PERÙ storie di immigrazione dal Sud del mondo

E NULLA
LI POTRÀ FERMARE
Arrivano travestiti da turisti o da uomini d’affari. Chi non può, attraversa
a piedi le frontiere. Spesso hanno un titolo di studio, che non possono
utilizzare. Si adattano a qualsiasi lavoro, vivendo nell’ombra, in attesa
di tempi migliori. Ora la legge Bossi-Fini è entrata in vigore, ma né
le frontiere né le leggi fermeranno chi non ha niente da perdere.

Tanti anni fa mi chiamarono
per andare a visitare
una persona anziana.
La donna era diabetica,
con una gamba amputata e aveva
problemi cardiaci. Morì
dopo pochi mesi. Si chiamava
Elena Rossi ed era nata a Genova.
L’unica cosa particolare
di questo breve e sbiadito ricordo
è il luogo.
La signora Elena viveva in una
decrepita catapecchia di esteras,
plastica e cartoni nel deserto
su cui si stava sviluppando
Villa El Salvador, alla
periferia estrema di Lima, in
Perù.
Poco distante, a Tablada de
Lurin, avevo avuto modo di
sorridere alla visione di una casa
che con il tempo era diventata
parte del paesaggio. Si
trattava di una casetta normale,
se si esclude la particolarità
di un cancello sormontato da
un grande ponte di Rialto, in
cemento armato, che fungeva
da trave. Non era una grande
opera. Anzi, direi che era di
cattivo gusto. Il proprietario
della casa – mi avevano raccontato
– era un orologiaio italiano che lavorava in una baracchetta
alla chancheria, il mercato centrale
di Villa El Salvador. Era fuggito
dall’Italia alla caduta del fascismo.
Se questi erano gli emigrati nostrani
che non avevano sfondato, Lima
invece è piena di segni del passaggio
di italiani. Una delle scuole
straniere più famose della capitale è
l’istituto italiano Raimondi, il dolce
tipico di natale è il panettone, si
mangiano spaghetti Molitalia e Nicolini,
i gelati principali portano il
nome D’Onofrio e – cosa scandalosa
per noi, ma devo dire molto appetitosa
– un piatto tipico di Lima è il
«musciame». Il musciame, vietatissimo
in Italia, è di origine genovese
(con lo stesso nome) e lo si può incontrare
ancora in ristorantini di
Chorrillos e Baranco. Si tratta di
«sfilaccetti» di delfino secco, conditi
con limone, e che a Lima ti servono
con fettine di avocado (assomigliano,
ma con un sapore più forte,
alla bresaola).
Insomma, a Lima ed in Perù, gli italiani
per lo più hanno sfondato eccetto
la signora Rossi di Genova, l’orologiaio
del ponte di Rialto ed il
mio amico Carlos Tozzi.

«NIENTE VISTO,
RIPROVI FRA TRE MESI»

Carlos è della selva, di Lamas, vicino
a Tarapoto. Il suo cognome,
Tozzi, è tipicamente italiano e lui si
arrabbia se lo chiamiamo charapa,
come vengono soprannominati gli
indigeni della zona. Ci ricorda infatti
che suo padre era maestro, che
vivevano nella «Plaza de armas» di
Lamas e che ha lontane origini italiane.
Carlos è una persona normale. Vive
a Villa El Salvador, possiede un
piccolo commercio di elettronica e,
fra gli alti e i bassi della sua attività,
si è dovuto far carico dei fratelli che
ha preso a lavorare con lui.
I fratelli sono cresciuti, ma il paese
(sempre in crisi economica) non
ha permesso a Carlos di sviluppare
il suo piccolo commercio. I fratelli,
insoddisfatti dello stipendio, hanno
cominciato a pensare di emigrare e
Carlos, spinto dalle pressioni della
famiglia, si è trovato a dover organizzare
e finanziare questo viaggio
della speranza.
Già un fratello di sua moglie era emigrato in Italia da alcuni anni, raggiungendo
la fidanzata (partita prima
di lui) e, quindi, una base di esperienza
già c’era. Il cognato di
Carlos, dopo quasi 10 anni di clandestinità
passata come cameriere in
una casa di lusso dell’Olgiata a Roma,
era riuscito ad ottenere il visto.
Ora, quando torna in Perù, prende
la famiglia ed offre loro un viaggio
in una zona turistica: non ne vuole
più sapere della povertà della periferia
di Lima. Si è comprato una casa
a Roma che affitta, per stanza, ad
altri peruviani. E lui continua a vivere
e lavorare all’Olgiata.
Un anno fa dissi a Carlos che non
ce l’avrebbe fatta a mandare i suoi
due fratelli in Italia, perché i controlli
erano rigorosi ed i visti quasi
impossibili. I due fratelli sono invece
tranquillamente nel nostro paese.
Clandestini, lavorano in nero e spediscono
soldi in Perù.
Bossi, Fini e Berlusconi hanno fallito
con i miei amici peruviani.
Grazie invece al nostro governo e
al Consolato italiano di Lima, non
sono riuscito a far viaggiare, per un
mese di vacanza in Italia, la mia figlioccia
che, finite le superiori, si era
iscritta a medicina a Lima. Sua
madre, professoressa universitaria
peruviana, è stata respinta dal Consolato,
pur potendo dimostrare il
suo stipendio (decente per il Perù,
anche se indecente per l’Italia), l’iscrizione
in un’università privata
della figlia e la mia lettera d’invito,
nella quale mi facevo carico dell’alloggio
e di ogni possibile spesa. Le
hanno detto: «Niente visto, riprovi
fra tre mesi… Fate tutti così e poi rimanete
in Italia».
Allora come ce l’hanno fatta i fratelli
di Carlos?

