Colombia: Il governatore che sfida la storia

Una storia che significa violenza,
narcotraffico, ingiustizia. Lui si chiama Floro Alberto Tunubala Paja e appartiene
all’etnia "guambiana". Tra i potenti non ha molti amici. I paramilitari,
squadroni della morte assoldati da industriali e latifondisti, lo minacciano; i
guerriglieri delle Farc lo guardano con sospetto. Intanto, per difendersi dalle
aggressioni dei paramilitari, le comunità indigene hanno costituito una "guardia
civica", composta da volontari armati di… bastone. La strategia non violenta
adottata dagli indios ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e inteazionali.
Ma riusciranno a sopportare il peso di una partita tanto difficile?

 

All’inizio del nuovo secolo, per la prima volta nella sua storia, il dipartimento
del Cauca ha conosciuto un governatore indigeno. È Floro Alberto Tunubala Paja,
dell’etnia guambiana. È stato eletto nel mese di ottobre dell’anno scorso ed ha
cominciato a governare dal 1° gennaio di quest’anno.

L’elezione di Floro è avvenuta grazie a una coalizione che ha il suo punto di
aggregazione nel territorio di convivenza e pace della Maria Piendamo (**). Lì diversi
gruppi etnici (indigeni nasa-paeces, guambiani, negri, meticci), campesinos, lavoratori e
persino un gruppo di gente del mondo finanziario di Popayan (capoluogo del dipartimento)
hanno formato una coalizione, che è risultata vincitrice nelle elezioni. Tutti si sono
trovati concordi nell’unire le forze per cercare una soluzione a una situazione che
andava di male in peggio e una scena politica che non mostrava alcun segno di cambiamento
per il futuro.

Inutile dire che l’oligarchia di Popayan è rimasta a bocca aperta, perché non si
aspettava che vincesse le elezioni un indio (ancora oggi, questi è guardato con
alterigia, per non dire disprezzo) e neppure che vincesse un gruppo senza un referente
politico tradizionale.

Per loro sfortuna, all’inizio di quest’anno Floro è riuscito a formare in
seno al consiglio un gruppo di maggioranza che è dalla sua parte e che si professa
alternativo.

TRAGEDIA INDIGENA,

PROFITTI INDUSTRIALI

La situazione del Cauca non è certamente rosea. Il dipartimento presenta un debito
altissimo. C’è il problema della guerriglia e del narcotraffico, che si somma ai
consueti problemi (disoccupazione, fame, mancanza di educazione e salute ecc.). C’è
infine la cosiddetta "legge paez", una delle cause dell’esplosione di
violenza nella regione.

Questa legge è stata varata dopo il terremoto e la tragedia del fiume Paez in
Tierradentro, avvenuti il 6 giugno del 1994. La legge prende il nome degli indigeni del
luogo (che oggi preferiscono chiamarsi nasa), ma non comprende il loro territorio, troppo
impervio. Il relatore era un senatore liberale di nome Iragorri Hoaza.

Questo signore, un politico di vecchia data, si accorse che la zona industriale di
Yumbo, alla periferia di Cali, non poteva più ospitare fabbriche per motivi di
inquinamento e di spazio. Il senatore propose allora di portare le industrie nelle zone
più pianeggianti del vicino Cauca. Egli fece approvare una legge che incentivava chi
volesse costruire in quelle zone: crediti bancari agevolati, esenzione dalle imposte per
10 anni, acquisto della terra a buon prezzo.

Nella "legge paez" rientrano alcuni comuni, come Santander de Quilichao,
Caloto, Corinto, Miranda, Suarez, Buenos Aires e molti altri che si trovano nella parte
pianeggiante.

Per poter approfittare della legge e investire i loro capitali, gli industriali
volevano che ci fosse anche sicurezza e stabilità politica. Ma nella regione sono
presenti tutti i gruppi armati colombiani, che hanno scelto la zona per la facilità di
raggiungere altre parti del paese senza correre grossi rischi.

LA FEROCIA

DEI PARAMILITARI

Per garantire la stabilità, gli industriali e i grossi commercianti hanno pensato di
agire in proprio, organizzando gruppi paramilitari, anche conosciuti come squadroni della
morte. Dalla fine dell’anno scorso, i paramilitari hanno cominciato a fare pulizia,
sequestrando e uccidendo moltissime persone. Secondo dati ufficiali nei primi 4 mesi del
2001 nel nord del Cauca i paramilitari (e, in misura minore, la guerriglia) hanno già
ucciso più di 500 persone.

