a cercare il numero; sono loro
che vengono a cercare Cristo».
Come se non bastasse, estendeva la
sua attività a tutta la diocesi: formazione
della gioventù; supervisione di
una quindicina di scuole cattoliche;
estenuanti trattative per fondae altre;
animazione dell’Azione cattolica;
visite ai campi di concentramento,
dove erano rinchiuse migliaia di persone
accusate o sospettate di appartenere
al movimento mau-mau.

LA PRIMA AFRICA
Padre John era arrivato in Kenya
quando la tensione tra guerriglia
mau-mau e repressione dell’amministrazione britannica era al culmine
e si trovò subito schierato dalla parte
degli africani.
«Nel mercato tra Mujwa e Nkubu
– scriveva il 23 agosto 1954 – hanno
disteso a terra, allineati, sette cadaveri
di mau-mau uccisi nella foresta.
C’erano lunghe file di persone a guardare.
Mi sono fermato anch’io. Ho
detto una preghiera e tracciato un segno
di croce sui morti. Ho sentito alle
spalle una risata: “Padre, neanche
i tuoi sortilegi possono più farli vivere”.
Era l’ispettore di polizia, che
continuò: “È comodo essere neutrali
per voi missionari, che benedite tutti.
Vorrei esserlo anch’io; invece mi
tocca fare questo maledetto lavoro e
ammazzare questi bastardi”. “Non
sono neutrale” gli ho risposto. Mi ha
guardato con faccia da carciofo, come
un macellaio che affonda la mannaia
per staccare una bistecca; ma
non ha più fiatato. Me ne sono andato
a fare la mia lezione di storia».
Nel suo diario, pubblicato una decina
d’anni dopo, insieme ad altri articoli,
col titolo di Le due Afriche, padre
John non fu solo testimone di
nove anni di convulsioni, ma anche
protagonista del passaggio dall’Africa
coloniale a quella indipendente.
Dall’intreccio socio-politico dei
suoi scritti emergono pure problemi,
riflessioni e intuizioni squisitamente
missionarie: inculturazione, ecumenismo,
chiesa locale, rispetto delle
culture, problemi tribali, divergenze
con altri evangelizzatori, impegno
scolastico e religioso per costruire la
nuova Africa.
Le sue riflessioni possono apparire
un po’ daltoniche: il «nero» è bello;
il «bianco» da cancellare. John
guardava l’africano con occhi di missionario
ciecamente innamorato,
sorvolando sulle pecche e dipingendolo,
o meglio «sognandolo», come
«dovrebbe essere». Ma non senza
apprensione. «Non ho paura di fame
o lebbra, leopardo o serpente,
freccia o fucilata – scriveva alla fine
del ’57 -. Forse ho paura di quello
che potrà accadere al Kenya».

LA SECONDA AFRICA
«Mentre il paese marcia verso l’indipendenza,
anche la chiesa deve avere
una certa autonomia» scriveva
alla fine del 1960. John propose al vescovo
di nominare parroco della cattedrale
un prete africano. L’idea fu
approvata, ma passarono quasi due
anni prima che fosse messa in atto.
Nominato padre Salesio, John scese
al rango di viceparroco e accelerò
il ritmo delle attività. «Il mio lavoro
è un mosaico – scriveva nel 1963 -.
Arrivo alla sera che annaspo. Stampa,
Azione cattolica, cine, conferenze
e raduni in continuità. Ogni missione
vuole una settimana, con ritiri
e proiezioni alla sera. Sono piuttosto
stanco di fare il giradischi». Eppure
trovava tempo per partecipare a comizi
e adunate, incontrare leaders
politici e altri «pezzi grossi».
Le pagine del Twi ba Meru sprizzavano
politica, facendo arricciare il
naso ai missionari stagionati. Ma lui
imperterrito, con idee chiare e benedizione
del vescovo. «Ho preparato
gli schemi per gli incontri del
prossimo anno sul tema: libertà e cristianesimo
– scriveva a una settimana
dall’indipendenza -. Si tratta di far
scendere tutti i cristiani nell’arena e
aiutarli a non essere spettatori: il lavoro
è il padre della libertà; l’ozio è
il padre del colonialismo. Passerà la
febbre dell’indipendenza e occorrerà
rimboccarsi le maniche, soprattutto
i cristiani. È un lavoro eccitante
progettare l’Africa nuova».
Quei giorni John doveva avere una
febbre da cavallo. «Sale la pressione
dell’entusiasmo – scriveva -. Ho una
serie di pellicole sulla libertà di altri
stati africani e tutte le sere le proietto
in qualche parte del Meru. Massa
di gente anche in cattedrale: nella
predica padre Salesio ha detto che i
presenti sono stati battezzati da me
e che, con l’indipendenza, divento
più africano di prima».
Nella notte dell’11 dicembre 1963
toccò a padre John introdurre il Meru
all’indipendenza, intrattenendo la
folla con film, musica e discorsi, inno
nazionale a mezzanotte e trasmissione
radio della cerimonia di
Nairobi. Il giorno seguente fu un’apoteosi,
come racconta nell’ultima
pagina del diario (vedi riquadro).
Alla fine del 1963 padre John fu
nominato parroco di Nkabune e cominciò
a costruire la nuova Africa:
pozzi, chiesa, orfanotrofio, strutture
per le opere parrocchiali e sociali; soprattutto
formazione di comunità responsabili
del proprio futuro civile e
religioso.

DESERTO CHE FIORISCE
Metà della diocesi di Meru, grande
come mezza Italia, non aveva mai visto
la barba di un missionario. Per
sfondare occorreva un uomo di fegato,
fantasia e testa dura. John lesse nella
mente del vescovo e si offrì volontario:
fu subito nominato vicario episcopale
della North Easte Province
(Nep), così si chiama la regione.
In passato il governo l’aveva chiusa
ai missionari, per non scontentare
i musulmani; poi gli schifta (ribelli
somali) vi seminarono terrore e
morte (1963-67), producendo 4 mila
orfani. Siccità, fame e colera stavano
mettendo a rischio la sopravvivenza
di quasi 300 mila abitanti.
Nel 1968 padre John raggiunse
Garissa e, con fratel Mario Petrino,
distribuì aiuti umanitari e trasformò
una caserma diroccata in Boys’ Town
(città dei ragazzi) per accogliere gli
orfani del luogo. Tre anni dopo passò
a Wajir, 400 km più a nord, nel
cuore del deserto, per dare una mano
a padre Baldazzi: sfamati vecchi
e bambini, fondò la Girls’ Town per
un centinaio di bambine orfane. Nel
1972 era a Mandera, altri 400 km più
a nord, ai confini con Somalia ed Etiopia.
Anche qui fondò una Boys’
Town, affidata a Manlio e Lorenza,
due volontari italiani, e sostenuta
dall’adozione a distanza di un gruppo
di 500 famiglie italiane.
Spendere tante forze in un ambiente
totalmente musulmano, quando
altrove si mietevano conversioni a
tutto spiano, per qualcuno era uno
spreco. Ma John ribatteva: «In uno
scenario che è un’orgia di sole e sabbia,
la gente ha soprattutto fame e sete.
Corre voce che il papa abbia presentato
al nostro vescovo l’urgenza
della presenza cristiana in questa zona,
anche soltanto per offrire un bicchiere
d’acqua all’assetato».
Solo Dio sa quanti ne furono distribuiti:
dal fiume Tana, una pompa
foiva alla missione un milione
di litri d’acqua al giorno e la gente attingeva
liberamente.
I giornali parlavano di «miracolo a
Garissa». La missione contava 24 edifici,
chiesa, distributore di benzina
e piscina; accoglieva 225 orfani; impiegava
200 operai locali; ogni sabato
sfamava 300 fra vecchi e bambini;
30 ettari di terra producevano 12 tonnellate
di meloni al mese per il mercato
di Nairobi; poi mais, melanzane,
fagioli, cipolle, peperoni, angurie,
pomodori, arachidi e 5 mila piante di
banane, papaia, uva, datteri.
Identico prodigio, ma con enormi
sacrifici, si ripeté a Mandera, con
l’acqua stagionale del fiume Dawa:
città dei ragazzi, scuola secondaria,
cornoperativa agricola, artigianato, sviluppo
dell’habitat e commercio iniettarono
nella città di nomadi la
voglia di vivere più dignitosamente.
Questo fu il miracolo più vero nel
deserto: schiodare la gente dall’atavica
apatia e rassegnazione alla sopravvivenza:
gli operai impiegati nelle
costruzioni impararono a farsi case
più decenti; i braccianti arruolati
nei lavori agricoli si misero a produrre
in proprio; i pastori, abituati al
numero di bestie, cominciarono a
puntare sulla qualità. Perfino il governo
avviò progetti agricoli e incoraggiò
la gente a fare altrettanto.
Più difficile era fare attecchire il seme
del vangelo. Padre John non esitò
a studiare il Corano e insegnarlo
nella scuola, come ordinava la legge
del Kenya per quell’ambiente; ma
non senza accostare gli insegnamenti
morali di Maometto a quelli
di Gesù. E ci riusciva troppo bene;
tanto che gli fu ingiunto di non profanare,
lui infedele, il messaggio del
profeta.
John continuò a seminare la testimonianza
dell’amore verso i più
bisognosi; oggi se ne vedono i frutti:
la Nep costituisce la diocesi di
Garissa, con 10 missioni e una trentina
di succursali, dove lavorano i
cappuccini di Malta e vari missionari
laici.

VANGELO
NELLA RIVOLUZIONE

Nel 1974, a pochi mesi dal colpo
di stato di Menghistu, John fu destinato
all’Etiopia, dove una
decina di confratelli, da
pochi anni, lavoravano
nel sud del vicariato
di Harar, provincia
degli Arussi. Fu
subito chiamato
dal vescovo a salvare
la scuola secondaria
di Dire
Dawa, intossicata
dai fumi rivoluzionari.
Ascoltati
studenti e genitori,
con pazienza e
fermezza ristabilì
subito ordine e disciplina;
per tre anni
continuò a dirigere
la scuola con
grande discrezione e coraggio, specie
durante la guerra somala.
Non essendo il tipo da restare incollato
a una poltrona, si occupò di
una cornoperativa agricola fuori della
città; aprì una scuola in un quartiere
povero; fondò un pensionato per i
ciechi e insegnò loro un mestiere.
Nel 1978 John fu eletto superiore
del gruppo di confratelli. Quando la
provincia degli Arussi fu staccata da
Harar per formare la prefettura apostolica
di Meki (1980), ne diventò amministratore
apostolico, in attesa della
nomina del prefetto. Sarebbe stato
l’uomo ideale per tale carica, ma insistette
perché vi fosse posto un etiope,
accontentandosi di fare il vicario generale.
Al tempo stesso, John fu eletto
presidente della Conferenza dei religiosi
del sud Etiopia.
Calatosi con tutte le forze in tali responsabilità
e nella realtà socio-politica
del paese, padre John portò la rivoluzione
nel modo di fare missione,
per rispondere alle sfide antireligiose
del regime marxista.
Rivoluzione e missione, diceva, sono
legati da un filo di speranza: entrambe
vogliono sviluppo, giustizia
e liberare tutti dall’oppressione. «Ma
il punto debole della rivoluzione –
continuava – è che non s’interessa di
Dio. Per noi missionari, il nocciolo
della questione rimane questo: dimostrare
che non può esserci vera
giustizia e sviluppo senza Dio. La nostra
vocazione inequivocabile nella
rivoluzione è operare in modo che
uomini e donne della nuova Etiopia,
con tutto il progresso e sviluppo che
meritano, non siano tagliati fuori dal
loro Creatore e Redentore».
«La rivoluzione – spiegava – trascura
le lacune di miseria: non può rallentare
la marcia del progresso per
stare al ritmo degli storpi. Il vangelo,
invece, è buona notizia per tutti; l’evangelizzazione
porterà frutti, solo se
avremo con noi i ciechi e gli storpi».
Insieme agli altri missionari, padre
John si gettò a capo fitto nelle opere
sociali, consolidando quelle già esistenti
e creandone di nuove appena
ne intuiva la necessità.
L’ospedale rurale di Gambo, rimasto
a lungo senza medici, diventò il
centro di controllo e cura della lebbra
e, con 267 dispensari sparsi nella
provincia, assisteva oltre 4 mila colpiti
da tale infermità. Accanto all’ospedale
costruì un villaggio di 25 casette
per dare dignità a quelli già guariti.
Il centro di riabilitazione per handicappati
a Gighessa fu potenziato
con nuove strutture e attrezzature.
Una «casa-famiglia» per handicappati
e orfani fu costruita ad Asella; a
Shashemane nacque la scuola per
bambini e bambine non vedenti.
In ogni missione fu costruito il dispensario;
venne organizzata la distribuzione
di tonnellate di viveri ai
poveri, specie nei periodi di emergenza;
si moltiplicarono le scuole. In
un paese col 90% di analfabeti, l’istruzione
era una priorità e un’occasione
provvidenziale per l’evangelizzazione.
John viaggiava da una missione all’altra
per incoraggiare i confratelli,
sostenere e lanciare nuove iniziative;
ma senza mai perdere di vista l’evangelizzazione
diretta: visita alle scuole
dei villaggi, messa domenicale nelle
cappelle, formazione della gioventù
e aspiranti al sacerdozio, animazione
delle piccole comunità cristiane.
Le vacanze in patria si trasformavano
in estenuanti scorribande da un
capo all’altro della penisola, per
sconvolgere coscienze, snidare egoismi,
costruire solidarietà, coinvolgere
la gente nella sua avventura missionaria.
Talvolta si sobbarcava, fino
a 10-15 incontri al giorno in scuole,
circoli giovanili, chiese, convegni.
Nascevano gruppi di appoggio in Italia
e Nord America; professionisti
di ogni genere (medici, maestri, agronomi,
assistenti sociali…) lo seguirono
in Africa.

COMPLEANNO IN PARADISO
Durante le ultime vacanze in Italia
il dottore gli aveva detto di darsi una
calmata, se voleva arrivare a 70 anni.
«Se me ne restassero solo due, cosa
importa? Ciò che conta è come e cosa
si vive» rispose sorridendo.
Era un presentimento? Due anni
dopo, la sera del 28 gennaio 1983,
John toò a Shashemane dopo 10
giorni di incontri tenuti ad Addis Abeba:
confessò che quella fatica «lo
aveva ammazzato».
Il giorno seguente ricorreva il suo
compleanno. Per fargli una sorpresa,
suor Flaminia stava preparando una
torta, quando il padre la chiamò. Lo
trovò a letto con brividi e febbre alta;
gli somministrò medicine antimalariche,
ma la situazione si aggravò.
Accorsero i medici della zona; diagnosticarono
un blocco renale e tentarono
di salvarlo con flebo, antibiotici,
diuretici, cortisone. Inutilmente.
Per padre John i sogni si spensero
la sera del 30 gennaio, a 56 anni. Una
vita stroncata precocemente, ma vissuta
in pienezza fino all’ultimo respiro,
come si legge nell’ultima lettera
alla madre: «Oggi faccio 56 anni.
Certo che sono stati intensamente
vissuti. Non ho avuto tempo
di annoiarmi neppure
per un’ora».

