Reportage dall’Iraq di Saddam

LA «CONVERSIONE» DI SADDAM

Sulla bandiera del paese si staglia
«Allah Akbar». Da tempo il presidente iracheno ha capito che la religione
può aiutarlo. E così ha deciso di ergersi a paladino dell’islam. Stretti
tra sciiti e sunniti, i cristiani sono circa il 3% della popolazione,


la maggioranza dei quali cattolici caldei, che…

In Iraq la religione di stato è
l’islam.
Ma l’articolo 25 della Costituzione riconosce la libertà di culto per le
altre religioni. Per questa ragione, in un paese a netta prevalenza
islamica (65% sciiti e 32% sunniti) vengono riconosciute dal governo altre
14 professioni di fede tra cattoliche, ortodosse e protestanti.

I cristiani in Iraq rappresentano
circa il 3% della popolazione, una stima non certa visto che non esistono
dati ufficiali recenti. A questa mancanza di precisione si deve aggiungere
l’emigrazione di molti cristiani (specialmente negli Stati Uniti
d’America), il cui numero è sconosciuto.

Il 70% dei cristiani iracheni
appartiene alla Chiesa cattolica caldea, una chiesa «uniate» (in comunione
con Roma) di rito orientale, che ha la massima espressione gerarchica nel
patriarca Raphael Bidaweed I, la cui sede è a Baghdad, che conta circa 100
tra chiese e conventi in tutto il paese, di cui 25 parrocchie nella sola
capitale.

Capire le condizioni in cui questa
comunità vive non è facile. Certo, se si pensa alla situazione dei non
musulmani nei paesi vicini, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi
Uniti, ci si deve rallegrare della sua stessa sopravvivenza. L’impressione
è che, se ci sono dei problemi, questi non riguardano le persone, ma
alcune politiche di governo.

L’Iraq, retto dal 1968 dal partito
Baath, si distingueva per essere un paese laico, anche se a maggioranza
musulmana, in un’area intensamente permeata dallo spirito dell’islam.
Però, da qualche tempo, sembra che le cose stiano cambiando.

A Saddam Hussein viene comunemente
attribuito il desiderio di diventare un nuovo Nasser, un leader capace di
riunire sotto di sé tutto il mondo arabo; e la religione, prima relegata
alla sola sfera privata, sembra essere un buon mezzo per raccogliere i
consensi di quel mondo: Saddam Hussein paladino della lotta per la
riconquista della Palestina contro l’invasore ebreo; Saddam Hussein eroe
dei popoli che percepiscono gli attacchi e le guerre del mondo occidentale
non musulmano non in senso politico-economico, ma religioso: il mondo
contro l’islam.

Questo avvicinamento all’islam,
legato alla nuova immagine di capo religioso in un paese musulmano, che
Saddam vuole sia percepito (sia in patria che all’estero), ben si confà
anche agli iracheni che, come tutti i popoli in disgrazia, trovano l’unico
conforto nella religione.

Ecco quindi comparire sulla
bandiera irachena «Allah Akbar» (Allah il più grande); ecco che ogni anno,
in occasione del compleanno del presidente, si inaugura una nuova moschea
e, contestualmente, si posa la prima pietra di un’altra.

A Baghdad è in costruzione la
moschea più grande del mondo, Saddam Grand Mosque, il cui progetto prevede
8 minareti, di cui 4 alti 280 metri. Nel 2000 fu terminata la moschea di
Um al-Maarik, dedicata alla «madre di tutte le battaglie» come venne
chiamata in Iraq la guerra del Golfo, anch’essa con 8 minareti: 4 hanno la
forma di canne di mitragliatrice, con il colpo innestato, e 4 di rampe di
lancio dei missili scud, che nel 1991 caddero su Israele e Arabia Saudita.
E un chiaro messaggio del legame religione-potere-guerra, che non passa
inosservato.

Dal 1997 (anno del nostro primo
viaggio) al 2001, il numero delle donne che per le strade di Baghdad
indossano il velo che copre il capo è aumentato notevolmente; a Mosul, una
delle vie principali, è quasi impossibile trovare una donna per strada dal
tramonto in poi.

Il ricorso alla religione (ultima
risorsa per chi non ne ha più) è favorito dal governo. Questo, grazie ad
una politica accorta, cerca di deviare l’attenzione verso un elemento che
può consolare e amalgamare, nel nome dell’islam, le aspirazioni delle due
grandi componenti religiose: i sunniti (minoritari, ma al potere) e gli
sciiti (maggioritari, ma con scarsa rilevanza politica ed economica).

QUEL CALDEO DI
TAREQ AZIZ

In questa situazione come vivono i
cristiani? La questione deve essere esaminata da due punti di vista:
quello delle fonti di informazioni e, poi, quello dell’analisi delle
informazioni stesse.

Le fonti informative sono due: i
cristiani che vivono in Iraq e quelli che l’hanno abbandonato e risiedono
all’estero. Le fonti intee parlano di convivenza non problematica nella
maggioranza dei casi; spesso, quando si tocca l’argomento, si fa notare
che il vice primo ministro, Tareq Aziz, è cristiano caldeo.

Circa la vita di tutti i giorni,
noi stessi abbiamo assistito ad una cerimonia in una chiesa caldea di
Baghdad, dove a suonare l’organo ed intonare i canti era un musulmano,
Mohammed. E le stazioni della Via Crucis della chiesa dell’Assunzione a
Baghdad furono scolpite dal musulmano Ghani, uno dei maggiori scultori
iracheni viventi.

Una situazione idilliaca quindi?
Secondo fonti estere non si direbbe. I cristiani (per esempio nella ricca
zona petrolifera di Kirkuk) sarebbero sottoposti alla ricollocazione
forzata in altre zone, compiuta dal governo che vorrebbe «arabizzare»
un’area di interesse economico e strategico, essendo Kirkuk vicinissima
(ma fuori) della no fly zone controllata da americani ed inglesi e, di
conseguenza, importantissima, in vista di un’eventuale invasione di truppe
dal nord curdo. La ricollocazione riguarda pure i kurdi, i turkmeni e gli
yazidi.

Un altro problema investe
l’identità dei cristiani che, pur dichiarandosi discendenti degli assiri,
sono costretti a «dimenticare» la loro origine per assumere quella
dell’etnia maggioritaria della zona in cui abitano. Le etnie riconosciute
in Iraq sono solo l’araba e kurda.

Inoltre un recente decreto
governativo stabilisce che non è più possibile dare ai nuovi nati nomi non
arabi, iracheni o islamici, con un chiaro richiamo alla religione
maggioritaria. La ragione è di porre fine all’abitudine dei cristiani di
dare ai figli nomi stranieri. Pertanto, se è possibile riferirsi a nomi
biblici, questi devono avere sempre la forma araba: non più Maria o Mary,
ma Mariam. È solo un nazionalismo un po’ esasperato? I cristiani giudicano
il decreto un tentativo di «arabizzarli»; ma, pur adeguandosi «obtorto
collo», nella vita privata Mariam continua a essere Maria.

Più grave è la conferma dataci da
mons. Shlemoun Warduni, patriarca vicario dei caldei, dell’inizio di
applicazione di un nuovo decreto. Esso impone, nei documenti di identità,
di dichiararsi o musulmano o non musulmano. Libertà religiosa a parte, il
decreto è potenzialmente pericoloso dal punto di vista legale. Oggi l’Iraq
è ancora uno stato laico; però, se le cose dovessero mutare, i cristiani
potrebbero non godere più della protezione prevista dal corano per le
«genti del libro» (ebrei e cristiani, in quanto depositari di un messaggio
divino) e ricadere nella categoria di popoli atei, non meritevoli di
protezione.

IL MINISTERO
DEGLI AFFARI RELIGIOSI

Molto delicato è il problema della
libertà religiosa. In Iraq esiste il reato di apostasia (la conversione di
un fedele ad un’altra religione). Ma un cristiano che diventa musulmano
non rischia nulla; anzi, probabilmente, dalla sua conversione trarrebbe i
vantaggi che di solito appartengono alla maggioranza. Invece il musulmano
che volesse farsi cristiano non avrebbe vita facile: sebbene
(fortunatamente) non venga più applicata la pena di morte, lo aspetterebbe
tuttavia la «morte civile», la perdita del lavoro, dei beni, del diritto
ereditario e, addirittura, della moglie e dei figli da cui sarebbe
forzatamente separato.

Le possibilità di conversioni
dall’islam al cristianesimo non appaiono grandi, perché i cristiani non
possono fare proselitismo al di fuori dei loro edifici di culto e studio.
Lo stesso insegnamento della religione cristiana a scuola va scomparendo.
Sembra infatti che, contestualmente all’obbligo dello studio del corano in
tutte le scuole del paese (compresi gli orfanotrofi cattolici frequentati
solo da cattolici), gli istituti dove si insegna il cristianesimo siano
sempre meno.

Stando ad un decreto del 1972,
l’insegnamento di tale materia è obbligatorio solo nelle scuole in cui il
numero degli alunni cristiani raggiunge il 25%. Secondo fonti estere ed
intee, sarebbero sempre più numerosi i direttori scolastici che, per non
gravare sul bilancio con lo stipendio di un insegnante di religione
cristiana, rifiuterebbero l’ammissione di alunni che porterebbero la
percentuale della presenza al 25%.

Da questi esempi si capisce che le
informazioni sulla condizione dei cristiani sono molto diverse, a seconda
della fonte di provenienza. Molti definiscono «troppo allarmistiche» le
notizie provenienti dall’estero. In realtà esse poggiano su una base di
verità.

Resterebbe da capire la ragione
della disparità di tono nella denuncia. Nel caso delle prudenti fonti
intee, un’ipotesi potrebbe essere il desiderio di non scontentare il
governo e quello, comune a molte minoranze, di tenere un basso profilo,
che favorirebbe di più la sopravvivenza.

Nel caso delle fonti estee
(quasi tutte nordamericane), i giudizi negativi potrebbero nascere da una
volontà di denuncia sincera, rafforzata dall’essere ormai fisicamente
lontani da qualsiasi eventuale conseguenza. Inoltre ci potrebbe essere la
complicità (diretta o indiretta, cosciente o meno) di tali fonti con i
governi che, da 12 anni (e con nuovo impeto dopo l’«11 settembre»), hanno
iniziato e continuato la campagna di demonizzazione dell’Iraq, capro
espiatorio della volontà egemonica di quei governi nell’area
mediorientale.

L’Iraq è un paese in cui non è
facilissimo avere delle informazioni; per esempio, ogni aspetto della
religiosità, musulmana o cristiana, viene filtrato, esaminato e ricondotto
al ministero degli Affari religiosi, in totale controllo dei musulmani.

Per capire la situazione dei
cristiani, è necessario raccogliere tutte le informazioni possibili, da
ogni fonte, e cercare di ricostruire un quadro globale.

Ci augureremmo che la situazione
fosse quella di pacifica convivenza, sbandierata sia dai cristiani sia dai
musulmani che vivono nel paese. Se così non fosse, le speranze di
sopravvivenza della comunità cristiana sarebbero veramente ridotte: spinti
all’emigrazione da guerre, condizioni minoritarie, tragica situazione
economica, i cristiani potrebbero scegliere di abbandonare quei luoghi nei
quali, con San Tommaso, la cristianità arrivò ben sei secoli prima
dell’islam.

Gli eventi dal
1990 al 2002

GUERRA, EMBARGO,
DISTRUZIONE, MORTE

1990:
invasione del Kuwait 2 agosto: risoluzione 660

Il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu (Cds) condanna l’invasione e ordina all’Iraq di ritirarsi dal
Kuwait.

6 agosto: risoluzione 661
Il CDS dell’Onu impone l’embargo totale.

25 agosto: risoluzione 665
L’Onu autorizza l’uso della forza per assicurare l’attuazione
dell’embargo.

29 novembre: risoluzione 678
Ultimatum: «gli stati membri dell’Onu sono autorizzati ad usare tutti
i mezzi necessari per far attuare le precedenti risoluzioni a partire
dal 15 gennaio 1991».

1991:
«guerra del Golfo»

16/17 gennaio Inizia la
«guerra del Golfo».

28
febbraio L’Iraq si ritira dal Kuwait: fine della «guerra del Golfo».

3 aprile: risoluzione 687

Il Cds proroga le sanzioni
fino alla distruzione completa di tutte le armi non convenzionali da
parte dell’Iraq. Il disarmo nucleare è sottoposto al controllo
dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), mentre per
il controllo e la distruzione delle armi chimiche e batteriologiche
viene creata una commissione internazionale speciale detta Unscom.

giugno
Francia, Usa e Gran Bretagna istituiscono le «no-fly zones» che
vietano all’aviazione irachena il sorvolo delle zone Nord e Sud
dell’Iraq. Ciò al fine di proteggere dalla guerra i kurdi al nord e
gli sciiti al sud.

11 ottobre: risoluzione 715
Gli ispettori dell’Unscom vengono autorizzati ad ispezionare senza
limiti qualsiasi luogo dell’Iraq.

1992: Mig
2 ottobre: risoluzione 778

Congelamento dei beni iracheni
all’estero.

27 dicembre
Un caccia F-16 abbatte un Mig iracheno nella «no-fly zone»
meridionale.

1993: bombardamenti

gennaio:
Bombardieri Usa martellano per giorni «obiettivi militari» iracheni in
risposta ad asserite violazioni del cessate il fuoco.

giugno
Presunto complotto di Saddam Hussein per uccidere l’ex presidente Bush
in visita nel Kuwait. In conseguenza di ciò le navi Usa presenti nel
Golfo sparano 23 missili cruise sul quartier generale dei servizi
segreti iracheni a Baghdad uccidendo 6 persone.

1994:
Kuwait riconosciuto

10 novembre
Il Consiglio del Comando della Rivoluzione e l’Assemblea Nazionale
Irachena riconoscono la sovranità, l’integrità territoriale,
l’inviolabilità dei confini e l’indipendenza politica del Kuwait, come
stabilito dalla commissione Onu nell’anno precedente.

1995: «oil for food»

aprile: risoluzione 986
La mancanza di cibo e medicinali provoca, secondo l’Unicef e la Cri,
la morte di 4.500 bambini al mese. Vista la grave situazione
alimentare e sanitaria venutasi a creare a causa dell’embargo l’Onu
elabora la risoluzione detta «oil for food» che permetterebbe all’Iraq
di esportare ogni 6 mesi 2 miliardi di dollari di petrolio in cambio
di cibo e medicinali. Il governo iracheno rifiuta la risoluzione e
chiede la fine immediata dell’embargo.

1996: kurdi

20 maggio
L’Iraq, dopo trattative con il Segretario generale dell’Onu, accetta
l’applicazione della 986.

31 agosto: lotte tra kurdi
Il presidente Clinton decide di intervenire militarmente contro l’Iraq
dopo che il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) di Barzani,
appoggiato dall’esercito iracheno, ha cacciato i rivali kurdi del Puk
di Talabani dalla città di Erbil.

31 ottobre
Con la mediazione Usa termina il conflitto tra Puk e Pdk.

dicembre
Inizia l’operatività della «oil for food»: dal ricavato della vendita
del petrolio il 50% serve per pagare i danni di guerra, per le spese
di distruzione degli armamenti e convenzionali, per le spese degli
ispettori dell’Onu e per il sussidio ai kurdi del nord.

1997: ispettori

27 ottobre
L’Assemblea nazionale irachena raccomanda la sospensione della
collaborazione con gli ispettori Onu, fino a quando non saranno
definiti tempi certi per la revoca dell’embargo.

29 ottobre
Il vice premier iracheno Tareq Aziz, in una lettera al Cds, denuncia
che gli ispettori dell’Unscom non puntano a realizzare il mandato
della commissione ma a rilevare i sistemi di sicurezza dell’Iraq.
L’Iraq esige perciò che gli ispettori americani, considerati spie, se
ne vadano entro una settimana.

13 novembre
L’Iraq ordina l’espulsione degli ispettori Usa. Dopo intense
trattative, con la mediazione russa, gli ispettori ritornano a
Baghdad.

dicembre
Gli iracheni vietano agli ispettori dell’Unscom ulteriore accesso ai
siti presidenziali.

