Perché si fanno le guerre?

In attesa della nuova guerra contro Saddam, l’autore parla
dei conflitti nel Golfo Persico, nell’ex Jugoslavia e in Afghanistan.

Sottopongo ai lettori di Missioni Consolata alcune
mie considerazioni. Parto dall’affermazione
«islam guerriero», per confrontarla con i fatti di
questi ultimi 20 anni.
Giusto una ventina d’anni fa, l’Iran, cacciato lo scià,
veniva assalito dal laicissimo Iraq di Saddam Hussein. Era
una guerra fra musulmani, ma non era stato l’«islam guerriero
» a scatenarla. Furono gli Stati Uniti (Usa)
a commissionarla, armando
e finanziando
Saddam Hussein. Ci
furono un milione di
morti e otto anni di
guerra. Non mi risulta
che qualcuno sia stato
chiamato dinanzi a un
tribunale internazionale
per rispondere di
quei morti.
Certamente quel
«servizio» ebbe un prezzo:
infatti, quando Saddam
Hussein chiese all’ambasciatore americano «luce verde»
per occupare il Kuwait, gli fu data. Attirato in trappola
Saddam, non ci si limitò a liberare il Kuwait, bensì a
bombardare l’Iraq e ad annientare il suo esercito. Poi ci
furono l’embargo e altri saltuari bombardamenti contro
il paese.
Sono passati pochi anni ed è la volta della Repubblica
Federale Jugoslava (RFJ). Essa viene distrutta, ridotta
a pezzi, come una pecora sbranata da lupi. Anche qui
l’«islam guerriero» non c’entra; in loco ci sono i musulmani,
certo, ma sono preziosi alleati dell’Occidente nel
processo di disgregazione che esso ha deciso per quella
regione balcanica.
Vale la pena di ricordare alcuni «dettagli». L’intervento
diretto degli Usa (quello indiretto – embargo, armi e altro
-, di cui non si sono dati la pena di comunicare, era
in opera da un pezzo) inizia con il bombardamento contro
i serbi della Bosnia-Erzegovina, giustificato dalla «strage
del mercato» (l’Onu poi accerterà che il razzo era partito
dal settore musulmano e non già da quello serbo). Il
bombardamento di Belgrado e la distruzione sistematica
della R.F.J. e del Kosovo hanno come copertura la
«strage di Racak». Però una commissione delle Nazioni
Unite rivelerà essere stata una farsa (vedi La Stampa,
30 ottobre 2001), della quale, paradossalmente,
Milosevic è tuttora accusato dal tribunale dell’Aia.
E siamo all’«11 settembre».
A distanza di 9 mesi (mentre scrivo), né un tribunale
né un’autorità internazionale ha accertato e processato
un solo terrorista. Tuttavia, subito, le parole (stravolte)
hanno assunto un altro senso, di comodo, con
insospettabili adesioni di persone che dovrebbero
essere illuminate dallo Spirito. Si è parlato di «atto
di guerra», di «legittima difesa», di operazioni di
«polizia internazionale». Ma l’atto di guerra presuppone
l’azione identificabile di uno stato;
la legittima difesa, un aggressore visibile
e ben individuato, nonché una risposta
immediata per impedire
l’evento. Quanto all’operazione di polizia,
supportata da missili Cruise,
bombardieri e altri strumenti di morte,
è un segno del livello di ipocrisia
e stravolgimento intellettuale a
cui i nostri capi ci hanno portato.
Gli Stati Uniti hanno affermato che era stato Bin
Laden e la sua organizzazione Al Qaeda. Però si sono
ben guardati dal dae le prove, e a ragion veduta: se le
avessero date, avrebbero dimostrato
di essee gli autori, perché Bin
Laden e Al Qaeda sono, visibilmente,
una loro creatura.
Nel recente passato gli Usa
hanno agito contro i sovietici in
Afghanistan, in Cecenia e in
Cina; hanno destabilizzato la
Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, per
mettere in scena il genocidio
da parte dei serbi e
giustificare i propri
bombardamenti.
Se non fossimo
ciechi o decisi ad esserlo,
vedremmo
che l’11 settembre
è stato l’espediente
perfetto, lo strumento preciso, per attuare
la politica che il governo Usa vuole
perseguire, superando nel contempo
il suo isolamento internazionale.
Grazie ad esso, ora Bush figlio, dopo
aver aggredito l’Afghanistan, può
continuare l’azione contro l’Iraq,
completando l’opera patea, minacciare
ogni altro stato (tra i primi
l’Iran e via via chi riterrà opportuno);
dando un volto al nemico, ancorché
di fantasma, può perseguirlo dove gli fa comodo e giustificare
lo scudo spaziale, l’ingigantirsi della Nato e della
sudditanza degli stati membri.
È un’incredibile messa in scena, dove i poveri (unica
realtà indiscutibile) proveranno sulla loro pelle i frutti della
tecnologia più avanzata.
Capire l’islam? In primis, è urgente capire chi siamo
noi. E, sul tema, mi sembra particolarmente centrato il saggio
di Aleksandr Zinov’ev «Il totalitarismo dell’Occidente».
Qualche riflessione la suggerirei anche agli alti esponenti
della Chiesa e all’Ufficio per la difesa della fede, visto che
le massime gerarchie hanno approvato tre guerre di bombardamento
(in Bosnia-Erzegovina, Repubblica Federale
Jugoslava, Afghanistan). La guerra sfugge alla morale: è
sempre cieca e brutale. Ma perché le uniche
vite che contano sono quelle degli aggressori,
resi quasi invulnerabili dalla loro
costosissima tecnologia?…
Recentemente sui giornali ho letto tre
episodi:
– lo stanziamento da parte dell’Amministrazione
Bush d’una certa somma
per convincere le donne alla castità, come
mezzo per prevenire aborti;
– le dichiarazioni in Cina dello stesso
presidente a favore dei «diritti umani» e l’invito ad un accordo
col Vaticano;
– la sorprendente sincronia con cui all’Onu Santa Sede e
Stati Uniti si sono pronunciati per fermare le ricerche sugli
embrioni umani.
Sia chiaro: non intendo entrare nel merito delle singole
questioni; però mi domando quale sia il prezzo di scambio
in tale accordo e quale influsso abbia avuto sull’approvazione
della guerra di bombardamento in Afghanistan…
Un pensiero di solidarietà e apprezzamento lo rivolgo
a Paolo Moiola e ai redattori che, su Missioni Consolata,
si espongono per portare un po’ di verità e di chiarezza nel
mare di disinformazione in cui siamo avvolti.

GIUSEPPE TORRE




«Sursum corda» da Gerusalemme

Caro direttore,
Missioni Consolata è semplicemente
splendida: si
fa leggere, è interessante,
con la presenza di spaccati
di viva attualità.
Ho letto con piacere la
notizia (ben commentata)
sull’«autolicenziamento»
di MARY ROBINSON dalla
carica di alto commissario
delle Nazioni Unite per i
diritti umani. L’ho conosciuta
a Ginevra diversi
anni fa. E’ una donna tutta
d’un pezzo, che sa andare
oltre la politica dei
politicanti e la diplomazia
dei figli di papà…
Qui, in Israele, la situazione
non cambia; tutto
appare scontato, con prospettive
di pace fumose e
lontane. Ma… sursum corda
(in alto i cuori)!