JOHN SCRITTORE
Fin dal liceo Giovanni Bonzanino aveva
«una voracità innata di lettura;
non era mai sazio di libri. Lettura
non superficiale, ma riflessiva: fissava
idee, espressioni e parole che interiorizzava
» testimonia il suo professore
d’italiano. Passione che lo accompagnò
tutta la vita. Leggeva articoli e
saggi di storia, politica, teologia, tenendosi
aggiornato su tutto ciò che
capitava nel mondo e nella chiesa,
specie di quanto avveniva in Africa.
Nella frenetica attività che caratterizzò
la sua vita, trovò il tempo
per scrivere. E scrisse moltissimo: lettere,
poesie, articoli, saluti appelli, libri.
«È il mio relax» soleva dire, anche
se rubava il tempo al sonno necessario.
Il suo stile snello, agile, frizzante, volentieri
anche sferzante, faceva sgranare
gli occhi al lettore e lo coinvolgeva
nella sequenza di miseria e fame
del terzo mondo.
Ecco alcuni titoli dei libri più famosi:
Cittadini d’Africa (1974), ritratti di
missionari e missionarie.
Un uomo per l’Africa (1977), presentazione
della figura del beato Allamano.
Missionari nella rivoluzione (1978),
note di pastorale missionaria per i
paesi africani a regime socialista.
Queste mie verdi colline (1979), profilo
di padre Luigi Eandi.
Africa casa mia (1979), quadri di esperienza
missionaria.
Il primo figlio (1980) e Gli insabbiati
(1982), romanzi a sfondo missionario.
Quattro volumi pubblicati postumi:
Due Afriche e un po’ d’Italia, prima e
dopo l’indipendenza.
Momenti d’Africa, riflessioni sull’attività
missionaria in Africa.
Ritoo a casa, romanzo con protagonista
un lebbroso guarito.
Africa mia, raccolta di poesie.

Benedetto Bellesi




La vedova: Morte in terra straniera

Il marito (e padre dei suoi figli) faceva il camionista. Era
morto lontano da casa. La famiglia avrebbe voluto riportare
la salma in patria, ma non c’era denaro sufficiente.
Quanto pesa lasciare la tomba del proprio
defunto in un paese straniero?

Cominciò la liturgia. Il prete ortodosso, girato verso
l’altare, cantava le preghiere e la gente dietro di
lui rispondeva in coro: «Amin!». Si distingueva la voce
della moglie del prete, un bellissimo soprano, seguito
dal coro. In chiesa c’era poca gente. Erano tutti
in piedi: gli uomini a destra, le donne a sinistra, alcune
con la testa coperta dal foulard.
Vicino alla porta, come se fosse appena entrata, c’era
una donna in nero. La liturgia durò quasi due ore e alla
fine il prete disse alla gente di sedersi e cominciò la
predica:
«Fratelli e sorelle, fra noi oggi c’è una vedova, e io vi
prego di non girare vigliaccamente le spalle a chi in
questo momento ha bisogno di voi, ma di affrontare
coraggiosamente la nuova prova che Dio ha messo davanti
a noi. La nostra sorella ha perso il suo sposo, ma
questa è solo una parte della sua disgrazia. Il marito è
sepolto qui, nel cimitero di questa città, perché nessuno
ha potuto sostenere la spesa per il trasporto del
morto nel paese natio. Adesso la vedova e i suoi due
figli devono lasciare questo paese, ma dovranno anche
lasciare qui la tomba del padre e marito. La madre del
defunto non potrà mai venire a piangere sulla tomba
del figlio. Perciò chiedo a ognuno di voi, di raccogliere
quanto serve per trasferire la bara nel cimitero del
loro villaggio…».
Non c’era molta gente perché era la fine dell’estate e
non tutti erano tornati dalle ferie (per gli immigrati le
ferie sono andare nella propria terra).
Ognuno diede qualcosa, ma era poco, troppo poco rispetto
a quanto serviva…
La donna viveva con i figli in un piccolo paese della
Serbia. Suo marito faceva il camionista per una
ditta di trasporti. Quest’estate avevano deciso di riunirsi.
Anche i figli volevano trovare un lavoro e aiutare
i genitori a finire la casa che avevano iniziato a costruire
nel loro villaggio. Ma le delusioni arrivarono
ancora prima della morte del padre.
Questi non poteva ottenere per i figli il permesso di ricongiungimento
familiare, perché erano maggiorenni.
Erano allora venuti con un visto turistico per provare
a trovare un lavoro, ma non potevano averlo senza
il permesso di soggiorno. Non potevano trovare
neanche la casa. Erano ospiti nell’alloggio che il padre
divideva con due colleghi connazionali. Poi la morte
improvvisa del marito aveva tolto anche alla moglie la
possibilità di ottenere il permesso di soggiorno.
«Non posso lasciarlo qui – confidò alle donne davanti
alla chiesa – non sarei in pace. Noi abbiamo
il nostro cimitero, le nostre usanze… Mi hanno
detto che qui, dopo alcuni anni, liberano la tomba
occupata per fare posto ad altri morti. Mettono le ossa
in una fossa comune del cimitero: non c’è più nome,
nessuna traccia… Nel nostro cimitero non si toccano
le ossa del defunto. Restano lì fino alla risurrezione.
E poi né io né i miei figli né la mia povera
suocera, sua madre, nessuno
insomma potrebbe mai venire qui.
Non ci darebbero il visto soltanto
per andare al cimitero…».
«Non preoccuparti – cercarono
di consolarla le donne
– ti aiuteremo noi. Ti
aiuteremo…» ripetevano
come in una preghiera,
convinte che il loro
forte desiderio di
aiutare fosse ad un
tempo consolazione
e speranza.

Snezana Petrovic




PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin




FARE… NON BASTA PIÙ!

Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.

La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).

Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.

Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.

La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.

Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.

Achille Da Ros




MGONGO (TANZANIA) tra i ragazzi di strada

LA CASA CHE RESTITUISCE I SOGNI

Iniziata con una ventina di ragazzi di strada,
oggi la Faraja house (casa della consolazione)
ne accoglie 130, con storie di emarginazione
che stanno diventando storie d’amore e solidarietà:
le racconta l’iniziatore di quest’opera.

Il 1° maggio del 1997, a Mgongo,
periferia di Iringa, c’era un edificio
con un gruppo di 11 bambini:
nasceva così la Faraja house (casa
della consolazione) per i ragazzi di
strada. Oggi è un grande villaggio
con tante case e casette, scuola elementare,
scuola tecnica, dispensario,
strutture per allevamenti e, al centro
del tutto, una bella chiesetta. E poi
tanti bambini e ragazzi di ogni età, figli
della miseria e abbandono. Le loro
storie sono una litania di abusi, fame,
furti, prigione… lotta per la sopravvivenza.

Il nostro diario è pieno di racconti
e avvenimenti, successi e insuccessi,
ma sempre conditi d’amore ed entusiasmo,
nonostante tutto.

VOGLIA DI CAREZZE
I primi arrivati ora sono «giovanotti
» e frequentano i corsi tecnici o
o le scuole superiori. Abi è uno di essi:
una storia dura per lui e per me;
un cammino difficile, ma fruttuoso.
Era un bambino pauroso e introverso.
Dodicenne era già condannato
a sette anni di carcere per aver rubato
una radio. Dopo due anni riuscì
a scappare. Vagabondò per un
altro anno, finché fu accolto in un
centro per ragazzi di strada che, sotto
il nome di Ong, ancora oggi sfrutta
bambini con impunità e la connivenza
di qualche pezzo grosso. Raccontava
che là picchiavano sodo e si
mangiava poco.
Scappato dalla casa di accoglienza,
Abi si fece altri sei mesi in galera
a Iringa; poi fu trasferito al carcere a
Mbeya. Riuscì quasi subito a evadere,
ma fu ripreso e sottoposto a botte,
lavoro, fame e castighi. Riuscì
nuovamente a evadere e fuggì a Iringa
dove si aggregò a una piccola banda
di ragazzi che vivevano di espedienti:
diventò maestro di furti e bugie
per sopravvivere.
Arrivò a Mgongo nel luglio del ‘97.
Mi raccontò la «sua» storia, quasi
tutta inventata: diceva che i genitori
erano morti quando lui era piccolo;
ma si lasciò sfuggire il nome del villaggio
d’origine, lontanissimo, nel
nord del Tanzania. Riuscii a risalire
alla famiglia attraverso il parroco del
luogo: suo padre pretendeva che il
figlio tornasse in prigione. Decisi di
tenermelo senza far sapere dov’era.
Dopo mesi arrivò la mamma, avvertita
in segreto. Era partita da casa
con uno stratagemma, perché il marito
non sapesse. S’informò del figlio,
che non vedeva da tre anni. Raccontò
che il padre lo odiava visceralmente,
perché il bambino era un ladruncolo
fin da piccolo. Una volta gli bruciarono
le mani, legate con erba secca;
ma non era servito a niente.
Quando Abi vide la mamma si
voltò dall’altra parte e si rifiutò di salutarla.
Mi sussurrò: «Quando ne avevo
bisogno, lei dov’era?». Era solo
un bambino abbandonato e «stanco
», ma con tanta voglia di carezze.

IN CERCA DI RADICI
Alì è uno degli ultimi arrivati. Lo
incontrai al mercato mentre ero in
giro con amici di Torino. Era affamato,
sporco, cencioso. Lo avvicinammo
e fummo subito circondati
da una turba di ragazzi e giovani habitué
del mercato che mi supplicarono
in coro: «Baba Faraja, prendilo
con te, perché è troppo piccolo e
non riesce a sopravvivere».
Guardai gli amici e lo invitammo
a salire in auto per parlargli con più
calma. Chi sei? Da dove vieni? Hai
parenti? Dalle poche parole che
riuscii a tirargli fuori, seppi
che aveva un padre e abitava
nei sobborghi della
città, l’ultima casa ai piedi
della montagna. Decidemmo
di andarlo a
trovare, anche se avevamo
fretta: stava per
scendere la sera. La capanna
era chiusa. Si avvicinò
un giovane e gli
chiedemmo informazioni. Arrivò una
donna che, dopo lunghe spiegazioni,
si presentò come «zia». Quante zie in
Africa. Risulterà poi essere la matrigna.
Il bimbo era spaurito. Pareva avere
8-9 anni; ma la zia disse che ne aveva
almeno 15. Ci spiegò che il padre
era al kilabu (osteria). Lo incontrammo
per strada: era ubriaco.
A vedere il figlio con dei bianchi,
l’uomo si spaventò e cercò di spiegarci
che «lui non c’entrava»: aveva
solo collaborato a metterlo al mondo;
la madre se n’era andata e non si
era fatta più vedere; per questo il ragazzo
era con la «zia».
Domandammo anche a lui quanti
anni avesse il figlio. Rispose che ne
aveva 17. Era chiaro che, passata la
sbornia, lo avrebbe fatto ringiovanire.
Lo invitammo a venire
al centro la domenica
seguente, per
foirci, a mente
lucida, altri chiarimenti,
ventilando,
se non si fosse
presentato, un’eventuale
denuncia
alla polizia per abbandono
di minore.
Per questo ci affidò il
figlio molto volentieri. A casa cominciò
un arduo lavoro di restauro
per renderlo presentabile: era pieno
di vermi, scabbia, pidocchi e altro.
Alì ha 12-13 anni, ma non li dimostra.
La madre morì quando ne aveva 2.
Se n’era preso cura una zia, vecchia e
sola, ma poco dopo lo aveva riportato
al padre: cominciò per lui una tremenda
vita di stenti, vagabondaggi,
fame, botte; finché andò a vivere sulla
strada.
Ora Alì va a scuola. Vuole rompere
col passato: si fa chiamare Rich, come
il protagonista di un film. Almeno
i sogni nessuno glieli può rubare.
È arrivato anche Fabian, amico inseparabile
di Alì-Rich: la notte dormivano
in un mucchio di crusca vicino
ad un mulino per tenersi caldi e
nascondersi; di giorno, in giro a cercare
di che sfamarsi, raspando tra i
rifiuti del mercato. Rimasto solo alla
stazione delle corriere, è venuto pure
lui, piuttosto malconcio, a chiedere
di essere accolto alla Faraja.
Fabian era scappato da casa dopo
la morte della madre. Veniva da molto
lontano, oltre 300 km da Iringa,
da qualche paese dell’Ukinga, di cui
non ricorda il nome. Per tre mesi, a
piedi, vagabondò di villaggio in villaggio.
Da 5 anni faceva vita da randagio
per le strade di Iringa.
Ho fatto delle ricerche, ma è stato
come cercare un ago nel pagliaio: il
suo cognome, Sanga, in quella zona
è comunissimo. Ora è con noi, senza
radici; ma ha ritrovato l’amico e una
casa per sognare. Ha solo 12 anni.

CARCERE DELLA VERGOGNA
La domenica molti ragazzi di strada
della città vengono alla Faraja per
lavarsi, mangiare e giocare con i nostri;
verso sera li riportiamo sulla
piazza del mercato. Intanto mi faccio
raccontare le loro storie. A seconda
dei casi, cerco di rintracciare
i parenti; li aiuto ad andare a scuola;
li tiro fuori dalla prigione. Con qualcuno
ci sono riuscito.
Anche Dicki, sorriso accattivante e
ladruncolo imbattibile a12 anni, mi
ha raccontato la sua storia di violenze:
arrestato per vagabondaggio, fu
buttato in prigione e rinchiuso in un
camerone con 52 adulti. Due di loro
l’hanno ripetutamente violentato di
fronte agli altri, senza che nessuno si
sia mosso a pietà delle sue grida.
Il giorno dopo il suo racconto, feci
irruzione nell’ufficio dell’assistenza
sociale con tanta rabbia in corpo
e grande sconforto: gli addetti a tale
ufficio fanno poco o niente; d’altronde
sono pochi, quasi senza mezzi
e con meno voglia e autorità.
La rabbia più forte la scaricai sul
capo delle prigioni: un omone mellifluo
e panciuto, da gran bevitore,
che, tra le altre cose, mi disse vigliaccamente
che ragazzi come Dicki
ci sono abituati e ci stanno. Mi viene
da credere che sia tutto combinato:
che ogni tanto arrestino qualche ragazzino
della strada per darlo in pasto
ai carcerati.