1998: ancora «problemi»

gennaio
Gli Usa preparano una nuova guerra contro l’Iraq, senza però trovare
l’appoggio dei paesi arabi.

febbraio
Una proposta di mediazione russa, che prevede la formazione di una
speciale commissione molto allargata (composta da esperti dei 5 paesi
membri del Cds e da quelli dei 21 paesi membri dell’Unscom), che possa
visitare gli 8 siti presidenziali sospetti, viene accettata da
Baghdad, ma respinta da Washington.

23 febbraio
Kofi Annan, dietro pressioni europee e arabe, vola a Baghdad e in
extremis riesce a strappare un accordo che, riprendendo in larga parte
la proposta russa, impedisce l’intervento Usa e regolamenta le
ispezioni Onu ai palazzi presidenziali.

3 aprile
Si concludono le ispezioni ai palazzi presidenziali, senza che in essi
siano stati trovati i laboratori per la fabbricazione di armi chimiche
e batteriologiche.

10 aprile
Il capo degli ispettori dell’Unscom, l’australiano Richard Butler e
gli ispettori Usa accusano gli esperti nominati da Kofi Annan di
intralciare le ispezioni e di sostenere il punto di vista delle
autorità irachene.

14 aprile
L’Aeia annuncia che l’Iraq ha completamente smantellato il programma
nucleare.

19 maggio
Tareq Aziz in visita a Roma invita il papa in Iraq.

23 giugno
Butler accusa Baghdad di produrre gas nervino per i missili.

30 giugno
Dopo che un F-16 Usa ha colpito con un missile Harm una «postazione
radar» nella zona di non volo vicino a Bassora, l’Iraq chiede
l’abolizione delle «no-fly zones» decise, senza l’approvazione
dell’Onu, da Usa, Gran Bretagna e Francia.

3 agosto
Le autorità irachene accusano Butler di trovare sempre nuove scuse per
non riconoscere l’avvenuto disarmo iracheno e per mantenere in vita
l’embargo come vogliono gli Usa.

4 agosto
Richard Butler se ne va da Baghdad.

5 agosto
Nonostante i talebani siano pronti a consegnare Bin Laden, gli Usa
bombardano per rappresaglia il campo di addestramento di Hakrat in
Afghanistan e una fabbrica di medicinali alla periferia di Karthum in
Sudan che produceva e vendeva medicinali anche all’Iraq.

27 agosto
Il colonnello dei marines William Scott Ritter, il più discusso tra
gli ispettori dell’Unscom, si dimette.

1° settembre
In una intervista ad una televisione nordamericana Scott Ritter rivela
che gran parte della Commissione, compreso il capo degli ispettori,
l’australiano Richard Butler, lavorano per la Cia ed il Mossad
israeliano.

1° ottobre
Dennis Halliday, cornordinatore per l’Onu del programma umanitario in
Iraq, si dimette per protesta contro l’embargo Onu.

5 novembre
L’Onu condanna l’Iraq per non collaborazione con gli ispettori
dell’Unscom. Gli Usa preparano l’intervento militare.

11 novembre
Ultimatum Usa a Baghdad: gli ispettori lasciano precipitosamente
l’Iraq.

14 novembre
Su pressione dei Kofi Annan l’Iraq accetta il ritorno degli ispettori.

17 novembre
Gli ispettori appena giunti a Baghdad chiedono alle autorità irachene
di consegnare documenti su ipotetici programmi batteriologici e
chimici che Butler ritiene esistenti: l’Iraq rifiuta.

9 dicembre
Butler accusa l’Iraq di aver bloccato un’ispezione al quartier
generale del partito Baath.

16 dicembre
Gli ispettori fuggono da Baghdad. Alle 22.50 improvviso attacco
missilistico Usa contro Baghdad.

17/20 dicembre
In 4 giorni di bombardamenti vengono lanciati più missili di quanti ne
furono impiegati durante tutta la guerra del Golfo del 1991. Colpiti
anche ospedali, università e fabbriche. Si stimano 1.600 morti. Gli
attacchi missilistici proseguiranno quasi quotidianamente fino ai
giorni nostri.

1999: incursioni aeree

17 dicembre: risoluzione 1284
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituisce l’Unmovic che
sostituisce l’Unscom e promette che le sanzioni verranno sospese, se
l’Iraq collaborerà con gli ispettori «sotto tutti gli aspetti».

Secondo il ministero della
Difesa iracheno, nel 1999, le incursioni aeree anglo-americane sono
state 16.848 ed hanno causato più di 150 morti e quasi 400 feriti in
grande maggioranza civili.

2000: l’embargo non perdona

14 febbraio
Con le identiche motivazioni di Dennis Halliday si dimettono in pochi
giorni il tedesco Hans Von Sponeck, cornordinatore del programma
umanitario Onu per l’Iraq, e la sua connazionale Jutta Burghart,
responsabile del «World Food Program».

1° marzo
Hans Blix è nominato capo dell’Unmovic.

agosto
Secondo il ministero della sanità iracheno, l’embargo ha provocato dal
1990 ad oggi 1.273.000 vittime.

settembre
L’Iraq respinge nuovamente gli ispettori dell’Onu che dovevano
riprendere i controlli sul disarmo non convenzionale.

novembre
L’Iraq decide di eliminare il dollaro e di adottare l’euro come moneta
per il commercio estero.

2001: l’anno dell’«11
settembre»

16 febbraio
L’Iraq sfida le «no-fly zones» e ripristina i collegamenti aerei
civili tra Mosul, Baghdad e Bassora.

maggio: arriva Bush figlio
Appena insediato, il nuovo presidente Bush jr. bombarda Baghdad: non
accadeva dal natale 1998.

giugno
Riapertura della linea ferroviaria di collegamento con la Turchia,
interrotta nel 1981.

11 settembre: attentati di New
York
Dopo la tragedia delle Torri gemelle, George W. Bush guarda
all’Afghanistan dei talebani e all’Iraq di Saddam.

2002: l’era della guerra
preventiva?

23 settembre: la dottrina di
Bush
George W. Bush presenta al Congresso statunitense e al mondo la sua
dottrina nel «The National Security Strategy of the United States».
Inizia l’era della «guerra preventiva».

24 settembre: il dossier di
Blair
Il primo ministro inglese Tony Blair, principale alleato di Bush,
presenta alla camera dei comuni un dossier dei servizi segreti
sull’Iraq. Ma le prove non convincono. Pochi giorni dopo (28
settembre) Londra ospita una grande manifestazione contro la guerra.

24 settembre:

«Vade retro» Germania!

A Varsavia, il ministro della
difesa statunitense, Donald Rumsfeld (con Condoleezza Rice, un
«superfalco» dell’amministrazione Bush), si rifiuta di stringere la
mano al collega tedesco Peter Struck, ministro del cancelliere Gerhard
Schroder, appena riconfermato dagli elettori anche per il suo «no»
alla guerra contro l’Iraq.

1 ottobre: gli Usa contro gli
ispettori
A Vienna si trova un accordo: gli ispettori dell’Onu possono tornare a
Baghdad. Ma gli Usa (spalleggiati dalla Gran Bretagna) si oppongono.
Vogliono una nuova risoluzione, che preveda l’utilizzo della forza.

10 ottobre: sì di Camera e
Senato
La Camera e il Senato degli Stati Uniti autorizzano «il presidente a
usare le forze armate, come ritiene necessario e appropriato, al fine
di difendere la sicurezza nazionale degli Usa contro la minaccia
continua posta dall’Iraq».

26 ottobre: contro la guerra

A Washington e a San Francisco sfilano i pacifisti statunitensi. Sono
le più grandi manifestazioni dai tempi della guerra del Vietnam.

5 novembre: vince Bush
Nelle elezioni di medio termine vincono i repubblicani del presidente
Bush.

8 novembre: risoluzione Onu

Il Consiglio di sicurezza approva all’unanimità la risoluzione 1441,
che sancisce la ripresa delle ispezioni in Iraq. In caso di mancata
collaborazione, Baghdad rischia «gravi conseguenze».

13 novembre: Baghdad accetta

L’ambasciatore iracheno presso le Nazioni Unite consegna a Kofi Annan
una lettera in cui si dice che «l’Iraq accetta senza condizioni il
ritorno degli ispettori» .

18 novembre: arrivano gli
ispettori
Hans Blix guida il primo gruppo di ispettori (30 persone). Lo svedese
annuncia che anche un semplice ritardo di 30 minuti nell’apertura di
un sito sarà considerato una violazione seria.

Luigia Storti




Reportage dall’Iraq di Saddam

ASSE DEL MALE O ASSE DEL PETROLIO?

Tony Blair, il più
fedele alleato di George W. Bush, ha presentato alla camera dei comuni un
dossier per avvalorare la pericolosità di Saddam. Ma il primo ministro
inglese non ha convinto, confermando indirettamente l’opinione di
Condoleezza Rice secondo la quale non c’è bisogno di provare la
colpevolezza dell’Iraq.
Non si sbaglia. Per giustificare una guerra contro Saddam, è sufficiente
sapere  che Baghdad possiede la seconda riserva di petrolio della terra
dopo l’Arabia Saudita. Intanto,

un ex ispettore
dell’Onu ha svelato che…

 

Quasi sempre si dimentica che il
groviglio di tragiche contraddizioni che lacerano oggi il Medio Oriente è
la conseguenza di due secoli di imperialismo francese, inglese ed
americano.

Interpretare la storia e
l’attualità del Medio Oriente trascurando l’esistenza del petrolio è come
voler scrivere la storia di Torino dimenticando l’influenza decisiva della
Fiat negli eventi della città. Come scrisse anni or sono Filippo Gaja:
«Tutta la legalità del Medio Oriente è stata costruita con l’illegalità,
la prevaricazione e la violenza. Le frontiere non sono che righe
immaginarie che attraversano il deserto, tracciate dopo estenuanti
mercanteggiamenti e continue cancellazioni con riga, compasso e matita, in
base a imperativi arbitrari dettati da calcoli economici, totalmente
estranei agli interessi dei popoli (che, del resto, nessuno si è mai
sognato di interpellare). L’inchiostro con cui questa storia tragica è
stata scritta negli ultimi cento anni è il petrolio».

 Oggi, invece, ci spiegano che
l’intervento armato contro l’Iraq è necessario perché Saddam Hussein,
occultando pericolose armi non convenzionali, costituisce un pericolo per
il mondo intero e perché occorre finalmente portare la democrazia al
popolo iracheno e, a seguire, in tutto il Medio Oriente. 

Anche se le motivazioni sinora
addotte per giustificare l’attacco non si discostano poi molto da quelle
che in passato i regimi liberali e fascisti usavano per legittimare le
imprese coloniali, è interessante notare che questo nuovo diritto
dell’Occidente all’ingerenza democratica è invocato per i paesi del Medio
Oriente, proprio mentre nei paesi del Nord del mondo assistiamo ad uno
straordinario attacco alle libertà e ai diritti democratici fondamentali
in nome della globalizzazione, della governabilità, dei parametri di
Maastricht, del pericolo terrorista, ecc.  

SADDAM, BIN
LADEN E LA «GUERRA INFINITA»

La guerra in Afghanistan ed il
completo fallimento del dichiarato proposito di catturare vivi o morti Bin
Laden ed il fantomatico mullah Omar, hanno reso ancora più evidente che
l’obiettivo delle operazioni militari progettate dagli Usa sotto il nome
di Enduring freedom non ha nulla a che vedere con la guerra al terrorismo
internazionale.

Come il presidente Clinton con i
bombardamenti sull’Iraq riusciva a sviare l’attenzione dell’opinione
pubblica americana dalle sue «prestazioni extra politiche» e ad evitare
l’impeachment (dicembre 1998), così Bush jr., agitando tempestivamente gli
spauracchi di Bin Laden e di Saddam Hussein, riesce a garantire enormi
flussi di denaro all’industria bellica statunitense e tenta di far passare
in secondo piano gli scandali finanziari in cui membri autorevoli della
sua amministrazione sono ampiamente coinvolti.

La «guerra infinita» che Bush ha
garantito al mondo, non è però solo l’ennesimo stratagemma per coprire
difficoltà di politica intea e per tentare di risollevare l’economia
americana da una ormai cronica recessione.

Non è un caso che due degli «stati
canaglia» nel mirino degli Usa, Iraq e Iran (bollati da Bush nel suo
discorso del 29 gennaio scorso sullo «stato dell’Unione», come «asse del
male») siano anche importanti paesi produttori di petrolio.

Si diceva una volta che chi
controlla il Golfo, controlla il mondo. Oggi, il dominio delle risorse
energetiche dell’Asia Centrale, che con quelle del Medio Oriente
rappresentano circa i due terzi delle risorse del nostro pianeta, è un
obiettivo imprescindibile per chi come gli Usa vogliono che il XXI secolo
sia ancora un secolo americano.

Per un paese che aspira alla
«dittatura globale», l’intervento in Afghanistan era perciò necessario,
non solo per insediare un fedelissimo come Karzai al governo del paese, ma
soprattutto per piazzare per la prima volta alcune basi militari nelle
repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale che, oltre ad essere una
spina nel fianco di Iran e Cina, potrebbero diventare utilissime per un
attacco all’Iraq, nel caso probabile di un rifiuto di paesi arabi amici di
offrire le loro basi per tale operazione.

Gli eventi dell’11 settembre 2001
e ciò che n’è seguito, il diritto alla legittima difesa, il diritto alla
rappresaglia da tutti riconosciuti ed approvati (persino dall’Onu con
risoluzione 1368 del 12 settembre), sono serviti da pretesto per fornire
una parvenza di legittimità ad un nuovo capitolo della vecchia e mai
dismessa politica delle cannoniere.

Esemplari a tale proposito le
affermazioni del consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice:
«Per l’Iraq non c’è bisogno di prove: Saddam è un individuo pericoloso».

Se per l’Iran si sta ancora
battendo la via diplomatica, per l’Iraq, gli Usa hanno ormai scelto quella
militare.

RAFFREDDARE IL
CONFLITTO PALESTINESE

Nell’editoriale del 22 aprile il
Washington Post si rammaricava che gli Usa non possano attaccare a loro
piacimento l’Iraq senza avere alle spalle il consenso di tutti gli arabi.

Certamente per gli Stati Uniti è
difficile dare, contemporaneamente, una «lezione» a due popoli arabi,
quello palestinese e quello iracheno, senza creare tensioni irreparabili
tra le masse popolari di quei paesi arabi come Egitto, Arabia Saudita e
Giordania, cosiddetti moderati solo perché asserviti agli interessi
occidentali.

Gli Usa non hanno nulla da offrire
se non un temporaneo raffreddamento del conflitto mediorientale, giusto il
tempo occorrente per una guerra che porti ad un cambiamento di regime in
Iraq. Una volta neutralizzato Saddam, potranno delegare nuovamente a
Sharon, Netanyahu o Peres la soluzione del problema palestinese.

La ricerca di alleati interni ed
estei all’Iraq, la scelta all’interno dell’inconsistente e litigiosa
opposizione irachena di una «testa di legno» che garantisca in futuro gli
interessi nordamericani, la risistemazione territoriale del Medio Oriente
e il consenso dell’opinione pubblica americana e mondiale a questa nuova
«operazione di polizia coloniale», sono tutte questioni che gli Usa
debbono definire prima dell’intervento armato.

Per mascherare una divisione del
paese in tre piccoli stati più controllabili e più deboli economicamente e
militarmente, per il dopo-Saddam si prospetta una soluzione federalista,
che permetta «alle etnie sciite, sunnite e kurde di vivere insieme senza
la prevaricazione di una di esse, evitando però che l’autonomia si
trasformi in indipendenza, il che nel caso dei kurdi potrebbe
compromettere un aiuto militare turco», come spiega l’ex segretario di
stato Henry Kissinger.

In realtà si vuole evitare che in
futuro l’Iraq possa tornare ad essere una potenza regionale concorrenziale
ed ostile ad Israele. Perciò tra gli aspiranti alla guida del futuro Iraq
federale troviamo tale Al-Sharif Ali Bin Al-Hussein, parente del re di
Giordania ed esponente hascemita. Ciò di quella monarchia che goveò
l’Iraq con una politica completamente subalterna agli interessi britannici
sino al 14 luglio 1958, quando tutto il popolo iracheno insorse, fucilò la
famiglia reale, linciò il ministro Nuri Said (considerato più inglese
degli inglesi) e proclamò la repubblica.

