CONTENTI DELLA PROPRIA IDENTITÀ

Sono contento di essere protestante perché…
Libero…
Come… il gatto?
Perché non prendere un poco più sul serio
i «versetti della gioia» contenuti nella bibbia?

Èfacile imbattersi in cittadini che
si dichiarano contenti di essere
italiani, inglesi o tedeschi…
Non è altrettanto frequente incontrare
persone che si dichiarano felici
di essere cattolici, protestanti o ortodossi…
Ma ci sono!

AFFARE SERIO!
Il famoso teologo protestante,
Jürgen Moltmann, nel volume Dio nel
progetto del mondo moderno (Queriniana
1999), inizia il capitolo intitolato
«Il protestantesimo come religione
della libertà» con questa domanda
personale: «Perché prediligo
il protestantesimo? Perché sono tanto
volentieri protestante?».
E risponde senza esitazione: «Per
motivo della libertà: libertà davanti a
Dio nella fede, libertà della religione
nei confronti dello stato, libertà di
coscienza nei confronti della chiesa».
Già nella prefazione del suo libro, il
teologo si permetteva di riportare la
storiella un po’ ironica di Hans Mayer.
«Al mondo appena nato vennero a fare
gli auguri tre buone fatine. La prima
augurò al bambinello libertà individuale;
la seconda giustizia sociale;
la terza prosperità. Ma sul fare della
sera arrivò la fatina cattiva, per dirgli
che soltanto due desideri potevano
essere esauditi. Così il mondo moderno
occidentale scelse libertà e benessere,
scartando la giustizia. Il
mondo orientale scelse giustizia e
prosperità, scartando la libertà».
L’affare è serio. Ma ciò spiega l’atteggiamento
giornioso di Moltmann.
Ma liberi come? Come il gatto? Che
gioca, è autodidatta, non va a scuola,
non obbedisce a nessuno?

IL GIOCO DI POLLYANNA
A riguardo dei protestanti c’è quel
delizioso romanzo, Pollyanna, scritto
nel 1912 da Eleonora Porter.
Pollyanna è la figlia di un pastore
protestante; rimasta orfana a undici
anni è affidata a una zia, anch’essa
protestante molto rigida. Lei è invece
una bimba serena, piena di vita,
sempre contenta; anche nelle situazioni
poco piacevoli finisce col dire:
«Meglio così».
Suo padre le aveva insegnato il bellissimo
gioco di essere contenta. Un
giorno la bambina lo insegnò anche
al pastore del paese in cui viveva con
la zia, Paul Ford, del tutto sfiduciato
perché la gente non lo seguiva. Aveva
preparato per la funzione domenicale
un sermone più forte del solito
per tentare di scuotere il suo gregge.
Per trovare un po’ di quiete, il pastore
era uscito all’aria libera, con in
tasca il sermone, ruminando sul da
farsi. A questo punto lo sorprese Pollyanna,
che aveva intuito il suo stato
d’animo, e avviò la conversazione.
– Signor Ford, è contento di essere
pastore?
– Se sono contento! Perché mi fai
questa domanda?
– Non so! Ma mi è venuto in mente
mio padre. Anche lui ce l’aveva qualche
volta… ed io gli chiedevo se era
contento di essere pastore. Proprio
come ora lo chiedo a lei.
– E che cosa rispondeva tuo padre?
– Rispondeva di sì, naturalmente. Ma
di solito aggiungeva che non avrebbe
continuato neanche un giorno, se
non ci fossero stati nella bibbia i versetti
della gioia.
– I versetti di che cosa?
– Papà li chiamava così – rise la bambina
-, ma lo so che non hanno questo
nome nella bibbia. Sono tutti
quelli che cominciano con «state
sempre lieti», «giornite nel Signore»,
«cantate canti di gioia». Ce ne sono
tanti nella bibbia. Un giorno papà era
tanto triste e si mise a contarli. Sono
800! Diceva che se Dio si era dato
pena di esortarci per 800 volte a
essere contenti, doveva essere importante.
E furono questi versetti a
suggerirgli l’idea di quel gioco: il gioco
bellissimo di essere contenta.
Tempo fa il card. Ruini, forse in un
momento di scoramento simile a
quello del pastore Paul Ford, scrisse:
«Chiuso il secolo dell’ateismo, si apre
in occidente quello del cinismo: un
avversario forse meno provocatorio,
ma più subdolo».
Quanto agli atei non è raro il caso
di imbatterci in atei soddisfatti e ultra
contenti di esserlo.

Sono contento di essere cattolico perché…
Sono in bella
compagnia
Nella bellezza, «luogo» privilegiato di teofania,
e con una schiera di personalità eccezionali, dai primi
secoli ai nostri giorni, mi fanno sentire a mio agio.

La domanda di Pollyanna al pastore
Ford può essere rivolta ai cattolici
che s’incontrano per strada o in
chiesa: «Sei contento di essere cattolico?».
E lo domando a me stesso.