SOLIDARIETÀ DEI POVERI
Pochi giorni fa, passando per il
mercato, trovai una grande folla che
vociava e sghignazzava. M’informai
e mi dissero che stavano picchiando
un piccolo ladro. Sceso dall’auto, mi
avvicinai. La folla aprì un varco; tutti
mormoravano: «Baba faraja». Arrivato
sul luogo della scena, vidi che
alcune «guardie» del mercato stavano
bastonando Jonny e un energumeno
lo prendeva a calci in pancia,
mentre Tray cercava di frapporsi col
suo corpo e invocava pietà.
La mia presenza fermò i bastoni; i
ragazzi mi spiegarono l’accaduto:
Jonny aveva voluto aiutare un europeo
a portare la borsa per guadagnarsi
qualche soldo; ma qualcuno
aveva frainteso il gesto e si era messo
a gridare: «Al ladro! Al ladro!».
In tali occasioni tutti si trasformano
in «giustizieri» e diventano spietati,
fino a uccidere il malcapitato a
botte, oppure gli legano le mani, gli
infilano al collo un vecchio copertone
inzuppato di petrolio e danno
fuoco. È successo pure che a qualcuno
hanno bucato gli occhi.
Presi per mano i due ragazzi, veramente
malconci, e li portai all’ospedale.
Ancora oggi, Jonny e Tray
portano in faccia e sulle gambe i segni
di quelle botte. Tray ne è fiero:
«Solidarietà tra reietti!».
Questi bambini sono i famosi «ultimi
» del vangelo, destinati a «primi
». In certe occasioni si risveglia il
buon cuore anche dei più monelli,
tanto che bisogna frenarli. Nell’ultima
quaresima, per esempio, alcuni
ragazzi decisero in assemblea di «dare» qualcosa ai più poveri di loro. Le
idee erano tante: una delle squadriglie
(così sono organizzati i 130 ragazzi)
propose di rinunciare alla colazione
del mattino e dare l’equivalente
in denaro. Alla fine fu deciso
che il giovedì pomeriggio, invece della
solita partita a pallone, avrebbero
raccolto pietre da costruzione sulle
montagne vicine per poi venderle.
Per me il giovedì pomeriggio si trasformò
in un incubo, al vedere i fianchi
della montagna brulicare di bambini
e ragazzi che facevano rotolare
a valle grossi massi, preceduti e seguiti
da tante ansiose raccomandazioni.
Tra l’altro, temevo che da sotto
i massi uscisse qualche serpente,
anche se non credo che i ragazzi si sarebbero
spaventati più di tanto.
Ne raccolsero tre camionate. Il ricavato
lo usammo per aggiustare la
casetta di Huruma, un’orfana di 12
anni, che vive con la nonna cieca: oltre
ad accudirla, trova il tempo di andare
a scuola.

ADULTI DA SENSIBILIZZARE
Il numero dei ragazzi di strada
continua ad aumentare, anche a causa
dell’Aids. Orfani a causa di tale
pestilenza, essi non sono più assorbiti
nel tessuto sociale dei villaggi,
perché sono diventati troppo numerosi;
non resta loro che sciamare per
le strade delle città, organizzarsi in
bande e diventare facilmente piccoli
delinquenti.
È difficile trovare per tutti una soluzione
definitiva. Intanto, abbiamo
fretta di aprire un ufficio in città: un
centro di prima accoglienza o di primo
soccorso dei bambini in difficoltà
e, al tempo stesso, un mezzo
per spiegare e sensibilizzare gli adulti,
le comunità parrocchiali e i «capoccia
» di ogni genere, perché passino
dal disprezzo e paura a capire,
aiutare e (perché no?) amare
anche questi «figli di
Dio» meno fortunati.

Franco Sordella




CONTENTI DELLA PROPRIA IDENTITÀ

Sono contento di essere protestante perché…
Libero…
Come… il gatto?
Perché non prendere un poco più sul serio
i «versetti della gioia» contenuti nella bibbia?

Èfacile imbattersi in cittadini che
si dichiarano contenti di essere
italiani, inglesi o tedeschi…
Non è altrettanto frequente incontrare
persone che si dichiarano felici
di essere cattolici, protestanti o ortodossi…
Ma ci sono!

AFFARE SERIO!
Il famoso teologo protestante,
Jürgen Moltmann, nel volume Dio nel
progetto del mondo moderno (Queriniana
1999), inizia il capitolo intitolato
«Il protestantesimo come religione
della libertà» con questa domanda
personale: «Perché prediligo
il protestantesimo? Perché sono tanto
volentieri protestante?».
E risponde senza esitazione: «Per
motivo della libertà: libertà davanti a
Dio nella fede, libertà della religione
nei confronti dello stato, libertà di
coscienza nei confronti della chiesa».
Già nella prefazione del suo libro, il
teologo si permetteva di riportare la
storiella un po’ ironica di Hans Mayer.
«Al mondo appena nato vennero a fare
gli auguri tre buone fatine. La prima
augurò al bambinello libertà individuale;
la seconda giustizia sociale;
la terza prosperità. Ma sul fare della
sera arrivò la fatina cattiva, per dirgli
che soltanto due desideri potevano
essere esauditi. Così il mondo moderno
occidentale scelse libertà e benessere,
scartando la giustizia. Il
mondo orientale scelse giustizia e
prosperità, scartando la libertà».
L’affare è serio. Ma ciò spiega l’atteggiamento
giornioso di Moltmann.
Ma liberi come? Come il gatto? Che
gioca, è autodidatta, non va a scuola,
non obbedisce a nessuno?

IL GIOCO DI POLLYANNA
A riguardo dei protestanti c’è quel
delizioso romanzo, Pollyanna, scritto
nel 1912 da Eleonora Porter.
Pollyanna è la figlia di un pastore
protestante; rimasta orfana a undici
anni è affidata a una zia, anch’essa
protestante molto rigida. Lei è invece
una bimba serena, piena di vita,
sempre contenta; anche nelle situazioni
poco piacevoli finisce col dire:
«Meglio così».
Suo padre le aveva insegnato il bellissimo
gioco di essere contenta. Un
giorno la bambina lo insegnò anche
al pastore del paese in cui viveva con
la zia, Paul Ford, del tutto sfiduciato
perché la gente non lo seguiva. Aveva
preparato per la funzione domenicale
un sermone più forte del solito
per tentare di scuotere il suo gregge.
Per trovare un po’ di quiete, il pastore
era uscito all’aria libera, con in
tasca il sermone, ruminando sul da
farsi. A questo punto lo sorprese Pollyanna,
che aveva intuito il suo stato
d’animo, e avviò la conversazione.
– Signor Ford, è contento di essere
pastore?
– Se sono contento! Perché mi fai
questa domanda?
– Non so! Ma mi è venuto in mente
mio padre. Anche lui ce l’aveva qualche
volta… ed io gli chiedevo se era
contento di essere pastore. Proprio
come ora lo chiedo a lei.
– E che cosa rispondeva tuo padre?
– Rispondeva di sì, naturalmente. Ma
di solito aggiungeva che non avrebbe
continuato neanche un giorno, se
non ci fossero stati nella bibbia i versetti
della gioia.
– I versetti di che cosa?
– Papà li chiamava così – rise la bambina
-, ma lo so che non hanno questo
nome nella bibbia. Sono tutti
quelli che cominciano con «state
sempre lieti», «giornite nel Signore»,
«cantate canti di gioia». Ce ne sono
tanti nella bibbia. Un giorno papà era
tanto triste e si mise a contarli. Sono
800! Diceva che se Dio si era dato
pena di esortarci per 800 volte a
essere contenti, doveva essere importante.
E furono questi versetti a
suggerirgli l’idea di quel gioco: il gioco
bellissimo di essere contenta.
Tempo fa il card. Ruini, forse in un
momento di scoramento simile a
quello del pastore Paul Ford, scrisse:
«Chiuso il secolo dell’ateismo, si apre
in occidente quello del cinismo: un
avversario forse meno provocatorio,
ma più subdolo».
Quanto agli atei non è raro il caso
di imbatterci in atei soddisfatti e ultra
contenti di esserlo.

Sono contento di essere cattolico perché…
Sono in bella
compagnia
Nella bellezza, «luogo» privilegiato di teofania,
e con una schiera di personalità eccezionali, dai primi
secoli ai nostri giorni, mi fanno sentire a mio agio.

La domanda di Pollyanna al pastore
Ford può essere rivolta ai cattolici
che s’incontrano per strada o in
chiesa: «Sei contento di essere cattolico?».
E lo domando a me stesso.

BELLEZZA A CIELO APERTO
Posso dire di esserlo, anzitutto, come
lo può essere un buon «turista».
Da un punto di vista artistico in Italia
(e non solo) il cattolicesimo splende
per bellezza e a cielo aperto, alla
portata di tutti: una conquista plurisecolare
del regno spirituale di Dio,
perché la bellezza è uno dei «luoghi
teologici» più eloquenti e più facili,
lievito e fermento.
Qui lo spazio fiorisce come un immenso
giardino, con maestosi edifici,
basiliche, cattedrali, campanili
svettanti da tutte le parti. C’è la forza
e semplicità del romanico, gli slanci
e splendore del gotico, lo svolazzare
del barocco… E dentro a questo
svariare di forme non c’è solo il genio
degli artisti, ma l’anima di intere popolazioni
credenti. In certe basiliche,
più ancora nelle loro cripte, si sente
che vi si è voluto dare corpo al silenzio
orante, per rendere più facile la
sensazione della presenza di Dio.
Il poema sacro di Dante, al quale
«han posto mano e cielo e terra», l’arte
sacra pittorica, diffusa come libri
di una biblioteca popolare, la musica
religiosa, comprese le ispirate melodie
del canto gregoriano… sono bellezze
cresciute dappertutto.
Nel Commento alla vita di Don Chisciotte,
quello spirito tormentato di
Miguel de Unamuno (1864-1937)
scrive una pagina incantevole: «Passando
un giorno per León, mi recai a
contemplare la sua meravigliosa cattedrale
gotica, quell’immensa lampada
di pietra, nel cui seno salmodiano
i canonici al suono dolce e grave dell’organo.
Guardando le attorte colonne,
i finestroni dalle grandi vetrate,
per le quali la luce si rinfrange e
diffonde in mille colori, pensai: quanti
desideri silenziosi, muti aneliti,
pensieri reconditi non avranno accolto
le pietre di questo edificio! Quante
invocazioni mormorate o tacitamente
formulate, preghiere, lamenti,
dichiarazioni d’amore, imprecazioni,
rimproveri! Quanti segreti versati nell’ombra
del confessionale!
Se ora tutti questi desideri, aneliti,
pensieri, preghiere, mormorii, invocazioni,
imprecazioni, dichiarazioni,
lamenti e segreti cominciassero a
cantare, soverchiando a poco a poco
la monotona salmodia liturgica del
coro canonico? Se si svegliassero le
voci che dormono nella cattedrale e
prorompessero in un unico canto, la
cattedrale crollerebbe, spezzata dall’impeto
dell’immenso clamore, e le
voci liberate, cercherebbero il cielo.
Ma una cattedrale spirituale sorgerebbe
più aerea e luminosa e insieme
più salda, un immenso duomo che innalzerebbe
colonne di sentimenti diramantisi
sotto la gran volta del cielo
di Dio, un immenso duomo, libero
dal suo peso morto, con le sue arcate
e pilastri ideali».
François René de Chateaubriand
(1768-1848), ferito quasi a morte nel
sentimento religioso dalle negazioni
degli enciclopedisti e sacrileghi orrori
dei sanculotti, scrisse Il genio del
cristianesimo. Pure il «genio del cristianesimo»
cattolico, espresso nell’arte,
chi potrebbe negarlo?

COME UNA LUCE INFINITA
Nel 1885 G. F. Gamurrini scoprì nella
biblioteca di Arezzo la cosiddetta
Peregrinatio Eteriae: diario di una piissima
dama del suo viaggio in Terra
Santa, Egitto, Edessa, compiuto alla
fine del IV secolo e durato tre anni.
Nel suo libro si sofferma a descrivere
anche le liturgie a cui poté assistere
a Gerusalemme. Rimase come
abbagliata dall’«Ufficio della luce»
(licinicon), quando al cadere della
notte, nella grande basilica, tra il
canto dei salmi, venivano accese le
lampade a olio, ed essa esclama: Et
fit lumen infinitum.
Anche questo ha insegnato il cristianesimo:
pregare nella luce anche
al cadere del sole. La luce che s’intravede
attraverso la cruna di un ago
o un’apertura di dieci metri è pur
sempre la stessa luce.

LA VOCE DEI PADRI…
Cosa accadrebbe se, come immaginava
Unamuno nella cattedrale di
León, prendessero voce, tutti insieme,
gli scritti dei cosiddetti «padri
della chiesa»? Jacques-Paul Migne
(1800-1875), operoso e intraprendente
prete francese del sec. XIX, ha
raccolto in 459 volumi gli scritti degli
autori latini e greci.
Quale piacevole cosa poter visitare
questi vecchi amici e intrattenersi
con loro. Oltre che alle opere di Agostino
(ne ha scritti circa 1.030), m’inchino
davanti a quelle di Giovanni Crisostomo
(344-407); con lui saluto
Olimpia, l’avvenente dama dell’imperatrice
Eudossia, ma che era di altra
natura e risplendeva di luce propria.
A lei il patriarca Crisostomo insegnò
a superare le disdette della vita
con la metropathia, senso della misura.
Anche la vita spirituale è come
l’arte: non rispettare la misura è compromettere
la bellezza; anzi la invita
all’euthumia, al cor altum.
Entrando in quella sala devo immancabilmente
passare a salutare
Gregorio di Nissa (332-399). Non farlo
sarebbe uno sgarbo imperdonabile.
Si tratta del fratello minore di Basilio;
aveva un amico importante,
Gregorio di Nazianzio. Non possedeva
l’estro per l’azione del fratello
maggiore, né l’eloquenza chiara dell’amico
Gregorio. Era un pensatore e
un teologo di prim’ordine, discepolo
di Origene.
I due fratelli dovevano molto alla
sorella Macrina, dotata di bellezza
straordinaria, alla quale il padre aveva
scelto un ottimo partito. Ma il fidanzato
muore prima delle nozze, e
lei, come si fosse trattato di un vero
matrimonio, offre al fidanzato defunto
la sua fedeltà, come farebbe una
sposa per il marito partito per un lungo
viaggio. Aiutò in casa la madre
Emmelia nell’educazione dei fratelli e
sorelle. Quando questo compito poté
dirsi esaurito, madre e figlia, accompagnate
dalle loro domestiche, si ritirano
nel Ponto, sulle rive del fiume
Iri, e vi fondano un monastero.
Dopo la morte della madre (373),
Macrina è nominata superiora del
monastero. All’inizio del 380 il fratello
Gregorio, sapendola gravemente
ammalata, le fa visita. Tra fratello
e sorella morente avviene un colloquio
di altissima elevazione spirituale,
che poi Gregorio immortalò in un
libro dal titolo De anima et resurrectione,
trasposizione cristiana del Fedone
di Platone.
Macrina, sul letto di morte, assegna
al fratello il compito di formulare
i dubbi e le obiezioni sull’aldilà, riservando
a sé il compito della confutazione
dei dubbi e difficoltà. Si
tratta dell’eterno problema dell’uomo
di fronte alla morte. «Il bene procede
verso l’infinito». Le eventuali pene
dell’aldilà non possono essere
etee: «Tutte le anime, una volta
purificate, ritornano al loro stato di
perfezione primitiva»; «una volta distrutto
il male, dopo un lungo periodo
di tempo, non rimarrà altro che il
bene. Anche queste nature, infatti,
riconosceranno concordemente la signoria
di Cristo». «Verrà il momento
in cui tutti gli esseri riconosceranno
Dio e toeranno a lui».
Naturalmente Gregorio questo discorso
lo fa a me, quasi in segreto,
quando lo vado a trovare… perché
son cose che occorre dire sottovoce
e in privato.