LA
«CROCIATA» MASS-MEDIATICA                           

L’amministrazione Bush è divisa al
suo interno fra coloro che intendono attaccare (infischiandosene
dell’opinione degli alleati) e quanti ritengono che si debba ricercare il
consenso più ampio, soprattutto fra i governi europei. Questi però,
consapevoli della contrarietà alla guerra della maggioranza dell’opinione
pubblica, si nascondono dietro una risoluzione dell’Onu che avalli
l’intervento armato contro l’Iraq.

 Non esistendo al momento la prova
del coinvolgimento iracheno negli eventi dell’11 settembre, né tanto meno
un collegamento con Al Qaeda, per convincere l’opinione pubblica
dell’urgente necessità della guerra contro l’Iraq, è iniziata una
martellante «crociata mass-mediatica», consistente nella quotidiana
scoperta di fabbriche e depositi di sostanze chimiche, batteriologiche e
nucleari pronte per essere usate contro tutto l’Occidente.

Il copione che si sta realizzando
è quasi simile a quello che portò all’intervento della Nato in Jugoslavia:
il 15 gennaio 1999 venne confezionato dall’Uck l’eccidio di Racak, che
provocò la generale indignazione dell’opinione pubblica la quale diventò
favorevole all’intervento armato. Il 6 febbraio si mise in scena la farsa
dei colloqui di pace di Rambouillet con condizioni talmente vessatorie ed
inaccettabili per la Serbia, che in pratica equivalsero ad una
dichiarazione di guerra.

ALLA
RICERCA  DI UN «CASUS BELLI»

Per l’Iraq si sta costruendo il
casus belli. La richiesta di ispezioni incondizionate corrisponde già alla
farsa di Rambouillet.

È opportuno ricordare che, verso
la fine dell’ottobre 1997, il governo iracheno bloccò alcune ispezioni dei
commissari dell’Unscom (United nations special commission) ai palazzi
presidenziali e alla sede dei servizi segreti (peraltro già perquisiti più
volte), avendo il sospetto che l’obiettivo delle visite non rispecchiasse
gli scopi della risoluzione 687, ma che fosse quello di scoprire il
sistema di sicurezza a protezione del presidente dell’Iraq. Il governo di
Baghdad, nel riconfermare l’intenzione di continuare a collaborare con
l’Onu, richiese però l’allontanamento degli ispettori di nazionalità
americana.

Nei mesi successivi gli Usa fecero
pressioni sui loro alleati per trovare consenso e collaborazione per
risolvere militarmente la controversia; quando ormai la guerra sembrava
inevitabile, il segretario dell’Onu Kofi Annan, su pressione di molti
governi, il 22 febbraio 1998 volò a Baghdad e strappò in extremis un
accordo. Alcune richieste irachene (come quella di iniziare a discutere
una data certa per la fine dell’embargo) vennero prese in considerazione e
si stabilì la continuazione delle ispezioni dell’Unscom, accompagnate da
diplomatici di varie nazionalità, nominati direttamente da Kofi Annan.

Due mesi dopo, gli ispettori più
sensibili alle esigenze degli Usa accusarono i diplomatici nominati dal
segretario dell’Onu di intralciare le ispezioni e in taluni casi di
sostenere addirittura il punto di vista delle autorità irachene.

Nell’agosto 1998, l’Iraq sospese
nuovamente la collaborazione con gli ispettori reclamando una discussione
sulla fine dell’embargo. A fine mese, le tensioni all’interno dell’Unscom
sfociarono nelle dimissioni del più discusso tra gli ispettori: il
colonnello dei marines William Scott Ritter (vedere scheda). Nel corso di
una trasmissione televisiva, Ritter rivelò che gran parte della
commissione, compreso il capo degli ispettori, l’australiano Richard
Butler, lavoravano per la Cia ed Israele. Paradossalmente l’Iraq, cui
competevano le spese delle ispezioni, pagava per essere spiato!

Nel dicembre 1998 gli ispettori di
Butler lasciarono definitivamente Baghdad, sostituiti dai bombardieri
anglo-americani e la questione delle ispezioni è rimasta a tutt’oggi nella
medesima situazione di allora.

L’Iraq chiede di affrontare non
solo il problema delle armi, ma anche quello della durata dell’embargo,
del ripristino della sovranità su tutto il paese e dell’eliminazione delle
no-fly-zones. Gli Stati Uniti puntano solo all’intervento militare per
ripristinare quel dominio sul  petrolio arabo che le nazionalizzazioni dei
primi anni Settanta gli avevano tolto.

Prossima fermata, Teheran.

 


Sfogliando s’impara…
Punire gli innocenti

«“Però – mi si dice – è lecito
castigare un singolo malfattore; dunque sarà lecito anche punire una
collettività con la guerra”. Una replica troppo prolissa esigerebbe
questa obiezione. Mi limiterò a osservare che c’è questa differenza:
nelle azioni giudiziarie il reo convinto paga la colpa secondo la
legge, nella guerra ognuna delle due parti accusa l’altra. Lì il
castigo tocca solo al colpevole, l’esempio arriva a tutti; qui la più
gran parte delle sventure ricade su coloro che meno ne sono
meritevoli, su contadini, vecchi, donne, orfani, fanciulle».

Erasmo da Rotterdam, Adagia,
1508

 Giustizia
Infinita

«Sapete bene ciò che dice la
bibbia: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ma io vi dico: non
vendicatevi contro chi vi fa del male. Se uno ti dà uno schiaffo sulla
guancia destra, tu presentagli anche l’altra. Se uno vuol farti un
processo per prenderti la tunica, tu lasciagli anche il mantello. Se
uno ti costringe ad accompagnarlo per un chilometro, tu va’ con lui
per due chilometri».

vangelo secondo Matteo, 5,
38-41

 

«NOT IN OUR
NAME»

«Che non si dica che i
cittadini degli Stati Uniti non hanno fatto nulla quando il loro
governo dichiarava una guerra senza limiti e approvava nuove, dure
misure di repressione.

I firmatari di questa
dichiarazione fanno appello al popolo degli Stati Uniti affinché si
opponga alle politiche e all’orientamento politico generale emersi
dopo l’11 settembre 2001 e che rappresentano gravi pericoli per i
popoli del mondo. (…)

Crediamo che i popoli e le
nazioni abbiano il diritto di determinare il loro destino, al di fuori
della coercizione militare delle grandi potenze. (…)

Crediamo che perplessità,
critiche e dissenso vadano valorizzati e tutelati. (…)

Per questo facciamo appello a
tutti gli americani affinché si oppongano alla guerra e alla
repressione scatenata nel mondo dell’amministrazione Bush. È ingiusta,
immorale e illegittima. Scegliamo di fare causa comune con i popoli
della terra.

Il presidente Bush ha
dichiarato: “Siete con noi o contro di noi”. Ecco la nostra risposta:
ci rifiutiamo di consentirvi di parlare a nome di tutti gli americani.
Non abbiamo intenzione di rinunciare al nostro diritto di porre
domande. Non consegneremo le nostre coscienze in cambio di una vuota
promessa di sicurezza. Diciamo “non a nome nostro”. Ci rifiutiamo di
prendere parte a queste guerre e respingiamo qualunque affermazione
secondo la quale verrebbero  combattute a nome nostro e per il nostro
bene». (…)

appello firmato da 4.000
personalità statunitensi e pubblicato sul

«New York Times», settembre
2002

 

ALLA
RICERCA DI UN PRETESTO

«Oggi come ieri, ciò che la
Casa bianca ricerca non è il ritorno degli ispettori in Iraq: bensì un
pretesto per un’avventura militare che rischia di approfondire il
fossato tra il mondo musulmano e l’Occidente. Chi può sapere quali
sarebbero le conseguenze di una tale impresa su una regione già
sconquassata dall’offensiva del governo israeliano contro i
palestinesi?».

Alain Gresh

su «Le Monde
Diplomatique»settembre 2002

 

 


QUANTI BARILI?

 La classifica dei paesi con
le maggiori riserve di petrolio (in miliardi di barili al gennaio
2002):

 Arabia Saudita   261,75
    Iraq        112,50
    Emirati Arabi        97,80
    Kuwait     96,50
    Iran          89,70

A distanza seguono Venezuela
(77,69) e Russia (48,57). 

 

 

BILANCIO
MILITARE DEGLI STATI UNITI

 –  bilancio militare per il
2003 (*):

355,5 miliardi di dollari, con
un incremento del 37% rispetto al 2002
–  debito pubblico degli Usa: 6.280 miliardi di dollari al 16 nov.
2002

 (*)  ovvero stanziamenti
pubblici per il Pentagono

 

 


ANTIAMERICANO? RILEGGIAMO
IL VANGELO DI MATTEO…

Un amico cui ho fatto leggere
in anteprima queste riflessioni mi ha fatto notare che manca un
giudizio sul comportamento di Saddam Hussein e del governo iracheno.

Abitualmente succede che colui
il quale vuole biasimare l’operato degli Usa, per non passare per un
vetero-comunista antiamericano e filo Saddam, deve prima elencare
tutte le malefatte del dittatore iracheno.

Per fortuna, nella mia vita ho
quasi sempre potuto esprimere il mio pensiero senza che ciò implicasse
la perdita del posto di lavoro o ritorsioni e quindi posso
tranquillamente  affermare che nessuna nefandezza al mondo è
paragonabile o può giustificare il crimine di genocidio del popolo
iracheno, perpetrato dagli Usa attraverso l’embargo che, dal 1990 ad
oggi, ha procurato almeno 1.500.000 vittime. Tutto ciò, con la servile
complicità degli altri governi occidentali, di centro-destra e di
centro-sinistra, e con l’avallo dell’Onu.

Credo allora sia opportuno
ricordare quel consiglio del vangelo secondo Matteo (Mt 7,3-5) che
recita: «Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello,
mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Come potrai
dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio,
mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave
dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello».

Cesare Allara




Reportage dall’Iraq di Saddam

HOTEL PALESTINA

Fino al 1990 l’Iraq era un paese ricco.
Oggi la quasi totalità della popolazione vive nella miseria, pur
conservando una grande dignità. L’embargo produce conseguenze devastanti.
Come quando impedisce l’importazione di cloro (che servirebbe
per depurare
l’acqua) o di sostanze disinfettanti.

 

A 12 anni dall’embargo si può
volare verso Baghdad solo dalla Giordania e dalla Siria, ma i costi sono
alti e i voli solo nottui e non frequenti. Per questo preferiamo
percorrere in macchina i 985 km di deserto che dividono Amman da Baghdad.

Si viaggia di notte per evitare il
caldo e si arriva in genere al mattino, giusto il tempo di fare una
doccia, cambiarsi, disfare i bagagli e pranzare fuori, magari in quel
piccolo ristorante davanti all’albergo, frequentato spesso solo da
iracheni, ma dove ormai il proprietario ci riconosce.

È strana Baghdad. In quel
ristorante, come altrove, la gente si ricorda di noi. È vero, la città non
ospita tanti occidentali quanto altre città arabe, ma ciò che stupisce è
«come» le persone ti salutano: noi siamo gli amici italiani che ogni anno
si rivedono. Persino l’anno scorso, quando arrivammo a Baghdad una
settimana dopo i fatti di New York, o quest’anno in cui le minacce di una
seconda guerra del Golfo hanno accompagnato il nostro soggiorno.

Il nostro albergo è il Falastin,
l’ex Meridien, che come tutti gli alberghi ha ora un nome arabo:
Palestina. Una volta era un cinque stelle: 15 piani di camere, bar
panoramico, ristoranti e sale per riunioni e ricevimenti. C’è ancora
tutto, ma non è più un cinque stelle. Dodici anni di embargo si vedono
anche in questo: la moquette lisa, qualche specchio rotto, molte lampadine
bruciate. Eppure la direzione cerca di fare del proprio meglio: in
mancanza di pezzi di ricambio e di soldi per rinnovare gli arredi, hanno
«smontato» le camere di alcuni piani per rifornire le altre. Magari vecchi
e fuori moda, in nessuna camera però mancano televisore, frigo e impianto
di aria condizionata per sopravvivere all’atroce caldo dell’estate
irachena.

Ci sono alberghi più belli, ma noi
siamo abituati al Falastin. Ci sentiamo a casa e sappiamo, per esempio,
che a settembre conviene chiedere una camera vista strada. C’è traffico a
Baghdad, ma le camere che danno sul giardino sono più rumorose. Ogni anno,
infatti, a fine settembre si tiene il Festival di Babilonia, un festival
internazionale di musica e danza folkloristica, e tutti i gruppi nazionali
che vi partecipano ripetono gli spettacoli nei giardini degli alberghi in
città.

Se a ciò aggiungiamo che negli
alberghi spesso si tengono i ricevimenti di nozze del giovedì sera, giorno
prefestivo islamico, il conto è presto fatto: un po’ di traffico è senza
dubbio più conciliante per il sonno.

QUELLE FESTE DI
MATRIMONIO

I ricevimenti di nozze a Baghdad
sono uno spettacolo da non perdere. Una volta, ci raccontano, quasi ogni
iracheno era in grado di fare la luna di miele all’estero. Ora la
situazione è cambiata: guerre ed embargo hanno schiacciato l’economia del
paese, ed anche i matrimoni ne hanno risentito, sebbene non nel numero.
Per incentivare le giovani coppie a sposarsi, il governo, una volta
all’anno fa celebrare delle nozze di massa, regalando agli sposi gli abiti
per la cerimonia e offrendo la prima notte di nozze in uno dei cinque
migliori alberghi della città. Sono matrimoni poveri e a volte, a
giudicare dall’espressione della donna (magari a fianco di un neo marito
molto più vecchio di lei), dal futuro neanche molto felice.

La sposa, in abito bianco di
foggia occidentale di dubbia qualità (pieno di paillettes, volants e
trine), di solito arriva in albergo accompagnata dalla sua famiglia. Le
donne, vestite modestamente, scortano la sposa fino in camera stringendosi
attorno: molte col capo velato, e le anziane con l’abbaya (il tradizionale
lenzuolo nero che le copre dalla testa ai piedi). Gli uomini suonano
pifferi e tamburi ed accompagnano la sposa improvvisando danze popolari.
Improvvisamente l’albergo si riempie di gente, che sciama verso gli
ascensori e poi, alla spicciolata, se ne va per lasciare finalmente soli
gli sposi.

Una notte al Falastin è tutto
quello che molti iracheni possono permettersi. Una notte per dimenticare
che l’indomani ricomincia la solita vita, la lotta per sopravvivere
all’embargo.

A volte ci sono matrimoni di sposi
più abbienti. In quel caso i veli lasciano spazio ad acconciature
importanti e trucchi pesanti, le abbaye ad abiti con gonne al ginocchio e
spalle scoperte, la musica popolare a serate passate a ballare nel
giardino dell’albergo col sottofondo di musica americana. Oggi però questi
matrimoni sono un’esigua minoranza.

DIGNITÀ E
ORGOGLIO

Fino al 1990 l’Iraq era un paese
ricco, la cui popolazione apparteneva in gran parte alla classe media
abbiente, ora questa classe sociale è sparita ed il paese si divide tra
pochissimi ricchi ed una maggioranza di poverissimi. Questo stravolgimento
sociale è una delle conseguenze dell’embargo: chi è già ricco
difficilmente perde i suoi privilegi, molti fanno fortuna con il mercato
nero, ma la maggior parte della gente sprofonda nella povertà.

Questo contrasto non è
immediatamente evidente. Si deve aver voglia di vederlo, di cercarlo. Il
popolo iracheno è dignitoso, qualcuno dice addirittura superbo. Per
esempio: rispetto ad altre città del mondo, a Baghdad i bambini raramente
chiedono l’elemosina, e quei pochi che lo fanno non sono quasi mai
insistenti, conservando la dignità di chi questua non già per abitudine,
ma per vera necessità della quale in fondo si vergogna.

Un giorno in Rashid Street, la via
principale della Baghdad coloniale, eravamo andati a trovare un amico nel
suo negozio di scarpe. Davanti alla vetrina si fermò una donna coperta
dall’abbaya e con il viso completamente nascosto da un velo nero: un burka
praticamente. Fummo sorpresi, sebbene negli ultimi anni il numero delle
donne che indossano il velo a coprire i capelli sia notevolmente
aumentato. Mai ci era capitato di vedere un viso coperto. La donna inoltre
non faceva cenno di muoversi: era lì fuori, immobile.