Certamente i lettori ricordano
l’editoriale di
padre Marco «Guerra alla
pace in terra santa»
(Missioni Consolata,
maggio 2002).
Il sursum corda del
francescano è un ennesimo
invito alla speranza.
Nonostante tutto.

Marco Malagola




Se la morte è una «fiction»

Egregio direttore,
ho letto con molto interesse
il dossier di GUIDO SATTIN
«Storie di orchi e cavaocchi» (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2002)
sulla tremenda realtà del
traffico di organi umani.
Non sono, però, d’accordo
che il turpe commercio
si vinca aumentando le
«donazioni», bensì orientando
la ricerca su un campo
incruento, verso altri orizzonti
(organi artificiali
e, ancor più, ricorso a cellule
staminali, prelevate da
adulti o cordoni ombelicali).
Sì, perché la «morte ce-
rebrale», condicio sine
qua non per l’espianto di
organi, è tutt’altro che pacifica.
Infatti parte rilevante
della scienza afferma (si
veda, tra l’altro, la dichiarazione
internazionale
contro la «morte cerebrale
», nemica della vita e
della verità, sottoscritta da
centinaia di medici, scienziati,
filosofi, educatori e
religiosi di tutto il mondo)
che la «morte cerebrale
» è una finzione giuridica,
una morte inventata ad
uso e consumo di espianti/
trapianti, una morte legale,
convenzionale, non
reale.
Afferma il noto genetista
G. Sermonti: «Il mio
dissenso diventa ribellione
di fronte all’informazione
che l’espianto sarà
eseguito da cadavere.
Quei corpi nei quali batte
il cuore, respirano i polmoni,
circola il sangue,
anche se con encefalogramma
piatto, non sono
morti. La cessazione di
tutte le funzioni cerebrali,
come recita la legge, non è
accettabile clinicamente
(non si sa neppure quali
siano tutte le funzioni cerebrali).
Come è stato
concluso al Congresso internazionale
di bioetica
nel 1996, la “morte cerebrale”
è una fiction, una
finzione.
Abbiamo inventato una
morte ad uso chirurgico.
Si dirà che quei moribondi
con encefalogramma
piatto non riprenderanno
più moto e coscienza.
Benché ci siano state delle
occasioni, ciò è probabilmente
vero, ma l’essere
destinati alla morte, non
significa essere morti…».
Da ultimo faccio osservare
che la donazione inter
vivos (fra vivi) pur essendo
indiscutibilmente
un grande atto di generosità,
genera, purtroppo,
due invalidi (donatore e
ricevente), destinati a vivere
nella sofferenza.
Mentre chiedo la pubblicazione
di queste note
pro veritate, ringrazio e
porgo i migliori saluti.

Il signor Carlo Barbieri
è cornordinatore di «Famiglia
e Civiltà» (“Associazione
per la difesa della
famiglia e della civiltà cristiana”).
I problemi di bioetica
sono oggetto di attenta analisi
anche da parte della
chiesa cattolica in vari
paesi. Lo conferma
«Prendersi cura della vita
» (lettera pastorale della
Conferenza episcopale
della Scandinavia dell’11
febbraio 2002, apparsa
su Il regno-documenti,
9/2002). Si affronta pure
la «donazione di organi».

Carlo Barbieri




Solidarietà. «Siate espliciti!»

Egregio direttore,
la rivista Missioni Consolata
da lei diretta è ottima:
contiene articoli ben fatti,
in gran numero sui problemi
del terzo mondo, e vari
interessanti dossiers. Tutto
o.k.
Però le faccio presente
una difficoltà: se voglio inviare
un’offerta per qualche
vostra opera missionaria,
come faccio non trovando
esplicitato il
«progetto» o «a favore
di…» o «necessitano euro…
per…»? Che cosa scrivo
sulla causale del conto
corrente postale?
La mia difficoltà è condivisa
anche da altri. Signor
direttore, aggiunga
alla sua rivista quanto sopra:
sarà più completa e
più pratica per il lettore.

Signora Italia, lei ha ogni
ragione di lamentarsi.
Ma, fino a ieri, vigeva una
norma governativa che
vietava alla nostra rivista
di rivolgere «appelli specifici» di solidarietà. Però
oggi, essendo Missioni
Consolata divenuta Onlus
(Organizzazione non
lucrativa di utilità sociale),
è possibile farlo. E lo
faremo.
Intanto ringraziamo,
ancora una volta, gli amici
che sostengono le attività
della Onlus (compresa
quella di produrre la
rivista) con contributi
«specifici» e «generici».
Per la causale del versamento,
è «tollerato» anche
l’uso del retro del
conto corrente postale.

Italia Fuina




Il mondo del «non profit»

Cari missionari,
esiste un mondo, dove si
lavora in sordina, senza
pretendere «posti al sole»,
un mondo criticato da chi
non lo conosce ed elogiato
da chi vi opera. Un «mondo
sommerso», che tuttavia
sostiene l’economia
vera con ideali veri, come
quello del «non profit».
È il mondo delle cornoperative
e dei consorzi sociali,
che si inseriscono nel lavoro
dei «grandi» con
«pietre scartate» dal «sistema
». È il mondo di chi
affronta i problemi senza
puntare esclusivamente al
tornaconto personale e investe
tempo come pochi
altri. È il mondo anche dei
«disgraziati»: carcerati,
handicappati, drogati, sieropositivi.
Comunità, cornoperative e
consorzi sociali stanno lavorando
con buoni esiti e
con persone qualificate,
che sentono il lavoro come
vocazione, e non solo
come fonte di guadagno.
Come sono strutturate
queste realtà? Le comunità-
alloggio offrono un
supporto psico-educativo
e un lavoro nella stessa comunità
(tui di pulizia, di
cucina e interventi specifici
di sostentamento). Le
cornoperative e i consorzi,
oltre al supporto educativo,
offrono un lavoro secondo
la specializzazione
professionale di chi vi opera
(si va dal settore agricolo
a quello informatico).
Economicamente come
sono gestite? Da convenzioni
regionali o comunali,
ma soprattutto si reggono
su lavori che gli utenti
del gruppo svolgono: lavori
scartati dal «nostro
mondo lavorativo», perché
umili, poco rimunerativi;
lavori che non si offrono
a nessuno, perché
troppo costosi per aziende
professionalmente preparate.
Tuttavia se un datore di
lavoro, quando la mano
d’opera è costosa, la cerca
in una cornoperativa sociale…
può anche trovarsi
soddisfatto.
Terminando l’anno in
attivo, s’investe una parte
dell’utile per migliorare la
comunità o cornoperativa
(strumenti tecnici più modei
per rendere il lavoro
meno faticoso, oppure educatori
laureati in scienze
dell’educazione, che seguono
gli utenti).
I direttori di questo
mondo, se prendono il loro
lavoro come una vocazione,
possono scoprire
nuovi orizzonti e nuove
mete da raggiungere. Allora
sì che si fa qualcosa di
socialmente utile…
Oggi tutti lamentano uno
stress, la malattia della
presente civiltà meccanica.
Già negli anni Cinquanta
esisteva una bevanda pubblicizzata
come il rimedio
«contro il logorio della vita
modea».
Nel lessico quotidiano
lo stress ha assunto una
connotazione generica;
più che ad una malattia,
allude ad una disposizione,
che con varie sfumature
passa dal «viola» del
soggetto (un po’ nervoso)
al «nero» del «malato»
(chiuso nel cerchio della
sofferenza).
Viviamo tempi che mettono
a dura prova l’animo
di tutti. I motivi per alzarsi
dal letto la mattina diventano
sempre più difficili
da intrecciare; il senso
del dovere (che in passato
agiva da farmaco), sembra
essersi perso, lasciando il
posto ad un’«autorealizzazione
» di cui tutti parlano,
ma che nessuno sa esattamente
mostrare.
Non intendo fare l’apologia
del mondo sotterraneo:
anche in questo, infatti,
esistono «nodi» irrisolti.
Tuttavia chi vive in
questo mondo appare meno
esposto allo stress.
Non è poco.