I FUORI CLASSE
Altro panorama incantato del cristianesimo
primitivo e sfondo di un
cattolicesimo amato, anche se contemplato
da molto lontano, sono i
deserti o laure abitate dai monaci;
distese aride, senz’acqua, eppure
piene di vita.
Si tratta di cristiani che, dal III al
VI secolo, abbandonavano le città per
vivere nei deserti dell’Egitto, Siria,
Palestina, soli o a gruppi, quasi uccelli
in grotte a piombo sul mare.
Il poeta cristiano bizantino, Romano
Melode, nato in Siria alla fine
del sec. V, in molte sue poesie esalta
la vita di questi «fuori classe». Scrive,
ad esempio: «Siate saldi e corroborati
nella fede. Ma tenete il vostro
capo inchinato. Piegate il corpo verso
terra, ma a Cristo guardate in alto
con l’anima. Aspirate e adoperatevi
a ciò con tenacia ad accantonare
la vita quotidiana per trasferirvi
con il pensiero nelle dimore di tutti
i santi, al fine di poter cantare, come
se foste già lassù, l’inno: Alleluia».
C’è anche una meravigliosa
raccolta di sentenze, detti,
proverbi, usciti dalla bocca
di questi asceti del deserto,
ma quasi con le tenaglie,
chiamati apoftegmata,
memorizzati da
molti pellegrini che, da
regioni lontane, si recavano
in quei luoghi
impervi per raccogliere,
magari dopo giorni
di silenzio e dopo aver
invocato quei solitari
a dire loro anche solo
una parola – dic mihi
verbum – che servisse da programma
di vita.
Questi detti sono brillanti, di gustosa
sapienza, e anche pieni di humour
(vedi riquadro).
In seguito il monachesimo si sviluppò
nelle forme più svariate, con
una fantasia imprevedibile. Vita monastica
e vita religiosa non vanno ridotte
a «dottrina»: sono fenomenistorici.
«Non ci sarebbe l’Europa – ebbe
a dire Massimo Cacciari – senza il
monachesimo»; e neppure l’espansione
missionaria.

CRISTIANO O CICERONIANO?
Tra le figure più simpatiche del cattolicesimo,
incontro Girolamo. Ormai
lontano da Roma e monaco a Betlemme,
nel 383-384 scrisse, alquanto
irritato, una lunghissima lettera a
una dama romana, Eustochio, per invitarla
al distacco dal mondo, poiché
«nessuno può camminare tranquillo
in mezzo a vipere e scorpioni».
In questa lettera citazioni bibliche
e principi ascetici s’intrecciano con
bozzetti spassosi di vita vissuta di un
tempo lontano. C’è, ad esempio, questa
descrizione di certi preti e monaci
nella Roma di papa Damaso (+
384): «Mettono ogni cura nel vestirsi
bene e profumarsi; il loro piede non
deve ballare in una scarpa troppo larga;
i capelli arricciati di fresco col ferro;
le dita scintillano di anelli; quando
camminano, per evitare che il fango
inzaccheri le scarpe, vanno in
punta di piedi».
Girolamo è un monaco colto. Ed eccolo
alle prese con se stesso. Si chiede:
«Che c’entra Orazio col salterio,
Virgilio col vangelo, Cicerone con gli
apostoli? A proposito ti voglio raccontare
un episodio della mia dolorosa
esistenza. Ne è passato del tempo
da allora!
Casa, padre e madre, sorella, parenti,
e – questo m’era più difficile –
l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo
tagliato via per il regno dei cieli,
e me n’ero andato a Gerusalemme
a militare per Cristo.
Ma dalla mia biblioteca,
messa insieme a Roma con
tanto amore e tanta fatica,
proprio non avevo saputo
staccarmi.
Povero me! (miser
ego!). Digiunavo e poi
andavo a leggere Cicerone.
Dopo molte notti
trascorse vegliando,
dopo aver magari versato
fiumi di lacrime al
ricordo dei peccati
d’un tempo, prendevo
in mano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo
i libri dei profeti, il loro stile disadorno
mi dava nausea. Era la mia
cecità a impedirmi di vedere la luce,
e m’illudevo che la colpa non fosse
dei miei occhi, ma del sole! (non oculorum
putabam culpam esse, sed solis).
A mezza quaresima, una febbre
acutissima mi penetra nelle ossa. Già
mi preparano i funerali. Tutto il corpo
è agghiacciato. Solo il povero
cuore, tiepido appena, dà ancor qualche
palpito, come se là si sia rifugiato
l’ultimo soffio di vita. D’un tratto
ho come un rapimento spirituale. Mi
sento trascinato davanti al tribunale
del Giudice e mi vengo a trovare tra
un tale sfolgorio di luce che irradia
da ogni parte, che io, sbattuto a terra,
non oso levare in alto lo sguardo.
Mi chiede chi sono. “Un cristiano!”
rispondo. Ma il Giudice dal suo trono
esclama: “Bugiardo! Sei ciceroniano
tu, non cristiano”. Resto di colpo senza
parole. Sotto le vergate (il Giudice
aveva dato ordine di battermi) mi sento
lacerare ancor più dal rimorso della
coscienza.
A lungo ho portato le lividure sulle
spalle. Da quel giorno mi sono
messo a leggere la scrittura con un
ardore che mai ne avevo messo l’eguale
nelle letture pagane».
A riguardo della natura di questo
sogno si è discusso a lungo.
Tra le tante lettere di Girolamo ve
n’è una che riprendo spesso in mano.
È indirizzata a Eliodoro, un amico
che, dopo averlo seguito, abbandona
l’eremo. Girolamo lo prega insistentemente a ritornare, dipingendogli le
giornie spirituali della solitudine: «Ma
che cosa fai nel secolo, fratello mio?
Tu sei più grande del mondo! E fino a
quando ti debbono pesare sul capo le
ombre dei tetti? E fino a quando vuoi
rimanere chiuso nella prigione delle
affumicate città? Credi a me: qui dove
sono io, vedo un non so che più di
luce. E mi pare, quasi deposto il peso
del corpo, di volarmene verso il puro
splendore del cielo. Alzati col pensiero
a passeggiare per il paradiso!».
Eliodoro non ritoerà al deserto.
Diventerà vescovo. Girolamo però l’aveva
ammonito: «Non tutti i vescovi
sono vescovi (non omnes episcopi,
episcopi sunt); non è la dignità ecclesiastica
che fa l’uomo cristiano».
Quale ricchezza in questo monaco
che con i suoi scritti ha attraversato
i secoli. E anche quanta capacità di
affetto e di poesia! La lettera a Eliodoro
così iniziava: «Con quanto amore
e con quanta premura mi sono adoprato
perché potessimo rimanercene
insieme all’eremo, lo sa il mio cuore.
Con quale lamento, poi, con quale dolore
e quali sospiri io ti abbia accompagnato
nella tua partenza, te lo attesta
questa mia lettera, che tu vedi
qua e là cancellata dalle lacrime (quas
lacrimis ceis interlitas)».

SGUARDO ALL’INFINITO
Non è solo pensando a Girolamo,
ma anche ad Agostino (354-430) che
mi sento tanto volentieri cattolico.
Chi infatti volesse comprendere la
chiesa e dare uno sguardo complessivo
al cristianesimo cattolico deve
comprendere Agostino.
Anche se in lui ci sono delle ombre,
rimane una pietra miliare. Difficile
descriverne la personalità e l’influsso;
più difficile ancora sintetizzae
il pensiero.
Mi attrae la frase di chiusura della
Città di Dio, sull’ottavo giorno della
creazione, che è al di là della storia:
«Là avremo finito di lavorare e vedremo,
vedremo e ameremo, ameremo
e loderemo. Ecco ciò che sarà alla
fine senza fine. Infatti, che cos’altro
è per noi la fine se non giungere
al regno, che è senza fine?».
Un interrogativo, quello di Agostino,
che il fiume immenso del monachesimo
mormora di continuo a chi
lo vede scorrere anche solo dalla riva.
Personaggi stupendi: Benedetto,
Domenico, Francesco, Beardo… che
hanno lasciato impronte indelebili
nella storia.
Per la conquista della Bretania, Cesare
impiegò sei legioni. Gregorio lo
fece solo con 40 monaci (596). Una
volta evangelizzati, i monaci irlandesi
e britannici diventarono evangelizzatori
di buona parte del continente
europeo.

SANTI… UMANISSIMI
Domenico pregava anche per i dannati
(ad in inferno damnatos extendebat
caritatem suam). Francesco raccomandava
al frate ortolano di «non
riempire tutto lo spazio di verdure
commestibili, ma di lasciare libera
una parte di terra, perché crescessero
le erbe spontanee, per produrre a
tempo debito i fratelli fiori»: preludio
al Cantico di frate sole, alla natura bella
e benefica.
E che dire della lettera che Francesco,
pochi giorni prima di morire,
dettò per donna Jacopa dei Settesogli,
ricca e nobile matrona romana,
alla quale Francesco era legato da
particolare stima: «A donna Jacopa,
serva dell’Altissimo, frate Francesco,
poverello di Cristo, salute nel Signore
e unione dello Spirito Santo. Sappi,
carissima, che Iddio, per grazia,
mi rivelò che la fine della mia vita è
ormai prossima. Perciò se vuoi trovarmi
vivo, ricevuta questa lettera,
affrettati a venire a Santa Maria degli
Angeli. Se non verrai prima di sabato,
non mi potrai trovare vivo. E
porta con te un panno scuro, in cui
tu possa avvolgere il mio corpo, e i
ceri per la sepoltura».
Dopo il panno nero e i ceri, ci si
aspetterebbe chissà quale altra cosa
importante o altamente spirituale,
come un testamento. Invece: «Ti
prego anche di portarmi quei mostaccioli
(dolci) che eri solita darmi
quando mi trovavo malato a Roma».
Passano i secoli e nella chiesa appare
Ignazio di Loyola (1491-1556).
Erano necessarie forze nuove e metodi
nuovi: fonda la Compagnia in funzione
dell’apostolato, anche missionario.
Uomo certamente di ferro, ma
per nulla tetro, freddo e senza cuore,
ma sorridente, sereno, tenero e affettuoso,
capace d’intrattenere rapporti
«cordiali e cortesi». La Compagnia
è nata così, dall’amicizia.
«Amenemhet contempla la bellezza
del sole» si legge sulla stele del faraone
egiziano. A Roma Ignazio si alzava
presto per contemplare in silenzio,
in piedi e scoprendosi il capo,
il sorgere del sole.
Dopo Ignazio, Vincenzo de’ Paoli
(1585-1660); anch’egli un uomo
nuovo, dalla carità benevola verso i
poveri, che parlava bene di tutti,
«persino del diavolo». Alle sue suore
diceva: «Avrete per monastero la
camera dei malati, per cella la chiesa
parrocchiale, per chiostro le strade
della città, per clausura l’obbedienza,
per grata il timor di Dio, per
velo la santa modestia». «La carità –
aggiungeva – è una gran signora, bisogna
fare quello che comanda». «Se
dovete lasciare l’orazione per andare
da un malato, fatelo. Il vostro dovere
è di lasciare tutto per il servizio dei
poveri».
Fino ai giorni nostri.

L’ALTRA METÀ…
Un capitolo a parte meritano le donne, cristiane e cattoliche. Non solo pensando
a Chiara, Scolastica, Caterina da Siena o Teresa di Gesù, ma a moltissime
altre: a quelle immortalate, come simbolo, dai Dialoghi delle Carmelitane; a Edith
Stein… Donne anche di pensiero.
Non posso dimenticare Ipazia. Siamo ad Alessandria d’Egitto, dove nel 412 inizia
il suo ministero patriarcale san Cirillo: ma comincia in modo caotico, spalleggiato
da partigiani ambigui, monaci turbolenti e dai paraboloni. Quest’ultimi, veri fanatici,
specie di infermieri, accanto ai cantori, fossori e amministratori vari, svolgevano
la funzione di assistenza nella chiesa di Alessandria.
Nel 415 alcuni di questi fanatici trascinano a forza in una chiesa la celebre Ipazia:
le strappano le vesti, la dilaniano con grosse conchiglie taglienti, la fanno a pezzi e
ne bruciano i resti.
Ipazia possedeva una cultura vastissima. Alla morte del padre ne aveva ereditata
la cattedra, per divenire una singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia.
Figura d’un candore abbagliante,
bellissima e coerente fino al martirio.
In città era universalmente consultata: «Di
gran lunga superiore a tutti i filosofi del
tempo; perciò tutti gli studiosi di filosofia
da ogni parte correvano a lei» scrive un
certo Socrate, avvocato cristiano, nato a
Costantinopoli nel 408.
Un discepolo della Libia, divenuto poi vescovo
e che mantenne con lei una fitta
corrispondenza, le scriveva: «Possa tu riceverla
(questa lettera) in buona salute,
madre, sorella, maestra».
Poiché Ipazia era in ottimi rapporti con il
prefetto della città, un certo Oreste, la si
riteneva responsabile dell’opposizione
che il prefetto faceva al patriarca Cirillo.
Un fattaccio, che l’imperatore lasciò impunito,
ma che getta ombre nere su Cirillo
stesso.