Il nostro amico si alzò e, aperta
la porta del negozio, le diede dei soldi. I movimenti furono così rapidi
che quasi non ci accorgemmo: come se entrambi avessero voluto tenere la
cosa nascosta. Chiedemmo spiegazioni: chi era quella donna, perché portava
un burka. L’amico ci rispose che era una vecchia signora del quartiere,
vedova e molto povera, e che se velava il viso era perché si vergognava a
dover chiedere l’elemosina.

Se in alcuni quartieri di Baghdad
la povertà è celata da grande dignità, in altri invece è tangibile:
colpisce vista e odorato. È la povertà dei quartieri antichi (come Baghdad
vecchia) e dei quartieri nuovi (come Saddam City). Vicoli e strade invasi
da liquami, dove giocano bambini seminudi, ormai più abituati alla fame
che alla sazietà, alla mancanza di tutto ciò che altrove è considerato il
minimo necessario, all’odore nauseabondo delle fogne a cielo aperto.

Le condutture e gli impianti
fognari e di depurazione furono tra i primi obiettivi «intelligentemente»
colpiti dalla coalizione anti-irachena, in aperta violazione delle
convenzioni inteazionali perché indispensabili alla popolazione civile.
Anche il ripararli fu ed è difficile. Di molti materiali necessari (il
cloro ad esempio) l’importazione è vietata, perché potrebbero essere
utilizzati per costruire armi di distruzione di massa. Senza tener conto
che negare ad un paese, per di più arido, l’acqua potabile, altro non è
che un’arma di distruzione di massa!

Bisogna andare a visitare gli
ospedali per rendersi conto di ciò, bisogna parlare con i medici, leggere
nei loro occhi la rassegnazione dell’impotente.

LO SCANDALO DEI
MEDICINALI PROIBITI

Prima della guerra l’Iraq aveva il
miglior sistema sanitario del Medio Oriente arabo. Gli ospedali
abbondavano, le attrezzature erano ciò che di meglio l’industria mondiale
del settore produceva, i medici avevano specializzazioni conseguite
all’estero e il rapporto numerico posti letto-pazienti era buono. Dal 1990
la situazione ha cominciato a deteriorarsi, sia per i divieti di
importazione di medicinali, attrezzature e pezzi di ricambio, sia per
l’enorme aumento dei malati e delle patologie. Molte di queste (per
esempio, quelle legate alla mancanza di acqua potabile) sono curabili
altrove, ma qui, rafforzate da una malnutrizione diffusa, diventano
letali.

Dal 1997 la situazione è
migliorata, anche se è ancora lontana dall’essere conforme agli standards
del periodo ante-guerra. Quell’anno, visitando i reparti dell’Ospedale
pediatrico «Saddam Hussein» di Baghdad vedemmo attrezzature a pezzi,
armadi di medicinali sconsolatamente vuoti e sporcizia. Sentimmo l’intenso
odore di petrolio, usato per lavare i pavimenti ed anche i ferri
chirurgici, dato che pure i disinfettanti (generici e specifici)
ricadevano nelle sostanze pericolose di cui era vietata l’importazione.

Ora le cose vanno un po’ meglio.
Le medicine, grazie agli introiti che il governo ricava dal piano «oil for
food» (petrolio in cambio di cibo), cominciano ad arrivare agli ospedali,
anche se con numerose limitazioni. È vietata, per esempio, l’importazione
di tanti farmaci che, pur ricadendo nella categoria dei salva-vita,
potrebbero essere usati dall’industria militare biologica e chimica. Di
altri farmaci permessi, l’importazione è discontinua, dipendendo
dall’approvazione di un comitato delle Nazioni Unite, e mette quindi a
rischio gli ammalati cronici.

Ciò che negli ospedali non cambia
mai è lo sguardo rassegnato delle madri che, accoccolate sui letti,
assistono i figli cercando di consolarli e di tener lontane le mosche. Ai
loro occhi noi occidentali dovremmo rappresentare quel mondo «civile» che
ha scaricato sull’Iraq tonnellate di bombe, anche radioattive, e che lo ha
condannato ad un embargo riconosciuto come il più duro della storia.
Eppure in quegli sguardi non c’è rancore, non c’è odio, c’è qualcosa di
diverso, forse peggiore: la mancanza di speranza.

Mai in questi anni gli iracheni ci
hanno fatto pesare l’essere occidentali. Ovunque: nelle case, nei locali,
per strada, nei mercati, siamo stati ben accolti da un popolo che, con
parole o sguardi, ha dimostrato di apprezzare il nostro essere lì.

Per gli italiani poi ci è sembrato
di riconoscere una simpatia particolare. Sarà perché tutti conoscono la
pizza (che diventa «bizza»), perché frequentemente «italiano» viene
associato a Baggio o perché molti iracheni per studio o lavoro hanno
soggiornato nel nostro paese. È il caso di quell’autista di taxi abusivo
che un giorno ci raccolse, sfiniti dal caldo, davanti al mercato di Bab
Ash-Shargi e che, chiestoci in perfetto inglese di dove fossimo, alla
risposta «Italia» volle sapere di dove esattamente. «Torino» rispondemmo,
venendo così a sapere che, una volta laureatosi in ingegneria a Baghdad,
si era specializzato al Politecnico della nostra città.

Quell’ingegnere-autista
rappresenta benissimo la situazione attuale dell’Iraq. Gli stipendi
statali sono insufficienti a vivere, anche se integrati dalla
distribuzione da parte del governo di cibo a prezzi calmierati. Così
chiunque può svolgere un secondo lavoro: autista, cameriere, fattorino,
qualsiasi cosa. Gli iracheni, come tutti, hanno sicuramente dei difetti,
ma non la pigrizia. Tutti cercano di darsi da fare, non aspettano la manna
dal cielo, né si abbandonano all’inazione. Forse anche per questo li si
conosceva come «gli svizzeri del Medio Oriente».

 L’ALTRA
BAGHDAD

Così non è strano trovare un
medico che, lasciato il camice, indossi la divisa di cameriere in un
ristorante della città. Una volta il massimo del lusso era mangiare in Abu
Nawas, il lungo fiume. Da un paio d’anni la nuova zona di moda per
ristoranti e gelaterie è in A’rasat al-Indìa, dove è più facile vedere gli
ultimi modelli di Mercedes e Land Rover che le macchine dai vetri rotti e
i sedili sfondati tipici di altre zone.  Qui i locali abbondano: c’è
quello illuminato solo da candele e frequentato anche da ragazzi e ragazze
che, a dispetto delle regole islamiche, cercano nella penombra un po’ di
intimità; c’è la gelateria di tre piani dove campeggia una macchina
italiana per fare il gelato; c’è il Castello, in italiano, una specie di
castelletto medievale le cui torrette e merli sono evidenziati da file di
lucine colorate.

Questa è la Baghdad che ha meno
problemi, la città della minoranza che può spendere in una sera ciò che la
maggior parte delle persone guadagna in un mese: la città delle ragazze
con i capelli al vento ed i jeans stretti, e dei ragazzi con il walkman
alle orecchie; la città permissiva, in passato frequentata dai ricchi
sceicchi del Golfo, rispettosissimi delle regole islamiche in patria, ma
pronti a dimenticarle all’estero.

A ben guardare, di questa Baghdad
c’è ancora tutto, anche se in modo meno evidente. Ci sono i teatri; i
cinema dove proiettano, sebbene tagliati in rispetto alle regole
dell’islam, anche film di produzione americana; c’è la musica nei tanti
negozi che vendono cd con gli ultimi successi arabi e inteazionali e
strumenti musicali; c’è persino l’alcornol che, seppure bandito in
osservanza alla «Campagna di fede» lanciata dal governo alcuni anni fa,
viene venduto in appositi negozi gestiti da cristiani.

CONVIVENZA

 L’Iraq è anche un paese che,
sebbene a netta maggioranza musulmana, vede vivere fianco a fianco
cristiani e musulmani.

A Baghdad, ma soprattutto a Mosul,
nel nord del paese, non è difficile scorgere tra le case la croce di una
chiesa. Per la maggior parte dei cristiani e dei musulmani la religione è
un fatto personale e non impedisce di stabilire buoni rapporti.

Se la migliore amica di Samira,
una dottoressa musulmana di 25 anni, è cristiana, una signora di mezz’età
ci ha confessato ridendo che ogni tanto, dopo essere stata in moschea il
venerdì, entra in una chiesa e accende una candela.

Quando le abbiamo chiesto perché,
la sua risposta è stata: «Dio è uno: che differenza fa pregarlo in moschea
o in chiesa?».

Luigia Storti




Reportage dall’Iraq di Saddam

GLOSSARIO DI GUERRA

risoluzione Onu

La risoluzione è una deliberazione
del Consiglio di sicurezza (15 membri, di cui 5 permanenti e con diritto
di veto: Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) delle Nazioni
Unite. Molte le risoluzioni contro l’Iraq, ma molte di più quelle contro
Israele, che tuttavia le ha sempre rifiutate, a partire dalla 242 del 1967
(si veda il saggio di Xavier Baron, I palestinesi, Baldini&Castoldi 2002).

guerra preventiva

Secondo la dottrina sulla
sicurezza nazionale («The National Security Strategy of the United
States») presentata da George W. Bush lo scorso 20 settembre, il governo
di Washington punterà a «difendere gli Stati Uniti, i cittadini americani
e i nostri interessi in patria e all’estero, identificando e distruggendo
la minaccia prima che raggiunga i nostri confini».

embargo

«Le risposte degli stati alle
violazioni di diritti umani, alle minacce alla pace internazionale e
all’illegittimo sostegno a tali minacce, quando vengono realizzate in
termini di embarghi e sanzioni, finiscono per colpire sempre stati ai
margini della comunità internazionale. Inoltre, immancabilmente, finiscono
per essere controproducenti» (Dizionario della globalizzazione, Zelig
Editore 2002). Oltre all’Iraq, tra gli embarghi più noti ci sono gli
embarghi statunitensi nei confronti di Cuba, Libia ed Iran.

terrorismo

«Il terrorismo è il sintomo, non
la malattia. Il terrorismo non ha paese. È transnazionale, un’impresa
globale come la Coca, la Pepsi o la Nike. Al primo segnale di pericolo, i
terroristi possono fare fagotto e trasferire le loro “fabbriche” di paese
in paese alla ricerca di un trattamento migliore. Proprio come le
multinazionali» (Arundhati Roy, Guerra è pace, Guanda 2002).

libertà duratura / Enduring
freedom

Sotto questa sigla, gli Stati
Uniti comprendono tutte le operazioni (soprattutto militari) finalizzate
alla lotta al terrorismo internazionale. Prima operazione di «Enduring
freedom» è stata la guerra in Afghanistan.

stato canaglia / rogue state

Definizione coniata dal presidente
statunitense George W. Bush per indicare tutti gli stati che, secondo gli
Usa, appoggerebbero il terrorismo internazionale. Nella lista sono
inclusi: Iraq, Iran, Corea del Nord, Libia e l’ex Afghanistan dei
talebani.

armi di distruzione di massa

Tutte le armi a cui non si può
attribuire l’aggettivo «leggere». Pertanto, rientrano nell’accezione le
armi biologiche e batteriologiche (batteri, virus, funghi), le armi
chimiche (gas e tossine di vario tipo), le armi nucleari.

uranio impoverito / depleted
uranium

Utilizzato per migliorare la
capacità perforante dei missili, l’uranio impoverito è responsabile di
gravi danni alla salute delle persone (civili e militari) in Iraq e in
Kosovo (e in tutti i paesi dove è stato utilizzato segretamente).

sindrome del Golfo

Con questo termine si intende quel
complesso di malattie gravi e misteriose nella loro eziologia che ha
colpito i veterani statunitensi impegnati nella prima guerra del Golfo. I
casi di sindrome denunciati sono circa 90.000. Oltre alle malattie dei
veterani, molto gravi e sempre più numerosi sono i fenomeni di
malformazioni genetiche tra i loro figli (occhi, orecchie o arti mancanti,
sviluppo abnorme di alcuni organi interni ecc.), che rientrano tra le
possibili conseguenze dell’uranio impoverito sulla salute.

linfoma di Hodgkin

O linfogranuloma maligno.
«Malattia del reticolo dei gangli linfatici, del midollo osseo, della
milza, caratterizzata dall’associazione di un granuloma dall’aspetto
infiammatorio con cellule tumorali» (dizionario medico Larousse). Tra le
persone venute a contatto con l’uranio impoverito (nei Balcani, in Iraq) è
stato accertato un rilevante incremento dei casi di linfoma di Hodgkin.

Paolo Moiola




«LA PARTENZA» grandi attori interpretano Giuseppe Allamano

IL «SALGARI» DELLA MISSIONE

Come esprimere le emozioni
dopo una ricerca appassionante, tesa a far conoscere un grande uomo?
«Io conoscevo poco Giuseppe Allamano: fra i “santi sociali” del
Piemonte,egli mi era apparso solo un “silenzioso”.
E per molti torinesi Allamano è soprattutto “un corso”.
Sì, avete capito bene: un corso, che collega Torino a Grugliasco.Ma è
possibile?».
È l’interrogativo provocatorio di Paolo Damosso, regista del film «La
partenza».
Il protagonista? Lui, ovviamente: il beato Giuseppe Allamano,fondatore
dei missionari e delle missionarie della Consolata

 

La prima riunione è in Corso
Ferrucci 14, Torino, nella casa madre dei missionari della Consolata:
quasi due anni fa.

I padri Francesco Beardi e
Giacomo Mazzotti parlano con entusiasmo di Giuseppe Allamano, ed io
ascolto le prime informazioni con la curiosità di chi si addentra in un
mondo sconosciuto. «Deve scattare qualcosa “dentro”. Occorre trovare
un’idea» ripeto meccanicamente ai due missionari, senza sapere ancora da
che parte parare. Li lascio con un borsone zeppo di libri e… tanta
confusione mentale.

Dopo giorni di decantazione,
leggo, annoto, sottolineo: e (sorpresa!) scatta quel «qualcosa». Inizio ad
intravvedere un percorso, una strada. Sono di fronte ad una storia, una
bella storia, unica e particolarissima.

I missionari della Consolata, tra
l’altro, vantano una grande tradizione nel settore dell’immagine. Molti
sono i programmi televisivi, i documentari realizzati: alcuni
preziosissimi anche per il periodo storico in cui sono stati realizzati.

Per questa ragione s’impone una
scelta: sviluppare un progetto su una personalità forte, con
caratteristiche mai sovrapponibili a quanto è già stato fatto. Che sfida!

 Giuseppe Allamano inizia a
sbalordirmi, ad occupare i miei pensieri. Ne parlo con tutti. Alcune notti
lo sogno.

Mi colpisce il carattere mite, ma
con idee chiare. Una persona che rispecchia le caratteristiche della sua
terra, Castelnuovo (AT), dove nasce nel 1851. Un uomo «con i piedi per
terra» e la mente sempre in viaggio, in perenne movimento fino alla morte
(Torino, 1926). Nasce così l’idea de «La partenza», il titolo del film che
riassume bene le prime sensazioni provate.

Ciò che mi sorprende è che
l’Allamano, un secolo fa, abbia parlato dell’Africa ed abbia entusiasmato
i giovani a fare una scelta missionaria difficile e «misteriosa», a
partire… E lui non parte! Un uomo che trascorre 46 anni nel santuario
della Consolata, e che, nello stesso tempo, si fa carico dei problemi nel
sud del mondo. Terre sconosciute, inesplorate; però ne parla con
competenza, convinzione, fede soprattutto! Lo si nota leggendo il suo
bollettino La Consolata, ricco di immagini sul continente nero.

Non c’è la tivù, non c’è internet,
non c’è «il villaggio globale», eppure l’Allamano «abbraccia il mondo
intero» con uno slancio e una progettualità invidiabile anche per noi, che
quotidianamente ci interroghiamo sullo squilibrio fra nord e sud del
mondo. Stupefacente è pure il fatto che non siamo di fronte ad «un
avventuroso»; viceversa, è nitida la profonda spiritualità che guida ogni
decisione, sempre ben ponderata.