LA DISPERAZIONE
AGUZZA L’INGEGNO

Come ce la fanno le altre migliaia
di peruviani che viaggiano in Europa
e rimangono come clandestini?
(Si parla di 30.000 passaporti nuovi
emessi ogni mese in Perù e… certo
non per turismo).
I metodi sono tanti e vengono accuratamente
scelti in base alle caratteristiche
delle persone e delle variazioni
che si osservano nei paesi
europei.
Me ne hanno raccontati alcuni.
IL RICCO TURISTA
Si compra un tour, alberghi compresi,
per andare a visitare la Terra
Santa. Il viaggio prevede però una
sosta ad Amsterdam di due giorni,
perché non vi sono coincidenze immediate.
Viene rilasciato il «visto
Schengen» (vi aderiscono 15 paesi
europei, ndr) per la sosta, si va all’albergo
prenotato nella città olandese,
ci si riposa e, dopo una bella
doccia, si prende il primo aereo per
Roma. Arrivati alla dogana, ti chiedono
il perché di questa deviazione.
Rispondi che, avendo due giorni di
tempo, ne approfitti per visitare anche
il papa. Poi, fuori dell’aeroporto,
c’è qualcuno che ti aspetta. Lo
segui in silenzio fino alla macchina e
quindi sparisci.
IL MANAGER
Si sa che un manager deve poter
viaggiare e che il «negozio» non ha
frontiere. Il problema è che non tutti
sono manager. Bisogna allora scegliere
una piccola società (basta un
negozietto) che abbia la sede in un
buon quartiere di Lima (Miraflores
e San Isidro sono i più gettonati). Si
nomina la persona candidata a trasformarsi
in «emigrante clandestino» direttore generale. Con un documento
falso si dimostra l’elevato
stipendio dello stesso, e si chiede il
visto per un viaggio di affari.
Nel Consolato di uno dei paesi
Schengen (il paese viene cambiato
a seconda dell’aria che tira e ultimamente
mi dicono che venga utilizzata
spesso la Grecia) si ottiene il
visto e poi, arrivati in Europa, si
sparisce.
L’AVVENTUROSO
Forse questo modo di viaggiare è
meno caro degli altri. Conosco una
ragazza che è andata a lavorare a Milano,
passando per la Croazia e di là,
via terra, in Italia. Un altro è partito
per il Marocco e, non so per quali
vie, è arrivato in Italia.