Sono contento di essere cattolico perché…
Innestato
in Cristo
Molto si è discusso, e si discute ancora, sull’essenza del
cristianesimo: nella teologia cattolica sono affascinato
dalla centralità del Cristo e dal suo «mistero».

Non solo in questi gloriosi e indimenticabili
compagni sta il motivo
più importante del sentirmi tanto
contento di essere cattolico.
Tanto meno ponendomi sulla scia
di quegli autori di metà ‘800 in avanti,
in genere tedeschi, razionali, ipercritici
o anche atei, che dall’alto delle
cattedre universitarie iniziarono a
dissertare sulla vita di Cristo, preoccupati
di scartare quanto non ritenevano
storico.
AUTORI CHE FANNO LE BUCCE
Loro intento era giungere all’essenza
del cristianesimo, solo percorrendo
la via della storia, per individuare,
una volta per tutte, ciò che era
da ritenersi «valido e durevole», il
«nucleo» (ke), distinto dalla «scorza» (schale).
Già nel 1841 Lugwig Andreas Feuerbach
(1804-1872) uscì con un’opera
dal titolo L’essenza del cristianesimo.
Vi tentò in modo più serio Adolf von
Haack (1851-1930). Nel trimestre
invernale 1899-1900, tenne un ciclo
di 16 lezioni a 600 studenti su L’essenza
del cristianesimo, pubblicate
con lo stesso titolo e tradotto in 14
lingue. Secondo Haack, Gesù non
aveva predicato se stesso, né aveva
pensato a una chiesa: unico oggetto
della sua predicazione fu di presentare
Dio come «padre».
Entrò in lizza anche il cattolico Karl
Adam con L’essenza del cattolicesimo
(1924). Come intermezzo, nel 1903,
Est Troeltsch (1865-1923) intervenne
con un altro volume per chiedersi
che cosa si doveva intendere
per «essenza del cristianesimo». Cosa
fosse solo facciata e cosa vera sostanza,
cosa semplice costume e cosa
autentica convinzione. Eventualmente
riducendo tutto a mito.
Si può essere critici verso i critici a
oltranza: Anatole France (1844-
1924), spirito scettico, nel seguire le
lezioni di Loisy, tracciava delle caricature
in margine alle dispense del
corso: in una di esse aveva raffigurato
il Loisy che, a cavallo di un ramo,
menava colpi d’ascia alla radice dell’albero
dei vangeli e un fumetto diceva:
«Ne lascerò sempre a sufficienza
per tenermi».
C’è anche la critica marxista e razionalista:
conosce bene la società
cristiana, ma ignora chi sia Cristo.

CRISTO AL CENTRO
François Mauriac, un romanziere,
nel 1937 scrisse una vita di Cristo,
dove dice: «Leggendo i vangeli, ho
sentito il Cristo respirare e tento di
descrivere il Cristo “interiore”, visto
non con gli occhi della carne, ma con
quelli dello spirito».
Il centro attorno al quale ruota e si
struttura il cristianesimo, e il cristianesimo
cattolico, è Cristo risorto e Signore:
«Se nel tuo cuore credi che
Dio ha risuscitato Gesù dai morti e
con la tua voce dichiari che Gesù è il
Signore, sarai salvato» (Rom. 10,9).
In modo molto icastico, Paolo afferma:
«Mihi vivere Christus est», per
me il vivere è Cristo (Fil 1,21). Per incontrarlo,
l’autore del De imitatione
Christi suggerisce: «Chiudi sopra di te
la tua porta e chiama a te il tuo diletto.
E rimani con lui nella tua cella,
perché non troverai altrove una
pace così grande» (I, 20,8).
Per molte persone è bastato un
semplice versetto del vangelo per impostare
la vita in modo nuovo. Antonio
abate (251-357), poco più che
ventenne, sentì leggere: «Se vuoi essere
perfetto, vai, vendi quello che
possiedi e donalo ai poveri; poi vieni
e seguimi» (Mt 19,21). E lo fece.
Elisabetta della Trinità, per dare un
contenuto al nome che portava, imposta
la sua vita sul versetto di Paolo:
«Perché noi fossimo lode della sua
gloria» (Ef 1,12) e si firma Laudem
Gloriae.
Molti altri si ispirarono a qualche
aspetto della vita di Cristo, dalla nascita
a Betlemme, alla croce. Charles
de Foucauld scrisse: «Guardiamo i
santi, ma non attardiamoci nella loro
contemplazione. Contempliamo
con essi colui la cui contemplazione
ha riempito la loro vita. Approfittiamo
del loro esempio, ma senza fermarci
a lungo, né prendere per modello
questo o quel santo, ma prendendo
da ciascuno chi solo è vero
modello, servendoci così dei loro
esempi, non per imitare essi, ma per
meglio imitare Gesù».

PROSOPAGNOSIA
È una malattia molto brutta: consiste
nel non riconoscere (agnosia) una
persona (prosopon) per quello che è.
Paolo in 2 Cor. 3,17 scrive: «Il Signore
è lo Spirito» (dominus autem
spiritus est). Gesù Cristo, dopo la risurrezione,
è signore e spirito. Per
cui la prosopagnosia consiste nel non
riconoscere Cristo come «signore» e
come «spirito». E si tratta della malattia
più grave in cui possa cadere
un cristiano.
Questo pericolo esiste perché Cristo
è un «mistero».

L’INFINITO NEL FINITO
Il termine mistero è una delle parole
più usate dai cattolici; basta
aprire il Messale della liturgia romana.
Ma è pure una delle parole più inflazionate
e ingarbugliate. Sinonimi
come arcano, problema, enigma, cosa
oscura, inesplicabile, incomprensibile,
segreta… non sempre aiutano
a chiarire.
I vocaboli che più si avvicinano al
significato cristiano di mistero sono
invece segno, sacramento, simbolo.
Al punto che abbiamo un mistero, un
segno, un sacramento, un simbolo
tutte le volte, e ciò avviene quasi
sempre, che abbiamo una forma visibile
di una realtà invisibile (interiore,
spirituale, divina…).
Primo mistero, segno, sacramento,
simbolo è l’uomo stesso, essendo costituzionalmente,
e sotto tutti i punti
di vista, una forma visibile per la
sua corporeità di una realtà invisibile,
che è la sua interiorità, la sua anima,
spirito, dignità, comunque la si
voglia chiamare.
Ugualmente mistero, segno, sacramento,
simbolo sono le parole che
pronunciamo. Lo è il mazzo di fiori o
un dono che offriamo. Lo è la bibbia,
la chiesa, i sette sacramenti. Lo è soprattutto
Cristo, per essere un uomo
con la sua interiorità e il rapporto singolare
e unico con Dio (Uomo-Dio).
Usando una felice definizione di
Agostino, si può dire che il mistero è
«una cosa grande nascosta dentro
una piccola». Il mistero è un nascondiglio.
È l’infinito nel finito, l’assoluto
o il tutto nel frammento, il
santo tra i peccatori, l’amore nel dono
di un fiore, la vita nella morte.
Gesù è mistero quando dice: «Chi
vede me vede il Padre» (Gv 19,9), il
«figlio di Dio» nel «figlio dell’uomo».
Per questo Gesù è il vero padrone di
casa, che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche (Mt 13,52). Come
tale sul monte poté trasfigurarsi,
mostrando quanto di grande ci fosse
in quell’uomo sofferente. La morte fisica
può essere constatata e descritta,
ma l’offrire la vita per… è un’intenzione
e un mistero per l’appunto.

SUPERARE I 4 «SOLUS»
I protestanti insistono sull’aggettivo
«solus». Lo ripetono almeno
quattro volte. Anzitutto Christus solus,
nel senso che Cristo, come afferma
san Paolo, è l’unico «mediatore»
(1 Tim 2,5); anche nel senso che la
Madonna e i santi possono essere ricordati,
ma quanto a invocarli la
scrittura non dice nulla.
Eppure tutto ci dice che Cristo è,
sì, l’unico mediatore, ma che non è
mai da solo, sia perché come «capo»
lo è di un corpo formato da molte
membra, le quali a qualcosa devono
pur servire; infatti formano la Comunione
dei Santi, comunque la si voglia
intendere.
Il secondo solus è riferito alla fede:
sola fides; il terzo riguarda la grazia:
sola gratia. Certamente nel senso che
a venirci incontro, senza alcun nostro
merito, è la misericordia di Dio.
Ma anche qui, grazia e misericordia
di Dio, provvidenza e salvezza
non ci giungono mai allo «stato puro
», ma attraverso la parte estea
che dobbiamo saper aprire e accettare
mediante la chiave o l’apriscatola
della fede.
Il quarto solus è riferito alla scrittura:
sola scriptura, specie il vangelo.
Ed è giusto. Ma anche la scrittura
non è sempre facile da capire.
Inoltre è noto che presso i popoli antichi,
compreso quello ebraico, il
mezzo ordinario di trasmissione non
era la scrittura o il libro, ma la trasmissione
orale. Gli antichi trasmettevano
i fondamenti della propria
cultura con una garanzia di sicurezza
non minore dei documenti scritti.
Tutto sommato a Lutero, come cattolico,
preferisco Erasmo, suo contemporaneo.
Anche se Lutero ed Erasmo
fecero la stessa diagnosi sui mali
del tempo, diversa è però la
terapia: «A chi ha un braccio rotto –
diceva Erasmo a Lutero – per guarirlo
non gli rompi anche l’altro». A Lutero
che diceva: «Dio è Dio», Erasmo
rispondeva: «Dio è buono».

«CONSEGNÒ LO SPIRITO»
Unamuno aveva osservato con sofferenza:
«Terribilmente tragici sono
i nostri crocifissi, i Cristi spagnoli,
morti per sempre, che non risorgono
». Ma dovette ricredersi, contemplando
il Crocifisso del Velazquez (vedi
riquadro).
Osservandolo attentamente scoprì
che, se per il protestante la base è la
giustificazione (come passaggio dal
peccato alla grazia), per il cattolico
è, invece, l’immortalità e la risurrezione
(come passaggio dalla terra alla
vita senza fine). E il poeta spagnolo
conclude il suo libro su Don
Chisciotte con questa profonda intuizione:
«Se la vita è un sogno, lascia
che io la sogni immortale».
La costituzione conciliare Lumen
Gentium non dice che «luce delle
genti» è la chiesa, ma Cristo: «Lumen
gentium cum sit Christus».
Gli evangelisti scrivono che Cristo,
morendo sulla croce spirò: cioè esalò,
diede lo spirito. Solo Giovanni al riguardo
è teologicamente più raffinato:
«E chinato il capo spirò» (Gv
19,30). Ma, a differenza degli altri
evangelisti, usa un verbo particolare,
che in latino è stato espresso con
tradidit spiritum: è il verbo greco paradidomi,
che significa: dare, donare,
consegnare, rimettere. Giovanni
direbbe che Gesù, morendo, fece dono
dello Spirito (Santo), del suo Spirito.
Tutto infatti sarebbe sterile se
così non fosse.
Anzi, stando alla espressione usata
da Paolo, già sopra ricordata (2 Cor
3,17), sulla croce Cristo non solo si
sarebbe trasformato in «luce», ma
sarebbe diventato «spirito». Paolo
scrive: «Il Signore è lo Spirito». In
greco i due sostantivi sono preceduti
dall’articolo e la parola «Spirito»
può essere scritta con l’iniziale maiuscola,
come fa la traduzione ufficiale
della CEI.
Con la morte e risurrezione Cristo è
divenuto non solo un «essere spirituale»,
ma è «lo Spirito». Egli si è
aperto, mostrando la sua vera realtà,
come incenso che bruciando si trasforma
in «profumo». Lo dice ancora
Paolo: «Si è offerto a Dio in sacrificio
di soave profumo» (Ef 5,2). Infatti
in ebraico la radice della parola
ruah-spirito è la stessa della parola
reah, che significa profumo.
Spirito è far cadere sugli uomini
qualcosa che assomiglia a un canto
gregoriano, scrisse Antornine de Saint-
Exupéry. Spirito è la chiave che apre
tutti i misteri, anche quello di Dio.
Sta qui il motivo principale della
mia preferenza per il cattolicesimo,
per questa evaporazione profumata
del Cristo che, come «spirito», può
espandersi più facilmente di un libro
o di qualsiasi proclama.
Lo dice molto bene san Paolo per
me: «Ci sono cose che occhio non vide,
né orecchio udì… Ma a noi Dio le
ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo
Spirito infatti scruta ogni cosa anche
le profondità di Dio. Come è lo spirito
dell’uomo – il nostro spirito – che
ci permette di conoscere le cose più
segrete che ci riguardano, così anche
i segreti di Dio nessuno li ha potuti
conoscere se non lo Spirito di Dio»
(1Cor 2,9ss).
Ed è Cristo che ci ha fatto dono
dello Spirito di Dio e del suo Spirito.
Per cui possediamo Dio in Cristo e
Cristo in Dio, perché tutto è stato ridotto
a Spirito.