Per l’Allamano, l’idea di
«partenza» è elastica. Non si può ridurla ad un fatto meramente fisico.
«Si può partire, viaggiare e fare tanta strada anche stando fermi»: è una
delle battute finali nella sceneggiatura che ho scritto. Non è solo un
gioco di parole, ma la traduzione di una delle mie primissime riflessioni.

«L’Allamano è il Salgari della
missione» dico a mia moglie una sera a cena. Una provocazione, per far
capire che si può comunicare un’emozione anche su un luogo mai conosciuto
di persona. La giungla, mai vista da Emilio Salgari, ha segnato un
successo editoriale. L’Africa, mai visitata dall’Allamano, ha
rappresentato «un successo missionario», un nuovo modo di evangelizzare,
di vivere la vocazione, di incontrare l’uomo.

Questo mi invoglia ad approfondire
lo studio. Inizio ad «immaginare l’Allamano». Che tipo è? Come si muove e
come parla?

Incontro le persone che ancora lo
ricordano. E scopro che, a Venaria (il comune in cui vivo), tra le
missionarie della Consolata ci sono ancora «testimoni oculari»,
preziosissime. Suor Antonietta ha 100 anni. Incontrarla è un’enorme
emozione per me, affamato di informazioni dirette, di dettagli, anche
minimi.

 Il film è molto articolato. È un
lavoro che alterna momenti di fiction a monologhi teatrali e parti
documentaristiche.

La vicenda si sviluppa su vari
livelli. In primo luogo, c’è una storia ambientata ai giorni nostri:
riguarda Tullio e Anna, due anziani coniugi. Tullio è ultranovantenne, ha
conosciuto l’Allamano e ne è rimasto così colpito da avere «la tentazione»
di partire per la missione: una decisione che non ha realizzato. Per tale
ragione, ora che è vecchio, trascorre il tempo a ricordare, leggere,
guardare filmati missionari, e tormenta moglie e figlio sulla sua mancata
partenza.

In secondo luogo, c’è la vicenda
di Bruno, il figlio dei due coniugi. È un attore che sta preparando un
recital proprio sull’Allamano; quindi, oltre a cercare di far ragionare il
vecchio padre, viaggia attraverso i luoghi legati al personaggio da
rappresentare, provando alcuni brani dello spettacolo tratti dagli scritti
dell’Allamano.

Infine, ecco l’amico, il braccio
destro del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata: Giacomo
Camisassa. È una colonna portante, da evidenziarsi nel modo più efficace.
Camisassa sarà presente con la voce affascinante (fuori campo) di Aoldo
Foà: una voce che accompagna lo spettatore nel percorso biografico del
protagonista.

Non mancano i filmati d’epoca, che
ci calano dentro una storia centenaria, che continua a svilupparsi negli
angoli più remoti della terra, là dove operano e faticano i missionari
della Consolata.

Questi sono gli ingredienti della
«torta», che vanno impastati, fatti lievitare e cotti a puntino. A tutti
l’onore di «assaggiare il dolce della casa». Ed anche… buona «partenza»!

 


Intervista con gli attori


PARTIRE, MA ANCHE ARRIVARE


Franco Giacobini
,
grande attore
romano, oltre 100 film, con la voglia di misurarsi ancora con un nuovo
personaggio, motivato da una tensione spirituale che non lo abbandona mai.

 Signor
Giacobini, dopo una lunga carriera, in questi ultimi anni spesso
interpreta santi. Perché?

Ho scoperto i santi dopo i 70
anni. In essi mi colpisce la coerenza, merce rara in questi tempi. Sono
persone che hanno preso alla lettera una o due verità fondamentali del
cristianesimo. Sarebbe imperdonabile non meditare su loro.

 Del beato Giuseppe Allamano
che cosa l’ha colpita?

Sono strabiliato dal «paradosso
Allamano»: il suo slancio verso una terra sconosciuta come l’Africa ha
dell’incredibile. È «la follia dei santi», che è contagiosa.

 Il suo personaggio è Tullio,
di 96 anni, che ha conosciuto l’Allamano. Come si è trovato in tale ruolo?

Il regista mi conosce bene, e ha
creato un personaggio che mi assomiglia. L’unica differenza è che Tullio
ha 20 anni più di me.

 È stato difficile
«invecchiarsi»?

Ero soprattutto preoccupato di
rendere credibile la mia età. Oggi a 96 anni si può ancora essere
autosufficienti; ma il mio personaggio ha caratteristiche complesse: è un
visionario, un po’ arteriosclerotico, ma con momenti di lucidità quasi
imbarazzante. La cosa più faticosa è che ho dovuto farmi crescere una
lunga barba: oltre sei mesi di sofferenza…

 La sua maggiore
preoccupazione?

Essere credibile. Deve sempre
essere evidenziata la verità. C’è un solo comandamento nella recitazione:
«Non bisogna dire bene; bisogna dire vero».

 Il titolo dello sceneggiato è
«La partenza». Che significa per Franco Giacobini?

«La partenza» ha senso se si
individua anche un «arrivo»: non è un gioco di parole. Ecco perché invidio
i missionari: sono accecati da un’energia vitale e la comunicano agli
altri. Di fronte a gente triste e spenta, «illuminano una strada» e
indicano la meta da raggiungere.

 C’è una curiosità legata a
quest’esperienza?

Certo. Ultimamente ho problemi di
memoria. In questo caso è stato tutto poco faticoso. È stato l’Allamano a
suggerirmi le battute all’orecchio?

 


Angela Goodwin
, moglie di Franco Giacobini anche nella vita,
ha lavorato con la professionalità di sempre. Lei, che ha recitato con
Sofia Loren, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ecc.

 

Signora Goodwin, qual è il suo
ruolo?

Io interpreto Anna, la vecchia
moglie di Tullio, il testimone oculare dell’Allamano. È una donna
semplice, che ha dedicato tutta se stessa al marito. Una donna d’altri
tempi. Positiva in tutti i sensi, un po’ ansiosa; però, mi auguro,
simpatica.

 Quanto è importante essere la
moglie di Tullio anche nella vita?

È indubbiamente un aiuto
psicologico; facilita ad essere più vera nell’atteggiamento amoroso e c’è
sicuramente più feeling. Sono stata moglie di vari attori sul set, come
Philippe Noyret o Renato Rascel. In quei casi dovevo concentrarmi di più,
perché c’era il rischio di essere meno spontanea. E poi… bisogna
piacersi!

 E dell’Allamano cosa pensa?

È delizioso: uno che ha camminato,
ha attraversato la storia, «apparentemente» senza far rumore. È il vero
prete, l’uomo umile, che tutti vorremmo incontrare quando entriamo in
chiesa.

Ho guardato e riguardato le sue
foto: il portamento, i tratti somatici e le espressioni rivelano una
personalità docile. Il fatto è che sapeva molto bene quello che voleva, e
lo ha dimostrato. Ciò significa che, per costruire grandi cose, non
occorre gridare, né prevaricare sugli altri. Meglio sorridere, parlare a
voce bassa, comunicare amore.

 Com’era il clima umano sul
set?

È stata una vacanza. Lo
sottolineo: e questo è dovuto alla troupe della Nova-T. Una festa di
affetti ed attenzioni. Mai un momento di disagio.

 Chi è il missionario per
Angela Goodwin?

Una persona dedicata agli altri,
non a se stesso. Un uomo che non mette mai in evidenza il proprio io.

 


Flavio Bucci
, un talento artistico, una vis teatrale senza
pari, ha creduto fin da principio ne «La partenza» e ha conferito forza
alle parole dell’Allamano, rendendole vive e attuali.

 

Signor Bucci, perché ha
accettato questo ruolo?

Nella mia vita di attore, con 35
anni di carriera, ho interpretato diversi preti, tra cui don Sturzo; sono
stato vescovo, però mai mi ero calato nel ruolo di un santo o beato. Per
me l’Allamano è una grande scoperta.

 C’è qualcosa che le è rimasto
impresso nel viaggio piemontese sui luoghi di Allamano?

Due luoghi in particolare mi hanno
incuriosito: il museo etnografico dei missionari della Consolata a Torino.
È interessantissimo. Sono rimasto colpito dal fatto che, in questi grandi
saloni, pieni di oggetti, si può fare un viaggio nel tempo e nello spazio.
Molte cose ti sembrano stranissime e di mille anni fa; in realtà, spesso,
sono oggetti comuni e magari sono lì da pochi giorni… Capisco allora che
la mia ottica di uomo, figlio del benessere dei paesi dominanti, è
profondamente distorta. In secondo luogo, mi ha colpito il salone dei
vescovi in curia. Cento volti avvolgono la sala; provengono da epoche
lontane e mi hanno fatto uno strano effetto.

 Dell’Allamano che cosa le è
rimasto?

È un uomo incredibile con aspetti
anche curiosi. Penso, per esempio, al fatto che sia riuscito ad
appassionarsi all’Africa senza averla mai vista: eppure ha creato un
evento importante. È un leader con un grande carisma.

 Lei è un uomo di cinema. È
vero che l’Africa è penalizzata anche in questo campo?

Ho scoperto l’Africa quattro anni
fa, mentre giravo un film in Kenya. Non posso dire di conoscerla, perché
vivevo in modo confortevole e protetto. È vero però che il cinema ha
snobbato l’Africa e, in genere, il sud del mondo. Forse il grande pubblico
preferisce storie disimpegnate, futili. Ma siamo noi, dell’ambiente, che
dovremmo educarlo meglio.

 Chi sono i missionari per
Flavio Bucci?

Quando penso ai missionari non so
se invidiarli o meno. Sono una spinta che, potenzialmente, si nasconde in
molti di noi. Poi magari, come succede nel film girato, non si «parte».
Però si può essere missionari sotto vari aspetti: anche nel mio ambiente.
In questo momento potrei essere «missionario nel nome del teatro».

Paolo Damosso




IL CONCILIO VATICANO II 40 anni dall’11 ottobre 1962

E LA CHIESA INCONTRA IL MONDO

L’ 11 ottobre 1962 è la data che
segna l’inizio del più grande evento della chiesa cattolica nel XX secolo.
Quel giorno, nella basilica di San Pietro, papa Giovanni XXIII apre il
Concilio ecumenico Vaticano II con la solennità tipica degli anni ’50.
Fortemente voluto dal pontefice per conferire nuova vitalità alla chiesa
ed aprire nuove vie nel dialogo ecumenico, il Concilio viene vissuto come
una straordinaria esperienza di rinnovamento.

Il Vaticano II è stato il 21°
Concilio ecumenico nella storia della chiesa. Annunciato a sorpresa da
papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 (dopo appena tre mesi di
pontificato) nella basilica di San Paolo a Roma, apre i battenti l’11
ottobre 1962 e si conclude, dopo quattro sessioni, il 7 dicembre 1965
sotto Paolo VI.

All’evento partecipano 2.540
«padri», sotto il consiglio di presidenza di 10 cardinali. Per la
conduzione delle 168 assemblee plenarie, il papa nomina come moderatori 5
cardinali. Dei 73 progetti elaborati da 10 commissioni preparatorie (che
svolgono il lavoro principale) solo 17 sono presentati in aula;
moltissime, tuttavia, sono le proposte e le richieste di riforma espresse
in sede di assemblea plenaria. Il Concilio si avvale della consulenza di
200 teologi «periti». Gli osservatori delle chiese o comunità non
cattoliche sono 93.

Grande risalto assume il volto
universale della chiesa, espresso dalla partecipazione di vescovi in
maggioranza extraeuropei (100 anni prima, i 700 vescovi che hanno
partecipato al Concilio ecumenico Vaticano I erano, all’opposto, quasi
tutti europei). Per la prima volta vengono ammessi gli «auditori laici»:
un fatto che evidenzia la nuova posizione della chiesa rispetto al
laicato.

Ancora: per la prima volta
l’opinione pubblica, grazie ai mass media, può seguire l’avvenimento, che
ha una risonanza inattesa anche fuori del mondo cattolico, riscuotendo
consensi in ambienti pure critici della chiesa di Roma.

Pochi sono consapevoli della
portata storica che il Concilio avrebbe avuto. La finalità che lo stesso
Giovanni XXIII prospetta all’inaugurazione è l’«aggioamento»: occorre
rendere la chiesa più adatta ad annunciare il vangelo ai contemporanei;
ricercare le vie per raggiungere l’unità delle chiese cristiane; rilevare
quanto di positivo esiste nella cultura contemporanea, dando vita ad un
nuovo dialogo con il mondo moderno.

È una intuizione profetica, che
apre la strada ad un profondo rinnovamento della chiesa nella dottrina e
nella vita.

 

Delle quattro sessioni, Giovanni
XXIII segue solo la prima (11 ottobre-8 dicembre 1962), durante la quale
si svolgono 36 assemblee plenarie. Contrariamente a quanto programmato
dalla curia, i membri delle singole commissioni sono eletti dagli stessi
padri conciliari su indicazione di gruppi di vescovi. Dopo la morte di
papa Roncalli, 3 giugno 1963, Paolo VI decide di continuare l’opera del
predecessore.

Secondo l’intuizione di papa
Giovanni, il Concilio, avviando l’«aggioamento», deve trovare modi nuovi
di portare il messaggio evangelico ad un mondo in radicale trasformazione;
deve essere «pastorale», capace di riconoscere quei «segni dei tempi» che
possano aprire alla fiducia, offrire speranza a una società proiettata nel
futuro del progresso tecnologico ed economico, ma anche gravata da
inquietanti interrogativi sul suo futuro.

Alla luce di questa ispirazione,
il Concilio rinnova la comprensione che i fedeli hanno della chiesa,
facendo riscoprire la dimensione comunitaria, la centralità della parola
di Dio e la liturgia. Soprattutto, dispone la chiesa ad un dialogo diverso
con il mondo moderno.

Negli anni successivi alla II
guerra mondiale la preoccupazione fondamentale della chiesa cattolica è la
lotta contro il comunismo. Ma sempre più forti sono, nella base ecclesiale
dei paesi occidentali, le preoccupazioni per i sintomi sempre più
espliciti e gravi dello scollamento della chiesa dalla società modea.
Se, da un lato, la modeità continua a rappresentare, come all’inizio del
secolo, lo spettro di un nemico che contende alla chiesa la supremazia
sulla società occidentale, dall’altro essa si presenta come una sfida cui
i cattolici devono rispondere con mezzi nuovi, cominciando da una
riflessione sul loro mondo.

Questi problemi sono ben presenti
ai padri del Vaticano II. Per molti di loro il Concilio deve essere una
risposta adeguata alle questioni poste dal mondo moderno. Ma non è facile
trovare una forma appropriata per esprimere in un documento tali
preoccupazioni. Per questo l’elaborazione del documento Gaudium et spes
(dedicato al rapporto chiesa-mondo) è complessa e tormentata. Il carattere
«pastorale», intuito da Giovanni XXIII, è un faticoso banco di prova per i
padri. È un elemento di contesa.

Il delicato equilibrio tra
«dottrina» e «pastorale» mette in gioco il significato che la storia degli
uomini ha nel bagaglio di fede della chiesa.

 

Il documento Gaudium et spes è
un’espressione riflessa di come il magistero ecclesiastico consideri il
rapporto tra la chiesa e il mondo moderno, sia esso interpretato nel segno
del dialogo, della presenza, della solidarietà o secondo altri paradigmi,
tra i quali i padri conciliari devono scegliere.

La scelta dei temi da trattare (e
soprattutto la forma con cui trattarli) è certamente il frutto di una
difficile mediazione-maturazione, che costituisce oggi uno dei problemi
più interessanti nella lettura di Gaudium et spes. Il documento è oggetto
di polemiche per le questioni che, con coraggio, vi si affrontano:
famiglia, controllo delle nascite, vita politica ed economica, cultura,
comunismo, guerra e armi nucleari.

Il documento rappresenta, in ogni
caso, il crinale tra una chiesa arroccata in un fortilizio e una chiesa
più evangelica, alla ricerca della radicalità delle origini, in grado di
confrontarsi con la modeità.