Siamo grati all’amico
Giovanni, già volontario
in Zaire (oggi Congo) con
i missionari della Consolata,
per la sua riflessione
sul mondo «non profit».
Un mondo meno «stressato
», dove non si esclude
il profitto. Un mondo
«socialmente utile».

Giovanni Fumagalli




«LE RADICI DELL’ODIO» E… NOI

Caro direttore, sono un professore di storia presso
l’Università di Torino, ora felicemente in pensione,
e sono lieto di presentarle il mio libro «Le radici
dell’odio». Si tratta, purtroppo, di una amarissima indagine
sul comportamento delle Società multinazionali
(e dei governi che le sostengono) a danno dei paesi
poveri del Terzo e Quarto Mondo. So che è un tema che
sta molto a cuore anche ai missionari e alla sua rivista.
Non a caso il mio libro è largamente debitore, tra le
tante fonti usate, a testimonianze, lettere e corrispondenze,
pubblicate dalla rivista Missioni Consolata.
Sono certo, signor direttore, che lei comprenderà
con quanta soddisfazione vedrei il mio libro segnalato
sulle pagine della sua rivista, sempre che venga giudicato
degno. Grazie.
Un cordiale saluto e un augurio di buon lavoro.

Il libro in questione è: Le radici dell’odio (Nord e Sud
ad un bivio della storia), Edizioni Dedalo, Bari 2002,
euro 14,50. L’autore, RENATO MONTELEONE, ripercorre la storia
dei popoli dominanti e subaltei dal colonialismo ottocentesco
fino ai nostri giorni, cercando la soluzione della
tragedia «odio» nelle pieghe della storia… Ed è con viva
soddisfazione che abbiamo registrato almeno otto citazioni
di Missioni Consolata.
Il libro del professore si impone per la tensione etica,
alimentata da speranza, con cui affronta i problemi. Sono
eloquenti le righe finali, dove
cita Petr Lavrov, militante
del partito populista russo
ed esule dal regime zarista.
«Ogni comodità di cui
godo – confessa Lavrov -, ogni
pensiero che ho il piacere
di formulare e acquisire,
è acquistato col sangue,
con le sofferenze e la fatica
di milioni di persone».
Il volume è acquistabile
anche presso LA LIBRERIA
«MISSIONI CONSOLATA», Via
Cialdini 2/A -10138 Torino
(tel: 011/447.66.95;
e-mail: libmisco@.it).

RENATO MONTELEONE




La «charta magna» delle BEATITUDINI

T orino, santuario della Consolata. La
coice è quella delle occasioni solenni.
Il tempio risplende di cascate di luci,
che si rinfrangono sui marmi multicolori e
preziosi. L’altare maggiore è ammantato di
gigli dall’intenso e inconfondibile profumo. È
il 19 maggio 2002, solennità di Pentecoste…
con l’apostolo Pietro, gli altri apostoli, la madre
di Gesù e alcune donne che annunciano
la discesa dello Spirito Santo.
Pietro e compagni sbalordiscono gli ascoltatori,
non solo per il contenuto del loro messaggio,
ma anche perché parlano in aramaico,
mentre l’uditorio è composto da «parti, medi, elamiti»… piemontesi e siciliani, cinesi e
tibetani, russi e ceceni, palestinesi e israeliani,
americani, indiani, australiani…
E tutti capiscono…
Nel santuario torinese pregano il cardinale
Crescenzio Sepe (massimo responsabile dell’evangelizzazione
dei popoli), il vescovo
Mino Lanzetti (che rappresenta l’arcivescovo
Severino Poletto), i superiori dei missionari e
delle missionarie della Consolata. Ma gli occhi
dei numerosi fedeli sono puntati sui padri
Paolo Fedrigoni e Giorgio Marengo, le suore
Lucia Bartolomasi e Maria Inés: sono «della
Consolata», stanno per ricevere il crocifisso
e partire per la Mongolia.
S antuario della Consolata, maggio
1902. Il cardinale Agostino Richelmi
consegna il crocifisso ai primi quattro
missionari della Consolata in partenza per il
Kenya. Sono «figli» di Giuseppe Allamano,
rettore del tempio, oggi «beato»; appartengono
all’Istituto Missioni Consolata, che
l’Allamano ha fondato dopo aver miracolosamente
superato una gravissima malattia. E
raggiungono ii kikuyu del Kenya.
Sull’allora carta geografica del paese africano
compare anche «hic sunt leones» (questa
è terra di leoni). I leoni ci sono, eccome! Ma
il Kenya è abitato soprattutto da uomini e
donne: r meru, samburu, turkana, borana, rendille, el molo, luo…
I missionari della Consolata li incontreranno
tutti per annunciare le beatitudini di Dio.
Questo «numero speciale»
KENYA, AMORE NOSTRO
insegue una (stra)ordinaria missione.

Dunque 100 anni sono trascorsi dalla
prima partenza dei missionari per il Kenya. «Dal 1902 ad oggi ogni missionario
della Consolata – afferma il cardinale
Sepe – parte idealmente da questo santuario;
parte con l’intento di vivere la missione ad
gentes con le caratteristiche suggerite dal titolo
“Consolata”, consegnato dal fondatore
Giuseppe Allamano come principio ispiratore
dell’attività: “elevare” la condizione delle
persone attraverso l’annuncio del vangelo, la
promozione umana, la difesa dei diritti umani,
la lotta contro le ingiustizie; incontrare la
gente e stare con essa, specialmente con chi è
emarginato, solo, triste, sfruttato; preoccuparsi
delle sue necessità e mirare al bene integrale
delle persone».
Al presente i missionari e le missionarie della
Consolata sono circa 2 mila, presenti in 25
nazioni: in Africa, nelle Americhe, in Asia, in
Europa. E oggi puntano verso le sterminate
steppe del mitico Gengis Khan, con una piccola
squadra multiculturale (vi sono pure una
colombiana e un argentino). È «una partenza
insieme»: non a caso per l’Asia, dove vive e
soffre la stragrande maggioranza dei non cristiani.
«La Pentecoste continua oggi – prosegue il
cardinale -. La consegna del crocifisso a questi
missionari ci ricorda che il dovere di annunciare
il vangelo in ogni parte del mondo è
di tutti i battezzati. “Non possiamo starcene
tranquilli – afferma pure Giovanni Paolo II –
di fronte a milioni di fratelli e sorelle, anch’essi
redenti dal sangue di Cristo, che vivono
ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente,
come per l’intera chiesa, la causa missionaria
deve essere la prima, perché riguarda
il destino eterno degli uomini e risponde
al disegno misterioso e misericordioso di
Dio” (Redemptoris missio, 86)».
È«lo zoccolo duro» o «la natura» della
chiesa cattolica, che è tale (cioè universale)
solo se missionaria. Lo ribadì con
forza il Concilio ecumenico Vaticano II, che 40
anni fa (l’11 ottobre 1962) aprì i battenti per
celebrare l’evento ecclesiale più significativo
del secolo.
Un evento attualissimo, per rilanciare la pace
e la giustizia, il dialogo interculturale, la libertà
religiosa, senza tuttavia demordere dall’annunciare
Gesù Cristo.
Ma la missione non è un andare a senso unico:
è «andata e ritorno». Così, Joseph Gitonga,
Reuben Kanake e James Lengarin (rispettivamente kikuyu , meru e samburu) sono missionari
della Consolata in Italia.
Cent’anni fa i «nostri» partivano
per il Kenya. Oggi si
assiste al processo inverso.
Questo perché la
«casa», in Africa o in
Europa, è di tutti. Con
la certezza che invano
si affaticano i loro costruttori,
se non lo fanno
secondo le «beatitudini»
del vangelo.
La «charta magna» di
tutti i cristiani.

