Lettere: cari missionari


Soldi…
coltello

Caro
direttore,


complimenti per il dossier «Soldi e missione» (Missioni Consolata, aprile
2001). Alla luce di quanto è stato scritto, faccio alcune considerazioni.

n Dopo il
fallimento dei programmi di cooperazione governativa e i processi di «mani
pulite» contro la corruzione, molte nazioni dell’occidente (specialmente
del Nordeuropa) inseguono i missionari nel destinare i fondi per lo
sviluppo nel sud del mondo: perché i missionari vivono con la gente, ne
parlano la lingua e conoscono la mentalità, non riscuotono salari e,
anche, salvano la faccia dei paesi donatori facendo sì che i soldi
arrivino veramente ai poveri. Circa i 1.900 miliardi di lire destinati
dall’Italia al terzo mondo, Giorgio Torelli, nel suo libro Baba Camillo,
affermava che i denari sarebbero stati spesi meglio attraverso i
missionari. Invece che fine hanno fatto?

n Anch’io,
come scrive padre Eesto Viscardi, autore del dossier, non ho mai capito
perché sia sempre complicato reperire soldi per erigere una cappella… e
non per un allevamento di animali. Ancora più sconcertante è che, quando
negli anni ’90 ero missionario in Uganda, varie associazioni cattoliche
europee (nonché il mio istituto) hanno negato i denari per completare una
cappella in costruzione dal 1972. È stata un’organizzazione luterana della
Svezia che mi ha aiutato a terminare l’opera!

n Non c’è
dubbio che gli italiani, di fronte ai problemi missionari, sono un popolo
generoso, se non il più generoso. Lo dico da canadese (che ha anche il
passaporto italiano). La generosità è da lodare sia per quantità che per
qualità. Gli aiuti italiani sono veramente «cattolici», cioè universali,
senza frontiere e condizioni.

n La
provvidenza ci mette a disposizione cospicue somme di denaro, frutto di
rinunce di tante persone semplici, spesso di condizione modesta. Mi
chiedo, come missionario, se sono degno di ricevere i frutti di tanta
bontà. I soldi sono come un coltello… che si può usare per spalmare il
burro sul pane o ammazzare qualcuno.

n Noi
missionari della Consolata dobbiamo essere amministratori trasparenti;
dobbiamo essere pronti ad aprire i libri di contabilità ad ogni persona e
a qualsiasi ora; soprattutto dobbiamo ricordarci che quanto ci è stato
donato non è nostro, ma dei poveri, e che dobbiamo avere uno stile di vita
semplice e sobrio.

p. Marco
Bagnarol

Cacém
(Portogallo)

Il beato
Giuseppe Allamano ricordava ai suoi missionari: «Non dimenticate mai che
le offerte sono frutto dei sacrifici dei benefattori e richiedono non solo
che preghiamo per loro, ma soprattutto che ai loro sacrifici
corrispondiamo con qualche sacrificio… Quando leggo l’elenco delle
offerte sulla rivista, vi assicuro che faccio una vera meditazione…
Quelle cifre sono lacrime, sono sangue!».

Per
ragioni di riconoscenza e trasparenza, da 103 anni la nostra rivista
pubblica l’ammontare delle offerte ricevute.


Claudia… e
le tigri!


Spettabile redazione,

un «bravo»
a Claudia Caramanti per i reportages da Armenia, Georgia, Turkmenistan e
Uzbekistan. Oltre ai testi, ho apprezzato pure le foto.

Penso, in
particolare, alla madrasa «sher dor» di Samarcanda, con le bellissime
tigri stilizzate: un tesoro dell’arte islamica. Abituati a vedere i grandi
felini dalla televisione (ossia nelle vesti di dominatori delle savane
africane e delle giungle indiane), forse non tutti sappiamo o ricordiamo
che, allo stato naturale, le tigri sono esistite anche in Asia occidentale
e centrale; se oggi sono scomparse da questa enorme area, ciò non è dipeso
dal normale processo evolutivo.