Alla redazione del testo
collaborano centinaia tra padri conciliari e teologi (compreso
l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla), alla ricerca di nuove soluzioni.
E Gaudium et spes rimane uno dei documenti più condizionati dalla
situazione storica del tempo e dai compromessi necessari per poterlo
promulgare. Tuttavia, per i principi che enuncia, è anche uno dei più
significativi e importanti segni del Vaticano II…

In Italia il Concilio viene
accolto con grandi speranze dal popolo cristiano, ma anche dal mondo
laico… Poi il post-concilio si presenta con un decennio di forti
contrasti interni alla chiesa, tra gerarchia e comunità di base cristiane.

Se vi sono cardinali (come Giacomo
Lercaro a Bologna e Michele Pellegrino a Torino) che danno un grande
impulso al rinnovamento ecclesiale, altri porporati (Alfredo Ottaviani e
Giuseppe Siri) vedono nel Concilio un possibile pericolo per il futuro
della chiesa. Tuttavia anche per questi contrasti, inusuali nella storia
della chiesa italiana, la stagione post-conciliare è ricca di fermenti e
stimoli; è segnata da un rinnovato clima di dialogo e confronto tra le
diverse componenti sociali, culturali e politiche.

Rilancia la missio ad gentes in
termini più impegnativi.

 Oggi, a 40 anni dal suo inizio,
il Concilio continua a far discutere. Forse mai come in questi ultimi
tempi, mentre volge al tramonto il pontificato di uno degli ultimi padri
conciliari, il Vaticano II è al centro di una contesa tra diverse
interpretazioni anche all’interno della chiesa italiana.

C’è da augurarsi che prevalga il
coraggio della fede, e non la paura. Nel vangelo si legge: «Io sarò con
voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).

Luca Rolandi




JOHANNESBURG NON E’ PORTO ALEGRE

INCONTRO CON: Mercedes Bresso (presidente provincia di Torino)

Se i paesi del Sud
adottassero i modelli consumistici del Nord, la terra non potrebbe
sopportarlo. Per uno sviluppo sostenibile non basta  il progresso
tecnologico. Occorre che i paesi ricchi scelgano uno stile di vita più
sobrio.

Anche perché la sobrietà può
essere felice.

 

 

«L’uomo non deve sostituirsi
a Dio»: sono le parole del papa nei giorni antecedenti il summit di
Johannesburg. Un commento.

Non conosco esattamente il
contesto nel quale si è espresso il papa.

Immagino intendesse il rischio nel
produrre modificazioni permanenti degli ecosistemi terrestri.
Un’interferenza umana forte nel mondo animato ed inanimato sconta
un’ignoranza della logica complessiva del creato e può creare disastri,
cosa che per altro stiamo vedendo in maniera abbastanza precisa. Questa è
la mia interpretazione. Non dimentichiamo che, quando si parla di sviluppo
sostenibile, non si intende soltanto l’ambiente in senso fisico, ma anche
sociale e, quindi, delle modifiche che danneggiano gli ecosistemi e le
loro popolazioni: pensiamo ai processi di desertificazione in Africa, agli
interventi umani che hanno prodotto distruzioni gigantesche, alle
monocolture. Tutto questo produce disastri ambientali e in definitiva
povertà delle popolazioni.

Il papa ci ricorda perciò il
nostro dovere di aiutare lo sviluppo, senza cadere nello sfruttamento.

Un monito quindi: l’economia non
interferisca con il creato e non produca disastri sociali.

 

Il pianeta sta meglio o
peggio dopo la conferenza di Johannesburg?

È molto difficile rispondere a
questa domanda. Questi grandi summit hanno l’indubbio vantaggio di
sensibilizzare le opinioni pubbliche e possono, quindi, far muovere le
coscienze a tutti i livelli: dal singolo cittadino al capo di un governo.
Inoltre, dopo Rio (1992), 600 enti locali hanno deciso di attuare la Local
Action 21, ovvero l’Agenda 21 a livello locale.

Questi enti si impegneranno a
realizzare nei prossimi 10 anni le politiche di sostenibilità teorizzate
dal 1992 ad oggi. In questo senso la provincia di Torino ha già iniziato
l’attuazione dei piani d’azione con la destinazione di circa 12,5 milioni
di euro al Forum dell’Agenda 21, in modo da dimostrare che impegnarsi a
progettare per poi attuare serve. E porta a risultati.

Parallelamente bisogna ammettere
che, a differenza delle Ong e di moltissimi enti locali, è mancata la
buona volontà da parte dei governi centrali e gli impegni presi a
Johannesburg sono stati molto modesti.

 

A Johannesburg è stato
finalmente messo in discussione il concetto di crescita quantitativa,
ovvero l’idea dell’aumento continuo del PIL?

Non è possibile teorizzare la
crescita infinita. Probabilmente, nella storia dell’umanità, la crescita
continua di beni materiali è solo un momento. Dobbiamo lasciare alle
generazioni future la possibilità di vivere avendo le risorse fisiche,
scientifiche e sociali necessarie.

 

Pensa che un’espansione del
libero mercato nei paesi in via di sviluppo, ad esempio la Cina, possa
essere sostenibile per il pianeta terra?

È necessario trovare un modello di
sviluppo che non ricalchi il modello occidentale di crescita forsennata.
Qualora Cina o India si sviluppassero sui nostri modelli consumistici,
porrebbero dei seri problemi di reperimento di risorse naturali.

Non va comunque dimenticato come
il progresso tecnologico possa aiutare i paesi del Sud a raggiungere uno
sviluppo sostenibile, che dia cioè a tutti la possibilità di una vita
dignitosa senza distruggere la terra. Questo significa non imitare il
modello di vita nordamericano e nemmeno quello europeo.

Ad esempio, se i cinesi non
potranno vivere in maniera «insostenibile» come gli italiani, non
significa che dovranno vivere in maniera peggiore.

 

Come interpretare il
problema demografico alla luce del fatto che un nordamericano consuma, ad
esempio, come 1.200 ruandesi?

È vero, siamo in tanti e una parte
di noi consuma troppo. Se tutti consumassimo in maniera eguale e se non si
fermasse il boom demografico, la situazione diverrebbe insostenibile.
Bisogna però sottolineare che, di norma, ad un aumento del tenore di vita
corrisponde una diminuzione della crescita demografica. Questo grazie
all’utilizzo di tecniche sanitarie migliori, degli anticoncezionali e ad
uno stile di vita diverso.

 

Come concretizzare il
concetto di sviluppo sostenibile nei paesi ricchi?

È assolutamente possibile ridurre
l’impronta ecologica, anche senza produrre un peggioramento della qualità
della vita. Bisogna iniziare a separare il concetto di sviluppo da quello
del consumo di risorse.

Inoltre, non è più possibile
sostenere un sistema dove il reddito ed il lavoro siano legati ad un
aumento dei consumi.

Ci sono alcuni aspetti sui quali
si può agire. Il più importante è quello dei consumi energetici, sulla
loro qualità e quantità. Questo è il nodo principale dell’umanità: bisogna
uscire dall’era dei combustibili fossili e parallelamente consumare meno.

Lo stesso vale per la produzione
materiale: alcuni comparti dell’industria stanno cominciando a produrre
beni con un minor utilizzo di materia. Per altri la situazione è diversa.
Per esempio, nell’industria alimentare è ancora eccessivo l’utilizzo
dell’imballaggio, tra l’altro quasi sempre non riciclabile.

Tuttavia, il problema di fondo
rimane la ricerca di stili di vita più sobri.

Per raggiungere una «sobrietà
felice» è ipotizzabile, ad esempio, la sostituzione della vendita di beni
materiali con quella di servizi. Questo non significa che vivremo peggio;
vivremo solamente in un modo diverso.

Un caso concreto: immaginiamo un
condomino dove ogni famiglia possiede il proprio aspirapolvere. Si
potrebbe appaltare il lavoro di pulizia ad una ditta che farebbe lo stesso
lavoro, ma con molto meno apparecchi e dunque meno consumo di risorse.

 

Perché il cittadino ha
difficoltà ad accettare i temi ambientali?

La vita di oggi è troppo
forsennata. L’attenzione verso l’ambiente arriverà anche da una maggiore
calma nella nostra quotidianità. Per raggiungere questo obiettivo, le
istituzioni dovranno offrire dei servizi migliori, anche con l’aiuto delle
Ong.

D’altra parte, è vero che,
purtroppo, esistono paesi in cui la cultura ambientale non è ancora
penetrata.

Per queste ragioni la nostra
provincia aiuta le scuole, le industrie ed i singoli cittadini ad avere
una maggiore sensibilità nei temi ambientali come dimostra la campagna sui
rifiuti dei mesi passati (cfr. Missioni Consolata, settembre 2002).

 

Un commento sulla politica
ambientale italiana.

In generale l’Italia è sempre
stata in ritardo nelle politiche ambientali. In particolare, il governo
Berlusconi, aldilà delle sue generiche affermazioni, non ha battuto alcun
colpo in tema ambientale. Limitandoci al Piemonte, è da ricordare che
tutte le aree protette sono state fatte dai governi di centrosinistra.

 

Presidente Bresso, il suo
stato d’animo al ritorno da Porto Alegre (gennaio 2002) e da Johannesburg
(settembre 2002)…

Da Porto Alegre molto positivo.
Sembra che ci siano forze, risorse e volontà per cambiare il mondo, pur
senza un atteggiamento rivoluzionario.

Da Johannesburg meno, nel senso
che gli enti locali e le Ong rimangono ferme sulla volontà di cambiamento,
ma i governi, capeggiati dagli Usa (senza con ciò voler fare
dell’antiamericanismo), non hanno un atteggiamento di apertura verso i
gravi problemi planetari. La mia impressione è che ci sia un allentamento
dell’attenzione sulla questione ecologica.

Rimango però fiduciosa nel
comportamento dei giovani che, apparentemente, risultano più sensibili ai
problemi dello sviluppo e dell’ambiente.

 


Chi è? Mercedes Bresso

 

Mercedes Bresso, professoressa
di economia ed economia dell’ambiente presso il Politecnico di Torino,
è presidente dell’omonima Provincia dal 1995.

È autrice di numerosi saggi ad
uso universitario:

– Mercedes Bresso, «Pensiero
economico e ambiente», Loescher, Torino 1982

– Mercedes Bresso, Alberico
Zeppetella, «Il turismo come risorsa e come mercato», Angeli, Milano
1985

– Mercedes Bresso, Rosanna
Russo, Alberico Zeppetella, «Analisi dei progetti e valutazioni
d’impatto ambientale», Angeli, Milano 1990

– Mercedes Bresso, «Per
un’economia ecologica», NIS, Roma 1993

– Mercedes Bresso, «Economia
ecologica», Jaca Book, Milano 1997

 

Silvia Battaglia Maurizio Pagliassotti




DA MUSULMANI A CATTOLICI storie di convertiti

DA
MUSULMANI A CATTOLICI
storie di
convertiti

Lasciare l’islam è molto
rischioso. L’apostasia è «haram», vietata assolutamente: potrebbe anche
costare la vita. Ma Monica ed Agostino, giovane coppia algerina, lo hanno
fatto. Oggi vivono in Italia con i loro tre figli, e raccontano che…
Come i cristiani convertiti all’islam, anche gli islamici convertiti al
cattolicesimo sono radicali nei loro giudizi.

Val Varaita (Cuneo).
Uno scenario di montagne rischiarate dal sole circondano la casa abitata
dalla famiglia Fadel (il cognome è di fantasia). Veniamo accolti con un
bel sorriso, mentre ci accomodiamo nel salotto. Agostino e Monica sono una
giovane coppia con tre figli. Arrivano dall’Algeria, martoriata dalla
guerra civile.

I loro nomi di battesimo sono
veri, e il termine appena usato non è inappropriato: sono cristiani venuti
dall’islam. Ma non possono gridarlo forte come vorrebbero o con l’orgoglio
che contraddistingue tutti coloro che, dal cristianesimo o
dall’agnosticismo, giungono all’islam. A loro non è permesso: a differenza
di chi «ritorna» (si converte) alla religione coranica, ed è ben accolto
dalla ummah, la comunità dei fedeli, chi abbraccia il credo cristiano o
qualsiasi altro, è considerato un traditore, apostata e dunque passibile
di morte. La ridda o irtidad (apostasia) è haram, vietata assolutamente
(vedere scheda).

«Erano anni che sentivamo
profondamente nella nostra vita l’esigenza della conversione al
cristianesimo – raccontano Monica e Agostino – e, dopo lo scoppio della
guerra civile in Algeria, molti nostri connazionali sono andati verso
Cristo. L’islam, così come lo abbiamo visto nel nostro paese in
quest’ultimo decennio, ci aveva spaventati. Non predica amore e
compassione come il cristianesimo. Ecco, proprio questo ci ha molto
colpiti della figura di Gesù e dell’opera di tanti missionari: l’amore,
l’altruismo, quel profondo rispetto e tenerezza per gli esseri umani, per
la dignità della vita».

«Abbiamo svolto lunghe ricerche,
nel corso degli anni – spiega il marito -, ci siamo documentati molto sul
cristianesimo. Mia moglie ha scoperto persino che un suo trisavolo era
cristiano».

«Sì, ma nessuno in famiglia ne
parlava: poteva essere pericoloso. Da noi non si può leggere la bibbia: è
considerato un atto di apostasia. Anche andare a messa la domenica è
pericoloso: la polizia ci controlla. Pensare che nella tradizione islamica
berbera sono molti i segni ereditati dal cristianesimo: le donne, ad
esempio, sono tatuate con croci e pesci».

Come hanno reagito alla vostra
scelta le rispettive famiglie?

«Nessuno di loro ci ha contestato
o criticato. Noi, d’altro canto, non abbiamo mai avuto timori. Quella di
diventare cristiani è stata una decisione accarezzata da tempo, desiderata
profondamente. E da allora la nostra vita è cambiata completamente».

«Anche il nostro rapporto di
coppia si è modificato – risponde Monica -. Prima eravamo legati alle
tradizioni, all’entourage familiare, alla differenza tra uomo e donna,
alla sudditanza della seconda al primo. Eravamo tesi, litigiosi. Ora è
diverso: è come se un nuovo orizzonte si fosse aperto davanti a noi. Un
orizzonte che ci piace e in cui ci sentiamo bene e siamo felici, e con noi
i nostri figli».

Sono battezzati anche loro?

«No, anche se l’intenzione
iniziale era quella – racconta Agostino -. Ci fu consigliato di aspettare
che i ragazzi crescessero e potessero scegliere da soli: un musulmano che
abbraccia un’altra religione è perseguitato, può incorrere in seri
problemi, ed è meglio che i nostri figli, per il momento, li evitino. Nel
frattempo vanno a catechismo».

Quando è iniziata la vostra
ricerca?

«Nel ’90  ed è andata avanti fino
al ’94. Ci eravamo trasferiti in Italia per cercare lavoro e serenità –
ricorda Monica -. Tuttavia, poiché non avevamo alcun tipo di
regolarizzazione, facemmo ritorno in Algeria per avviare le pratiche per i
permessi di soggiorno. Lì la situazione era drammatica: la guerra civile
seminava morte e distruzione e i nostri figli, che parlavano solo
italiano, erano spaventatissimi e spaesati.

Dal ’94 al ’99 ci trasferimmo in
Tunisia: iscrivemmo i ragazzi in una scuola italiana, mentre mio marito
trovò lavoro come interprete per una ditta italiana. Io ero dirigente in
una fabbrica di abbigliamento. Insomma, avevamo trovato una buona
sistemazione. Frequentavamo la comunità dei cristiani, tunisini ed
europei. Alla domenica, tra mille difficoltà, andavamo a messa nella
cattedrale di Tunisi e incontravamo i nostri compagni di fede. Spesso,
tuttavia, arrivava la polizia e ci portava in commissariato, dove venivamo
interrogati a lungo: “Voi siete musulmani, perché frequentate la chiesa?”.
Era questa la domanda di rito».

«Ma noi proseguimmo il nostro
percorso: andavamo a catechismo, alle riunioni di preghiera e di
riflessione – continua Agostino -. In quei luoghi incontravamo decine di
arabi di origine islamica convertiti al cristianesimo. È molto rischioso
lasciare l’islam, può costare la vita, ma Gesù ci è stato vicino. Fu
proprio la fede in lui che ci diede la forza per superare la paura delle
persecuzioni, quando, nel ’99, dalla Tunisia ritornammo in Algeria. Lì la
nostra situazione era ancora più pericolosa. Facevamo anche 300 chilometri
per raggiungere il luogo per gli incontri spirituali. Nonostante tutto
ciò, comunque, abbiamo proseguito».