BELLEZZA A CIELO APERTO
Posso dire di esserlo, anzitutto, come
lo può essere un buon «turista».
Da un punto di vista artistico in Italia
(e non solo) il cattolicesimo splende
per bellezza e a cielo aperto, alla
portata di tutti: una conquista plurisecolare
del regno spirituale di Dio,
perché la bellezza è uno dei «luoghi
teologici» più eloquenti e più facili,
lievito e fermento.
Qui lo spazio fiorisce come un immenso
giardino, con maestosi edifici,
basiliche, cattedrali, campanili
svettanti da tutte le parti. C’è la forza
e semplicità del romanico, gli slanci
e splendore del gotico, lo svolazzare
del barocco… E dentro a questo
svariare di forme non c’è solo il genio
degli artisti, ma l’anima di intere popolazioni
credenti. In certe basiliche,
più ancora nelle loro cripte, si sente
che vi si è voluto dare corpo al silenzio
orante, per rendere più facile la
sensazione della presenza di Dio.
Il poema sacro di Dante, al quale
«han posto mano e cielo e terra», l’arte
sacra pittorica, diffusa come libri
di una biblioteca popolare, la musica
religiosa, comprese le ispirate melodie
del canto gregoriano… sono bellezze
cresciute dappertutto.
Nel Commento alla vita di Don Chisciotte,
quello spirito tormentato di
Miguel de Unamuno (1864-1937)
scrive una pagina incantevole: «Passando
un giorno per León, mi recai a
contemplare la sua meravigliosa cattedrale
gotica, quell’immensa lampada
di pietra, nel cui seno salmodiano
i canonici al suono dolce e grave dell’organo.
Guardando le attorte colonne,
i finestroni dalle grandi vetrate,
per le quali la luce si rinfrange e
diffonde in mille colori, pensai: quanti
desideri silenziosi, muti aneliti,
pensieri reconditi non avranno accolto
le pietre di questo edificio! Quante
invocazioni mormorate o tacitamente
formulate, preghiere, lamenti,
dichiarazioni d’amore, imprecazioni,
rimproveri! Quanti segreti versati nell’ombra
del confessionale!
Se ora tutti questi desideri, aneliti,
pensieri, preghiere, mormorii, invocazioni,
imprecazioni, dichiarazioni,
lamenti e segreti cominciassero a
cantare, soverchiando a poco a poco
la monotona salmodia liturgica del
coro canonico? Se si svegliassero le
voci che dormono nella cattedrale e
prorompessero in un unico canto, la
cattedrale crollerebbe, spezzata dall’impeto
dell’immenso clamore, e le
voci liberate, cercherebbero il cielo.
Ma una cattedrale spirituale sorgerebbe
più aerea e luminosa e insieme
più salda, un immenso duomo che innalzerebbe
colonne di sentimenti diramantisi
sotto la gran volta del cielo
di Dio, un immenso duomo, libero
dal suo peso morto, con le sue arcate
e pilastri ideali».
François René de Chateaubriand
(1768-1848), ferito quasi a morte nel
sentimento religioso dalle negazioni
degli enciclopedisti e sacrileghi orrori
dei sanculotti, scrisse Il genio del
cristianesimo. Pure il «genio del cristianesimo»
cattolico, espresso nell’arte,
chi potrebbe negarlo?

COME UNA LUCE INFINITA
Nel 1885 G. F. Gamurrini scoprì nella
biblioteca di Arezzo la cosiddetta
Peregrinatio Eteriae: diario di una piissima
dama del suo viaggio in Terra
Santa, Egitto, Edessa, compiuto alla
fine del IV secolo e durato tre anni.
Nel suo libro si sofferma a descrivere
anche le liturgie a cui poté assistere
a Gerusalemme. Rimase come
abbagliata dall’«Ufficio della luce»
(licinicon), quando al cadere della
notte, nella grande basilica, tra il
canto dei salmi, venivano accese le
lampade a olio, ed essa esclama: Et
fit lumen infinitum.
Anche questo ha insegnato il cristianesimo:
pregare nella luce anche
al cadere del sole. La luce che s’intravede
attraverso la cruna di un ago
o un’apertura di dieci metri è pur
sempre la stessa luce.

LA VOCE DEI PADRI…
Cosa accadrebbe se, come immaginava
Unamuno nella cattedrale di
León, prendessero voce, tutti insieme,
gli scritti dei cosiddetti «padri
della chiesa»? Jacques-Paul Migne
(1800-1875), operoso e intraprendente
prete francese del sec. XIX, ha
raccolto in 459 volumi gli scritti degli
autori latini e greci.
Quale piacevole cosa poter visitare
questi vecchi amici e intrattenersi
con loro. Oltre che alle opere di Agostino
(ne ha scritti circa 1.030), m’inchino
davanti a quelle di Giovanni Crisostomo
(344-407); con lui saluto
Olimpia, l’avvenente dama dell’imperatrice
Eudossia, ma che era di altra
natura e risplendeva di luce propria.
A lei il patriarca Crisostomo insegnò
a superare le disdette della vita
con la metropathia, senso della misura.
Anche la vita spirituale è come
l’arte: non rispettare la misura è compromettere
la bellezza; anzi la invita
all’euthumia, al cor altum.
Entrando in quella sala devo immancabilmente
passare a salutare
Gregorio di Nissa (332-399). Non farlo
sarebbe uno sgarbo imperdonabile.
Si tratta del fratello minore di Basilio;
aveva un amico importante,
Gregorio di Nazianzio. Non possedeva
l’estro per l’azione del fratello
maggiore, né l’eloquenza chiara dell’amico
Gregorio. Era un pensatore e
un teologo di prim’ordine, discepolo
di Origene.
I due fratelli dovevano molto alla
sorella Macrina, dotata di bellezza
straordinaria, alla quale il padre aveva
scelto un ottimo partito. Ma il fidanzato
muore prima delle nozze, e
lei, come si fosse trattato di un vero
matrimonio, offre al fidanzato defunto
la sua fedeltà, come farebbe una
sposa per il marito partito per un lungo
viaggio. Aiutò in casa la madre
Emmelia nell’educazione dei fratelli e
sorelle. Quando questo compito poté
dirsi esaurito, madre e figlia, accompagnate
dalle loro domestiche, si ritirano
nel Ponto, sulle rive del fiume
Iri, e vi fondano un monastero.
Dopo la morte della madre (373),
Macrina è nominata superiora del
monastero. All’inizio del 380 il fratello
Gregorio, sapendola gravemente
ammalata, le fa visita. Tra fratello
e sorella morente avviene un colloquio
di altissima elevazione spirituale,
che poi Gregorio immortalò in un
libro dal titolo De anima et resurrectione,
trasposizione cristiana del Fedone
di Platone.
Macrina, sul letto di morte, assegna
al fratello il compito di formulare
i dubbi e le obiezioni sull’aldilà, riservando
a sé il compito della confutazione
dei dubbi e difficoltà. Si
tratta dell’eterno problema dell’uomo
di fronte alla morte. «Il bene procede
verso l’infinito». Le eventuali pene
dell’aldilà non possono essere
etee: «Tutte le anime, una volta
purificate, ritornano al loro stato di
perfezione primitiva»; «una volta distrutto
il male, dopo un lungo periodo
di tempo, non rimarrà altro che il
bene. Anche queste nature, infatti,
riconosceranno concordemente la signoria
di Cristo». «Verrà il momento
in cui tutti gli esseri riconosceranno
Dio e toeranno a lui».
Naturalmente Gregorio questo discorso
lo fa a me, quasi in segreto,
quando lo vado a trovare… perché
son cose che occorre dire sottovoce
e in privato.