Fino a non
molti decenni fa, una frazione importante delle oltre 100 mila tigri
dell’Asia viveva proprio nelle tugaji, che si estendevano tra Dusanbe e
Tashkent, tra Bukhara e Samarcanda, tra Ashkabad e Teheran, ed erano
presenti anche in Azerbaigian, Georgia e Armenia (Varrone Reatino, nella
sua grammatica, scrive che «tigre» è una parola di origine armena…).

Se oggi le
uniche tigri visibili sono quelle di Sher Dor, il colpevole è solo
l’egoismo dell’uomo che, oltre a sterminare i grandi caivori per
trasformarli in pregiate pellicce e prestigiosi trofei, ha degradato gli
ecosistemi, togliendo spazi vitali a tanti erbivori, agli uccelli e
persino ai pesci.

Questi
territori, per decenni, sono stati controllati da partiti comunisti in un
regime che si è fregiato di «Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche». Ma il modo con cui i burocrati locali hanno massacrato i
bacini del Caspio, Aral, Amu Darya e Syr Darya, ha nulla da invidiare a
quello del capitalismo ecocida presente e passato. E, se neppure gli
autori del libro nero sul comunismo hanno speso una parola per denunciare
questo crimine, ciò non significa che l’impatto sia stato meno devastante:
vite umane sacrificate, profughi, mancanza di prospettive per le future
generazioni.

Nelle
città e campagne intorno a quello che un tempo era il pescosissimo Mare
Aral, la mortalità prenatale e infantile è quattro volte superiore a
quella (peraltro drammatica) registrata nell’ex Urss europeo.

Spero che
pubblichiate altri servizi su questa regione, senza dimenticare l’Asia
centrale non sovietica. Anche qui il business del petrolio, la
sperimentazione nucleare, un’agricoltura volta solo a incrementare i
profitti delle mafie del cotone, tabacco, e oppio… hanno provocato dei
danni irreparabili. Penso ai bacini dell’Ili e Tarim, all’antica Zungaria,
al sistema di laghetti del Lop-nor, descritto dal grande esploratore
svedese S. A. Hedin.

Fino a
50-60 anni fa, anche questa era terra di tigri e uomini che sapevano
valorizzarla vivendo in equilibrio con tutte le specie animali. Oggi Tigri
Lop-nor è solo il nome di un movimento indipendentista e terroristico, che
lotta per sottrarre il Turkestan cinese (con forte presenza islamica) alle
prepotenze di regime di Pechino e al suo piano di omologazione culturale.
Un piano che non prevede spazi vivibili per le minoranze etniche e
religiose.

Ave
Baldassarretti

Fano (PS)

Grazie di
questa lettera, con in calce anche un’abbondante bibliografia da
consultare… Intanto l’amico-lettore si «goda», su questo numero, un
altro reportage della nostra collaboratrice Claudia Caramanti: questa
volta dal Pakistan (vedi pp. 52-59).


Non
perderti…

nella
corsa consumistica e materialistica, per inventare un modo diverso di
trascorrere il tempo libero, lo svago o qualcosa che ti realizzi: la
passione per il divertimento, il computer, le auto… Basta essere piccoli
volontari dell’amore in ogni occasione che capita.

Non avere
paura o riluttanza nel privarti di una parte del tempo (anche nei luoghi
di lavoro, se è possibile) per donare qualcosa. A volte basta un piccolo
gesto per accendere un sorriso.

Prova a
privarti di qualche bene personale, per andare incontro alle necessità
altrui (non solo economiche, di salute o lavoro), ricordando le parole di
Gesù: «Chi vuole essere il più grande sia il servo di tutti… Ciò che fai
al più piccolo dei fratelli lo fai al Signore stesso».

Massimo
Piermattei

(via
«e-mail»)



L’«incompiuta» dell’anno santo…

Caro
direttore,

da mesi le
celebrazioni dell’anno santo sono finite nella tomba dell’oblio. Io però
sento ancora, nelle mie orecchie, le promesse d’uguaglianza e giustizia
tra i popoli, promesse fatte da Dio come frutto dell’anno della
riconciliazione.