La fede è dunque una componente
importante nella vostra vita?

«Fondamentale – risponde Agostino
-. Il Signore è presente nelle nostre giornate e ci guida: tutti gli
ostacoli si trasformano positivamente e misticamente».

«In Algeria era difficile davvero
trovare l’occasione per pregare o per andare a messa – sottolinea Monica
-. A casa c’era sempre qualcuno delle nostre famiglie, ed io, facendo la
sarta, ricevevo molte donne e avevo sempre il timore che i miei figli,
abituati a parlare liberamente, rivelassero loro la nostra scelta
religiosa. Era rischioso, bisognava stare attenti. In particolar modo
quando, una volta al mese, veniva un sacerdote a celebrare la messa a casa
nostra, chiudevamo tutte le finestre e parlavamo a bassa voce. Nessuno
doveva sentirci. Ma siamo stati coraggiosi e tutto è sempre andato per il
verso giusto, anche quando, nel 2001, ci siamo trasferiti in Italia».

«Abbiamo infatti subito trovato
casa e lavoro, e presentato i documenti per la regolarizzazione – la
interrompe Agostino -. I nostri figli frequentano le scuole medie e
superiori e sono ben inseriti, vanno in parrocchia, hanno tanti amici.
Insomma, siamo felici e di questo ringraziamo Dio tutti i giorni.
Qualunque cosa chiediamo a Gesù, lui ce la concede. E noi lo ringraziamo
facendo tanto volontariato, soprattutto mia moglie: è un’attività che ci
piace molto, che ci dà gioia. Amare, donare, è qualcosa di magnifico, che
nell’islam ci mancava completamente.

Spesso, nei nostri paesi i soldi
della zakat, l’elemosina legale islamica, finiscono nella compra-vendita
di armi o nelle tasche dei ricconi potenti. Venendo dall’islam abbiamo
potuto constatare di persona la differenza tra questa religione e il
cristianesimo: chi segue l’insegnamento di Cristo ha tanto amore da dare,
ha un grande cuore e agisce per il prossimo senza interessi. Non è così
nell’islam! Prendiamo il pilastro stesso del digiuno durante il mese di
ramadan: è vietato mangiare dall’alba al tramonto, ma poi ci si abbuffa di
sera, spendendo un capitale in acquisti. Anche il cibo viene sprecato e i
prezzi lievitano. Ecco che, nonostante le critiche, si macchiano dello
stesso consumismo di cui accusano i cristiani per il natale».

 

 

 «Ridda»
o «irtidad» (apostasia) nell’islam

ll termine muslim significa
colui che è sottomesso a Dio e islam indica la resa, la sottomissione
e la devozione. Il musulmano, dunque, nasce e vive sotto la legge
islamica, la shari‘a, e non può scegliere per sé e per la propria
famiglia una religione diversa da quella dei padri.

In una prospettiva islamica,
perciò, chiunque abbandoni la propria fede commette un peccato
imperdonabile: si allontana da Dio e dalla comunità di credenti, la
ummah, e deve essere processato e invitato a pentirsi. Eventualmente,
può essere «aiutato» attraverso la tortura. Se tutto ciò fosse inutile
a far ravvedere l’apostata, la pena di morte potrebbe essere comminata
come conseguenza.

In Egitto, Marocco, Iran e
Pakistan molti convertiti sono stati sottoposti a maltrattamenti e
torture, che hanno portato, in alcuni casi, alla morte. Sono stati
registrati casi in cui genitori hanno murato vive le figlie
lasciandole morire di sete e di fame.

Tuttavia, in questo inizio di
secolo, sembra che vi siano stati solo sporadici casi di condanne a
morte. Teoria e pratica, dunque, non viaggiano parallele.

 Che
dice il corano?

Apostata è una persona che
abbandona una religione e ne adotta un’altra o si limita a
considerarsi ateo. Al giorno d’oggi, nell’islam, l’apostasia è un tema
complesso e molto dibattuto. Vediamo, allora, cosa dicono alcuni
versetti coranici.

«La religione presso Iddio è
l’islam» (sura III, v.19);

«Iddio non perdona che gli si
associno compagni, ma, all’infuori di ciò, perdona chi vuole. Ma chi
attribuisce consimili a Dio commette un peccato immenso» (sura IV,
v.48);

«Combattete coloro che non
credono in Dio e nell’Ultimo giorno e che non vietano quello che Dio e
il suo messaggero hanno vietato» (sura IX, v.29);

«I credenti sono coloro che
credono in Dio e nel suo Messaggero e non dubitano in quel credo»
(sura XLIX, v.17);

«Non prostratevi al sole o
alla luna, piuttosto prostratevi davanti a Dio che li ha creati, se è
Lui che adorate» (sura XLI, v.37);

«Giurano in nome di Dio che
non hanno detto quello che in realtà hanno detto, un’espressione di
miscredenza; hanno negato dopo aver accettato l’islam e hanno
desiderato quel che non hanno potuto ottenere. Non hanno altra
recriminazione se non che Dio col suo Messaggero li ha arricchiti con
la sua grazia. Se si pentono sarà meglio per loro; se invece volgono
le spalle, Dio li castigherà con doloroso castigo in questa vita e
nell’altra; e sulla terra non avranno né alleato né patrono» (sura IX,
v.74);

«Coloro che commettono
blasfemia e si separano dalla via di Dio e poi muoiono come
miscredenti Iddio non li perdonerà», (sura XLVII, v.34);

«Che non vi sia costrizione
nella religione: certamente il Giusto Sentiero si distingue
chiaramente da quello storto» (sura II, v.256);

«Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero» (sura IV, v.137);

«Quando poi siano trascorsi i
mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate,
catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono,
eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro
strada. Dio è perdonatore e misericordioso» (sura IX, v.5).

 Che
succede agli apostati?

«Alcuni commentatori sono
giunti alla conclusione che la punizione per chi rinuncia alla fede è
la morte» (1). Ciò che attende un adulto, dunque, sono 3 giorni per
ripensare alla propria scelta prima di essere giustiziato. Alcuni
ritengono che ciò debba avvenire, indifferentemente, se l’apostasia è
commessa in uno stato islamico o d’altra fede.

Secondo altre tendenze, è
necessario invece attenersi a quanto sancito dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo in fatto di libertà religiosa.

Studiosi delle quattro scuole
giuridiche (shafi‘iti, hanbaliti, malikiti, hanafiti) collocano gli
apostati all’interno di tre categorie: quelli del cuore, coloro, cioè,
che dubitano dell’esistenza di Dio o del messaggio del suo profeta
Muhammad; la blasfemia del corpo, coloro che si prostrano ad altre
divinità; e la blasfemia che proviene dal dubitare su Dio e il suo
profeta.

Non vi deve essere costrizione
nella religione, recita il corano, ma le cose cambiano una volta che
il fedele ha scelto di abbracciare l’islam. Come chiaramente espresso
dalla sura IV, v.137, chi crede e poi nega è considerato un
miscredente (kafir) e non degno del perdono di Dio. Inoltre: «Nessun
credente e nessuna credente può scegliere a modo proprio quando Dio e
il suo Messaggero hanno deciso qualcosa», (sura XXXIII, v.36). Il
credente non è dunque libero di decidere se abbandonare o meno la
religione islamica. Anzi, l’apostasia è giudicata come un vero e
proprio tradimento.

La pena
capitale: sì, però…

Premesso tutto ciò, se una
persona rinnega l’islam pubblicamente e senza subire costrizioni, se è
pienamente cosciente ed adulta, la pena prescritta dalla shari‘a è la
morte per i maschi e la prigione a vita  per le donne.

Le modalità che portano alla
condanna per apostasia possono essere molteplici, e vanno dalla
dichiarazione esplicita del fedele («Io associo a Dio altre
divinità»), ad affermazioni che risultano blasfeme («Dio ha forma e
sostanza materiale»), ad azioni blasfeme come tenere con incuria il
corano o sporcarlo (ponendolo in posto sudicio, macchiandolo,
sfogliandolo con le dita sporche o appena portate alla bocca). Un
musulmano diventa apostata quando entra in una chiesa, prega un idolo
o pratica riti magici, oppure se dichiara che l’universo è esistito
dall’eternità, oppure che dopo la morte l’anima trasmigrerà o si
reincarnerà. Anche la diffamazione della personalità del profeta o
l’accusa agli angeli di avere qualità negative o il mettere in dubbio
le virtù ascetiche di Muhammad costituisce apostasia.

Chi rifiuta l’islam pur
essendo figlio di musulmani commette un «tradimento contro Dio», ed è
chiamato murtad fitri (apostata naturale). Se si pente può essere
perdonato.

Chi si converte all’islam e
poi cambia idea è definito murtad milli (apostata dalla comunità). Il
suo è considerato un tradimento contro la comunità e ai maschi può
essere comminata la pena di morte anche se si pentono.

Nel caso, raro, in cui un
apostata venga condannato a morte, la tradizione prevede l’esecuzione
attraverso il taglio della testa.

Tra i malikiti, gli hanbaliti
e gli shafi‘iti la pena inflitta a donne e uomini è quella capitale.

Tuttavia, il fatto stesso che
una sura, la IV, v. 137, possa recitare «Coloro che credettero e poi
negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che accrescere la
loro miscredenza. Dio non perdonerà loro né li guiderà verso il
Sentiero», dimostrerebbe, secondo alcuni studiosi, come nel corano
l’apostasia sia possibile senza incorrere nella condanna a morte. Come
farebbe infatti il miscredente a credere e rinnegare, poi ricredere
per poi rinnegare se al primo abbandono venisse ucciso?

Molti studiosi sostengono che
i passaggi in cui Muhammad chiede la testa dei traditori della
religione siano da riferirsi a casi di alto tradimento, come
dichiarare guerra all’islam, al profeta stesso, mettere in pericolo la
ummah e così via. Casi storici circostanziati o di palese minaccia,
dunque. Sembra infatti che né Muhammad né i suoi successori abbiano
mai condannato a morte alcun apostata.

 A. L.

Riferimenti bibliografici:

 

Hamza Roberto Piccardo (a cura
di), Il corano, Edizioni Newton Compton, Roma 1996;

Abdurrahmani al-Djaziri (a
cura di), The penalties for apostasy in islam, in Light of Life,
Austria 1997;

Jean-Marie Gaudeul, Vengono
dall’islam chiamati da Cristo, Emi Editrice, Bologna 1995;

Mohammad Talbi, Le vie del
dialogo nell’islam, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1999;

Aa.Vv., Dibattito
sull’applicazione della shari‘a, Edizioni della Fondazione Agnelli,
Torino 1995;

Sito internet:
www.religioustolerance.org

 

(1) Ahmad Faiz bin Abdul
Rahman, «Malaysian laws on apostasy inadequate», at
http://www.iol.ie/afifi/

 

 

A colloquio con
don Fredo Olivero

(responsabile dell’ufficio
Migranti della Caritas di Torino)

 Don Fredo, hai mai incontrato
musulmani che ti chiedono di aiutarli a diventare cristiani?

«Sì. Ma voglio premettere che,
secondo noi, gli immigrati devono vivere bene la propria fede. Poi, se
qualcuno ci chiede informazioni sul cristianesimo, gliele foiamo».

 Quanti sono quelli che si sono
avvicinati alla chiesa cattolica?

«La cifra esatta è difficile da
quantificare, ma sono almeno un centinaio, negli ultimi anni, quelli che
hanno chiesto di avere una bibbia in arabo o in francese. A tutti coloro
che ci chiedono di abbracciare la fede cattolica noi consigliamo
un’attenta riflessione; gli diciamo: “Fate attenzione, perché nei vostri
paesi perdete ogni diritto. Se avete programmato di stare qui per sempre,
va bene, ma se avete intenzione di far ritorno in patria, può diventare
pericoloso”. Molti, alla fine, ci ripensano.

Saida, una ragazza somala,
recentemente mi ha detto: “Ora basta. Sono due anni che metti ostacoli
alla mia conversione. Ho deciso: voglio diventare cristiana. Sono stata
accolta da voi e non mi avete chiesto nulla: ecco ciò che mi ha
conquistata. Per queste ragioni voglio farmi battezzare”. Adesso sta
seguendo il percorso catechistico e fra due anni potrà ricevere il
battesimo.

Ma anche momenti come “Estate
ragazzi”, al Centro Asai, possono servire affinché gli adolescenti,
italiani e immigrati di fede islamica, si conoscano e facciano amicizia.
Ci sono infatti molti ragazzini musulmani che frequentano l’oratorio e il
catechismo: loro ci parlano della loro religione e noi della nostra. È
molto bello. È un’occasione preziosa di dialogo».

 Quali sono i gruppi etnici di
fede islamica che hanno chiesto il battesimo in questi ultimi anni?

«Senegalesi, ivoriani, somali,
maghrebini, albanesi».

 Quanti sono stati finora?

«Due o tre all’anno. Prima erano
solo albanesi, nell’ordine di una decina e altrettanti dai paesi dell’Est.
Mi viene in mente una coppia, lui regista, lei attrice di teatro. Da anni
risiedono in Italia e sono diventati cristiani dopo un lungo percorso di
studio e ricerca.

Comunque, noi non cerchiamo di
convertire nessuno. Tentiamo soltanto di far conoscere all’immigrato
musulmano l’ambiente culturale e religioso in cui ha scelto di vivere. È
importante che l’accoglienza parta da una solida identità sia del paese
ospite sia delle comunità immigrate.

Gli albanesi invece spesso
confondono la religione cristiana con la cittadinanza italiana, quasi che
la prima possa aiutare ad ottenere la seconda. Ma non è così, ovviamente».

 Ti è mai capitato che qualche
musulmano ti chieda di abbracciare l’islam?

«Certo. E gli rispondo: “Ciascuno
di noi pensa che la propria fede sia la migliore. Allora, tu ti tieni la
tua ed io la mia”. E così, in condizioni di parità, possiamo ragionare sul
valore dell’amicizia, per esempio.

Qui, alla Caritas-Migranti,
portiamo avanti un confronto dove ognuno accetta l’altro senza cercare di
convertirlo. È necessario che passi il concetto della “diversità” e della
tolleranza».

 E come la metti con il divieto
islamico dell’apostasia?

«Generalmente, all’interno di una
comunità etnica tutti vengono a sapere se una persona ha lasciato l’islam
per il cristianesimo. Qui in Italia ciò che rischiano è, al massimo,
qualche insulto.

Nei paesi d’origine il pericolo è
maggiore, e si può essere oggetto di discriminazione e minacce di morte.
Questo non vale per gli albanesi: la religione non conta molto. I
marocchini, invece, disprezzano i convertiti, li considerano gente venduta
all’Occidente».

 

 

A colloquio con
don Tino Negri

(direttore del Centro diocesano di
Torino per le relazioni cristiano-islamiche)

 

Don Tino, quanti sono i
musulmani che si sono convertiti al cattolicesimo?

«È impossibile saperlo, perché non
vanno in giro a raccontarlo».

 

Ne hai incontrato qualcuno?
Puoi parlarne?

«Due o tre, ma non ho saputo quasi
nulla dei motivi che li hanno spinti alla conversione. Occorre del tempo
per entrare in amicizia: le persone che ho conosciuto si sono limitate a
comunicarmi che sono diventate cristiane e a partecipare alla messa da me
celebrata facendo la comunione. Ed è già molto».

 

Perché, nella ummah islamica,
la conversione di musulmani albanesi è più tollerata rispetto a quella
degli arabi?

«Perché gli arabi considerano se
stessi il centro del mondo e della fede islamica e pensano che solo loro
siano in grado di esserle fedeli, mentre gli altri gruppi etnici possono
diventare dei traditori, perché non appartenenti alla “culla
dell’islam”». 

 

Come si pone la chiesa di
fronte al fenomeno delle conversioni di musulmani?