I FUORI CLASSE
Altro panorama incantato del cristianesimo
primitivo e sfondo di un
cattolicesimo amato, anche se contemplato
da molto lontano, sono i
deserti o laure abitate dai monaci;
distese aride, senz’acqua, eppure
piene di vita.
Si tratta di cristiani che, dal III al
VI secolo, abbandonavano le città per
vivere nei deserti dell’Egitto, Siria,
Palestina, soli o a gruppi, quasi uccelli
in grotte a piombo sul mare.
Il poeta cristiano bizantino, Romano
Melode, nato in Siria alla fine
del sec. V, in molte sue poesie esalta
la vita di questi «fuori classe». Scrive,
ad esempio: «Siate saldi e corroborati
nella fede. Ma tenete il vostro
capo inchinato. Piegate il corpo verso
terra, ma a Cristo guardate in alto
con l’anima. Aspirate e adoperatevi
a ciò con tenacia ad accantonare
la vita quotidiana per trasferirvi
con il pensiero nelle dimore di tutti
i santi, al fine di poter cantare, come
se foste già lassù, l’inno: Alleluia».
C’è anche una meravigliosa
raccolta di sentenze, detti,
proverbi, usciti dalla bocca
di questi asceti del deserto,
ma quasi con le tenaglie,
chiamati apoftegmata,
memorizzati da
molti pellegrini che, da
regioni lontane, si recavano
in quei luoghi
impervi per raccogliere,
magari dopo giorni
di silenzio e dopo aver
invocato quei solitari
a dire loro anche solo
una parola – dic mihi
verbum – che servisse da programma
di vita.
Questi detti sono brillanti, di gustosa
sapienza, e anche pieni di humour
(vedi riquadro).
In seguito il monachesimo si sviluppò
nelle forme più svariate, con
una fantasia imprevedibile. Vita monastica
e vita religiosa non vanno ridotte
a «dottrina»: sono fenomenistorici.
«Non ci sarebbe l’Europa – ebbe
a dire Massimo Cacciari – senza il
monachesimo»; e neppure l’espansione
missionaria.

CRISTIANO O CICERONIANO?
Tra le figure più simpatiche del cattolicesimo,
incontro Girolamo. Ormai
lontano da Roma e monaco a Betlemme,
nel 383-384 scrisse, alquanto
irritato, una lunghissima lettera a
una dama romana, Eustochio, per invitarla
al distacco dal mondo, poiché
«nessuno può camminare tranquillo
in mezzo a vipere e scorpioni».
In questa lettera citazioni bibliche
e principi ascetici s’intrecciano con
bozzetti spassosi di vita vissuta di un
tempo lontano. C’è, ad esempio, questa
descrizione di certi preti e monaci
nella Roma di papa Damaso (+
384): «Mettono ogni cura nel vestirsi
bene e profumarsi; il loro piede non
deve ballare in una scarpa troppo larga;
i capelli arricciati di fresco col ferro;
le dita scintillano di anelli; quando
camminano, per evitare che il fango
inzaccheri le scarpe, vanno in
punta di piedi».
Girolamo è un monaco colto. Ed eccolo
alle prese con se stesso. Si chiede:
«Che c’entra Orazio col salterio,
Virgilio col vangelo, Cicerone con gli
apostoli? A proposito ti voglio raccontare
un episodio della mia dolorosa
esistenza. Ne è passato del tempo
da allora!
Casa, padre e madre, sorella, parenti,
e – questo m’era più difficile –
l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo
tagliato via per il regno dei cieli,
e me n’ero andato a Gerusalemme
a militare per Cristo.
Ma dalla mia biblioteca,
messa insieme a Roma con
tanto amore e tanta fatica,
proprio non avevo saputo
staccarmi.
Povero me! (miser
ego!). Digiunavo e poi
andavo a leggere Cicerone.
Dopo molte notti
trascorse vegliando,
dopo aver magari versato
fiumi di lacrime al
ricordo dei peccati
d’un tempo, prendevo
in mano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo
i libri dei profeti, il loro stile disadorno
mi dava nausea. Era la mia
cecità a impedirmi di vedere la luce,
e m’illudevo che la colpa non fosse
dei miei occhi, ma del sole! (non oculorum
putabam culpam esse, sed solis).
A mezza quaresima, una febbre
acutissima mi penetra nelle ossa. Già
mi preparano i funerali. Tutto il corpo
è agghiacciato. Solo il povero
cuore, tiepido appena, dà ancor qualche
palpito, come se là si sia rifugiato
l’ultimo soffio di vita. D’un tratto
ho come un rapimento spirituale. Mi
sento trascinato davanti al tribunale
del Giudice e mi vengo a trovare tra
un tale sfolgorio di luce che irradia
da ogni parte, che io, sbattuto a terra,
non oso levare in alto lo sguardo.
Mi chiede chi sono. “Un cristiano!”
rispondo. Ma il Giudice dal suo trono
esclama: “Bugiardo! Sei ciceroniano
tu, non cristiano”. Resto di colpo senza
parole. Sotto le vergate (il Giudice
aveva dato ordine di battermi) mi sento
lacerare ancor più dal rimorso della
coscienza.
A lungo ho portato le lividure sulle
spalle. Da quel giorno mi sono
messo a leggere la scrittura con un
ardore che mai ne avevo messo l’eguale
nelle letture pagane».
A riguardo della natura di questo
sogno si è discusso a lungo.
Tra le tante lettere di Girolamo ve
n’è una che riprendo spesso in mano.
È indirizzata a Eliodoro, un amico
che, dopo averlo seguito, abbandona
l’eremo. Girolamo lo prega insistentemente a ritornare, dipingendogli le
giornie spirituali della solitudine: «Ma
che cosa fai nel secolo, fratello mio?
Tu sei più grande del mondo! E fino a
quando ti debbono pesare sul capo le
ombre dei tetti? E fino a quando vuoi
rimanere chiuso nella prigione delle
affumicate città? Credi a me: qui dove
sono io, vedo un non so che più di
luce. E mi pare, quasi deposto il peso
del corpo, di volarmene verso il puro
splendore del cielo. Alzati col pensiero
a passeggiare per il paradiso!».
Eliodoro non ritoerà al deserto.
Diventerà vescovo. Girolamo però l’aveva
ammonito: «Non tutti i vescovi
sono vescovi (non omnes episcopi,
episcopi sunt); non è la dignità ecclesiastica
che fa l’uomo cristiano».
Quale ricchezza in questo monaco
che con i suoi scritti ha attraversato
i secoli. E anche quanta capacità di
affetto e di poesia! La lettera a Eliodoro
così iniziava: «Con quanto amore
e con quanta premura mi sono adoprato
perché potessimo rimanercene
insieme all’eremo, lo sa il mio cuore.
Con quale lamento, poi, con quale dolore
e quali sospiri io ti abbia accompagnato
nella tua partenza, te lo attesta
questa mia lettera, che tu vedi
qua e là cancellata dalle lacrime (quas
lacrimis ceis interlitas)».