FRANCESCO BERNARDI




IL MEGLIO È LA CARITÀ

Carissimi fratelli e sorelle!
La missione della
chiesa è l’annuncio
dell’amore e della misericordia
di Dio, rivelati agli uomini
mediante la vita, la morte
e la risurrezione di Gesù Cristo…
È la proclamazione che
Dio ci vuole tutti uniti nel suo
amore, perdonandoci e chiedendoci
di perdonare.
La riconciliazione ci è stata
affidata, perché è Dio a riconciliare
a sé il mondo in
Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e affidando
a noi la parola del perdono
(cfr. 2 Cor 5, 19). E Cristo
stesso sulla croce ha pregato:
«Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno» (Lc 23, 34).
La missione è annuncio di perdono. Lo si ripete sempre,
ma il fatto non perde il suo significato e la sua importanza,
perché la missione costituisce la nostra risposta
al comando di Gesù: «Andate dunque e ammaestrate
tutte le nazioni… insegnando loro ad
osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19).
Si impone con maggiore urgenza il dovere della
missione, perché «il numero di coloro che ignorano
Gesù Cristo e non fanno parte della chiesa è
in aumento; anzi, dalla fine del Concilio, è quasi raddoppiato.
Di fronte a questa umanità immensa, amata
dal Padre che per essa ha inviato
il suo Figlio, è evidente
l’urgenza della missione
(cfr. Redemptoris missio, 3).
Con il grande evangelizzatore
san Paolo, vogliamo ripetere:
«Non è per me un
vanto predicare il vangelo;
è un dovere: e guai a me se
non lo faccio!» (1 Cor 9,
16).
Solo l’amore di Dio, capace
di affratellare gli uomini di
ogni razza e cultura, farà
scomparire le dolorose divisioni,
i contrasti ideologici,
le disparità economiche
e le violente sopraffazioni
che ancora opprimono l’umanità.
Conosciamo le guerre e le rivoluzioni che hanno
insanguinato il secolo trascorso, nonché i conflitti
che continuano ad affliggere il mondo. Non sfugge, al
tempo stesso, l’anelito di tanti uomini e donne che, pur
vivendo in grave povertà spirituale e materiale, sperimentano
la sete di Dio e del suo amore misericordioso.
Pertanto l’invito del Signore ad annunciare la buona
notizia rimane valido; anzi diventa sempre più urgente.
Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte
ho sottolineato l’importanza della contemplazione
del volto dolente e glorioso di Cristo. Il
cuore del messaggio cristiano è l’annuncio del mistero

pasquale di Cristo crocifisso e risorto. Il volto dolente
del Crocifisso ci conduce ad accostare l’aspetto più paradossale
del suo mistero, quale emerge nell’ora della
croce (cfr. 25). È la croce la chiave che dà libero accesso
ad una sapienza che non è di questo mondo, né dei
suoi dominatori, ma alla sapienza divina, misteriosa, che
è rimasta nascosta (cfr. 1 Cor 2, 6.7).
Dalla contemplazione della croce impariamo a vivere
nell’umiltà e nel perdono, nella pace e nella comunione.
Questa è stata l’esperienza di san Paolo, che scriveva
agli Efesini: «Vi esorto io, prigioniero del Signore,
a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete
ricevuto, con umiltà, mansuetudine e pazienza,
sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare
l’unità dello Spirito nel vincolo della pace» (Ef
4, 1-3).
E ai Colossesi aggiungeva: «Rivestitevi come eletti di
Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, bontà,
umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportandovi a vicenda
e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno
abbia da lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore
vi ha perdonato, fate anche voi. Al di sopra di tutto
vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la
pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete
stati chiamati in un solo corpo» (Col 3, 12-15).
Il grido di Gesù sulla croce non tradisce l’angoscia
di un disperato, ma è la preghiera del Figlio che offre
la sua vita al Padre per la salvezza di tutti. Dalla
croce Gesù indica a quali condizioni è possibile esercitare
il perdono. All’odio, con cui i persecutori lo avevano
inchiodato sulla croce, risponde pregando per
loro. Non solo li ha perdonati, ma continua ad amarli e
intercede per loro.
La sua morte diventa la realizzazione dell’amore.
Davanti alla croce non possiamo che prostrarci in adorazione.
«Per riportare all’uomo il volto del Padre,
Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell’uomo,
ma caricarsi persino del volto
del peccato. “Colui che non aveva
conosciuto il peccato, Dio lo
trattò da peccatore, perché potessimo
diventare per mezzo di
lui giustizia di Dio” (2 Cor 5, 21)»
(Novo millennio ineunte, 25).
Dal perdono di Cristo anche per
i suoi persecutori inizia la nuova
giustizia del regno di Dio.
Cristo risorto dona ai suoi
discepoli la pace. La chiesa,
fedele al comando del
suo Signore, continua a proclamae
e diffondee la pace. Mediante
l’evangelizzazione, i credenti
aiutano gli uomini a riconoscersi
fratelli: pellegrini sulla terra
e su strade diverse, sono tutti incamminati verso la patria
comune che Dio, attraverso vie solo a Lui note, non
cessa di additare.
La strada maestra della missione è il dialogo sincero
(cfr. Ad gentes, 7; Nostra aetate, 2); il dialogo che
«non nasce da tattica o interesse» (Redemptoris missio,
56), e neppure è fine a se stesso. Il dialogo, piuttosto,
fa parlare all’altro con stima e comprensione, affermando
i principi in cui si crede e annunciando con
amore le verità profonde della fede, che sono gioia,
speranza e senso dell’esistenza. Il dialogo è la realizzazione
di un impulso spirituale, che «tende alla purificazione
e conversione interiore, la quale, se perseguita
con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa» (ibid., 56).
L’impegno ad un dialogo attento e rispettoso è conditio
sine qua non per un’autentica testimonianza dell’amore
salvifico di Dio.
Questo dialogo è profondamente legato alla volontà
di perdono, perché colui che perdona apre il cuore agli
altri e diventa capace d’amare, di comprendere il fratello
e di entrare in sintonia con lui. La pratica del perdono,
sull’esempio di Gesù, sfida e apre i cuori, risana
le ferite del peccato e della divisione, crea una vera comunione.
Con la giornata missionaria mondiale è data a tutti
l’opportunità di misurarsi con le esigenze dell’amore
di Dio. Amore che domanda fede; amore
che invita a porre tutta la propria fiducia in Lui.
«Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti
si accosta a Dio deve credere che Egli esiste e che ricompensa
coloro che lo cercano» (Eb 11, 6).
In questa annuale ricorrenza siamo invitati a pregare
per le missioni e a collaborare con ogni mezzo alle attività
che la chiesa svolge in tutto il mondo per costruire
il regno di Dio. Siamo chiamati anzitutto a testimoniare con la vita l’adesione totale a Cristo e al suo vangelo.
Non ci si deve mai vergognare del vangelo, né avere
paura di proclamarsi cristiani, tacendo la propria fede.
È necessario, invece, continuare a parlare, allargare gli
spazi dell’annuncio della salvezza, perché Gesù ha promesso
di rimanere sempre e comunque presente in
mezzo ai suoi discepoli.
La giornata missionaria, vera festa della missione, ci
aiuta a meglio scoprire il valore della nostra vocazione
personale e comunitaria. Ci stimola, altresì, a venire in
aiuto ai «fratelli più piccoli» (cfr. Mt 25, 40) attraverso
i missionari sparsi in ogni parte del mondo.
Fratelli e sorelle carissimi! Affidiamo il nostro impegno
per l’annuncio del vangelo, come pure l’intera
attività evangelizzatrice della chiesa, a Maria
Santissima, regina delle missioni. Sia lei ad accompagnarci
nel nostro cammino di scoperta, annuncio e testimonianza
dell’amore di Dio, che perdona e dona la
pace all’uomo.