Fossi
stato io papa, la notte di natale 1999, al momento di aprire la porta
santa (ma può una porta essere «santa»?), mentre le videocamere e tutti i
mezzi di comunicazione erano puntati sul pontefice, mi sarei girato verso
di loro e avrei proclamato ai quattro venti: «Il papa non aprirà nessuna
porta santa, finché i paesi ricchi non avranno assunto un serio impegno di
condonare il debito ai paesi in via di sviluppo, e finché non saranno
varate leggi alle Nazioni Unite per risolvere il problema della fame nel
mondo. Buona notte!…».

Oggi, nel
sonnolento dopo-pranzo, dò un’occhiata a diversi giornali e riviste.
Constato che, dopo ben 18 mesi dal proclama al mondo di un anno speciale,
propizio alla concordia, ad accorciare le distanze tra i popoli e a
diminuire le differenze tra ricchi e poveri, non ci sono grandi risultati.

Anzi, i
milioni di poveri, che muoiono ogni anno per fame o malattie causate da
essa, continuano ad aumentare. Aumentano guerre e conflitti, armati o
meno. Non è diminuita l’intolleranza verso lo straniero, e i disadattati
sono in costante incremento.

Non dubito
che, nell’anno santo, ci siano state delle conversioni personali e persino
comunitarie (le seconde, però, molto scarse). Queste santificano la chiesa
e la rendono migliore dal di dentro.

Io, però,
mi sarei aspettato pure qualche gesto esterno da parte della nostra chiesa
ufficiale. Magari una parola di speranza per il ritorno degli oltre 25
mila preti, tagliati fuori per decreto dal ministero perché hanno scelto
il matrimonio. Oppure dei passi significativi verso l’accettazione della
donna in qualche ministero ecclesiale, verso il suo inserimento effettivo
in cariche importanti, come avviene nella politica.

Non
sarebbe stata bella qualche mozione per una maggiore democrazia
all’interno della chiesa?

Non vi
sarebbe piaciuto che alla teologia della liberazione, relegata nell’ombra
della dimenticanza, fosse stato dato un colpetto d’incoraggiamento sulla
schiena? Sarebbe poi tanto male renderla ancora viva in una chiesa che, la
domenica mattina, sbadiglia durante le monotone prediche di numerosi
sacerdoti?

Come
sarebbe stato bello, per me e forse per tanti altri, vedere alcuni nostri
inamidati e «grandi della chiesa», a capo di dicasteri romani, sorridere
un po’ ai teologi condannati per motivi anche giusti, ma senz’altro
suscettibili di tolleranza. Non era, forse, l’anno della riconciliazione?
Quanto avremmo apprezzato un abbraccio tra il teologo ritenuto avanzato e
il rigido censore! Il tutto magari trasmesso per tivù all’intero mondo:
una riconciliazione globale!

Mi sarei
pure aspettato qualche passo in più verso l’unificazione delle chiese.

L’anno
santo è servito a molte entità (tutte del nord) per ingrossare i loro
conti in banca. A me sembra di ricordare che, agli inizi degli anni ’70,
un dotto papa aveva scritto che «l’aumento della ricchezza nei paesi
sviluppati dipende direttamente dall’impoverimento di quelli in via di
sviluppo». Ebbene, l’anno santo ha pure aumentato la povertà del Terzo
mondo?

Se oggi
l’umanità non ha ancora risolto, tra gli altri, il gravissimo problema
dell’equa distribuzione della ricchezza(e non si vedono soluzioni né a
corta né a lunga scadenza), ditemi voi a che cosa è servito questo
benedetto anno santo?

Il re è
veramente nudo!


Lettera firmata


Addis Abeba (Etiopia)

Il 6
gennaio 2001 si è concluso il giubileo del 2000. In tale occasione
Giovanni Paolo II, con la lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha
tracciato un bilancio dell’evento. Tra i fatti significativi si ricordano:
la richiesta di perdono, il raduno dei giovani e l’incontro con i
carcerati, il pellegrinaggio in «terra santa», l’«apertura ecumenica» di
una porta santa (compiuta dal papa, dal primate anglicano e da un
metropolita del patriarcato di Costantinopoli), l’impegno per il condono
del debito estero dei paesi poveri, la riaffermazione della scelta
preferenziale dei bisognosi.