SGUARDO ALL’INFINITO
Non è solo pensando a Girolamo,
ma anche ad Agostino (354-430) che
mi sento tanto volentieri cattolico.
Chi infatti volesse comprendere la
chiesa e dare uno sguardo complessivo
al cristianesimo cattolico deve
comprendere Agostino.
Anche se in lui ci sono delle ombre,
rimane una pietra miliare. Difficile
descriverne la personalità e l’influsso;
più difficile ancora sintetizzae
il pensiero.
Mi attrae la frase di chiusura della
Città di Dio, sull’ottavo giorno della
creazione, che è al di là della storia:
«Là avremo finito di lavorare e vedremo,
vedremo e ameremo, ameremo
e loderemo. Ecco ciò che sarà alla
fine senza fine. Infatti, che cos’altro
è per noi la fine se non giungere
al regno, che è senza fine?».
Un interrogativo, quello di Agostino,
che il fiume immenso del monachesimo
mormora di continuo a chi
lo vede scorrere anche solo dalla riva.
Personaggi stupendi: Benedetto,
Domenico, Francesco, Beardo… che
hanno lasciato impronte indelebili
nella storia.
Per la conquista della Bretania, Cesare
impiegò sei legioni. Gregorio lo
fece solo con 40 monaci (596). Una
volta evangelizzati, i monaci irlandesi
e britannici diventarono evangelizzatori
di buona parte del continente
europeo.

SANTI… UMANISSIMI
Domenico pregava anche per i dannati
(ad in inferno damnatos extendebat
caritatem suam). Francesco raccomandava
al frate ortolano di «non
riempire tutto lo spazio di verdure
commestibili, ma di lasciare libera
una parte di terra, perché crescessero
le erbe spontanee, per produrre a
tempo debito i fratelli fiori»: preludio
al Cantico di frate sole, alla natura bella
e benefica.
E che dire della lettera che Francesco,
pochi giorni prima di morire,
dettò per donna Jacopa dei Settesogli,
ricca e nobile matrona romana,
alla quale Francesco era legato da
particolare stima: «A donna Jacopa,
serva dell’Altissimo, frate Francesco,
poverello di Cristo, salute nel Signore
e unione dello Spirito Santo. Sappi,
carissima, che Iddio, per grazia,
mi rivelò che la fine della mia vita è
ormai prossima. Perciò se vuoi trovarmi
vivo, ricevuta questa lettera,
affrettati a venire a Santa Maria degli
Angeli. Se non verrai prima di sabato,
non mi potrai trovare vivo. E
porta con te un panno scuro, in cui
tu possa avvolgere il mio corpo, e i
ceri per la sepoltura».
Dopo il panno nero e i ceri, ci si
aspetterebbe chissà quale altra cosa
importante o altamente spirituale,
come un testamento. Invece: «Ti
prego anche di portarmi quei mostaccioli
(dolci) che eri solita darmi
quando mi trovavo malato a Roma».
Passano i secoli e nella chiesa appare
Ignazio di Loyola (1491-1556).
Erano necessarie forze nuove e metodi
nuovi: fonda la Compagnia in funzione
dell’apostolato, anche missionario.
Uomo certamente di ferro, ma
per nulla tetro, freddo e senza cuore,
ma sorridente, sereno, tenero e affettuoso,
capace d’intrattenere rapporti
«cordiali e cortesi». La Compagnia
è nata così, dall’amicizia.
«Amenemhet contempla la bellezza
del sole» si legge sulla stele del faraone
egiziano. A Roma Ignazio si alzava
presto per contemplare in silenzio,
in piedi e scoprendosi il capo,
il sorgere del sole.
Dopo Ignazio, Vincenzo de’ Paoli
(1585-1660); anch’egli un uomo
nuovo, dalla carità benevola verso i
poveri, che parlava bene di tutti,
«persino del diavolo». Alle sue suore
diceva: «Avrete per monastero la
camera dei malati, per cella la chiesa
parrocchiale, per chiostro le strade
della città, per clausura l’obbedienza,
per grata il timor di Dio, per
velo la santa modestia». «La carità –
aggiungeva – è una gran signora, bisogna
fare quello che comanda». «Se
dovete lasciare l’orazione per andare
da un malato, fatelo. Il vostro dovere
è di lasciare tutto per il servizio dei
poveri».
Fino ai giorni nostri.

L’ALTRA METÀ…
Un capitolo a parte meritano le donne, cristiane e cattoliche. Non solo pensando
a Chiara, Scolastica, Caterina da Siena o Teresa di Gesù, ma a moltissime
altre: a quelle immortalate, come simbolo, dai Dialoghi delle Carmelitane; a Edith
Stein… Donne anche di pensiero.
Non posso dimenticare Ipazia. Siamo ad Alessandria d’Egitto, dove nel 412 inizia
il suo ministero patriarcale san Cirillo: ma comincia in modo caotico, spalleggiato
da partigiani ambigui, monaci turbolenti e dai paraboloni. Quest’ultimi, veri fanatici,
specie di infermieri, accanto ai cantori, fossori e amministratori vari, svolgevano
la funzione di assistenza nella chiesa di Alessandria.
Nel 415 alcuni di questi fanatici trascinano a forza in una chiesa la celebre Ipazia:
le strappano le vesti, la dilaniano con grosse conchiglie taglienti, la fanno a pezzi e
ne bruciano i resti.
Ipazia possedeva una cultura vastissima. Alla morte del padre ne aveva ereditata
la cattedra, per divenire una singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia.
Figura d’un candore abbagliante,
bellissima e coerente fino al martirio.
In città era universalmente consultata: «Di
gran lunga superiore a tutti i filosofi del
tempo; perciò tutti gli studiosi di filosofia
da ogni parte correvano a lei» scrive un
certo Socrate, avvocato cristiano, nato a
Costantinopoli nel 408.
Un discepolo della Libia, divenuto poi vescovo
e che mantenne con lei una fitta
corrispondenza, le scriveva: «Possa tu riceverla
(questa lettera) in buona salute,
madre, sorella, maestra».
Poiché Ipazia era in ottimi rapporti con il
prefetto della città, un certo Oreste, la si
riteneva responsabile dell’opposizione
che il prefetto faceva al patriarca Cirillo.
Un fattaccio, che l’imperatore lasciò impunito,
ma che getta ombre nere su Cirillo
stesso.

