LICTO (ECUADOR) di fronte al Chimborazo

PRIMO AMORE

Un giovane missionario della Consolata
racconta la sua prima esperienza in Ecuador,
fatta di ascolto e tante domande, per imparare
e inserirsi in un mondo tutto nuovo.

Il mio trasferimento da Bogotá a
Licto era dettato da necessità organizzativa:
aiutare il padre Agostino
Baima, rimasto solo, mentre
il parroco, padre Giuseppe Ramponi,
si trovava in vacanza in Italia.
È la mia prima esperienza missionaria
«ufficiale». L’impatto con il
nuovo ambiente è stato positivo anche
se non facile.
Il Chimborazo è una regione geograficamente
montuosa, abitata
prevalentemente da popolazioni
indigene. Deve il suo nome all’omonimo
vulcano, spento, di 6.300
metri di altezza, che domina la capitale
della regione, Riobamba.
Le due missioni affidate ai missionari
della Consolata, Licto e Punin,
distano rispettivamente 17 e 10 chilometri
dal capoluogo e si trovano a
quasi 3.000 metri di altitudine.
La parrocchia di Licto si compone
di un paesino di circa 900 abitanti
e 31 comunità, piccoli villaggi disseminati
sulla sierra andina, per un
totale di 13.700 anime.
Ogni «iglesia viva», come vengono
definite in tutta la diocesi le piccole
comunità cattoliche, ha la propria
cappella, indispensabile per la
promozione di iniziative comunitarie
e organizzazione della vita umana,
sociale e religiosa della gente.
Necessaria, soprattutto, per rafforzare
il senso di unità e identità: senza
la cappella i cattolici si troverebbero
spaesati, dal momento che la
maggioranza degli indigeni del
Chimborazo è stata convertita al
protestantesimo, secondo un nutrito
catalogo di denominazioni. Una
realtà da tenere presente nel lavoro
missionario, a volte molto delicata e
non scevra di conflitti.
Licto è il centro motore delle attività
di tutta la parrocchia. Qui vengono formati uomini e, più raramente,
donne per essere catechisti,
leaders e responsabili di comunità. Il
loro ruolo è indispensabile, sia come
tramite di collegamento tra parroco
e gente, tra chiesa e cultura locale.
Licto, infatti, cura anche la parrocchia
di Flores e alcune delle sue
comunità; il missionario non può essere
presente nelle varie cappelle più
di una volta al mese. Sono questi laici
che organizzano la catechesi, riuniscono
la comunità per la liturgia
della parola e attendono ai vari problemi
ed esigenze delle iglesias vivas.
Buona parte del lavoro missionario
è dedicato all’istruzione
e formazione della persona,
affinché la gente riesca a vivere in
modo armonico il conflitto, sovente
drammatico, fra culture. Da un lato
sopravvive l’insieme delle tradizioni
che àncora individuo e comunità a
un passato di dipendenza; dall’altro,
a pochi chilometri, il mondo moderno
corre a mille all’ora, isolando o
stritolando chi non riesce a mettersi
al passo.
La gente vive del poco che produce
nei campi (mais, segale, patate, fave)
e di qualche animale che alleva e
vende, di solito per molto meno del valore
reale, al mercato di Riobamba
o Licto.
Fino ad alcuni anni fa la gente sopravviveva
moderatamente felice;
oggi è molto più povera, con gravi
problemi di sanità, igiene, istruzione.
I bambini sono lo specchio di tale
situazione. Sono tanti; si divertono
con poco; si entusiasmano per
due caramelle che regaliamo nelle
nostre visite. Mancano loro i termini
di paragone: le esche abbaglianti
della città, con le offerte, spesso devianti,
di felicità.
È quanto capita, invece, tra gli adulti.
Il contatto con altre realtà crea
nuovi bisogni, sovente non primari,
ma che diventano impellenti per chi
ha sempre avuto poco. Manca un
servizio sanitario; l’acqua non arriva
gratuitamente a tutti; nei giorni di
pioggia le stradicciole che collegano
le frazioni alla strada principale diventano
impraticabili.
Povertà e isolamento provocano e
ingigantiscono il fenomeno della migrazione,
privando le comunità degli
uomini più validi, che vanno a ingrossare
il già cospicuo numero di
gente che sopravvive nelle enormi favelas
di Quito e Guayaquil.
Da alcuni anni il fenomeno migratorio
investe anche i bambini. Sono
molti quelli che scendono a Riobamba o finiscono per le strade di Guayaquil
per guadagnare qualche soldo,
quasi sempre come lustrascarpe.