La lettera
«punta in alto» ricordando anche le sfide del futuro: il dissesto
ecologico, i problemi della pace, il vilipendio dei diritti umani, le
biotecnologie (con i loro problemi etici) e, non ultimo, il dialogo
interreligioso… per evitare «lo spettro funesto delle guerre di
religione».

Questo (e
altro) rivelano che l’anno santo è rimasto «incompiuto».


L’auto…
missionaria

Egregio
direttore,

sono un
lettore un po’ anziano della sua rivista: mi interessano molti articoli.
Inoltre ho visto personalmente che cosa fanno in Etiopia i missionari
della Consolata: cose meravigliose! Però, spesso, non sono d’accordo con
le tesi estreme sostenute da Missioni Consolata.

È proprio
vero (vedi l’editoriale di aprile 2001) che «anche quando sono fermi…
tutti gli autoveicoli sono un monumento allo spreco»? Questo vale anche
per gli automezzi, senza i quali il missionario vedrebbe paurosamente
restringersi il suo campo d’azione? E se no, perché scriverlo?


ing. Edmondo Schmidt


Roma

Il signor
Schmidt continua a leggere Missioni Consolata, nonostante le divergenze di
opinione con la rivista. Questa è una testimonianza di pluralismo e
tolleranza, che apprezziamo molto.

Un
editoriale è anche provocatorio. In tale senso va colto lo scritto a cui
si riferisce il lettore, consapevoli che gli automezzi, oltre che
consumare, sono pure inquinanti.

Circa il
«nostro» uso dell’auto, vale il detto


«est modus in rebus».
Ma
il problema resta, anche per i missionari.


Il «nostro
genoma»


Felicitazioni per lo «straordinario» sul centenario dell’Istituto. Avete
usato il metodo degli archeologi: cioè avete scavato fra i vari «campioni»
della nostra famiglia, presentando un modo speciale di «fare missione». Le
figure che avete selezionato confermano la feconda radice del nostro
albero genealogico.

La
«memoria» della nostra storia non solo emoziona, ma stimola a conservarla,
obbliga a onorarla e incarnarla. Con umiltà e modestia, io, voi e molti
altri siamo tale storia, componiamo questa «epopea di Dio», senza rumore,
facendo bene il bene, fedeli al nostro genoma di missionari della
Consolata.

Il vostro
numero straordinario non è tutto l’Istituto e i suoi 100 anni. Però avete
saputo far vibrare il senso di appartenenza, tanto prezioso per noi
«anziani». Mi domando: saprà la generazione nuova bagnarsi nella «nostra
eredità»? Anche il metallo più vile, bagnato nell’oro, si trasforma!

Mi auguro
che i giovani missionari, appartenenti a varie culture, riconoscano con
giusto orgoglio «la roccia da cui siamo stati tagliati…». Voi, che cosa
avete provato dopo la fatica del numero speciale?

p.
Ermenegildo Crespi

Machagai
(Argentina)


«Fuori della chiese c’è salvezza»



PRENDERE O LASCIARE?

Il dossier
«L’alta teologia e il buon senso» (Missioni Consolata, gennaio 2001)
analizzava l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il dossier
era firmato da Igino Tubaldo, teologo e missionario. In aprile la rivista
ritornava sull’argomento con la puntualizzazione di Antonio Santucci,
vescovo di Trivento (CB), e la risposta di padre Tubaldo. Ora intervengono
anche tre lettori di Missioni Consolata.


Chiesa
«istituzione» e «corpo di Cristo»

A ppena ho
letto il «botta e risposta» tra il vescovo Santucci e il teologo Tubaldo,
mi sono venute in mente le parole di Dietrich Bonhoeffer: «La chiesa non è
un’associazione religiosa di adoratori di Cristo, bensì il Cristo che ha
preso forma tra gli uomini… Nel caso della chiesa, non si tratta di
religione, ma della forma di Cristo e del suo prendere forma in un gruppo
di uomini. Il fatto che solo una parte dell’umanità riconosca la forma del
proprio redentore è un mistero di cui non esiste spiegazione».