IOHANNES PAULUS II




SFRATTO AGLI SPIRITI

Presa visione
della situazione,
i padri Flavio Pante,
Ramon Lazaro
e Michael Wamunyu
stanno mettendo a fuoco
priorità e progetti
di testimonianza
della carità: difesa
dei diritti umani, dialogo
con i musulmani,
alfabetizzazione
e sanità.

Una visita al mercato di Dianra
è indispensabile per vedere
la vita della gente. Sui banchetti
traballanti è sciorinata un’infinità
di mercanzie e prodotti agricoli:
riso, inyame (una specie di manioca),
frutta e verdura d’ogni genere, tutte
prodotte dai senufo.
«Sono gli autoctoni di questa regione
– spiega padre Ramon -, agricoltori
per natura. Per questo le popolazioni
immigrate li hanno chiamati
senufo, termine che in diula, la
lingua franca diffusa dei mercanti
musulmani, significa: coloro che coltivano
la terra. E sono grandi lavoratori
». «Molto sfruttati» aggiunge padre
Flavio.

IL PREZZO NON È GIUSTO
Da vari decenni la risorsa principale
dei senufo è la coltivazione del
cotone. Il guaio è che i contadini,
dall’inizio della coltivazione alla consegna
del prodotto, non conoscono
mai quale sia il prezzo che ne ricaveranno.
Una volta consegnato, devono
accontentarsi di quanto stabilirà
la compagnia.
«Tale sistema va avanti da molti anni
– afferma padre Flavio -. Il sindacato
dei coltivatori di cotone ha organizzato
una protesta, occupato la
fabbrica e minacciato di bruciare i
raccolti, se il prezzo non fosse immediatamente
fissato. Le autorità del
settore agricolo hanno promesso di
risolvere il problema; ma, a distanza
di due mesi, i contadini non sanno
ancora quando e quanto saranno pagati
». Intanto il cotone rimane nelle
capanne, ingiallisce e perde valore.
I padri hanno cercato di difendere
i diritti dei contadini, parlando con i
cristiani impiegati nello stabilimento,
ma questi non hanno voce in capitolo.
«Da alcuni anni la fabbrica è stata
privatizzata – continua padre Flavio
– e non si sa chi sia il padrone.
Qualche mese fa è apparso un russo,
forse uno dei padroni». «Era bianco
come un pezzo di carta. Il giorno dopo
era scottato e rosso come un’aragosta
» aggiunge sorridendo padre
Michael.
La difesa dei diritti umani è una
delle tante sfide che i missionari di
Dianra dovranno affrontare. Ma per
ora concentrano l’attenzione al campo
religioso e culturale.

LIBERAZIONE DALLA PAURA
«La religione tradizionale ha dei
valori su cui innestare quelli del vangelo
– spiega padre Michael -. Uno di
essi è il profondo rispetto per la natura,
ritenuta sacra, abitata da spiriti
e divinità. Ma è pure una sacralità che
alimenta paure irrazionali: tutti hanno
in casa feticci protettivi e si sentono
minacciati da spiriti, sortilegi, malocchi
e maledizioni».
Una sessione della preparazione al
battesimo, presente solo nei catechismi
destinati ai senufo, ha come tema:
Gesù mi libera. Tale sessione inizia
invitando i catecumeni a manifestare
ad alta voce le proprie paure
e a sbarazzarsi dei feticci; si conclude
con un gran falò in cui vengono
bruciati feticci e aesi vari, come segno
di conversione e di fiducia in
Cristo liberatore.
Ma gli spiriti sono duri da sfrattare
dalla mente e dalla vita. Molti cristiani
continuano a vivere sotto l’oppressione
delle paure derivanti dalla
religione tradizionale, intrecciando
riti cristiani con sacrifici di capretti e
polli. Altri chiedono preghiere ed esorcismi
e fanno celebrare messe per
essere liberati da tali oppressioni.
«La religione cristiana è sentita come
un antidoto al male fisico e morale
– continua padre Flavio -; la preghiera
sconfina spesso nella magia.
Un giorno un uomo mi chiese di curare
le sue gambe piagate. Gli dissi
che non avevo con me alcuna medicina.
Mi rispose che era venuto solo
perché imponessi le mani sulle ferite.
Una donna, dopo l’ennesimo litigio,
decise di lasciare il marito; questi le
disse con rabbia che non avrebbe trovato
un altro uomo: quelle parole le
caddero addosso come un sortilegio,
la facevano deperire fisicamente, finché
venne alla missione per essere liberata
dalla maledizione».
In compenso, i senufo sono molto
ben disposti verso i missionari e il
cristianesimo, mentre hanno il dente
avvelenato contro l’islam. Tale avversione
risale alla fine del 1800,
quando Samori, un guerriero della
Guinea, conquistò tutta la regione
settetrionale della Costa d’Avorio e,
per costruirsi un regno islamico, impose
la sua fede con massacri e distruzioni
(vedi riquadro p. 68). I musulmani
lo celebrano come eroe, le
popolazioni animiste lo ricordano
come un sanguinario e i senufo rifiutano
ancora oggi di convertirsi al
musulmanesimo, mentre si aprono
facilmente al messaggio del vangelo.