Tale migrazione giovanile è causata
principalmente dalla mancanza di
scuole e ha come conseguenza il distacco
dalla famiglia e dall’ambiente,
con grave perdita di radici e valori
culturali e cristiani.
Per questo la parrocchia di Licto
pone come priorità l’organizzazione
scolastica nelle comunità della sierra
ed è impegnata a promuovere e sostenere
scuole elementari e secondarie,
statali e aconfessionali, in modo
che i giovani non siano costretti a
scendere a valle in tenera età, ma ricevano
un’adeguata formazione per
affrontare il futuro senza perdere i
valori appresi in seno alla famiglia e
alla comunità.
Non è facile spiegare il dramma
di questa gente, la cui vita,
radicata in una cultura secolare,
deve innestarsi sul ceppo della
storia attuale del paese, delle sue
scelte politiche ed economiche.
In Ecuador si trovano in sintesi le
varie crisi che stanno sconvolgendo
il continente latinoamericano. Tracollo
economico dell’Argentina, tensioni
sociali di Uruguay e Paraguay,
proteste per l’infelice situazione economico-
politica del Venezuela,
dramma politico e sociale della Colombia
si ripercuotono negativamente
anche su questo relativamente
piccolo paese sudamericano, dalle
mille potenzialità non sfruttate o
sfruttate da altri.
Le scelte dei potenti, il condizionamento
delle multinazionali, l’enorme
indebitamento esterno, l’endemica
corruzione (l’Ecuador è il
paese più corrotto dell’America Latina
dopo il Paraguay), la dollarizzazione
della moneta e conseguente
aumento del costo della vita… tutto
fa sì che la gente debba arrangiarsi a
vivere alla giornata. In realtà, per
molti vivere significa sopravvivere.
In questa minuscola scheggia dell’ingranaggio
mi sono inserito
anch’io, con discrezione e voglia
d’imparare in questa mia prima esperienza
missionaria.
Cosa ho fatto in questi mesi è presto
detto. Mi sono guardato intorno,
ho ascoltato, preso appunti, fatto
domande, tante, alcune forse anche
stupide, ma tutte utili per meglio inserirmi
nella nuova situazione.
Uno degli ostacoli maggiori è stato,
ed è tuttora, quello delle lingue.
Al mio arrivo in Colombia non mi è
stato possibile studiare a fondo lo
spagnolo. E questo mi ha complicato
non poco l’esistenza, anche se ho
recuperato piano piano e ora me la
cavo con soddisfazione.
Compito primario della mia presenza
in Ecuador era quello di lavorare
nel centro cittadino di Licto, seguendo
la catechesi dei ragazzi e l’animazione
dei giovani. Un contatto,
quindi, prevalente con il mondo di
lingua spagnola, composto da meticci
e indigeni più «urbanizzati» (le
virgolette sono d’obbligo).
Padre Agostino, tuttavia, mi ha avvicinato
alle comunità della sierra,
che si esprimono quasi esclusivamente
in quichua, una specie di lingua
franca parlata in tutte le regioni
andine anticamente dominate dagli
incas. L’apprendimento di questo idioma
costituisce una sfida per
chiunque voglia inserirsi e lavorare
nel mondo indigeno.
Pur non avendo affrontato di petto
lo studio del quichua, dal momento
che il Chimborazo non era il
campo definitivo della mia vita missionaria,
ho imparato quanto basta
per estendere la mia attività ad alcune
comunità indigene, celebrarvi
l’eucaristia, leggendo le parti della
messa nel loro idioma e spiegando la
parola di Dio con la traduzione del
catechista.
Il mio trasferimento in Ecuador
era «aperto», nel senso che lasciava
margini per un eventuale definitivo
inserimento nel lavoro missionario
in questo luogo. E già cominciavano
ad aprirsi altre possibilità di lavoro:
richiesta di dare qualche lezione settimanale
di filosofia nel seminario di
Riobamba e di occuparmi di pastorale
giovanile a livello diocesano: il
Signore sa quanto ce ne sia bisogno
e quanto mi sarebbe piaciuto.
Ma con il ritorno del parroco a
Licto, dovrò tornare in Colombia,
per lavorare, come previsto dalla prima
destinazione, nelle comunità del
Cauca. Vi andrò con lo stesso spirito
che mi ha guidato in Ecuador: curiosità,
voglia di imparare e crescere
nel mio cammino di fede e dedizione
alla missione. Tuttavia, lascio il
Chimborazo con tanta nostalgia:
il primo amore non
si può scordare.

Ugo Pozzoli

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