A questo
punto una nota del libro (da cui ho tratto la citazione) dice: «La
concezione che, anche indipendentemente dal fatto di essere “conosciuto”
dall’uomo, l’evento di Cristo riguardi tutti gli uomini, induce a pensare
all’idea del cristianesimo inconsapevole».

Prosegue
Bonhoeffer: «Dio diviene uomo significa che la forma di Cristo, per quanto
sia e rimanga una e identica, vuole tuttavia prendere forma in uomini
reali e cioè in maniere molto diverse».

Alla luce
di queste parole, non è che si faccia ancora confusione tra chiesa
«istituzione» e chiesa «corpo di Cristo»? Non è che l’eterna questione (se
vi sia o no salvezza fuori della chiesa) sia un non-senso o, almeno,
ampiamente superata?

Stefano Poli
– Zevio (VR)



Chiesa-gerarchia e Maria

Ho letto
le osservazioni del vescovo di Trivento e la risposta del teologo Tubaldo.
Seguendo le indicazioni di mons. Santucci, ho preso il Catechismo
universale e ho trovato la frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio
per padre se non ha la chiesa per madre». Però, se stacchiamo la frase dal
contesto della tradizione cristiana basata sulle sacre scritture, la
mateità di Maria dove finisce?

Se Maria è
madre della chiesa, come ha riconosciuto il Concilio Vaticano II, questa
mateità è decisiva per la salvezza. Come fa a salvarsi una chiesa che
antepone «la mateità» della sua gerarchia a quella di Maria?

Se Cristo
avesse voluto affidare alla gerarchia ecclesiastica il compito di essere
madre dell’umanità, avrebbe forse fatto sì che ai piedi della croce
andasse Pietro, non sua madre. E non si sarebbe rivolto a Giovanni, unico
rappresentante di un nucleo gerarchico smarrito di fronte al potere di
altre gerarchie, dicendogli (indicando Maria): «Ecco tua madre!».

Sui
pericoli cui va incontro l’uomo quando baratta la vera pateità e
mateità con i loro surrogati, le sacre scritture dicono cose importanti:
ad esempio, quando a Gesù dicono che sua madre e i suoi fratelli lo stanno
cercando, Egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli – risponde Gesù –
sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
Inoltre quando, nella folla intorno a Gesù, una donna inneggia a «colei
che gli è madre», l’Interessato risponde: «Beati piuttosto chi ascolta la
parola di Dio e la custodisce».

Ogni
cristiano è chiamato a essere «madre di Cristo».

Francesco
Rondina – Fano (PS)


Affermano le
stesse cose

M i
permetto di interloquire nella «diatriba» tra Santucci e Tubaldo. Ritengo
che nella replica del missionario ci sia una presunzione di teologicità:
Tubaldo sostiene le stesse cose del vescovo, almeno per chi ha
interpretato nel giusto senso i documenti del Concilio.

Non vedo
la ragione di contrapporsi polemicamente, ribadendo gli stessi concetti.
Può creare sconcerto in chi ha a che fare con cristiani che non conoscono
più l’abbicidì della religione, e deve essere considerato un «missionario
interno»; per cui giustamente si preoccupa che le parole siano intese
bene, senza equivoci.

Però
riconosco la difficoltà dei missionari, costretti a confrontarsi con
popolazioni non cattoliche; capisco anche il fervore con cui si battono
per sostenere le proprie convinzioni e quelle di cristiani autentici, che
vogliono scuotere le coscienze. Forse viene loro meno la capacità di
comprendere il contesto in cui calano le parole, con effetti talvolta
negativi per la realtà che stiamo vivendo.