STORIA DI UN INNESTO
Possedere o sentire Cristo come
Spirito costituisce per me il punto
centrale del cattolicesimo, la finestra
che mi permette non di tutto capire,
ma di tutto intravedere.
Due esempi, più di tante parole,
possono esprimere questa soddisfazione
del sentirmi cattolico.
Il primo è di uno scrittore greco,
Elias Venezis: racconta come Giuseppe,
un vecchio contadino mezzo cieco,
mostra a un bambino (l’autore) la
delicata operazione dell’innesto.
«Arrivammo sul posto. Giuseppe
posò a terra il fascio di rametti. Prese
a palpare l’arbusto selvatico, per
trovare il punto più adatto per l’innesto.
Trovatolo, levò gli occhi al sole,
fece tre volte il segno della croce,
mormorando una segreta preghiera.
Poi, ormai calmo e sicuro, riportò lo
sguardo all’arbusto da innestare. Con
mano salda intagliò un rametto, togliendone
un pezzo di scorza in forma
di anello. Incise la scorza del rametto
da innestare, lo unì al ramo
dell’arbusto selvatico, lo legò strettamente.
Volse di nuovo lo sguardo al sole e,
tutto tremante, riprese a pregare: “Ti
ringrazio, mio Dio, di avermi permesso
ancora quest’anno di innestare
gli alberi”. Poi, rivolgendosi a me,
mi dice: “Ecco, ragazzo mio, ti consegno
il tuo albero. Amalo come una
cosa che viene da Dio”.
Si trattava solo di un innesto, pensavo;
un pezzo di scorza, un bastoncino,
attaccato a un tronco selvatico:
tutto qui!
Indovinando il mio pensiero, il vecchio
contadino mi dice: “Appoggia
l’orecchio al tronco dell’albero”. Appoggiai
la testa al tronco e lui pure.
I nostri occhi erano così vicini da toccarsi.
Cominciò a sbattere le palpebre,
come se sprofondasse in estasi.
Poi chiuse gli occhi completamente.
– Senti qualcosa? – mi domandò.
– No! Non sento niente.
– Io invece sì! – mormorò lui con
gioia trionfante -. Io però sento… –
toò a ripetermi.
Poi mi spiegò di aver sentito il sangue
(la linfa) del rametto colare lentamente
nel sangue del tronco e mescolarsi
ad esso, che così cominciava
a realizzarsi il miracolo della
trasformazione del tronco selvatico».
Questo racconto è anche la storia
che ogni missionario potrebbe narrare:
poggiando le orecchie al tronco
dell’etnia trasformata in chiesa,
potrebbe sentire che nel vecchio
tronco è colata una linfa nuova.
Il secondo esempio spiega come
sia possibile la trasfusione di una vita
in un’altra; trasfusione non solo di
idee, ma di persona a persona.
Nel romanzo I fratelli Karamazov di
Dostoevskij c’è quella meravigliosa
scena del vecchio staretz Zosimo, visto
ai raggi obliqui del sole che tramonta.
Aveva un fratello, Markel,
morto giovane. Ecco il suo racconto
di quando aveva otto anni.
«Ricordo che una volta entrai da
solo nella camera di mio fratello
(ammalato), mentre non c’era nessuno.
Era una limpida sera; il sole
tramontava e illuminava con un
raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi,
mi fece un cenno; io mi
accostai; egli mi prese per le spalle
con le mani; mi guardò soltanto così
per un minuto: “Su via – disse –
adesso vai a giocare, vivi per me. Io
allora uscii e andai a giocare. Mille
volte, poi, nella vita ricordai tra le
lacrime come egli mi avesse ordinato
di vivere per lui».
È quanto fece Gesù dalla croce e
poco dopo nel cenacolo; alitando sugli
apostoli disse: «Ricevete lo Spirito,
andate…», cioè vivete per me.

Sono contento di essere cattolico…
Anche se…
Una storia seminata di «piaghe» e tradimenti…
Eppure la chiesa rimane sempre il luogo dove,
a furia di «giocare ai santi», lo si diventa per davvero.

Nella storia plurimillenaria della
chiesa cattolica certe cose sono
difficili da digerire: scismi ed eresie,
caccia alle streghe, schiavismo, inquisizione,
colonialismo… Un libro
recentissimo, dedicato a questi crimini,
conclude: «Il sangue scorre a
fiumi nella storia del cristianesimo».
Tra il 1832-1848, Antonio Rosmini
scrisse Delle cinque piaghe della chiesa,
messo all’indice nel 1849. Di tale
condanna, l’arcivescovo di Torino,
mons. Michele Pellegrino, in un Concilio
ormai agli sgoccioli, disse: «È
stata recentemente tolta la condanna
che ha gravato per oltre un secolo
su quel libro di Rosmini. È lecito
domandarsi: se quell’opera fosse circolata
liberamente, non avrebbe
contribuito alla guarigione
di piaghe di cui la
chiesa ha per troppo
tempo dolorosamente
sofferto?».
Stessa cosa si
potrebbe ripetere
per la condanna
del
romanzo Il
santo di Antonio Fogazzaro, uscito
nel 1905 e messo all’indice nel 1906.
In esso il romanziere faceva dire al
«santo», in un confronto drammatico
con il papa, che quattro spiriti maligni
erano entrati nel corpo della
chiesa: spirito di menzogna, spirito
di dominazione del clero, spirito di
avarizia, spirito di immobilità.
Inutile negare o stemperare queste
eventuali colpe. Piuttosto gioverebbe
ambientarle.
Una certa Patricia, dopo una buona
preparazione filosofica, si
laurea in teologia. Si era permessa di
servire la messa. Le
venne assolutamente
proibito
di farlo.
Volle, però, che le dicessero i motivi
veri di questa proibizione. Le venne
detto che in seguito a una riunione
pastorale (a che livello?) si era concluso
che le donne sono «impure»,
perciò devono essere allontanate
dall’altare.
Un’amica della giovane teologa le
chiede: «Ma dopo un fatto del genere
come puoi avere la fede?». Rispose:
«La mia fede sussiste solo nella
certezza che il cristianesimo è qui
tradito da qualcuno!».
La chiesa ha le sue stagioni: è scontato
che siano possibili stasi, involuzioni,
regressi. Nel 1947 l’arcivescovo
di Parigi, card. Emanuele Suhard,
scrisse una lettera pastorale dal titolo
Agonia della chiesa? Il titolo originale
francese è senza punto interrogativo:
Essor ou déclin de l’église.
Abbassamenti di tono o anche
peggio sono sempre possibili. Paolo
VI affermava nei suoi discorsi che il
Concilio Vaticano II non aveva inteso
essere un «uragano» travolgente
né una rivoluzione. Tuttavia avvertiva
che il corpo della chiesa era percorso
qua e là da inquietudine, da
qualche linea di febbre e un po’ da
«spirito di vertigine».
Per amare la mia chiesa, anche
se…, mi è utile riferire la parabola
di Erasmo di Rotterdam (1469-
1536), che Pierre Mesnard traduce in
linguaggio moderno, per meglio indicare
la differenza con Lutero.
«Dai fianchi della sacra Montagna
scaturisce una fonte (termale), così
pura e così salutare che i pregi di tutte
le altre si commisurano soltanto
sulla salubrità di questa. Fontana
unica della salute, da secoli essa ha
attinto sulle rive milioni di pellegrini,
bramosi di ritrovare, grazie ai suoi
effetti miracolosi, la vita autentica.
Ed essi avrebbero senza dubbio rovinato
nel loro entusiasmo tutta la valle,
se una società appaltatrice accreditata,
con tutte le carte in regola, la
chiesa, non avesse fin dall’inizio assunta
la distribuzione e l’impiego terapeutico
delle acque miracolose.
Essa ha captato la sorgente, costruito
uno stabilimento termale,
edificato complessi alberghieri, fatto
venire in numero sufficiente medici
termali, tanto che in cambio di
una modesta decima, i malati sono
ormai accolti e trattati secondo metodi
collaudati.
Ma, durante questi ultimi secoli (è
il rimprovero di Lutero) sembra che
l’istituzione sia un po’ degenerata e
che la compagnia appaltatrice abusi,
per cui i protestanti denunciano la
decadenza radicale della società generante,
reclamano la soppressione
del corpo medico, il diritto di ciascuno
di accedere direttamente alla
sorgente, di bagnarsi a piacere e di
bee fino all’ebbrezza spirituale.
Va da sé che l’assenza di disciplina
trasformerebbe presto la sorgente in
pantano, per non dire peggio…» (P.
MESNARD, Erasmo, la vita, il pensiero,
i testi esemplari, Milano 1971, p.
262).
F accio mio quanto, in modo ugualmente
fantastico, disse il romanziere
Georges Beanos (1888-1948)
in una conferenza tenuta in Algeria
alle piccole sorelle di Charles de Foucauld
nell’autunno del 1947: «Ci sono
bambini che giocano agli adulti.
Potrebbe darsi che a furia di
“giocare ai santi” si finisca col
diventarlo? È buona questa
ricetta? (Beanos riporta
l’esempio di santa Teresa
del Bambino Gesù) come
quello di un ragazzino
che, a furia di far girare un
trenino meccanico, diventa,
quasi senza
pensarci, ingegnere
delle ferrovie o, anche
più semplicemente,
capostazione.
Permettetemi per
un momento che mi
fermi su questo paragone
delle ferrovie. In fondo non lo trovo
così sciocco… Possiamo senz’altro
immaginare la chiesa come una vasta
impresa di trasporti; di trasporti
in Paradiso, perché no? Ebbene, mi
chiedo: che cosa diventeremo noi
senza i santi che organizzano il traffico?
Certo, da duemila anni, questa
compagnia di trasporti ha avuto non
poche catastrofi: arianesimo, nestorianesimo,
pelagianesimo, grande
scisma d’Oriente, Lutero…, per ricordare
solo deragliamenti e scontri
più noti.
Ma senza i santi, ve lo dico io, la
cristianità sarebbe un gigantesco
ammasso di locomotive capovolte,
carrozze incendiate, rotaie contorte
e ferraglia che finisce di arrugginirsi
sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe
più sulla strada ferrata invasa
dall’erba».
In definitiva, prosegue Beanos,
«la chiesa è una casa di famiglia, una
casa patea (Beanos aveva avuto
sei figli, ndr); nelle case di famiglia
c’è sempre un po’ di disordine; le sedie
talvolta mancano di una gamba;
i tavoli sono macchiati d’inchiostro;
le scatole di marmellata si svuotano
da sole nelle dispense».
Nel Diario di un curato di campagna
Beanos è ancora più realista: «Una
parrocchia è forzatamente sporca.
Una cristianità è ancora più sporca.
La chiesa dev’essere una buona massaia,
solida e ragionevole. Ha un
gregge, un vero gregge. È un bestiame
né troppo buono né troppo cattivo:
buoi, asini, bestie da tiro e da lavoro.
E anche caproni. Caproni e pecore.
Il padrone vuole che gli
rendiamo ogni bestia in buono stato».
Èquesta la mia casa di famiglia, di
tutti i giorni, con una moltitudine
di amici e cari ricordi appesi alle
pareti. E poi, come è scritto sull’architrave
di un vecchio palazzo: «Beati
i nostalgici, perché rivedranno le
loro case».
L’Apocalisse ipotizza l’esistenza di
un vangelo eterno, portato da un angelo
e da annunciare agli abitanti
della terra e a ogni nazione, razza,
lingua e popoli (Ap 14,6). Perché
«eterno»? Perché con pagine bianche,
senza figure e senza immagini?
Eteo unicamente se sarà quello che
è, cioè «evangelo» e «buona notizia
». Infatti «alla sera della vita saremo
giudicati unicamente sull’amore
» (CEI, Comunicare il vangelo in un
mondo che cambia, n. 30).

Padre IGINO TUBALDO, missionario
della Consolata, professore in vari
seminari dell’Istituto e diocesani,
è autore di molte pubblicazioni in
campo teologico e storico.

Igino Tubaldo




AFRICA il calcio, una piccola grande risorsa

VITA… IN CONTROPIEDE
Da oltre 20 anni, centinaia di giocatori africani militano in squadre europee:
al di là del business e rischi connessi al mondo del pallone, questi atleti
si stanno rivelando una risorsa preziosa per il futuro del loro continente.
Lo sostengono gli autori di questo articolo, sintesi di una tesi di laurea
su «Lo sviluppo del calcio africano».

Una delle più importanti risorse
del continente nero è,
oggi, lo sport: non solo coraggiosi
e infaticabili maratoneti, anche
validissimi giocatori di calcio.
Negli ultimi anni, infatti, le rappresentative
africane di football hanno
raggiunto risultati invidiabili: primo
posto nelle ultime due olimpiadi, ad
Atlanta 1996 con la spettacolare Nigeria,
a Sydney 2000 con il Camerun
che ha sconfitto clamorosamente la
Spagna e sempre ottimi piazzamenti
nei toei inteazionali giovanili.
Di fronte a queste certezze, la Fifa,
la federazione internazionale di calcio,
ha aumentato i posti per le squadre
africane nella Coppa del mondo,
la massima competizione per squadre
nazionali. Nell’ultima edizione
nippo-coreana (estate 2002), hanno
partecipato Nigeria, Camerun, Tunisia,
Sudafrica e Senegal. La squadra
senegalese, osannata dagli addetti ai
lavori per organizzazione di gioco e
per individualità, è riuscita a eguagliare
il record del Camerun, datato
1990, approdando ai quarti di finale.
Le prime avvisaglie di raggiunta
solidità del calcio africano,
almeno agli occhi degli europei,
si rivelarono proprio nella Coppa
del mondo del 1982, conquistata
dai nostri azzurri. Azzurri che, nel girone
di qualificazione, faticano inaspettatamente
per strappare un pareggio
ai «leoni indomabili» camerunesi,
che mostrano un’incredibile
esuberanza atletica e impressionante
potenza fisica. In quell’edizione
fece bella figura pure l’Algeria, in
grado di sconfiggere il wunderteam
tedesco, che poi raggiunse la finalissima
assieme all’Italia.
L’attenzione per il calcio d’Africa
si fece, quindi, sempre più forte: la
stessa Coppa d’Africa, il toeo per
le nazioni, si scoprì prestigiosa vetrina
per gli osservatori di tutto il mondo
a caccia di giovani promesse.
Anche nel nostro paese, grazie alla
liberalizzazione dei trasferimenti
avvenuta negli anni ‘80, cominciarono
a sbarcare diversi atleti africani. Il
primo fu François Zahoui, ventenne
della Costa d’Avorio, paese che si rivelerà
inesauribile fonte di talenti,
acquistato nel 1981 dal vulcanico
presidente dell’Ascoli, Costantino
Rozzi. Del giocatore si perdettero le
tracce quasi subito.
Stessa sorte subirono molti altri atleti
che in quegli anni arrivarono in
Europa. Erano ragazzi abituati a un
calcio ben differente da quello europeo,
praticato fin da piccoli sulle
strade, a piedi nudi, in condizioni di
assoluta povertà, come sfogo per dimenticare
o nascondere mille problemi.
Pur essendo abili tecnicamente
e abituati a condizioni climatiche
estreme, trovarono difficile
adattarsi ai rigori del calcio business
e relative regole, tatticismi e durissimi
allenamenti. Tutti limiti difficili
da correggere ancora oggi.
Le difficoltà d’ambientamento
di questi atleti, provenienti da
realtà così diverse, che si portano
dietro costumi, usanze, credi, in
molti casi a noi sconosciuti, sono
spesso insuperabili. Il calciatore africano
resta, tuttavia, un atleta forte,
temprato alla sofferenza, adulto
fin da piccolo, disposto ad abbandonare
casa e girare il mondo pur di
coronare il sogno di sfondare nel calcio
che conta.
Citiamo la storia Mohammed Kallon,
pedina importantissima per l’Inter.
Nato a Free Town (Sierra Leone)
e adocchiato giovanissimo dalla
squadra milanese, fu costretto a
passare, ogni anno, da
una squadra all’altra per
«farsi le ossa»: oggi, ancora
ventiduenne e già da quotazione
stratosferica, Mohammed
è un attaccante affidabile,
certamente più freddo di
fronte alla porta, rispetto a
qualche tempo prima.
Ma non tutti hanno la fortuna
di Kallon. I rischi sono
numerosi: si può anche finire nelle
mani di procuratori senza scrupoli,
veri e propri bracconieri, che
strappano i giovani dalla famiglia
per pochi milioni, li portano in Italia
e in Europa e, in caso di rendimento
inferiore alle aspettative, li scaricano
velocemente, lasciandoli magari a lavorare
vicino a un semaforo.
È la cosiddetta piaga dello sfruttamento
dei baby-calciatori, che si crea
quando gli europei cominciano a interessarsi
ansiosamente alle risorse
sportive del continente nero.
Tale sfruttamento può facilmente
fare leva sulla voglia di evadere degli
stessi ragazzi: essi sanno che in Africa
hanno poche possibilità per maturare
e migliorarsi. Le federazioni
africane, dal canto loro, sono spesso
gestite da personaggi divisi da invidia
e ambizioni personali, i quali
sfruttano malamente il denaro ricavato
dalle sponsorizzazioni. Gli stessi
regimi dittatoriali, alla guida di
molti paesi, non favoriscono certo il
libero e armonioso sviluppo delle discipline
sportive e del calcio: molte
convocazioni nazionali sono dettate
da volontà politiche, ad esempio.
Èsempre la stessa storia, un circolo
vizioso: anche l’Africa
del calcio, carente di strutture,
impianti, tecnologie, esperienza,
con allenatori, tecnici e medici ancora
impreparati, avrebbe
bisogno dell’uomo
bianco
per migliorarsi,
evolversi e diventare
più
competitiva.