Sono contento di essere cattolico perché…
Innestato
in Cristo
Molto si è discusso, e si discute ancora, sull’essenza del
cristianesimo: nella teologia cattolica sono affascinato
dalla centralità del Cristo e dal suo «mistero».

Non solo in questi gloriosi e indimenticabili
compagni sta il motivo
più importante del sentirmi tanto
contento di essere cattolico.
Tanto meno ponendomi sulla scia
di quegli autori di metà ‘800 in avanti,
in genere tedeschi, razionali, ipercritici
o anche atei, che dall’alto delle
cattedre universitarie iniziarono a
dissertare sulla vita di Cristo, preoccupati
di scartare quanto non ritenevano
storico.
AUTORI CHE FANNO LE BUCCE
Loro intento era giungere all’essenza
del cristianesimo, solo percorrendo
la via della storia, per individuare,
una volta per tutte, ciò che era
da ritenersi «valido e durevole», il
«nucleo» (ke), distinto dalla «scorza» (schale).
Già nel 1841 Lugwig Andreas Feuerbach
(1804-1872) uscì con un’opera
dal titolo L’essenza del cristianesimo.
Vi tentò in modo più serio Adolf von
Haack (1851-1930). Nel trimestre
invernale 1899-1900, tenne un ciclo
di 16 lezioni a 600 studenti su L’essenza
del cristianesimo, pubblicate
con lo stesso titolo e tradotto in 14
lingue. Secondo Haack, Gesù non
aveva predicato se stesso, né aveva
pensato a una chiesa: unico oggetto
della sua predicazione fu di presentare
Dio come «padre».
Entrò in lizza anche il cattolico Karl
Adam con L’essenza del cattolicesimo
(1924). Come intermezzo, nel 1903,
Est Troeltsch (1865-1923) intervenne
con un altro volume per chiedersi
che cosa si doveva intendere
per «essenza del cristianesimo». Cosa
fosse solo facciata e cosa vera sostanza,
cosa semplice costume e cosa
autentica convinzione. Eventualmente
riducendo tutto a mito.
Si può essere critici verso i critici a
oltranza: Anatole France (1844-
1924), spirito scettico, nel seguire le
lezioni di Loisy, tracciava delle caricature
in margine alle dispense del
corso: in una di esse aveva raffigurato
il Loisy che, a cavallo di un ramo,
menava colpi d’ascia alla radice dell’albero
dei vangeli e un fumetto diceva:
«Ne lascerò sempre a sufficienza
per tenermi».
C’è anche la critica marxista e razionalista:
conosce bene la società
cristiana, ma ignora chi sia Cristo.

CRISTO AL CENTRO
François Mauriac, un romanziere,
nel 1937 scrisse una vita di Cristo,
dove dice: «Leggendo i vangeli, ho
sentito il Cristo respirare e tento di
descrivere il Cristo “interiore”, visto
non con gli occhi della carne, ma con
quelli dello spirito».
Il centro attorno al quale ruota e si
struttura il cristianesimo, e il cristianesimo
cattolico, è Cristo risorto e Signore:
«Se nel tuo cuore credi che
Dio ha risuscitato Gesù dai morti e
con la tua voce dichiari che Gesù è il
Signore, sarai salvato» (Rom. 10,9).
In modo molto icastico, Paolo afferma:
«Mihi vivere Christus est», per
me il vivere è Cristo (Fil 1,21). Per incontrarlo,
l’autore del De imitatione
Christi suggerisce: «Chiudi sopra di te
la tua porta e chiama a te il tuo diletto.
E rimani con lui nella tua cella,
perché non troverai altrove una
pace così grande» (I, 20,8).
Per molte persone è bastato un
semplice versetto del vangelo per impostare
la vita in modo nuovo. Antonio
abate (251-357), poco più che
ventenne, sentì leggere: «Se vuoi essere
perfetto, vai, vendi quello che
possiedi e donalo ai poveri; poi vieni
e seguimi» (Mt 19,21). E lo fece.
Elisabetta della Trinità, per dare un
contenuto al nome che portava, imposta
la sua vita sul versetto di Paolo:
«Perché noi fossimo lode della sua
gloria» (Ef 1,12) e si firma Laudem
Gloriae.
Molti altri si ispirarono a qualche
aspetto della vita di Cristo, dalla nascita
a Betlemme, alla croce. Charles
de Foucauld scrisse: «Guardiamo i
santi, ma non attardiamoci nella loro
contemplazione. Contempliamo
con essi colui la cui contemplazione
ha riempito la loro vita. Approfittiamo
del loro esempio, ma senza fermarci
a lungo, né prendere per modello
questo o quel santo, ma prendendo
da ciascuno chi solo è vero
modello, servendoci così dei loro
esempi, non per imitare essi, ma per
meglio imitare Gesù».

PROSOPAGNOSIA
È una malattia molto brutta: consiste
nel non riconoscere (agnosia) una
persona (prosopon) per quello che è.
Paolo in 2 Cor. 3,17 scrive: «Il Signore
è lo Spirito» (dominus autem
spiritus est). Gesù Cristo, dopo la risurrezione,
è signore e spirito. Per
cui la prosopagnosia consiste nel non
riconoscere Cristo come «signore» e
come «spirito». E si tratta della malattia
più grave in cui possa cadere
un cristiano.
Questo pericolo esiste perché Cristo
è un «mistero».