«La chiesa è mandata da Cristo ad
evangelizzare e, dunque, deve accogliere nella comunità coloro che
chiedono il battesimo. Tuttavia occorre qualche prudenza. Prima di tutto,
è necessario verificare la vera disponibilità alla conversione; poi, è
indispensabile una seria e lunga preparazione catecumenale, e verificare
che la persona sia indipendente, che abbia cioè un lavoro, che non
coinvolga la moglie (nel caso sia sposato e questa non voglia seguirlo
nella sua scelta), che sia libero da pressioni dei genitori e da
ritorsioni del suo ambiente, e così via.

Il battesimo non dovrà essere un
atto pubblico (soprattutto se si tratta di un arabo), e sarà
indispensabile per lui o lei essere inseriti in una comunità veramente
accogliente.

Sarà necessario un accompagnamento
continuo nella fede, perché molti neofiti incorrono in problemi ulteriori
e rischiano di abbandonare la strada che stanno percorrendo.

Per tutte queste difficoltà
bisogna evitare di battezzare i minori, a meno che non ci sia l’appoggio o
la conversione dei genitori».

 

Che dimensioni ha, secondo te,
il fenomeno delle conversioni? Si tratta di casi isolati?

«A mio parere si tratta ancora di
pochi casi. È certo che, se fossero liberi di scegliere, molti musulmani
passerebbero al cristianesimo. Troppi hanno paura di farlo e altri non
conoscono il cristianesimo, perché l’islam ne dà un’immagine sbagliata,
proibendo anche di leggere i vangeli».

Angela Lano




BAYENGA (R.D. CONGO): storia di ordinaria insicurezza

DIARIO… DI GUERRA

Il Movimento per la liberazione del Congo di Pierre Bemba e l’Unione congolese per la democrazia di Mbusa Nyamwisi si combattono per il controllo del nord-est del Congo (ex Zaire) e alcuni missionari della Consolata si trovano tra i fuochi incrociati, come è capitato nell’agosto e settembre scorsi.

Lunedì 5 agosto. Atterro a Isiro sano e salvo, grazie a un aereo di fortuna proveniente da Kampala. Insieme a me ci sono il vice superiore generale, padre Antonio Bellagamba, venuto per dettare un corso di esercizi spirituali, e quattro volontari brianzoli del gruppo «i gabbiani», destinati a Bayenga per montare una pompa d’acqua.

L’indomani ripartiamo per Wamba, dove lasciamo il vice superiore; arriviamo a destinazione accolti festosamente dalla gente per la strada e alla missione.

Mercoledì 7 agosto. Senza un giorno di riposo, «i gabbiani» iniziano a piazzare la pompa al pozzo scavato sul terreno dove sorgerà la nuova missione, un paio di chilometri dagli attuali edifici provvisori.

Verso le 10,30 si sentono scoppi isolati di fucile. Col vecchio capo locale, venuto a salutarmi, pensiamo che si tratti di esercitazioni o di militari che puliscono le armi. Un nutrito scambio di raffiche di mitragliatrici ci toglie ogni illusione: è uno scontro tra soldati in piena regola.

Due donne che stanno preparando il pranzo sono spaventate: rimettono tutto in magazzino e ci esortano a scappare e metterci al riparo. Non c’è tempo da perdere. Dico a Marina, una dei volontari:

– Prendi un cappello e seguimi. È la guerra.

– Stai scherzando?

– No, non scherzo! Quelli sparano sul serio: andiamo.

Non ho tempo di chiudere la casa e corriamo verso il pozzo. Ci seguono il direttore della scuola con sua figlia e una donna malata aiutata dal marito. Camminando tra le erbe, scivolo in un pantano con molta acqua, essendo questa la stagione delle piogge. Con difficoltà riesco a recuperare le scarpe dal fango. Ci fermiamo ai bordi di un campo di riso e ci sediamo ai margini della foresta.
Capiamo subito che il nascondiglio non è troppo segreto: ci raggiunge un soldato in fuga; ci fornisce la sua versione dei fatti: i militari di Bemba, che controllano il nord del Congo, sono stati attaccati da quelli di Nyamwisi; non potendo resistere, sono scappati. Il soldato ci chiede informazioni sulla strada per Wamba, per ricongiungersi ai suoi commilitoni.
Mentre aspettiamo l’evolversi della situazione, arriva il confratello congolese Clément Balu Futi insieme ai tre volontari impegnati nel montaggio della pompa. Sentiti gli spari e le pallottole fischiare sopra la testa, si erano rifugiati tra gli alberi. Diminuita l’intensità della sparatoria, erano venuti a cercarci.

Arriva anche un ragazzo di 18 anni. Padre Clément lo conosce: è un soldato. Il giovane si mette a piangere; dice che si è tolta la divisa per scappare senza dare nell’occhio.

Finalmente le armi tacciono. Ma ecco avanzare i soldati di Nyamwisi. Padre Clément esce dal bosco, rischiando forte, e va incontro ai militari: alcuni di essi vengono dalla sua stessa regione. Cerca di frateizzare; parla col comandante; poi ci invita a uscire dalla foresta per salutare i capi.

L’incontro è pacifico, ma ci si guarda con sospetto: noi non sappiamo cosa ci chiederanno; essi s’informano se stiamo in quel luogo per cercare l’oro. Padre Clément spiega che i bianchi non sono dei commercianti, ma persone venute ad aiutare la missione e quindi la popolazione.

Possiamo rientrare a casa. I militari ci seguono. Padre Clément cerca di capire le loro intenzioni: vogliono l’auto e la radio trasmittente. Ce l’aspettavamo. Resistiamo, anche perché i soldati di Bemba, nella loro ritirata, si sono portati via la motocicletta. A interrompere le trattative intervengono le tenebre.

Giovedì 8 agosto. La notte è stata tranquilla. Appena celebrata la messa, «i gabbiani» partono per lavorare alla sorgente; i militari tornano per prendere la Land Rover: il loro sguardo è minaccioso; il giorno prima hanno avuto qualche morto; è difficile farli ragionare. Dopo un po’ di resistenza, ci rassegniamo, per non mettere in pericolo la vita.

Ma non c’è l’autista. Gli avevamo detto di sparire e lui si è nascosto e non sappiamo dove sia. Il comandante obbliga padre Clément a portare alcuni soldati al quartiere 51, un villaggio a 40 km da Bayenga. Il padre si sacrifica: indossa la veste bianca; mi dice di pregare e si mette al volante della Land Rover. Il comandante assicura che andrà tutto bene e saranno di ritorno la sera, appena avranno procurato da mangiare per la truppa.

Passa qualche ora ed ecco arrivare da Wamba padre Rinaldo Do: ha fatto il tragitto in bicicletta, con un fazzoletto bianco legato a un bastoncino, issato sul manubrio. È venuto per stare vicino ai «gabbiani», rendersi conto della situazione e parlare con i capi militari: spera di poter evacuare i quattro italiani e portarli a Wamba, appena padre Clément sarà rientrato.

Dal villaggio di Niania arrivano 16 ragazzine dirette a Wamba, per una settimana di formazione: sono in viaggio da lunedì e peotteranno a Bayenga, senza sapere se potranno riprendere il viaggio.

Venerdì 9 agosto. Padre Clément non è ancora rientrato. Speriamo che arrivi almeno oggi. Padre Rinaldo è riuscito a ottenere il permesso di usare la radiotrasmittente, ieri alle 15 e oggi alle 7, per parlare con i padri di Wamba e Isiro e chiedere una macchina per far partire gli italiani.

Alle 11,30 padre Clément non si vede ancora. Piove. I volontari italiani rientrano: non hanno terminato il lavoro, ma hanno impostato l’essenziale; altri potranno terminarlo.

Nel collegamento radio delle 12,30 padre Baruffi promette di mandare l’abbé Raymond con un mezzo di trasporto per prelevare i quattro ospiti. Scende la sera; ma nessuna delle due auto arriva alla missione.

Siamo preoccupati per padre Clément. Italiani e ragazze di Niania devono peottare a Bayenga.

Sabato 10 agosto. Da Wamba l’auto non è potuta arrivare, perché i soldati hanno messo un posto di blocco a una decina di chilometri da Bayenga. I laici italiani riprendono il lavoro. Forse riusciranno a terminarlo.

Alle 9,20 si sentono nuovi spari; sembrano provenire da Benga.

Al pomeriggio rientra finalmente padre Clément con i soldati: è visibilmente molto stanco. Grandi abbracci, ma poca comunicazione: i militari restano vicino.

Poco dopo arriva il vescovo con l’abbé Kakeane per prendere gli italiani. Devo partire anch’io: ordine del vescovo. Ci prepariamo in fretta e partiamo. Padre Clément ci segue con i militari fino a Wamba; arriva poco dopo di noi. Alla missione di Bayenga resta padre Rinaldo.

Intanto vengo a conoscenza di come stanno le cose: Wamba è stata presa dai soldati di Nyamwisi dopo due ore e mezzo di combattimento. Essendo ormai Bayenga e Wamba nelle mani della stessa fazione, il vescovo ne aveva approfittato per venire a prenderci.

Lunedì 12 agosto. Le forze militari di Bemba sferrano il contrattacco e, in poche ore, Wamba è nuovamente nelle loro mani. Viviamo in apprensione; le fucilate sono molto vicine.

Poiché la medesima fazione controlla la zona di Wamba e Isiro, si approfitta per portare fino a quest’ultima città i quattro italiani e padre Bellagamba, per imbarcarli alla prima occasione per Kampala, mandando a monte il corso di esercizi.

Insieme a loro lascia Wamba anche padre Clément; ormai per lui la zona scotta: corrono voci che sia accusato di avere aiutato i nemici con la macchina. Tali voci lo consigliano ad anticipare la partenza per Nairobi, dove parteciperà a un corso di aggioamento e formazione.

Intanto io rimango a Wamba per parecchi giorni. La situazione è calma. Ma non si è mai sicuri: non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Non c’è sicurezza e abbiamo paura di viaggiare in auto, tanto più che sono senza mezzo di trasporto: la Land Rover è stata requisita dai nuovi padroni e l’hanno messa definitivamente fuori uso.

Padre Rinaldo continua a fare la spola tra Bayenga e Wamba in bicicletta, per dare e ricevere notizie. Ma i programmi sono sospesi; si attende con pazienza: la virtù più grande che deve coltivare chi lavora in Congo.

Venerdì 6 settembre. Da una settimana sono rientrato a Bayenga con padre Giuseppe Fiore; padre Do può ritornare alla casa regionale di Isiro.

Ma non mi sento bene. Domenica scorsa, verso la fine della messa, capogiro e nausea mi hanno costretto a lasciare l’altare; padre Fiore ha portato a termine la celebrazione. Non so che cosa sia stato, debolezza o malaria: sono stato costretto a letto per una settimana e non mi sono ancora ripreso totalmente.

Per quanto riguarda la guerra, tutta la zona di Isiro, Wamba e Bayenga continua ad essere in mano ai militari di Bemba. Al momento tutto è calmo. Sembra che il fronte si sia spostato sulla strada Niania-Mambasa-Bunia.

Non possiamo fare molto, perché non c’è sicurezza; i militari continuano a passare e requisire le biciclette della gente; non ci sono altri mezzi di trasporto; tutto resta sospeso in attesa di tempi migliori.

Mercoledì 11 settembre. Di salute mi sento meglio. Aspettiamo l’arrivo di padre Rinaldo da Isiro, che ci porta qualche rifoimento.

Ma arriva pure l’ordine di ritornare in Italia, per sottopormi ad analisi ed eventuali cure mediche.

Con tanta tristezza mi preparo per un’altra partenza, con la speranza, insieme, di ritornare presto tra la gente, nonostante spari e difficoltà di vario genere.

CALVARIO… IN BICICLETTA

Due giovani di Bayenga descrivono il viaggio da Kisangani a Isiro e relative insicurezze e seccature.

Per un povero congolese come me, viaggiare all’interno del mio paese è un’impresa difficile, se non impossibile: si parte con seri dubbi di arrivare a destinazione. Tale inquietudine ha una sola causa: l’occupazione della Repubblica democratica del Congo da parte di vari gruppi di ribelli, che si combattono a vicenda e stanno distruggendo quel poco che rimane del paese.

Unico mezzo di spostamento, sia per le condizioni delle strade che per ragioni di sicurezza, è la bicicletta. Da Kisangani a Isiro, per esempio, la strada si snoda per circa 500 km nella foresta tropicale e da alcuni anni è impraticabile per qualsiasi automezzo. La si può percorrere solo a piedi o pedalando su due ruote.

Non è l’oscurità della foresta a mettere paura, ma le centinaia di soldati che la infestano e rendono il viaggio un autentico calvario, quando non finisce in tragedia.

Per qualche tratto si può avere la fortuna di non fare brutti incontri; ma non se ne trovano neppure di piacevoli. I villaggi lungo la strada sono deserti: gli abitanti si sono rifugiati nelle malende, abitazioni provvisorie nella foresta, per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato dei combattimenti.

Hanno ragione di fuggire: le rovine testimoniano massacri, saccheggi e malversazioni d’ogni genere. In alcuni villaggi si sono istallati i militari; in altri i soldati vanno e vengono: sono armati fino ai denti con fucili, machete, baionette, corde, asce, lancia bombe, granate fissate alla cintura. Incontrarli è una disgrazia. La prima parola che dicono è: «Soldi». Il tono non lascia scampo.

La chiamano mabonza (offerta) e non si sa per quali ragioni bisogna fare tali «offerte» ai militari. Ma non sempre si accontentano del denaro, ma controllano sistematicamente i bagagli e, se trovano qualche cosa di interessante o di valore, se la prendono automaticamente, senza che il proprietario possa fiatare: potrebbe rischiare la morte.

Talvolta si passa alle perquisizioni corporali. Guardano perfino le mutande, nella speranza di trovarci nascosta qualche somma di denaro.

A volte qualche militare deve spostarsi e approfitta del viandante per farsi portare a destinazione sulla canna della bici. Anche in questi casi non esistono ragioni da opporre: chi rifiuta di prestare il faticoso servizio, potrebbe perdere la bicicletta o, peggio, la vita.

Q uando lungo la strada le opposte fazioni si affrontano a distanza ravvicinata, questa rimane chiusa per alcuni giorni; chi si trova a percorrerla in tali circostanze sono vittime dei trattamenti più inumani.

È capitato a un gruppo di ragazzi che, sempre in bicicletta, dopo aver percorso 260 km, a metà strada tra Kisangani e Isiro, sono caduti in un’imboscata di mayi-mayi, un gruppo di ribelli che, tra l’altro, credono di essere invulnerabili.

Terribilmente armati, essi pretendevano che ogni giovane sborsasse 10 mila franchi congolesi: una somma enorme per quei poveretti che, non potendo pagare, furono minacciati e spogliati di tutto.

Per di più, gli sfortunati ragazzi non potevano proseguire, poiché sarebbero caduti sotto le pallottole della fazione opposta, a due chilometri di distanza; né potevano tornare indietro, per non tradire la presenza dei mayi-mayi; e furono costretti a rifugiarsi nelle malende, nel cuore della foresta, dove rimasero per alcuni giorni senza cibo.

I ragazzi cercarono il modo di sopravvivere; dopo alcuni giorni, ripresero il viaggio attraverso la foresta, raggiunsero la strada in un punto dove non c’erano soldati e riuscirono a tornare a Kisangani.

L a strada Kisangani-Isiro è l’esempio più eloquente dell’insicurezza per chi deve spostarsi in Congo. Situazioni analoghe si verificano in molte regioni del paese, dove truppe armate continuano a combattersi.

Ma anche per chi non deve viaggiare e vive in città e villaggi, insicurezza e pericoli sono sempre in agguato. La guerra continua a seminare dappertutto distruzioni e sofferenze d’ogni genere. Noi congolesi siamo stufi di guerra e violenza; reclamiamo a gran voce la pace. Non vogliamo nient’altro: solo un po’ di pace.

Pietro Manca




MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni

UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata

Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.

È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.

All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.

Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.

La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.

Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:

«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».

Durante il pranzo

Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.

Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.

Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».

Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».

Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.

«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».

Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».

Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».

Cosa… non si sa.

Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.

Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.

Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».

Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.

Sul Lungomare

Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.

Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.

Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».

«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?

«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».

Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…

«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».

Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?

«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».

Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!

«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».

Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».

La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».

E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».

Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.

Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».

«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.

Francesco Beardi