Ma dell’uomo bianco, purtroppo,
non c’è mai da fidarsi, dato che ha
già tante colpe per la precarietà e instabilità
delle strutture sociali del
continente in generale.
Ci sembra che anche su questa immensa
risorsa dello sport e, in particolare,
del calcio, ci siano violente intromissioni
da parte degli stranieri,
con modalità ancora di tipo colonialista.
Eppure la prima a trae beneficio
dovrebbe essere la stessa Africa.
Anche i presidenti dei più prestigiosi
club africani hanno colpe gravi
ed evidenti, non esitando a vendere,
a cifre modeste, i giocatori più interessanti,
per ingrassare velocemente
le proprie casse, senza aiutare lo sviluppo
generale delle loro città, non
solo calcistico.
Spesso questi personaggi comprano,
a poco prezzo, squadre di serie
A, per poi smembrarle con la svendita
dissennata dei tesserati al resto
del mondo, facendole retrocedere
rapidamente di categoria, fino a farle
morire.
Il calcio, è uno dei più potenti fenomeni
mediatici; ogni evento che
gli è collegato ha una cassa di risonanza
estesissima; ai padroni e grandi
multinazionali di abbigliamento
sportivo (tra l’altro accusate a più riprese
di sfruttare la manodopera infantile
dei paesi in via di sviluppo)
conviene investire anche nelle realtà
più povere, come quella africana.
L’ultima edizione della Coppa
d’Africa ne è un esempio: si è disputata
in Mali, uno fra i dieci stati più
poveri al mondo, grazie a ingenti finanziamenti
francesi e cinesi, che
hanno consentito la costruzione di
imponenti impianti sportivi.
Ma il contatto con la cultura occidentale
è sempre rischioso, conduce
a compromessi pericolosi. È certo innegabile
che l’arrivo di molti allenatori
di stampo europeo nel continente
nero sia un fatto positivo: i nostri
Scoglio, Dossena, Mattè, Bersellini,
per esempio, hanno offerto il proprio
bagaglio di esperienze a squadre della
Tunisia, Ghana, Mali e Libia.
È altrettanto giusto ricordare che
gli stessi giocatori africani, militanti
in Europa, portano esperienza alle
proprie federazioni e squadre nazionali.
Sono centinaia, ormai, i giocatori
africani (camerunesi, nigeriani,
ghanesi, avoriani, senegalesi, tunisini,
marocchini, mozambicani, sudafricani),
insediatisi in Europa e soprattutto
nelle nazioni colonizzatrici,
Francia e Portogallo in testa.
Molti di questi hanno fatto fortuna,
vantano contratti principeschi e,
imitando i loro colleghi europei, reclamano
ricchi premi anche quando
giocano nelle proprie nazionali.
Quando si parla di calcio africano,
quindi, non bisogna fare troppa poesia,
pensando solo ai bimbi scalzi
che tirano calci nelle paludi a palloni
sgonfi. In Africa il calcio ha fatto
molta strada, sebbene difficilmente
potrà raggiungere quello europeo,
semplicemente per questione di risorse.
La stessa Fifa, in questi anni,
ha sprecato capitali in feste ed eventi
allo scopo di sviluppare nuovi progetti
in Africa.
In fondo, però, dobbiamo ammetterlo,
speriamo che questo
tipo di calcio non si occidentalizzi
troppo e conservi quella genuinità
e allegria che sinora lo ha contraddistinto.
Da un certo punto di vista, lo stesso
Senegal, protagonista di questi ultimi
mondiali, può essere criticato
perché, avendo tutte le potenzialità
per andare oltre i quarti, non ci è riuscito
forse per mancanza di ferrea disciplina:
i giocatori sono stati lasciati
troppo liberi nel ritiro e si è lasciato
spazio a feste, balli, cerimoniali.
D’altronde, è proprio grazie a questo
spirito che è riuscito a mostrare il
gioco più spumeggiante e divertente,
rimanendo al tempo stesso tatticamente
molto accorto, come una qualsiasi
nazionale europea dalla lunga
tradizione. E non per caso, dal momento
che quasi tutti i suoi atleti militano
nel campionato transalpino.
Mettendo da parte per un attimo
il calcio-business, vogliamo ricordare
come lo sport, il calcio, contribuiscano
alla realizzazione di progetti in
zone degradate dell’Africa, per lo
sviluppo non solo atletico, ma anche
culturale ed educativo dei ragazzini.
Naturalmente, alcuni di questi
progetti, magari finanziati da blasonati
club europei, non nascondono
l’obiettivo di scovare e allevare campioni
da far sbarcare in Europa; ma
molti altri sono votati alla mera beneficenza.
Gli stessi giocatori africani,
che in Europa hanno fatto fortuna
e miliardi, sono spesso coinvolti
in tali iniziative. Ne è un esempio
George Weah, prodigatosi come attivo
finanziatore, oltre che giocatore-
allenatore, per la propria nazionale,
la Liberia, paese stremato da fame
e da guerra. Anche per questo è
riconosciuto il più grande calciatore
africano di tutti i tempi; più di Roger
Milla che, a 38 anni, a suon di
goals, aveva portato il Camerun ai
quarti di finale nei mondiali del ‘90.
Weah ha fatto vincere tanto al Milan,
da essere insignito del pallone
d’oro, massima onorificenza per un
giocatore che milita in Europa, e diventare
un simbolo dell’espressione
calcistica africana
nel vecchio continente.

Gaetano Farina Malù Mpasinkatu




NONVIOLENZA o, più semplicemente, vangelo…

NON È UTOPIA
Alle radici di una scelta non facile, ma per essere
davvero dalla parte dei più deboli
contro i sotterfugi dei potenti
e l’inganno delle parole.

Per un cristiano le ragioni dell’impegno
nonviolento partono
dalla bibbia. Sennonché i
biblisti presentano enormi differenze
d’interpretazione del testo biblico
circa l’argomento «guerra-pace».
Queste si ripercuotono sul magistero
ecclesiale e sul pensiero cristiano
in genere.

Occorre chiarire i princìpi, per superare
(possibilmente) dubbi e divisioni
che creano scandalo fra cristiani
e anche fra cattolici. Inoltre, è giocoforza
confrontare l’interpretazione
che riteniamo evangelica con
le punte estreme dei pronunciamenti
e comportamenti
cristiani
lungo
la storia, soprattutto
oggi.

MA LA BIBBIA DICE NO
ALLA VIOLENZA?

L’Antico Testamento non offre,
complessivamente, un messaggio di
nonviolenza. Ripetutamente è comminata
la pena di morte ai violatori
della legge; le guerre sono spesso esaltate,
anche se
non mancano esempi
elogiati di
nonviolenza. Lo
stesso futuro messia,
a volte, è presentato
nelle vesti
di un terribile condottiero
di eserciti.
Tuttavia, i profeti maggiori, Isaia e
Geremia, si caratterizzano per la loro
ostilità a soluzioni militari, al punto
da essere perseguitati e minacciati
di morte. In particolare, il messia,
preannunciato
da Isaia come
«servo di
Jahvè», non ha nulla
di militaresco; anzi, è presentato sotto
l’immagine spirituale dell’agnello
che salva, sacrificandosi per amore
dei peccatori: immagine che Gesù
stesso applica esplicitamente a sé,
drasticamente alternativa a quella di
un messia violento (Lc 4,16-21).
In ogni caso, l’Antico Testamento
va interpretato alla luce del Nuovo e
non viceversa. Gesù ha deluso in pieno
le attese del liberatore politico
violento. Non ha formulato la ricetta
antimilitarista: «Soldati di tutto il
mondo, disarmatevi!»; come non ha
dato la ricetta antischiavista: «Schiavi
di tutto il mondo, ribellatevi!». Ha
presentato, tuttavia, una serie di insegnamenti
ed esempi, improntati
all’amore nonviolento, per cui è indubbio
che il vangelo inculca, se non
comanda formalmente, il principio
della nonviolenza.
Nel «discorso della montagna» egli
richiede ai suoi seguaci un amore
straordinario e inedito: «È scritto:
occhio per occhio, dente per dente.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici;
pregate per i vostri persecutori» (Mt
5,44).
L’ingiunzione a Pietro, nel giardino
degli ulivi, «metti via la spada, perché
chi di spada ferisce di spada perisce
» (Mt 26,52), è un altro di quei
pronunciamenti messianici che potrebbe
far pensare a una formula
antimilitarista, come l’ha
interpretata Tertulliano, che
scriveva: «Disarmando Pietro,
il Signore ha disarmato ogni
soldato» (De idolatria).
Per lo meno, non c’è alcun dubbio
sul principio evangelico della
nonviolenza.

EVOLUZIONE O DEVIAZIONE?
L’evoluzione storica del cristianesimo
sul problema di «guerra-pace»
è qualcosa di traumatico. Partendo
dal principio biblico della nonviolenza,
la chiesa dei primi tre secoli,
nella sua prevalenza, se non nella totalità,
ha enucleato la formula antimilitarista:
«Il cristiano non può fare
il soldato». Tale è, ad esempio,
l’affermazione martellante di Massimiliano
di Tebessa (Cartagine) nel
processo del 295 d. C., condannato
a morte per il suo rifiuto del servizio
militare: «Sono cristiano, non posso
fare il soldato!».
E non si tratta di una posizione isolata
del Nord Africa, succube dell’influsso
di Tertulliano; la Traditio Apostolica,
attribuita a Ippolito di Roma,
testimonia che tale prassi vigeva
pure nelle chiese dell’area mediterranea
verso il 215-220: «Il soldato
subalterno non deve uccidere nessuno.
Se riceve un ordine del genere,
non deve eseguirlo e non deve prestare
giuramento. Se non accetta tali
condizioni, sia respinto. Chi ha potere
di vita e di morte sugli altri o il magistrato
di una città, che porta la porpora
come emblema della sua autorità
suprema, deve dare le dimissioni,
altrimenti venga respinto. Il catecumeno
o il fedele che vogliono arruolarsi
e fare il soldato vengano respinti,
perché hanno disprezzato Dio».
In seguito, prima con sant’Ambrogio
di Milano, poi, in modo più compiuto,
con sant’Agostino di Ippona,
verrà formulata la «dottrina della
guerra giusta»: è la cosiddetta «svolta
costantiniana», che prende avvio
dall’imperatore Costantino in poi.
Sennonché, per alcuni permane
una riserva radicale contro gli eserciti
e la guerra (uso omicida della forza),
pur ammettendo un servizio, anche
armato, di polizia (uso non omicida
della forza). Tale distinzione tra
esercito e polizia è pure accennata in
un’interessante presa di posizione del
vescovo Gaetano Bonicelli, a suo
tempo ordinario militare. A proposito
dei cristiani dei primi secoli egli
scriveva: «Già allora si intravedeva
una distinzione fra milizia di pace
(ordine pubblico) e servizio di guerra:
un capitolo interessante e, forse,
in buona parte ancora da scrivere».
A conferma di ciò, vi è la dichiarazione
sorprendente del generale
Bruno Loi, comandante delle missioni
di pace in Libano e Somalia:
«Non si possono mandare gli eserciti
a fare azioni di polizia internazionale.
È un’altra struttura; un’altra
formazione. L’esercito va allo sbaraglio
e il soldato è addestrato a uccidere
e uccidere bene. La polizia non
deve uccidere; anzi, dovrebbe essere
dotata di armi intrinsecamente
non letali». Su questo punto è d’accordo
anche la maggior parte dei pacifisti,
che ammettono un corpo di
polizia internazionale alle dipendenze
di una vera Onu.
Con tutto ciò, l’alternativa sostanziale
agli eserciti e alla guerra non è
la polizia internazionale, bensì la «difesa
popolare nonviolenta». Questa
è snobbata dalla quasi totalità dei politici,
compresi molti cristiani e cattolici.
La nonviolenza non è passività
e nemmeno utopia. I grandi nonviolenti
non sono stati per nulla passivi,
ma hanno scritto pagine storiche
magnifiche. Tragico è, invece, il persistere
della mentalità che solo eserciti
e guerra siano adeguati alla soluzione
di controversie inteazionali.