VITA DA CLANDESTINO
Che fanno il ricco turista, il manager,
l’avventuroso una volta arrivati
in Italia?
Appoggiati da contatti in loco
(spesso familiari), un lavoro in nero
lo riescono a trovare. Di frequente
nelle case (i camerieri e le cameriere
peruviani sono molto apprezzati), in
piccole e medie imprese (ne conosco
uno che lavora in nero in una
concessionaria di una grossa società
di automobili). Ne ho conosciuto un
altro, che è riuscito a sposarsi con una
postina italiana di un’isola della
laguna di Venezia.
In Italia bisogna rigare dritto. La
vita deve essere tutta casa e lavoro,
evitare assembramenti, i locali dove
si riuniscono i peruviani, non creare
problemi, arrangiarsi se si sta male
e attendere l’occasione per diventare
regolare.
Carlos mi diceva che non capiva
perché i suoi fratelli se ne andassero
a cercare fortuna altrove. In fondo
un lavoro ce l’avevano e bastava aspettare
che l’economia si riprendesse
per migliorare la loro condizione
economica. Mi confessava che
non capiva come uno che avesse un
certo livello di studio, una certa responsabilità
nella gestione di una
piccola impresa, moglie e figli, decidesse
di abbandonare tutto per andare
a cambiar gomme alle auto o a
pulire i gabinetti di qualche ricca famiglia
italiana.
Poi però, riflettendo, confessava
che mentre suo cognato, pulendo i
cessi in Italia, era riuscito a comprarsi
un’auto e una casa a Roma, a
tornare a Lima ogni due anni e a fare
il signore, lui laureato ed impresario
in Perù stentava a tirare avanti.
«Questo è il problema – mi spiegava
– i nostri emigrati sono giovani
che hanno perso la speranza di un
futuro nel proprio paese». Quello
che cercano in Italia e in Europa è la
prospettiva di un domani diverso e
per questo sono disposti a pagare un
prezzo pesante: abbandonano mogli
o mariti, figli, affetti, dignità professionale,
ed accettano qualunque
lavoro.
«Un eventuale fallimento – mi diceva
Carlos -, la possibilità di un’espulsione,
l’andare come clandestini,
il pagare 5.000 dollari per viaggiare,
la vita di segregazione nei
vostri paesi, sono il prezzo da pagare
nella ricerca di una speranza e
quindi non sono un vero ostacolo».

ANDATA E RITORNO
Basta sedersi davanti alla mia casa
a Villa e parlare con i vicini per capire
molte cose e ascoltare tante storie.
L’Argentina sicuramente è stata una
tragedia per i peruviani. Un giorno
José bussò a casa e, con grande
vergogna, ci chiese 10 dollari. Sua
madre, in fuga dal disastro dell’Argentina,
era rimasta bloccata con il
pullman di linea a causa di una gran
nevicata su un alto passo ai confini
fra Argentina e Bolivia. Non aveva i
soldi per mangiare e se li era fatti
prestare da una compagna di viaggio.
Era partita solo un anno prima,
sbagliando i calcoli e trovando
un’Argentina senza possibilità di
darle un lavoro.
Roberto, ragazzo intelligente ed
inquieto, era riuscito a lavorare come
portiere in un’impresa televisiva
a Buenos Aires. Si era fatto raggiungere
dalla fidanzata e aveva messo su
casa. Poi il disastro argentino, il lavoro
perso e il ritorno a casa, a Villa
El Salvador. Ora vaga per il quartiere,
ben vestito, insoddisfatto della
povertà che lo circonda e pronto a
ripartire. Questa volta però per
l’Europa.
Gli Stati Uniti sono un’altra meta
desiderata e sognata.
La famiglia del farmacista Juan ha
mollato tutto. Prima un figlio in
Francia, poi anche l’altra figlia, infine
loro due, marito e moglie, li hanno
raggiunti, ma Eduardo no. Lui era
stato sempre un ribelle, elegante
e affascinante. Si era comprato una
bella macchina: aveva lavorato come
guardia del corpo in Perù e non
voleva andarsene. Poi qualche problema
con la coca, i primi figli, la crisi economica sempre più profonda
e la decisione di andare (anche lui!)
negli Stati Uniti. Un lavoro da scaricatore
(non riesco ad immaginarmi
questo ragazzo elegante e ribelle a
scaricare camion). Poi, con l’11 settembre,
l’impresa è stata colpita dalla
crisi, ma lui ha resistito, pur avendo
perso il lavoro. È riuscito a trovae
un altro e a chiamare moglie e
figli che poco tempo fa sono partiti
da Villa El Salvador per raggiungerlo
negli Stati Uniti.
Potrei ancora raccontarvi del difficile
anno di Sara a Milano, clandestina
e prigioniera in una casa borghese,
dove lavorava per una piccola
mancia quotidiana: schiava e
prigioniera. Una bella ragazza di poco
più di vent’anni, figlia di un amico
di Villa El Salvador, che mi aveva
pregato di aiutarla. Gli avevo
spiegato che non potevo fare granché,
ma gli avevo dato il mio indirizzo
e il numero di telefono per ogni
possibile problema.
Ogni tanto Sara mi telefonava. Si
sfogava, mi raccontava di come era
maltrattata e di come non poteva
reagire, perché minacciavano di denunciarla.
Non ce la fece a resistere
e toò in Perù. Adesso sta bene: si
è sposata ed è tornata serena. Ma
non vuole parlare di quell’anno trascorso
in Italia.