A tutti
sta a cuore l’affermarsi del regno di Dio nelle forme che il Signore
stabilisce, e tutti, come cristiani, dobbiamo dare testimonianza della
nostra fede. Manifesto il disagio per quanto ho letto, consapevole che
tutti dobbiamo pregare anche per i terremotati che muoiono senza aver
sentito parlare di Cristo, e così per tutti gli uomini, come credo faccia
ogni cristiano che sia tale. Un vero privilegio, peraltro, di cui non ci
si rende conto… io per primo.

Giannantonio
Grigolato, Crocetta del Montello (TV)

box2


Lettere di famiglia

Cari
missionari, faccio seguito all’offerta inviata a favore delle vostre
missioni per chiedere di ringraziare la Madonna, con le vostre preghiere e
quelle delle persone bisognose da voi beneficate, per le numerose grazie
da me ricevute in situazioni disperate.

Ho sentito
la forza della Consolata che, per ben due volte, ha liberato me e la mia
famiglia dal maligno. Questi «miracoli» sono avvenuti l’anno scorso, nel
mese di ottobre, mese dedicato proprio alle missioni.

Scusate
queste parole di una povera mamma.

mamma Angela
– Bari

Caro
direttore, questa volta, invece di un articolo, ti invio una semplice
foto. È un po’ sfocata, ma la ritengo abbastanza significativa. La si
potrebbe intitolare: «Amicizia kenyana-etiopica» (padre Nicholas Makau,
del Kenya, fra Marta e Meseret dell’Etiopia). Se non ti va, cestina tutto.

Sarà
possibile un futuro di pace e amicizia tra i diversi popoli e gruppi
etnici dell’Africa? Il Signore è il principe della pace. Ma ciò non
dispensa l’uomo dall’impegno.

fr. Vincenzo
Clerici – Addis Abeba (Etiopia)

Cari
missionari, mi sia concesso di ricordare il fratello Tonino, morto nel
1997 in Calabria, dopo aver vissuto tanti anni a Torino. Tutti dicevano
che era anche un missionario… Servendosi di lui, il Signore ha
convertito diverse persone.

Tonino era
pure innamorato della Madonna Consolata. Una volta (che ero a Torino) mi
chiese per telefono di rinnovargli l’abbonamento alla vostra rivista. Ora
la ricevo io e in agosto, se Dio vuole, verrò a Torino e rinnoverò ancora
l’abbonamento a Missioni Consolata.

Sto
scrivendo dal letto: soffro per una brutta cervicale e porto il collare.
Spero che passi. Altrimenti, «fiat voluntas tua…».

sr. Martina
Belvedere – Napoli

Tre
lettere di «famiglia» scritte quasi con pudore. O, meglio, con amore…
Nel libro dei Proverbi si legge: «Un piatto di verdura con amore è meglio
di un bue grasso con odio» (15, 5).

AAVV




Indios di Roraima, Brasile. ANCHE GLI ANGELI PERDONO LE ALI

L’ennesima lotta per non scomparire e l’impegno della chiesa del Consiglio indigeno di Roraima

Articolo 1

Area
indigena «Raposa Serra do Sol»

Gli
indios nella morsa dell’esercito

del
Consiglio indigeno di Roraima

Gli indios
brasiliani di Roraima sono, ancora una volta, sul piede di guerra. I
macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang, che abitano la regione «Raposa
Serra do Sol», stanno affrontando una nuova battaglia politica e legale.
Questa volta contro l’esercito nazionale e le sue caserme. Il luogo della
discordia (o dell’aggressione da parte dei bianchi) è il villaggio di
Uiramutã.

La
caserma ad ogni costo

Il
progetto «Calha Norte» prevede oggi anche una base militare nel villaggio
degli indios macuxí di Uiramutã. Ma la risposta della comunità locale e di
quella delle montagne non si è fatta attendere: sono ricorse alla
giustizia per impedire la costruzione della struttura dell’esercito.

I macuxí
sono molto preoccupati, specialmente dopo le denunce dei yanomami di abusi
sessuali e distribuzione di armi da parte dei militari nei villaggi
indigeni. La costruzione della caserma è un ulteriore attentato alla
cultura degli indios e una violazione dei diritti costituzionali in
Brasile.