L’INFINITO NEL FINITO
Il termine mistero è una delle parole
più usate dai cattolici; basta
aprire il Messale della liturgia romana.
Ma è pure una delle parole più inflazionate
e ingarbugliate. Sinonimi
come arcano, problema, enigma, cosa
oscura, inesplicabile, incomprensibile,
segreta… non sempre aiutano
a chiarire.
I vocaboli che più si avvicinano al
significato cristiano di mistero sono
invece segno, sacramento, simbolo.
Al punto che abbiamo un mistero, un
segno, un sacramento, un simbolo
tutte le volte, e ciò avviene quasi
sempre, che abbiamo una forma visibile
di una realtà invisibile (interiore,
spirituale, divina…).
Primo mistero, segno, sacramento,
simbolo è l’uomo stesso, essendo costituzionalmente,
e sotto tutti i punti
di vista, una forma visibile per la
sua corporeità di una realtà invisibile,
che è la sua interiorità, la sua anima,
spirito, dignità, comunque la si
voglia chiamare.
Ugualmente mistero, segno, sacramento,
simbolo sono le parole che
pronunciamo. Lo è il mazzo di fiori o
un dono che offriamo. Lo è la bibbia,
la chiesa, i sette sacramenti. Lo è soprattutto
Cristo, per essere un uomo
con la sua interiorità e il rapporto singolare
e unico con Dio (Uomo-Dio).
Usando una felice definizione di
Agostino, si può dire che il mistero è
«una cosa grande nascosta dentro
una piccola». Il mistero è un nascondiglio.
È l’infinito nel finito, l’assoluto
o il tutto nel frammento, il
santo tra i peccatori, l’amore nel dono
di un fiore, la vita nella morte.
Gesù è mistero quando dice: «Chi
vede me vede il Padre» (Gv 19,9), il
«figlio di Dio» nel «figlio dell’uomo».
Per questo Gesù è il vero padrone di
casa, che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche (Mt 13,52). Come
tale sul monte poté trasfigurarsi,
mostrando quanto di grande ci fosse
in quell’uomo sofferente. La morte fisica
può essere constatata e descritta,
ma l’offrire la vita per… è un’intenzione
e un mistero per l’appunto.

SUPERARE I 4 «SOLUS»
I protestanti insistono sull’aggettivo
«solus». Lo ripetono almeno
quattro volte. Anzitutto Christus solus,
nel senso che Cristo, come afferma
san Paolo, è l’unico «mediatore»
(1 Tim 2,5); anche nel senso che la
Madonna e i santi possono essere ricordati,
ma quanto a invocarli la
scrittura non dice nulla.
Eppure tutto ci dice che Cristo è,
sì, l’unico mediatore, ma che non è
mai da solo, sia perché come «capo»
lo è di un corpo formato da molte
membra, le quali a qualcosa devono
pur servire; infatti formano la Comunione
dei Santi, comunque la si voglia
intendere.
Il secondo solus è riferito alla fede:
sola fides; il terzo riguarda la grazia:
sola gratia. Certamente nel senso che
a venirci incontro, senza alcun nostro
merito, è la misericordia di Dio.
Ma anche qui, grazia e misericordia
di Dio, provvidenza e salvezza
non ci giungono mai allo «stato puro
», ma attraverso la parte estea
che dobbiamo saper aprire e accettare
mediante la chiave o l’apriscatola
della fede.
Il quarto solus è riferito alla scrittura:
sola scriptura, specie il vangelo.
Ed è giusto. Ma anche la scrittura
non è sempre facile da capire.
Inoltre è noto che presso i popoli antichi,
compreso quello ebraico, il
mezzo ordinario di trasmissione non
era la scrittura o il libro, ma la trasmissione
orale. Gli antichi trasmettevano
i fondamenti della propria
cultura con una garanzia di sicurezza
non minore dei documenti scritti.
Tutto sommato a Lutero, come cattolico,
preferisco Erasmo, suo contemporaneo.
Anche se Lutero ed Erasmo
fecero la stessa diagnosi sui mali
del tempo, diversa è però la
terapia: «A chi ha un braccio rotto –
diceva Erasmo a Lutero – per guarirlo
non gli rompi anche l’altro». A Lutero
che diceva: «Dio è Dio», Erasmo
rispondeva: «Dio è buono».

«CONSEGNÒ LO SPIRITO»
Unamuno aveva osservato con sofferenza:
«Terribilmente tragici sono
i nostri crocifissi, i Cristi spagnoli,
morti per sempre, che non risorgono
». Ma dovette ricredersi, contemplando
il Crocifisso del Velazquez (vedi
riquadro).
Osservandolo attentamente scoprì
che, se per il protestante la base è la
giustificazione (come passaggio dal
peccato alla grazia), per il cattolico
è, invece, l’immortalità e la risurrezione
(come passaggio dalla terra alla
vita senza fine). E il poeta spagnolo
conclude il suo libro su Don
Chisciotte con questa profonda intuizione:
«Se la vita è un sogno, lascia
che io la sogni immortale».
La costituzione conciliare Lumen
Gentium non dice che «luce delle
genti» è la chiesa, ma Cristo: «Lumen
gentium cum sit Christus».
Gli evangelisti scrivono che Cristo,
morendo sulla croce spirò: cioè esalò,
diede lo spirito. Solo Giovanni al riguardo
è teologicamente più raffinato:
«E chinato il capo spirò» (Gv
19,30). Ma, a differenza degli altri
evangelisti, usa un verbo particolare,
che in latino è stato espresso con
tradidit spiritum: è il verbo greco paradidomi,
che significa: dare, donare,
consegnare, rimettere. Giovanni
direbbe che Gesù, morendo, fece dono
dello Spirito (Santo), del suo Spirito.
Tutto infatti sarebbe sterile se
così non fosse.
Anzi, stando alla espressione usata
da Paolo, già sopra ricordata (2 Cor
3,17), sulla croce Cristo non solo si
sarebbe trasformato in «luce», ma
sarebbe diventato «spirito». Paolo
scrive: «Il Signore è lo Spirito». In
greco i due sostantivi sono preceduti
dall’articolo e la parola «Spirito»
può essere scritta con l’iniziale maiuscola,
come fa la traduzione ufficiale
della CEI.
Con la morte e risurrezione Cristo è
divenuto non solo un «essere spirituale»,
ma è «lo Spirito». Egli si è
aperto, mostrando la sua vera realtà,
come incenso che bruciando si trasforma
in «profumo». Lo dice ancora
Paolo: «Si è offerto a Dio in sacrificio
di soave profumo» (Ef 5,2). Infatti
in ebraico la radice della parola
ruah-spirito è la stessa della parola
reah, che significa profumo.
Spirito è far cadere sugli uomini
qualcosa che assomiglia a un canto
gregoriano, scrisse Antornine de Saint-
Exupéry. Spirito è la chiave che apre
tutti i misteri, anche quello di Dio.
Sta qui il motivo principale della
mia preferenza per il cattolicesimo,
per questa evaporazione profumata
del Cristo che, come «spirito», può
espandersi più facilmente di un libro
o di qualsiasi proclama.
Lo dice molto bene san Paolo per
me: «Ci sono cose che occhio non vide,
né orecchio udì… Ma a noi Dio le
ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo
Spirito infatti scruta ogni cosa anche
le profondità di Dio. Come è lo spirito
dell’uomo – il nostro spirito – che
ci permette di conoscere le cose più
segrete che ci riguardano, così anche
i segreti di Dio nessuno li ha potuti
conoscere se non lo Spirito di Dio»
(1Cor 2,9ss).
Ed è Cristo che ci ha fatto dono
dello Spirito di Dio e del suo Spirito.
Per cui possediamo Dio in Cristo e
Cristo in Dio, perché tutto è stato ridotto
a Spirito.