Hanno minacciato e continuano a minacciare il neogovernatore Floro. Hanno ucciso e
continuano a uccidere gente in Santander de Quilichao, Caloto, Corinto, Timba, Suarez,
Buenos Aires. I paramilitari sono persino arrivati alla Costa Naya, per raggiungere la
quale occorrono due giorni di cammino. Lì hanno massacrato più di 50 persone (secondo i
dati del governo) e le hanno tagliate con una motosega. Molti altri, che non sono
rientrati nei conteggi del governo, sono stati buttati giù dai burroni che si incontrano
in questo territorio. Questo è stato il massacro più orrendo fino ad oggi.

L’obiettivo dei paramilitari è la difesa del capitale industriale. Per
raggiungere questo scopo, i gruppi mercenari attuano una sorta di pulizia generale
preventiva: eliminano drogati, ladruncoli, persone incomode e, naturalmente, chiunque
abbia idee vicine a quelle della guerriglia marxista. Il problema è che in questo modo i
paramilitari stanno uccidendo moltissima gente innocente. A Santander de Quilichao non si
può camminare con sicurezza: molti indigeni, arrivati dalle montagne per il mercato,
vengono sequestrati per avere informazioni o per essere arruolati con loro.

Dall’altra parte, c’è la guerriglia delle Farc. Siccome non si sa come
andranno a finire i dialoghi di pace nel Caquetà, molti guerriglieri si stanno spostando
su queste montagne e cercano di convincere le comunità indigene a schierarsi dalla loro
parte. Ma gli indigeni resistono e con più insistenza rivendicano la loro autonomia
territoriale. Per questo non vogliono che alcun gruppo armato entri in terra di resguardo
(la riserva indigena).

Poiché nella zona montagnosa si muove la guerriglia, i paramilitari accusano gli
indios di essere guerriglieri e quando possono li sequestrano o li uccidono. D’altra
parte, per il fatto che le autorità indigene sono andate a cercare sulle rive del fiume
Cauca (verso Timba) la gente sequestrata dai paramilitari, la guerriglia accusa le
autorità indigene di essere amici di questi. Insomma, come si può comprendere, gli
indios si trovano tra l’incudine e il martello.

LA GUARDIA INDIGENA

E IL BASTONE DELLA PACE

In mezzo a tutto questo, i diversi governatori dei cabildos (qui opera la ACIN, che è
il gruppo dei 15 cabildos della zona nord), a cominciare dal cabildo indigeno di Jambaló
(dove chi scrive opera), hanno organizzato una guardia civica, la quale controlla le vie
di accesso al resguardo, chiudendo il transito a moto, macchine, persone a piedi o a
cavallo dalle 6 del pomeriggio alle 4 del mattino.

Questa guardia civica è volontaria ed è formata da gente della stessa comunità.
Tutte le sere si ritrova nei punti strategici, mette un grosso tronco di albero in mezzo
alla strada e semina chiodi. Altri volontari perlustrano i diversi sentirneri per vedere se
incontrano gente forestiera. Se si trovano persone della stessa comunità si trattengono
fino al mattino, così che le fila dei vigilanti si ingrossano.

Poiché la guardia è civica, non si usano armi. L’unica arma, se così si può
chiamare, è un bastone di un metro.

Quando si è promossa l’idea di questa guardia, sono sorti molti interrogativi. Il
più forte era cosa avrebbero potuto fare delle guardie armate soltanto di bastone di
fronte a gente (guerriglia, esercito, paramilitari) che impugna armi. La risposta è stata
che la vera arma della guardia è l’appoggio di tutta la comunità e che gli indigeni
non devono lasciarsi coinvolgere nella violenza. Si sono fissate alcune strategie per
avvisare la gente in caso di pericolo affinché abbia il tempo per nascondersi. I
volontari che si stanno prestando a questo servizio lo fanno con molta responsabilità,
coscienti dei pericoli che si corrono, ma senza paura.

Diceva una guardia in una riunione: "Mi possono anche uccidere, però è
importante che si salvino gli altri della comunità". Un altro diceva: "La cosa
più importante è il piano di vita che abbiamo predisposto come comunità. Noi ci
muoviamo sempre in gruppi numerosi: potranno uccidere qualcuno, però non riusciranno a
ucciderci tutti".

Fino ad oggi, la guardia civica ha già avuto degli scontri verbali con la guerriglia
che non voleva rispettare i posti di blocco. Però la stessa guerriglia si rende conto che
la gente è a favore del cabildo e della guardia e non dei gruppi armati. Sapendo il
pericolo che corre la popolazione civile, i cabildos si stanno adoperando per avere un
appoggio nazionale e internazionale.