«PERÒ VIVONO»
Ci sono anche persone più fortunate.
Maria che si è sposata con un
francese e ora vive a Parigi; Feando
e Jorge che si sono sposati con
due spagnole e adesso vivono a Madrid
uno e a Barcellona l’altro. Certo
le loro parole sono piene di nostalgia
e i loro lavori non sono al livello
della preparazione e capacità.
Però vivono.
Specialmente Jorge è rimasto
sconvolto dallo scoprire la povertà.
Piangendo l’ho sentito raccontare la
povertà della vita e della morte dei
suoi genitori, della tubercolosi di un
suo fratello. Era la sua stessa povertà,
ma l’ha scoperta vivendo in
Spagna. Sono stato a casa sua a
Barcellona, bella, modea, con
tutto il necessario, ben diversa
dalla casetta della sua famiglia a
Villa El Salvador. Jorge è triste
e rimpiange la sua gente. Ma
non toerà.
Se solo potessi raccontarvi la
storia di Feando che in Perù
sognava di essere giornalista.
Ma non posso, perché neanche
lui vuole raccontarla. La conosco solo
grazie a due notti passate nella
stessa stanza d’albergo a Barcellona,
a qualche bicchiere di birra bevuto
insieme passeggiando per las Ramblas
e ad una parte di storia vissuta
con lui nel ruolo di «complice».
Ha attraversato le frontiere di
mezza Europa nascosto nel bagagliaio di un’automobile, venduto
palloncini nel Parque del Retiro di
Madrid, mangiato nelle mense dei
poveri, dormito agli angoli delle
strade. Ha fatto il «vu’ cumprà», e
poi lentamente è risalito per la china
di una vita che si è dovuto conquistare
palmo a palmo, fino ad iscriversi
all’università, a lavorare
come giornalista in un grosso periodico
di Madrid, e poi, perso il lavoro
per una crisi del giornale, a riciclarsi
come assistente di anziani.
Con lui sono in contatto settimanalmente
per E-mail.

CHI TROVA
LE FRONTIERE APERTE?

Chissà quale sarà la storia delle
persone che incontriamo quotidianamente
e che, genericamente, cataloghiamo
come «extracomunitari
». Sarà simile a quelle dei miei amici?
Una volta, nella bella città dove vivo,
Venezia, ero andato a comprare
il latte con mio figlio di 5 anni. Dentro
il negozio, c’era un grande, grosso
e nero «vu’ cumprà». Quella volta
non riuscì a trattenere un largo
sorriso di fronte a mio figlio e mi disse:
«Nel mio paese facevo il maestro,
i bambini sono belli in tutto il mondo
»! e se ne andò via con il suo borsone
pieno di borse contraffatte,
senza aspettare una mia risposta che
peraltro non avevo.
I transessuali peruviani viaggiano
tranquillamente e costantemente fra
Lima e Milano, dove svolgono il loro
«apprezzato» (inutile negare l’evidenza)
commercio e da Milano
portano l’Aids in Perù insieme a
manciate di soldi (tre di loro erano
nei sedili posteriori del volo Iberia
che a giugno mi riportava in Europa).
I commercianti di droga, le mafie
della prostituzione, i delinquenti incalliti
di tanti paesi possiedono ottimi
visti e per loro le frontiere sono
sempre aperte.
Come spiegare queste cose a Pamela,
la mia figlioccia di 17 anni?
Lei mi disse con candido stupore
che non capiva. Non capiva perché
io potevo viaggiare quando volevo
in Perù ed invece lei era respinta dall’Italia
per il suo sogno di una vacanza
promessa da tanti anni.
Aveva scoperto quella stupida e inutile
ingiustizia che le peserà per
tutta la vita (perché io sempre sarò
europeo e libero e lei peruviana e
prigioniera).

L’ILLUSIONE
DI CONTROLLARE IL MONDO

I ragazzi alla ricerca di una speranza
viaggeranno comunque. Passeranno
per il Marocco, la Slovenia,
la Turchia, la Grecia. Saliranno su
carrette del mare. Attraverseranno
le frontiere nascosti in camion o nei
bagagliai delle auto e, se verranno
trovati, saranno espulsi, ma sicuramente
ci riproveranno. E, quando
saranno vecchi, lo faranno i figli e
poi i figli dei figli.
No, Bossi, Fini e Berlusconi e la
maggioranza dei miei compaesani si
stanno illudendo. Le frontiere non
bloccano chi non ha niente da perdere
e cerca solo una speranza per
il proprio futuro. E non bastano pochi
aiuti ai loro paesi per evitare la
loro migrazione, perché – contrariamente
a quanto si crede – non sono
gli affamati che tentano l’avventura.
Bensì tutti quelli che nel loro paese
non hanno una speranza di un futuro
diverso.
Sono proprio loro, questi giovani
senza speranza, pericolosi, fastidiosi
immigrati che vengono a sconvolgere
le nostre illusioni
di poter controllare
il mondo.

Guido Sattin