TE LO DO IO IL DIALOGO
La presenza dei missionari è apprezzata
anche dai musulmani. «Sul
piano umano il dialogo è possibile e
già esiste – racconta padre Flavio -. Al
nostro arrivo, l’iman-capo è venuto
due volte a darci il benvenuto. Noi
abbiamo ricambiato le visite, fatto atto
di presenza al funerale di un suo
familiare e, all’inizio del ramadan, siamo
andati a fare gli auguri e lui è venuto
a ringraziarci».
«L’iman di Marandallah – aggiunge
padre Michael – ha chiesto al vescovo
di mandare missionari stabili
in quella zona». Il fatto è sorprendente,
ma non troppo: la chiesa cattolica
porta asili, scuole, ospedali e
altre opere sociali.
«Il dialogo religioso è ancora lontano
– continua padre Flavio – e richiederà
da parte nostra una conoscenza
più profonda del mondo musulmano.
Per ora vorremmo tentare
a livelli più concreti: coinvolgere i
musulmani nei progetti sociali che
abbiamo nel cassetto, asili, scuole di
alfabetizzazione, strutture sanitarie».
Una visita all’iman potrebbe essere
l’occasione per tastare il polso. Lo
troviamo in casa, che funge anche da
moschea; ma non riusciamo a comunicare:
egli parla solo diula; il figlio
traduce in un francese incomprensibile.
L’iman promette di venire,
la sera, alla missione con un interprete
più ferrato.
E arriva puntuale. Dopo le rituali
presentazioni, risponde pacatamente
alle domande. Dice di chiamarsi
Karim Karaté; ha fatto il pellegrinaggio
alla Mecca, come pure gli altri
quattro iman di Dianra. Afferma che
non ci sono conflitti tra cristiani e
musulmani, poiché adorano la stessa
divinità; la differenza è solo sulle labbra,
gli uni dicono Dio, gli altri Allah;
ma nel cuore è lo stesso Dio.
Domando quanti sono i musulmani
di Dianra. Risponde di non conoscere
il numero esatto, ma che sono
più dei cristiani e provengono da
vari gruppi etnici del Mali, Guinea,
Burkina Faso. Ci informiamo sulle
scuole coraniche: gli alunni imparano
a memoria brani del Corano in arabo,
usando traduzioni in francese
e diula per la comprensione.
Arriviamo alla domanda cruciale:
«Come e in quali campi possono lavorare
insieme musulmani e cristiani
per il bene della gente?». L’iman si esibisce
in un lungo e generico discorso
sulla necessità della collaborazione
e aiuto reciproco. Lo incalzo
con una domanda più precisa: «Quali
sono i problemi e necessità della
popolazione in generale?». «Non
conosco le necessità degli altri – risponde
serafico l’iman -; ma solo della
mia gente: per ora abbiamo bisogno
della moschea; chiediamo ai cri-
stiani di aiutarci a costruirla».
La conversazione perde interesse,
ma, a sorpresa, l’iman dice che anche
lui ha da farmi una domanda: «Tornato
in Italia, la prego di procurarmi
una motocicletta».
Mi viene da ridere; ma mi trattengo.
Spengo il registratore: per me il
«dialogo» è ormai su un binario morto.
Padre Flavio sembra più imbarazzato
di me, ma si ricompone in
fretta e risponde: «Il nostro ospite è
qui per rendersi conto dei problemi
di tutta la gente, anche della comunità
musulmana. Prima di tutto,
però, dovrà occuparsi delle necessità
della missione, poiché, come vede,
siamo agli inizi. Ma Dio ci ha dato
due mani, perché con una sola non
riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo.
Quando la comunità musulmana
vorrà comperare la motocicletta
per l’iman, anche noi saremo
felici di offrire il nostro contributo».
L’iman annuisce e si mostra soddisfatto.
Padre Flavio tira un sospiro di
sollievo, per essersela cavata con diplomazia;
ma il suo entusiasmo per il
dialogo pare un poco scosso.

GLI SPAVENTAPASSERI
Da non perdere, a Dianra, è una
visita ai fabbri: nella cultura senufo
essi sono ritenuti personaggi dotati
di qualità sovrumane e, per la loro
arte di manipolare il ferro, giocano
un ruolo privilegiato in varie cerimonie
magico-religiose.
Visitiamo due officine, a un tiro di
schioppo dalla missione. Nella prima,
un giovanotto sta ricavando un
vomero d’aratro da vecchi cerchioni
di automobili. Ci mostra zappe e attrezzi
vari già pronti per la vendita.
Ammiro l’inventiva e i mezzi tanto
rudimentali; ma non trovo nulla di
sovrumano; anzi, a girare la ruota di
bicicletta che alimenta un minuscolo
mantice c’è un bambino. Più sconcertante
è la seconda officina, gestita
da tre ragazzini in età scolare.
Padre Flavio sembra leggere ciò
che mi passa per la mente e spiega:
«A Dianra l’analfabetismo è un problema
molto grave. Quasi tutti i villaggi
hanno le scuole elementari; ma
pochi le frequentano: i bambini sono
nei campi fin da piccoli, se non altro
come spaventapasseri nelle coltivazioni
di riso. Per le ragazze la mentalità
locale è anche peggio: per essere
buone mogli e madri non è necessario
aver studiato; anzi, la donna ignorante
è più sottomessa».
Alla mentalità si aggiunge la mancanza
di documenti: la maggior parte
dei figli nasce in casa e i genitori
non si preoccupano di registrarli all’anagrafe.
Per avere l’atto di nascita,
richiesto per iscriversi alla scuola, bisogna
sborsare 30 mila lire, senza
contare le tasse scolastiche: spese che
non producono un utile immediato.
«Incontro adulti, donne soprattutto,
che piangono per non sapere
leggere né scrivere – racconta padre
Flavio – e ci chiedono di aprire scuole
di alfabetizzazione: vogliamo dare
presto una risposta. Al tempo stesso,
bisognerà combattere e smontare la
mentalità dell’immediato, convincendo
i genitori che l’istruzione è un
investimento per il futuro».
Problemi e progetti continuano a
ruota libera: orfani e situazioni di po-
vertà richiedono di inventare forme
di aiuto materiale per incoraggiare e
sostenere i giovani che vogliono studiare.
Preoccupa pure la situazione
post-scolare: finito il ciclo elementare,
i giovani non hanno altri sbocchi
se non il ritorno ai campi. Una scuola
secondaria è stata appena aperta a
Dianra, ma non si sa come funzioni.
Dalla missione la gente si aspetta,
soprattutto, scuole matee: non ce
n’è una in tutto il territorio parrocchiale.
I padri le hanno elencate tra i
progetti prioritari, per togliere i bambini
dalla strada e liberarli dalla condanna
a eterni spaventapasseri.

OPERAZIONE… CESSI
Un’altra sfida è costituita dalla situazione
sanitaria. Nei villaggi non
esiste la benché minima struttura: uniche
medicine sono ancora quelle
tradizionali, basate su erbe e foglie.
A Dianra Centro c’è un dispensario:
fu aperto e sostenuto da un organismo
internazionale per combattere
il verme di Guinea, una malattia
causata da un parassita presente nelle
acque inquinate, che provoca
gonfiore alle gambe e cecità. Da
quando il morbo è stato sconfitto, il
dispensario è inattivo e sprovvisto di
qualsiasi medicina. «Quando scoppiarono
tifo e colera – racconta ancora
padre Flavio – l’infermiere ordinava
ai moribondi di bere acqua
minerale per combattere la disidratazione:
non aveva né flebo né altri
medicinali».
«Prima di tutto – aggiunge padre
Ramon – è necessario fare una campagna
di educazione sanitaria: nella
cultura locale, per esempio, non esistono
i cessi, per cui, in molti luoghi,
l’acqua è sempre inquinata».
«Abbiamo in mente piccoli dispensari
o farmacie – continua padre
Flavio -; nulla di grande, ma strutture
semplici, gestite da persone preparate
con una formazione di base,
capaci di educare la gente alla prevenzione,
curare le malattie più comuni
e somministrare le medicine
essenziali. Naturalmente avremmo
bisogno di una persona diplomata,
suora, volontario o infermiere, che si
assuma responsabilità e direzione di
tali progetti. Oltre che una priorità
richiesta dalla situazione,
sarebbe una forte testimonianza
dell’amore».