STORIA DI UN INNESTO
Possedere o sentire Cristo come
Spirito costituisce per me il punto
centrale del cattolicesimo, la finestra
che mi permette non di tutto capire,
ma di tutto intravedere.
Due esempi, più di tante parole,
possono esprimere questa soddisfazione
del sentirmi cattolico.
Il primo è di uno scrittore greco,
Elias Venezis: racconta come Giuseppe,
un vecchio contadino mezzo cieco,
mostra a un bambino (l’autore) la
delicata operazione dell’innesto.
«Arrivammo sul posto. Giuseppe
posò a terra il fascio di rametti. Prese
a palpare l’arbusto selvatico, per
trovare il punto più adatto per l’innesto.
Trovatolo, levò gli occhi al sole,
fece tre volte il segno della croce,
mormorando una segreta preghiera.
Poi, ormai calmo e sicuro, riportò lo
sguardo all’arbusto da innestare. Con
mano salda intagliò un rametto, togliendone
un pezzo di scorza in forma
di anello. Incise la scorza del rametto
da innestare, lo unì al ramo
dell’arbusto selvatico, lo legò strettamente.
Volse di nuovo lo sguardo al sole e,
tutto tremante, riprese a pregare: “Ti
ringrazio, mio Dio, di avermi permesso
ancora quest’anno di innestare
gli alberi”. Poi, rivolgendosi a me,
mi dice: “Ecco, ragazzo mio, ti consegno
il tuo albero. Amalo come una
cosa che viene da Dio”.
Si trattava solo di un innesto, pensavo;
un pezzo di scorza, un bastoncino,
attaccato a un tronco selvatico:
tutto qui!
Indovinando il mio pensiero, il vecchio
contadino mi dice: “Appoggia
l’orecchio al tronco dell’albero”. Appoggiai
la testa al tronco e lui pure.
I nostri occhi erano così vicini da toccarsi.
Cominciò a sbattere le palpebre,
come se sprofondasse in estasi.
Poi chiuse gli occhi completamente.
– Senti qualcosa? – mi domandò.
– No! Non sento niente.
– Io invece sì! – mormorò lui con
gioia trionfante -. Io però sento… –
toò a ripetermi.
Poi mi spiegò di aver sentito il sangue
(la linfa) del rametto colare lentamente
nel sangue del tronco e mescolarsi
ad esso, che così cominciava
a realizzarsi il miracolo della
trasformazione del tronco selvatico».
Questo racconto è anche la storia
che ogni missionario potrebbe narrare:
poggiando le orecchie al tronco
dell’etnia trasformata in chiesa,
potrebbe sentire che nel vecchio
tronco è colata una linfa nuova.
Il secondo esempio spiega come
sia possibile la trasfusione di una vita
in un’altra; trasfusione non solo di
idee, ma di persona a persona.
Nel romanzo I fratelli Karamazov di
Dostoevskij c’è quella meravigliosa
scena del vecchio staretz Zosimo, visto
ai raggi obliqui del sole che tramonta.
Aveva un fratello, Markel,
morto giovane. Ecco il suo racconto
di quando aveva otto anni.
«Ricordo che una volta entrai da
solo nella camera di mio fratello
(ammalato), mentre non c’era nessuno.
Era una limpida sera; il sole
tramontava e illuminava con un
raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi,
mi fece un cenno; io mi
accostai; egli mi prese per le spalle
con le mani; mi guardò soltanto così
per un minuto: “Su via – disse –
adesso vai a giocare, vivi per me. Io
allora uscii e andai a giocare. Mille
volte, poi, nella vita ricordai tra le
lacrime come egli mi avesse ordinato
di vivere per lui».
È quanto fece Gesù dalla croce e
poco dopo nel cenacolo; alitando sugli
apostoli disse: «Ricevete lo Spirito,
andate…», cioè vivete per me.

Sono contento di essere cattolico…
Anche se…
Una storia seminata di «piaghe» e tradimenti…
Eppure la chiesa rimane sempre il luogo dove,
a furia di «giocare ai santi», lo si diventa per davvero.