La
tensione è alta a Uiramutã, poiché l’esercito sembra deciso a costruire la
caserma ad ogni costo.

Nel
novembre scorso l’esercito incominciò a spianare l’area, a soli 100 metri
dalle abitazioni macuxí, e i capi indigeni fecero ricorso alla giustizia
per fermare i lavori. Ma l’Avvocatura generale dell’unione (Agu), che
difende i militari, si appellò contro le decisioni favorevoli agli indios.
L’ultima sentenza della Corte federale di Brasilia ha previsto che
l’esercito individui con le comunità indigene il luogo più appropriato per
la costruzione della caserma. Ma finora i militari non hanno preso alcuna
iniziativa per arrivare ad un accordo.

L’Agu, con
il ricorso contro la decisione della Corte, ha rivelato che i militari non
hanno alcuna intenzione di trattare con gli indios. Il generale Claudimar
Nunes Magalhães, comandante della prima brigata della «selva», non crede
nel dialogo con i leader indigeni. «Qualsiasi luogo noi scegliamo – ha
detto – a loro non va bene» (Brasil Norte 19/01/2001).

D’altro
canto, in febbraio, i capi di tutte le etnie indie del Brasile si sono
riuniti: hanno inviato un documento alle autorità denunciando gli abusi
dei militari contro i yanomami e chiedendo di partecipare alla decisione
circa il luogo dove costruire la caserma nella regione Raposa Serra do
Sol.

Il 21
febbraio rappresentanti della Giustizia federale, politici e ufficiali
dell’esercito hanno visitato Uiramutã e il villaggio di Maturuca, dove
hanno incontrato i responsabili del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).
Questi hanno sostenuto che la costruzione di una base militare a Raposa
Serra do Sol non è necessaria, poiché esistono già due unità militari
lungo i confini della regione. L’incontro non ha portato ad alcuna
soluzione.

Il 18
marzo il ministro della Difesa, Geraldo Quintão, ha dichiarato alla stampa
nazionale che l’esercito è determinato a costruire la base a Uiramutã,
nonostante l’opposizione indigena. Il giornale O Globo ha rivelato che i
militari ritengono impensabile una decisione finale della Corte, contraria
alla costruzione della caserma (O Globo 18/03/2001).

Inoltre a
Roraima Quintão ha affermato che la demarcazione dell’area yanomami è
stata un errore e si è dichiarato contrario ad altre demarcazioni di terre
indigene in aree uniche (non a macchia di leopardo), riferendosi proprio a
Raposa Serra do Sol (O Estado de São Paulo, 22/03/01).

Il
«municipio bianco» a Uiramutã

La
demarcazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è considerata da
varie organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani l’emblema della
politica governativa brasiliana circa i diritti indigeni, soprattutto il
diritto alla terra.

L’area
Raposa Serra do Sol occupa 1.651.300 ettari nel nord orientale di Roraima
ed è abitata da oltre 15 mila indios macuxì, wapixana, ingaricó, patamona
e taurepang.

La
demarcazione di questa zona è stata apertamente e costantemente combattuta
dal governo e dai parlamentari di Roraima, anche con mezzi illegali (ad
esempio, la strumentalizzazione di capi indigeni), onde bloccare la
conclusione del processo di delimitazione del territorio. È dal 1998 che
l’atto finale è fermo negli uffici della Presidenza della repubblica, a
causa delle pressioni dei politici.

Vari
gruppi economici e politici, con interessi in Amazzonia, seguono con ansia
gli sviluppi della situazione a Raposa Serra do Sol, sperando in un
«precedente giuridico» che li aiuti a contrastare altre demarcazioni di
aree indigene.

Nel 1997
il governo di Roraima fece pressione per l’installazione del «municipio
bianco» a Uiramutã, nella regione delle montagne, come strategia per
destabilizzare il movimento di demarcazione e per frammentare il
territorio indigeno.