«DELITTO CONTRO DIO»
È indispensabile e urgente tornare
alla nonviolenza evangelica radicale
dei primi secoli della chiesa. La
civiltà dell’amore esige di bandire totalmente
il «sistema militare» (eserciti-
ricerca-industria-commercio-costi-
eventi bellici). Il mondo è un villaggio
planetario, ancora senza
sindaco né consiglio comunale: un
paese di matti, votato al caos. Occorre
una vera Onu, ossia un parlamento
e governo mondiale, che dettino
un minimo di regole, di giustizia
e di pace al mondo dell’economia
(oggi egemone) e le faccia applicare
con metodi nonviolenti e, in caso estremo,
con il ricorso a un corpo di
polizia internazionale.
Il magistero della chiesa è pure
molto chiaro. La «Gaudium et spes»
del concilio Vaticano II dice: «Siamo
obbligati a considerare l’argomento
della guerra con mentalità completamente
nuova. Ogni atto di guerra,
che indiscriminatamente mira a distruggere
intere città o vaste regioni
e i loro abitanti, è delitto contro Dio
e contro la stessa umanità; con fermezza
deve essere condannato. La
corsa agli armamenti è una delle piaghe
più gravi dell’umanità. La provvidenza
divina esige da noi con insistenza
che ci liberiamo dall’antica
schiavitù della guerra; dobbiamo
sforzarci per preparare quel tempo
nel quale, mediante l’accordo delle
nazioni, si potrà interdire del tutto
qualsiasi ricorso alla guerra. Ciò esige
che venga istituita un’autorità
pubblica e universale. L’umanità, che
già si trova in grave pericolo, sarà forse
condotta funestamente a quell’ora
in cui non altra pace potrà sperimentare
se non la pace di una terribile
morte» (nn. 80-82).
Il Catechismo della Conferenza episcopale
italiana dice: «Abolire la
guerra, il mezzo più barbaro e inefficace
per risolvere i conflitti. Il mondo
civile dovrebbe bandirla totalmente.
Si dovrebbe togliere ai singoli
stati il diritto di farsi giustizia da soli
con la forza, come già è stato tolto
ai privati cittadini e comunità intermedie.
Appare urgente promuovere
nell’opinione pubblica il ricorso a
forme di difesa nonviolenta. Ugualmente
meritano sostegno le proposte
tendenti a cambiare struttura e
formazione dell’esercito, per assimilarlo
a un corpo di polizia internazionale.
La pretesa dei singoli stati
sovrani di porsi come vertice della
società organizzata sta diventando anacronistica.
Si va verso forme di
collaborazione sistematica, si moltiplicano
le istituzioni inteazionali,
si auspicano forme di governo sopranazionale
con larga autonomia
delle entità nazionali».

SEGNALI PERICOLOSI…
Le guerre attuali sono ormai fuori
ogni limite di moralità, anche di quelli
stabiliti dalla pur superata dottrina
della guerra giusta. Va anzitutto notata
la scelleratezza del cosiddetto
«nuovo modello di difesa». In Italia,
«i lineamenti di sviluppo delle forze
armate negli anni ’90», presentati in
parlamento nel 1991 dal Ministero
della difesa, parlano di «concetti strategici
di difesa degli interessi vitali, ovunque
minacciati o compromessi»,
anche fuori dai confini nazionali, abbandonando
il «tradizionale parametro
da chi difendersi, a favore di
una polarizzazione su cosa difendere
e come». Interessi vitali da difendere
ovunque sono «le materie prime, necessarie
alle economie dei paesi industrializzati
», presenti nel Sud del
mondo; l’Europa, e in particolare l’Italia,
avrebbe «il ruolo di ponte politico
ed economico tra l’occidente industrializzato
e il terzo mondo». Più
chiari e più cinici di così!
Altro segnale di militarismo montante
è il ritorno e diffusione di «eserciti
mercenari». Su questa strada
sono incamminati gli «eserciti professionali
» oggi di moda; ma faticano
a trovare volontari adatti alla professione
militare, nonostante le alte paghe,
crediti formativi, privilegi occupazionali
e pubblicità di ogni forma.
I corpi mercenari sono un business
già fiorente: scorte armate nei mari
pericolosi, controllo aereo e addestramento
di eserciti e guerriglie. Tim
Spicer, ex ufficiale inglese e precursore
dei nuovi soldati di fortuna, così
si esprime: «I miei uomini possono
intervenire dove l’Onu non riesce.
Costano meno e sono più bravi».
In base all’accordo-quadro, sottoscritto
a Faborough il 27 luglio
2000 dai ministri della difesa dei
principali paesi europei, il governo
Berlusconi ha approntato un disegno
di legge (n. 1927) per favorire
l’esportazione di armi e diminuie
i controlli previsti dalla legge
185/90, la cosiddetta: «Contro i mercanti
di morte». È in corso una grossa
campagna popolare di pressione
sul parlamento italiano in difesa, appunto,
della legge 185/90.
Ma il superamento di ogni limite
etico e religioso è il rilancio degli armamenti
nucleari, chimici e batteriologici,
in collegamento con la dottrina
Nato del «primo colpo nucleare
» e con l’intenzione dichiarata di
ritenere superati gli accordi di disarmo
su tali ordigni: dal momento che
si possiedono, si è pronti a usarli.
Le potenze nucleari hanno fatto di
tutto per costringere gli altri paesi a
sottoscrivere un «patto di non proliferazione
» di tali armi, ma non hanno
mai accettato di attuare un contemporaneo
disarmo, ripetutamente
richiesto in sede Onu dalla stragrande
maggioranza degli stessi paesi.
Anni fa, il parlamento francese ha
approvato una legge che autorizza il
governo all’uso della «force de frappe
», cioè l’atomica, per difendere gli
interessi vitali della nazione in qualsiasi
parte del mondo. Il giornale cattolico
La Croix, nel dae notizia,
non ha accennato a riserve di sorta
circa l’uso di tali ordigni nucleari!
L’attuale politica del governo italiano
mostra tutta la sua incongruenza:
da un lato è entrata in guerra
contro il terrorismo; dall’altro,
vuole abolire la legge 185/90 per incrementare
il commercio delle armi.
Anzi, il ministro della difesa, Martino,
propone la diffusione capillare
delle armi per l’autodifesa dei singoli
cittadini. Non si agevola, in tal modo,
pure il riarmo del terrorismo?
Anche le formule apparentemente
innovative, come «legittima difesa,
ingerenza umanitaria, ecc.», senza
i suddetti chiarimenti vengono
strumentalizzate per giustificare
qualsiasi guerra, come afferma il moralista
Enrico Chiavacci: «In pratica,
qualunque causa, giusta o ingiusta, è
potuta entrare in questo schema e il
clero ha sempre pregato per la vittoria
del proprio glorioso esercito».
È ora di voltare pagina e tornare,
senza compromessi, alla
nonviolenza evangelica
dei primi secoli della chiesa.

Angelo Cavagna




LICTO (ECUADOR) di fronte al Chimborazo

PRIMO AMORE

Un giovane missionario della Consolata
racconta la sua prima esperienza in Ecuador,
fatta di ascolto e tante domande, per imparare
e inserirsi in un mondo tutto nuovo.

Il mio trasferimento da Bogotá a
Licto era dettato da necessità organizzativa:
aiutare il padre Agostino
Baima, rimasto solo, mentre
il parroco, padre Giuseppe Ramponi,
si trovava in vacanza in Italia.
È la mia prima esperienza missionaria
«ufficiale». L’impatto con il
nuovo ambiente è stato positivo anche
se non facile.
Il Chimborazo è una regione geograficamente
montuosa, abitata
prevalentemente da popolazioni
indigene. Deve il suo nome all’omonimo
vulcano, spento, di 6.300
metri di altezza, che domina la capitale
della regione, Riobamba.
Le due missioni affidate ai missionari
della Consolata, Licto e Punin,
distano rispettivamente 17 e 10 chilometri
dal capoluogo e si trovano a
quasi 3.000 metri di altitudine.
La parrocchia di Licto si compone
di un paesino di circa 900 abitanti
e 31 comunità, piccoli villaggi disseminati
sulla sierra andina, per un
totale di 13.700 anime.
Ogni «iglesia viva», come vengono
definite in tutta la diocesi le piccole
comunità cattoliche, ha la propria
cappella, indispensabile per la
promozione di iniziative comunitarie
e organizzazione della vita umana,
sociale e religiosa della gente.
Necessaria, soprattutto, per rafforzare
il senso di unità e identità: senza
la cappella i cattolici si troverebbero
spaesati, dal momento che la
maggioranza degli indigeni del
Chimborazo è stata convertita al
protestantesimo, secondo un nutrito
catalogo di denominazioni. Una
realtà da tenere presente nel lavoro
missionario, a volte molto delicata e
non scevra di conflitti.
Licto è il centro motore delle attività
di tutta la parrocchia. Qui vengono formati uomini e, più raramente,
donne per essere catechisti,
leaders e responsabili di comunità. Il
loro ruolo è indispensabile, sia come
tramite di collegamento tra parroco
e gente, tra chiesa e cultura locale.
Licto, infatti, cura anche la parrocchia
di Flores e alcune delle sue
comunità; il missionario non può essere
presente nelle varie cappelle più
di una volta al mese. Sono questi laici
che organizzano la catechesi, riuniscono
la comunità per la liturgia
della parola e attendono ai vari problemi
ed esigenze delle iglesias vivas.
Buona parte del lavoro missionario
è dedicato all’istruzione
e formazione della persona,
affinché la gente riesca a vivere in
modo armonico il conflitto, sovente
drammatico, fra culture. Da un lato
sopravvive l’insieme delle tradizioni
che àncora individuo e comunità a
un passato di dipendenza; dall’altro,
a pochi chilometri, il mondo moderno
corre a mille all’ora, isolando o
stritolando chi non riesce a mettersi
al passo.
La gente vive del poco che produce
nei campi (mais, segale, patate, fave)
e di qualche animale che alleva e
vende, di solito per molto meno del valore
reale, al mercato di Riobamba
o Licto.
Fino ad alcuni anni fa la gente sopravviveva
moderatamente felice;
oggi è molto più povera, con gravi
problemi di sanità, igiene, istruzione.
I bambini sono lo specchio di tale
situazione. Sono tanti; si divertono
con poco; si entusiasmano per
due caramelle che regaliamo nelle
nostre visite. Mancano loro i termini
di paragone: le esche abbaglianti
della città, con le offerte, spesso devianti,
di felicità.
È quanto capita, invece, tra gli adulti.
Il contatto con altre realtà crea
nuovi bisogni, sovente non primari,
ma che diventano impellenti per chi
ha sempre avuto poco. Manca un
servizio sanitario; l’acqua non arriva
gratuitamente a tutti; nei giorni di
pioggia le stradicciole che collegano
le frazioni alla strada principale diventano
impraticabili.
Povertà e isolamento provocano e
ingigantiscono il fenomeno della migrazione,
privando le comunità degli
uomini più validi, che vanno a ingrossare
il già cospicuo numero di
gente che sopravvive nelle enormi favelas
di Quito e Guayaquil.
Da alcuni anni il fenomeno migratorio
investe anche i bambini. Sono
molti quelli che scendono a Riobamba o finiscono per le strade di Guayaquil
per guadagnare qualche soldo,
quasi sempre come lustrascarpe.
Tale migrazione giovanile è causata
principalmente dalla mancanza di
scuole e ha come conseguenza il distacco
dalla famiglia e dall’ambiente,
con grave perdita di radici e valori
culturali e cristiani.
Per questo la parrocchia di Licto
pone come priorità l’organizzazione
scolastica nelle comunità della sierra
ed è impegnata a promuovere e sostenere
scuole elementari e secondarie,
statali e aconfessionali, in modo
che i giovani non siano costretti a
scendere a valle in tenera età, ma ricevano
un’adeguata formazione per
affrontare il futuro senza perdere i
valori appresi in seno alla famiglia e
alla comunità.
Non è facile spiegare il dramma
di questa gente, la cui vita,
radicata in una cultura secolare,
deve innestarsi sul ceppo della
storia attuale del paese, delle sue
scelte politiche ed economiche.
In Ecuador si trovano in sintesi le
varie crisi che stanno sconvolgendo
il continente latinoamericano. Tracollo
economico dell’Argentina, tensioni
sociali di Uruguay e Paraguay,
proteste per l’infelice situazione economico-
politica del Venezuela,
dramma politico e sociale della Colombia
si ripercuotono negativamente
anche su questo relativamente
piccolo paese sudamericano, dalle
mille potenzialità non sfruttate o
sfruttate da altri.
Le scelte dei potenti, il condizionamento
delle multinazionali, l’enorme
indebitamento esterno, l’endemica
corruzione (l’Ecuador è il
paese più corrotto dell’America Latina
dopo il Paraguay), la dollarizzazione
della moneta e conseguente
aumento del costo della vita… tutto
fa sì che la gente debba arrangiarsi a
vivere alla giornata. In realtà, per
molti vivere significa sopravvivere.
In questa minuscola scheggia dell’ingranaggio
mi sono inserito
anch’io, con discrezione e voglia
d’imparare in questa mia prima esperienza
missionaria.
Cosa ho fatto in questi mesi è presto
detto. Mi sono guardato intorno,
ho ascoltato, preso appunti, fatto
domande, tante, alcune forse anche
stupide, ma tutte utili per meglio inserirmi
nella nuova situazione.
Uno degli ostacoli maggiori è stato,
ed è tuttora, quello delle lingue.
Al mio arrivo in Colombia non mi è
stato possibile studiare a fondo lo
spagnolo. E questo mi ha complicato
non poco l’esistenza, anche se ho
recuperato piano piano e ora me la
cavo con soddisfazione.
Compito primario della mia presenza
in Ecuador era quello di lavorare
nel centro cittadino di Licto, seguendo
la catechesi dei ragazzi e l’animazione
dei giovani. Un contatto,
quindi, prevalente con il mondo di
lingua spagnola, composto da meticci
e indigeni più «urbanizzati» (le
virgolette sono d’obbligo).
Padre Agostino, tuttavia, mi ha avvicinato
alle comunità della sierra,
che si esprimono quasi esclusivamente
in quichua, una specie di lingua
franca parlata in tutte le regioni
andine anticamente dominate dagli
incas. L’apprendimento di questo idioma
costituisce una sfida per
chiunque voglia inserirsi e lavorare
nel mondo indigeno.
Pur non avendo affrontato di petto
lo studio del quichua, dal momento
che il Chimborazo non era il
campo definitivo della mia vita missionaria,
ho imparato quanto basta
per estendere la mia attività ad alcune
comunità indigene, celebrarvi
l’eucaristia, leggendo le parti della
messa nel loro idioma e spiegando la
parola di Dio con la traduzione del
catechista.
Il mio trasferimento in Ecuador
era «aperto», nel senso che lasciava
margini per un eventuale definitivo
inserimento nel lavoro missionario
in questo luogo. E già cominciavano
ad aprirsi altre possibilità di lavoro:
richiesta di dare qualche lezione settimanale
di filosofia nel seminario di
Riobamba e di occuparmi di pastorale
giovanile a livello diocesano: il
Signore sa quanto ce ne sia bisogno
e quanto mi sarebbe piaciuto.
Ma con il ritorno del parroco a
Licto, dovrò tornare in Colombia,
per lavorare, come previsto dalla prima
destinazione, nelle comunità del
Cauca. Vi andrò con lo stesso spirito
che mi ha guidato in Ecuador: curiosità,
voglia di imparare e crescere
nel mio cammino di fede e dedizione
alla missione. Tuttavia, lascio il
Chimborazo con tanta nostalgia:
il primo amore non
si può scordare.

Ugo Pozzoli