EROE O BANDITO?
F iglio di un commerciante malinke, Samori nacque verso il 1830 in un villaggio
presso Sanankoro (Guinea). Seguendo le orme del padre, si dedicò al traffico
della cola, finché scoprì la vocazione di guerriero, a servizio di re musulmani
e animisti, secondo l’opportunità. Quindi si mise in proprio: raccolse un
esercito personale e cominciò a sottomettere al suo potere varie etnie, trattando
i vinti con magnanimità e integrandone i soldati nel suo esercito. Così, dal
1870 al 1885, diventò padrone assoluto di un vasto territorio, comprendente la
regione orientale della Guinea e quella meridionale del Mali.
Per unire popoli tanto diversi, occorreva un buon collante: Samori lo trovò nella
religione musulmana e la impose con la forza alle popolazioni animiste, anche se
lui dell’islam non aveva neppure la scorza. Totalmente analfabeta, imparò a decifrare
qualche parola araba: ciò fu sufficiente per assumere, nel 1884, il titolo
di almani, «capo dei credenti».
Nella furia islamizzatrice non risparmiò neppure i familiari: fece uccidere due figlie,
ingiustamente accusate di aver tradito la verginità prescritta dal corano.
II ntanto, a nord dell’impero di Samori avanzano i francesi. Dopo varie scaramucce,
giocò la carta diplomatica: firmò un trattato (1886), in cui s’impegnava
a non oltrepassare il fiume Niger; l’anno seguente
accettò «di mettersi sotto la protezione della Francia».
Per i francesi era una vittoria strategica: il protettorato
sbarrava la strada alle pretese degli inglesi, già presenti
in Sierra Leone; per Samori diventò una camicia di forza.
Fiducioso che i francesi non lo avrebbero colpito alle
spalle, egli si lanciò alla conquista del regno senufo
di Kénédugu, con capitale Sikasso. Ma varie popolazioni
del suo regno, stremate dalla guerra e dalla carestia,
sobillate dai francesi, si ribellano (1888). Quando si
sparse la voce che Samori era morto, la rivolta divampò
in tutto l’impero come fuoco nella savana.
Ma riapparse come un leone ferito: tagliò teste a tutto
spiano e riprese quasi tutto il territorio; metà della popolazione
scappò sotto la protezione dei francesi.
Firmato l’ennesimo trattato, Samori si alleò con i Tucolor
e altri regni dell’alto Niger, che resistevano all’avanzata
straniera; e fu la fine: cancellata ogni resistenza
(1890-91), i francesi annientarono anche l’impero di Samori.
R iorganizzato l’esercito, Samori decise di costruirsi
un altro impero. Alla fine del 1892, con un esodo
in massa di gente a lui fedele, invase tutta la savana a
nord della Costa d’Avorio, lasciando dietro di sé terra
bruciata, distruggendo i villaggi che rifiutavano di sottomettersi
all’islam e mozzando la testa a chi gli suggeriva
di arrendersi. Vittima illustre fu il suo primogenito,
Dyaulé-Karamogho: inviato a Parigi nel 1885, era
un ammiratore della Francia. Sospettato di tramare col nemico alle spalle del padre,
fu condannato a morire di fame.
Accampato in terre esotiche, tra popolazioni ostili, impedito d’importare armi da
Freetown e Monrovia, Samori giocò la carta della rivalità tra le due potenze coloniali:
in cambio del ritorno nel suo primo impero, offrì ai francesi le terre confinanti
con la Costa d’Oro (Ghana), già colonia inglese.
Ormai i francesi avanzavano dal sud e Samori si rese conto dell’impossibilità di
resistere ai loro cannoni. Nel 1898, radunato l’esercito, con un altro esodo di massa,
si rifugiò nella foresta della Liberia. Ma l’ostilità della gente e le difficoltà dell’ambiente
ridussero la sua gente alla fame. Samori decise di arrendersi, ma venne
catturato prima che la resa fosse firmata.
Alla fine del 1898 al vecchio leone fu notificato l’ordine d’esilio nel Gabon, insieme
a pochi amici e familiari. Morì di polmonite a Ndjolé, il 2 giugno 1900. La
sua tomba, coperta dagli sterpi, è introvabile.

Benedetto Bellesi




Il lettone familiare

Quando un immigrato ha un lavoro e una casa
la prima cosa che desidera fare è avere vicino
a se i propri cari, moglie e figli soprattutto.
Ma il «ricongiungimento familiare»
può essere molto complicato…

Di immigrati si parla tanto. Sempre di più. In effetti, la migrazione di persone
dai paesi del Sud a quelli occidentali (Europa in testa) è un fenomeno di vastissima
portata, che domina quest’epoca e con ogni probabilità anche gli anni a venire.
Pure la nostra rivista pubblica molti articoli su questa tematica. Ora abbiamo
pensato di dedicare agli immigrati una rubrica ad hoc, cui abbiamo dato il titolo
di «DIARIO DI UN EXTRACOMUNITARIO. PICCOLE E GRANDI STORIE DELL’ITALIA MULTIRAZZIALE».
L’abbiamo affidata a Snezana Petrovic, la nostra stimata collaboratrice serba. Nel
frattempo, attendiamo di conoscere i primi effetti della nuova e discussa normativa
sull’immigrazione (meglio nota come legge «Bossi-Fini»). Ne parleremo, senza
perdere di vista quello spirito critico che sempre accompagna il nostro lavoro.