Nella storia plurimillenaria della
chiesa cattolica certe cose sono
difficili da digerire: scismi ed eresie,
caccia alle streghe, schiavismo, inquisizione,
colonialismo… Un libro
recentissimo, dedicato a questi crimini,
conclude: «Il sangue scorre a
fiumi nella storia del cristianesimo».
Tra il 1832-1848, Antonio Rosmini
scrisse Delle cinque piaghe della chiesa,
messo all’indice nel 1849. Di tale
condanna, l’arcivescovo di Torino,
mons. Michele Pellegrino, in un Concilio
ormai agli sgoccioli, disse: «È
stata recentemente tolta la condanna
che ha gravato per oltre un secolo
su quel libro di Rosmini. È lecito
domandarsi: se quell’opera fosse circolata
liberamente, non avrebbe
contribuito alla guarigione
di piaghe di cui la
chiesa ha per troppo
tempo dolorosamente
sofferto?».
Stessa cosa si
potrebbe ripetere
per la condanna
del
romanzo Il
santo di Antonio Fogazzaro, uscito
nel 1905 e messo all’indice nel 1906.
In esso il romanziere faceva dire al
«santo», in un confronto drammatico
con il papa, che quattro spiriti maligni
erano entrati nel corpo della
chiesa: spirito di menzogna, spirito
di dominazione del clero, spirito di
avarizia, spirito di immobilità.
Inutile negare o stemperare queste
eventuali colpe. Piuttosto gioverebbe
ambientarle.
Una certa Patricia, dopo una buona
preparazione filosofica, si
laurea in teologia. Si era permessa di
servire la messa. Le
venne assolutamente
proibito
di farlo.
Volle, però, che le dicessero i motivi
veri di questa proibizione. Le venne
detto che in seguito a una riunione
pastorale (a che livello?) si era concluso
che le donne sono «impure»,
perciò devono essere allontanate
dall’altare.
Un’amica della giovane teologa le
chiede: «Ma dopo un fatto del genere
come puoi avere la fede?». Rispose:
«La mia fede sussiste solo nella
certezza che il cristianesimo è qui
tradito da qualcuno!».
La chiesa ha le sue stagioni: è scontato
che siano possibili stasi, involuzioni,
regressi. Nel 1947 l’arcivescovo
di Parigi, card. Emanuele Suhard,
scrisse una lettera pastorale dal titolo
Agonia della chiesa? Il titolo originale
francese è senza punto interrogativo:
Essor ou déclin de l’église.
Abbassamenti di tono o anche
peggio sono sempre possibili. Paolo
VI affermava nei suoi discorsi che il
Concilio Vaticano II non aveva inteso
essere un «uragano» travolgente
né una rivoluzione. Tuttavia avvertiva
che il corpo della chiesa era percorso
qua e là da inquietudine, da
qualche linea di febbre e un po’ da
«spirito di vertigine».
Per amare la mia chiesa, anche
se…, mi è utile riferire la parabola
di Erasmo di Rotterdam (1469-
1536), che Pierre Mesnard traduce in
linguaggio moderno, per meglio indicare
la differenza con Lutero.
«Dai fianchi della sacra Montagna
scaturisce una fonte (termale), così
pura e così salutare che i pregi di tutte
le altre si commisurano soltanto
sulla salubrità di questa. Fontana
unica della salute, da secoli essa ha
attinto sulle rive milioni di pellegrini,
bramosi di ritrovare, grazie ai suoi
effetti miracolosi, la vita autentica.
Ed essi avrebbero senza dubbio rovinato
nel loro entusiasmo tutta la valle,
se una società appaltatrice accreditata,
con tutte le carte in regola, la
chiesa, non avesse fin dall’inizio assunta
la distribuzione e l’impiego terapeutico
delle acque miracolose.
Essa ha captato la sorgente, costruito
uno stabilimento termale,
edificato complessi alberghieri, fatto
venire in numero sufficiente medici
termali, tanto che in cambio di
una modesta decima, i malati sono
ormai accolti e trattati secondo metodi
collaudati.
Ma, durante questi ultimi secoli (è
il rimprovero di Lutero) sembra che
l’istituzione sia un po’ degenerata e
che la compagnia appaltatrice abusi,
per cui i protestanti denunciano la
decadenza radicale della società generante,
reclamano la soppressione
del corpo medico, il diritto di ciascuno
di accedere direttamente alla
sorgente, di bagnarsi a piacere e di
bee fino all’ebbrezza spirituale.
Va da sé che l’assenza di disciplina
trasformerebbe presto la sorgente in
pantano, per non dire peggio…» (P.
MESNARD, Erasmo, la vita, il pensiero,
i testi esemplari, Milano 1971, p.
262).
F accio mio quanto, in modo ugualmente
fantastico, disse il romanziere
Georges Beanos (1888-1948)
in una conferenza tenuta in Algeria
alle piccole sorelle di Charles de Foucauld
nell’autunno del 1947: «Ci sono
bambini che giocano agli adulti.
Potrebbe darsi che a furia di
“giocare ai santi” si finisca col
diventarlo? È buona questa
ricetta? (Beanos riporta
l’esempio di santa Teresa
del Bambino Gesù) come
quello di un ragazzino
che, a furia di far girare un
trenino meccanico, diventa,
quasi senza
pensarci, ingegnere
delle ferrovie o, anche
più semplicemente,
capostazione.
Permettetemi per
un momento che mi
fermi su questo paragone
delle ferrovie. In fondo non lo trovo
così sciocco… Possiamo senz’altro
immaginare la chiesa come una vasta
impresa di trasporti; di trasporti
in Paradiso, perché no? Ebbene, mi
chiedo: che cosa diventeremo noi
senza i santi che organizzano il traffico?
Certo, da duemila anni, questa
compagnia di trasporti ha avuto non
poche catastrofi: arianesimo, nestorianesimo,
pelagianesimo, grande
scisma d’Oriente, Lutero…, per ricordare
solo deragliamenti e scontri
più noti.
Ma senza i santi, ve lo dico io, la
cristianità sarebbe un gigantesco
ammasso di locomotive capovolte,
carrozze incendiate, rotaie contorte
e ferraglia che finisce di arrugginirsi
sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe
più sulla strada ferrata invasa
dall’erba».
In definitiva, prosegue Beanos,
«la chiesa è una casa di famiglia, una
casa patea (Beanos aveva avuto
sei figli, ndr); nelle case di famiglia
c’è sempre un po’ di disordine; le sedie
talvolta mancano di una gamba;
i tavoli sono macchiati d’inchiostro;
le scatole di marmellata si svuotano
da sole nelle dispense».
Nel Diario di un curato di campagna
Beanos è ancora più realista: «Una
parrocchia è forzatamente sporca.
Una cristianità è ancora più sporca.
La chiesa dev’essere una buona massaia,
solida e ragionevole. Ha un
gregge, un vero gregge. È un bestiame
né troppo buono né troppo cattivo:
buoi, asini, bestie da tiro e da lavoro.
E anche caproni. Caproni e pecore.
Il padrone vuole che gli
rendiamo ogni bestia in buono stato».
Èquesta la mia casa di famiglia, di
tutti i giorni, con una moltitudine
di amici e cari ricordi appesi alle
pareti. E poi, come è scritto sull’architrave
di un vecchio palazzo: «Beati
i nostalgici, perché rivedranno le
loro case».
L’Apocalisse ipotizza l’esistenza di
un vangelo eterno, portato da un angelo
e da annunciare agli abitanti
della terra e a ogni nazione, razza,
lingua e popoli (Ap 14,6). Perché
«eterno»? Perché con pagine bianche,
senza figure e senza immagini?
Eteo unicamente se sarà quello che
è, cioè «evangelo» e «buona notizia
». Infatti «alla sera della vita saremo
giudicati unicamente sull’amore
» (CEI, Comunicare il vangelo in un
mondo che cambia, n. 30).

Padre IGINO TUBALDO, missionario
della Consolata, professore in vari
seminari dell’Istituto e diocesani,
è autore di molte pubblicazioni in
campo teologico e storico.

Igino Tubaldo

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