TRA MARCE E PREMI,

LA STRATEGIA INDIGENA

A livello nazionale, l’anno scorso, il "progetto Nasa", come
rappresentante di tutti i progetti della zona nord, ha ricevuto il premio nazionale per la
pace e questo riconoscimento ha fatto risuonare una volta in più la voce e la presenza
delle comunità indigene nel paese.

Nel marzo di quest’anno si è tenuto l’XI Congresso del CRIC
(l’organizzazione indigena del Cauca, fondata 30 anni fa), con la presenza di 80
cabildos e di molte organizzazioni nazionali e inteazionali (in maggioranza Ong) e uno
dei temi è stato quello dell’ordine pubblico. Come impegno e conclusione di questa
riflessione sono nate due marce. La prima era per protestare contro l’uccisione di 8
studenti nel parco nazionale di Purace per mano delle Farc; la marcia si è fatta nella
settimana santa ed è terminata con una eucaristia la domenica di Resurrezione nel parco
dell’eccidio.

L’altra marcia, che aveva per nome "Convivenza senza violenza", si è
realizzata dal 14 al 18 maggio, partendo da Santander de Quilichao e terminando a Cali con
una udienza pubblica per protestare contro la violenza che sta colpendo i dipartimenti del
Cauca, Valle e Narino; per richiamare l’attenzione delle autorità sulla situazione
che stanno vivendo le persone di queste regioni; per denunciare di fronte agli organismi
inteazionali le continue violazioni dei diritti umani; per sottolineare
l’indifferenza del governo su questi fatti ed esigere misure di protezione per tutta
la gente che si trova minacciata.

La partecipazione della gente è stata straordinaria. Alla marcia da Santander a Cali
hanno partecipato 40.000 persone: c’erano indigeni, campesinos, gruppi urbani, negri
e tutte le persone che sono state toccate dalla violenza. Hanno accompagnato la marcia
anche alcune suore, sacerdoti e logicamente tutta la nostra équipe missionaria.

A livello internazionale, c’è stato un incontro in Canada tra indigeni e
rappresentanti di varie organizzazioni, non solo colombiane.

Ezequiel Vitonas (ex sindaco di Toribio) ha espresso la posizione politica delle
comunità indigene, difendendo la loro autonomia. Ha messo in risalto come sia il governo
colombiano sia la guerriglia non vogliano che gli indigeni sopravvivano in Colombia con il
loro piano di vita (ovvero i piani di sviluppo da loro elaborati). L’esposizione di
Ezequiel ha attirato le critiche di chi aveva sostenuto che la guerriglia difende gli
interessi dei poveri e quindi anche degli indigeni.

Ezequiel ha ribattuto che gli indigeni sono autonomi e si difendono da soli e non hanno
bisogno della guerriglia. Questo battibecco ha fatto sì che i guerriglieri delle Farc
mettessero in internet (in molte lingue, tra le quali l’italiano), che il CRIC li sta
calunniando, accusandoli di uccidere e minacciare leaders indigeni.

Sempre nell’ambito della marcia internazionale, grazie alla signora Martha
Cardenas della Ong FESCOL, i giorni 7 e 8 giugno a Maria Piendamo e a Toribio ci hanno
visitato il famoso giudice spagnolo Baltazar Garzon, il rappresentante dei diritti umani
dell’Onu Anders Compas, quello della cooperazione spagnola Vicente Selle e altre
personalità dell’ambasciata di Spagna per raccogliere informazioni sui massacri che
si sono avuti in questo periodo. Il giudice Baltazar Garzon, nell’ascoltare le
testimonianze della gente del Naya, ha commentato che questi massacri sono peggiori di
quelli imputati al dittatore cileno Pinochet.

Nella riunione che il giorno 8 si è tenuta nel CECIDIC, la comunità ha nominato tutte
queste personalità come ambasciatori degli indios nei loro posti di responsabilità e
nelle loro nazioni.

Con queste iniziative, si vogliono rivendicare i diritti dei popoli indigeni. Si
capisce con chiarezza che gli indigeni colombiani stanno cercando di costruire una
società civile fondata sul dialogo e non sulla violenza.

ACCOMPAGNAMENTO

In un contesto tanto difficile, l’équipe missionaria sta accompagnando la
popolazione, cercando di illuminare la situazione con la testimonianza di Gesù e del suo
Regno in tempi di conflitto.

Si fanno corsi per i volontari della guardia civica su relazioni umane ed etica. Si
cerca di dare concreto appoggio alle famiglie che sono state colpite dall’uccisione
di qualche loro membro. Con le autorità locali si vanno a cercare le persone sequestrate.
Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si ritorna a mani vuote. Però anche questo,
pensiamo, è la dimostrazione che non ci vogliamo rassegnare a perdere gente e a restare
passivi davanti alla situazione.

Rinaldo Cogliati

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