il Direttore

Era appena passato mezzogiorno e nell’ufficio stranieri
non c’era molta gente. Subito approfittammo
dell’insperata fortuna per entrare a ritirare il
permesso di soggiorno della signora D..
Lei era visibilmente emozionata, impaziente, tesa.
Diede in fretta il suo passaporto al giovane uomo dall’altra
parte dello sportello che prese una grossa cartella
e cominciò a cercare. Mentre il ragazzo cercava il permesso
di soggiorno della signora mi attirò l’attenzione
il dialogo allo sportello in fondo.
Un uomo di caagione scura, coi baffi, magro e vestito
leggero per il freddo che c’era fuori, continuava a ripetere:
«Ma io avere lavoro! Io avere casa!». L’uomo
dall’altra parte dello sportello si sforzava di spiegargli
che non è sufficiente avere un lavoro e una casa per portare
la moglie e i figli in Italia, ma un guadagno ben preciso
e una casa grande quanto è grande la famiglia. Ma
non ci riusciva. L’uomo con i baffi continuava a ripetere
di avere un lavoro, di avere una casa e voleva far venire
sua moglie e i suoi quattro figli.
– Devi trovare un altro lavoro con lo stipendio più alto.
E anche un’altra casa, perché questa che hai adesso è
troppo piccola per la tua famiglia.
– Per noi basta. Noi gente modesta. Basta mangiare, vivere.
Casa no piccola. Due stanze. Due stanze. Una io
e moglie, una bambini. In Pakistan tutti una stanza.
– In Italia non si può. Per quanto guadagni e per la casa
puoi portare solo due persone non cinque.
– No persone! No persone! Solo moglie e figli signore!
Solo mia moglie e miei figli.
– Se non cambi lavoro e casa, puoi portare soltanto la
moglie e un figlio. Devi trovare un lavoro con più guadagno
e una casa più grande. Così è la legge!
In quel momento il ragazzo del nostro sportello trovò
il permesso di soggiorno della signora D. e noi uscimmo.
Appena fummo fuori, lei cominciò a baciarmi e abbracciarmi
di gioia, come una ragazzina, ma io non riuscivo
a condividere la sua allegria perché continuavo a
pensare a quel pakistano e all’impiegato allo sportello.
Come si fa a spiegare a un immigrato che lui non
ha il diritto di scegliere come vivere con la sua
numerosa famiglia? Che i suoi figli non hanno il
diritto di dormire tutti insieme in un lettone grande come
si usa nel suo paese, perché questo non è igienico.
Qui siamo in Europa che non sopporta miseria, malattie,
usi e costumi spesso malsani e poco democratici.
L’Europa non sopporta chi si accontenta con poco…

Grassa, ricca ed egoista?
Caro padre Beardi, scrivo questa lettera a
proposito del movimento politico contro gli
immigrati che in questi anni è cresciuto in
Italia e in Europa.
Lo faccio con un mix di dolore, stupore e rabbia.
Non mi offenderò se i lettori di Missioni Consolata
mi accuseranno di aver scritto queste righe sotto
l’influenza di qualsiasi delle sensazioni precedenti.
Però non posso fae a meno. Me lo chiede la mia
storia personale, intima, familiare, quotidiana.
Sebbene ci siano ragioni storiche che mi provano il
contrario, continuerò a pensare che l’Italia sia ancora
quel grande e bel paese che i miei nonni sognarono
fino alla morte. Sempre ricordavano visi, paesaggi,
odori, angustie dell’Italia lontana, sebbene a
loro l’Argentina avesse dato tutto: braccia aperte,
amore, lavoro, figli e nipoti.
Sono migliaia e migliaia gli esuli che oggi abbandonano
questo paese che non riesce a stabilizzare la
propria storia, una storia senza dubbio benedetta
dalle lacrime di coloro che sfidarono la nostalgia
per illudersi con un futuro. Per questo non posso
credere che quell’Italia di emigranti si sia convertita
in una signora ricca, grassa ed egoista, capace di
rifiutare coloro che le chiedono ospitalità.
Mi addolora constatare che anche con documenti in
regola e un passaporto che li accredita come cittadini
europei molti dei miei connazionali con doppia
nazionalità si sentano fuori posto
e discriminati su un suolo, che fu
la terra dei nostri avi. Perché
ormai non interessano più i legami.
Perché – ammettiamolo – a
nessuno importa che ancora esistano
vincoli che ci uniscono.
Mi addolora pensare che la storia
sia passata senza lasciare tracce e
che neppure le sofferenze del passato
servano per ricreare nuovi
legami tra i popoli. Mi addolora
pensare ai miei nonni, che scapparono
dagli orrori di un’Italia
umiliata dalla fame e dall’incubo
della guerra, possano essersi sbagliati
nel trasmetterci l’amore per
quella terra e la famiglia, il rispetto
e l’orgoglio per il lavoro, la
capacità di ringraziare.
Mio nonno Beppo, che venne da
Vicenza, era falegname. Quando
si sposò con Alba, che era arrivata
da Treviso, con il legno delle
piante argentine si costruì i suoi
propri mobili. I nonni morirono, ma i loro mobili
sono ancora qui con noi, perché mai potremmo fare
con essi legna per il fuoco, né consegnarli a mani
estranee. Semplicemente perché essi formano parte
della nostra memoria familiare come le foto, le lettere
ingiallite, i vecchi bauli e i sogni. Soprattutto i
sogni.
Però vedo che l’Italia sta facendo cenere delle sue
riserve. E non parlo delle riserve materiali che – grazie
a Dio – l’hanno resa grande economicamente,
bensì di quelle che nutrono i popoli, che ne costituiscono
l’identità.
La storia potrà dirmi se le mostruosità che oggi si
pretende di fare con i milioni di immigrati in Europa
finiranno per assomigliare a quelle che fecero vari
mostri ideologici del passato e se, in definitiva,
niente è cambiato eccetto i posti a tavola.
Debbo ancora ricordare che 60-70 anni fa erano
l’Italia e l’Europa tutta che battevano ad altre porte,
ricevendo alloggio e calore in molti paesi
dell’America, dal nord al sud.
Per questo mi stupisco nel constatare che
quell’Italia e quell’Europa di emigranti (milioni di
figli che esse non potevano mantenere) oggi si intestardiscono
a invecchiare sole ed isolate, raccogliendosi
a difesa della propria ricchezza, temendo
che gente venuta da fuori possa portargliela via.
Quello che non si comprende (o che non si vuole
comprendere) è che gli affamati e gli esclusi non
sono ladroni, ma vittime; non sono usurpatori, ma
bisognosi. In definitiva, sono uomini, donne, bambini
che chiedono un pezzo di pane, cioè qualcosa di
sacro e considerato come uno dei diritti umani fondamentali.
L’unico documento che queste persone possono
presentare è la loro povertà e questa non è di certo
un delitto. Al contrario, dovrebbe essere la carta di
presentazione per qualsiasi richiesta di soccorso.
L’Antico testamento ci ricorda che con l’esercizio
permanente della memoria, la
tradizione e i legami il popolo di
Dio si aprì il passo per attraversare
il deserto. Allo stesso modo,
oggi, noi che ci chiamiamo cattolici
sosteniamo che nell’eucaristia
e nella orazione ci uniamo a tutti
gli uomini, specialmente ai più
poveri, deboli, indifesi. Però questa
fede comune, questa identità
genetica, quella memoria orgogliosa
sta cedendo alla dimenticanza.
E la storia universale ricorda
che una società senza memoria
finisce per autodistruggersi.
Forse è più facile essere solidali
con uno sconosciuto senza faccia
e senza voce. Forse è meno compromettente
inviare una nave
piena di aiuti alimentari che aprire
la porta a un indifeso.
Mi piacerebbe continuare a pensare,
qui in questa Argentina che
soffre, che l’Italia possa conservare
le sue riserve morali, questa
eredità che ci fu lasciata dai nostri nonni: la capacità
di non nascondere la mano a chi ti chiede aiuto,
né di morderla a chi ti ha dato da mangiare. Perché
neppure i cani mangiano i propri simili. Sarebbe un
sacrilegio.
Credo nel vangelo di Cristo e per questo continuo a
credere nell’uomo, nonostante la rabbia che in questo
momento porto nel mio cuore. Una rabbia che
però sarà passeggera. Deve esserlo.
lettera firmata
da Buenos Aires, Argentina

Snezana Petrovic