Il
municipio è stato la fonte di costanti aggressioni contro gli indios, di
invasione dei loro territori e di divisione tra i villaggi. Il Consiglio
indigeno di Roraima ha lottato legalmente per annullare il municipio,
installato al contrario per vie illegali. La sede, nel cuore del villaggio
di Uiramutã, esprime la politica di soffocamento contro le società
indigene praticata dal governo di Roraima.

La
prefettura di Uiramutã ha costruito altri edifici pubblici fra le
abitazioni macuxí e ora rivendica che il villaggio sia riconosciuto come
vila (cittadina dei bianchi) e addirittura come città. Ma vi sono solo 110
non-indios a Uiramutã, contro 380 indios. Oltre alle costanti minacce ed
aggressioni fisiche contro gli indios, i non-indios commerciano bevande
alcornoliche, responsabili della distruzione fisica, sociale e culturale
delle comunità.

È in
questo contesto che si colloca la costruzione della caserma, senza il
consenso degli indios. La struttura consoliderebbe l’invasione del
villaggio e, inoltre, costituisce una violazione del diritto
costituzionale delle società indigene a conservare i propri costumi,
lingue, credenze e tradizioni, nonché il diritto originario sulle terre
dove vivono da sempre. Oltre a questo, preoccupa gli indios la recente
denuncia dei capi yanomami di irregolarità commesse dai militari nella
base di Surucucus.

I yanomami
accusano soldati e ufficiali di abusare sessualmente delle loro donne e di
distribuire armi da fuoco e munizioni agli uomini. Il che aumenta le
aggressioni fisiche tra i villaggi rivali.

I capi
indigeni di Roraima non vogliono che questa storia si ripeta in altre
comunità e temono che la presenza di militari nei pressi dei villaggi
generi prostituzione e alcornolismo.

I tuxáuas
(capi) di Raposa Serra do Sol non sono contrari alla presenza
dell’esercito in Amazzonia, ma non vogliono caserme dentro o nei pressi
dei villaggi indigeni. Un’eventuale caserma dovrebbe essere costruita
lontano dalle comunità, per evitare i problemi vissuti dai yanomami.

L’esercito
finora si è rifiutato di discutere la scelta di un altro luogo per la
base. Secondo il colonnello Roberto De Paula Avelino, responsabile del
progetto Calha Norte, il problema non può dipendere da questioni indigene
e territoriali. A suo parere, le uniche preoccupazioni riguardano la
sovranità nazionale e lo sviluppo regionale. «Spero che nei prossimi 18
mesi la caserma di Uiramutã sia in funzione» ha affermato il militare in
un’intervista alla stampa. Significativo il titolo: «Calha Norte non bada
alla questione indigena in Roraima (Folha de Boa Vista, 5/12/2000).

Complici i cercatori d’oro

Il
villaggio di Uiramutã sorge nella regione delle montagne, una delle
quattro aree che formano la Raposa Serra do Sol, a poca distanza dal fiume
Maú, al confine tra Brasile e Guiana. Sul finire degli anni Cinquanta, i
garimpeiros (cercatori d’oro) si installarono nel cuore del villaggio, a
fianco pure della casa del vecchio tuxáua José Massaranduba, che vive
tutt’oggi in loco.

La
presenza di garimpeiros ha causato l’oppressione e disgregazione della
comunità attraverso l’alcornolismo, la prostituzione, gli omicidi, lo
sfruttamento della manodopera indigena, insieme ad una lunga serie di
violenze culturali e fisiche. Poi, con il fallimento del garimpo (miniera
d’oro) nella regione, gli invasori se ne sono andati. Sono rimasti solo
pochi avventurieri.

Agli inizi
degli anni Ottanta la comunità indigena, già rafforzata dal movimento di
recupero socioculturale nei villaggi e dalla lotta per la terra, riuscì a
controllare il viavai di estranei.

Intanto, a
partire dal 1985, si è assistito ad una nuova invasione di garimpeiros in
territorio yanomami, attratti sempre dalla corsa all’oro. Tale invasione
fu favorita dallo stesso governo di Roraima che, tra i vari provvedimenti,
aprì una strada per facilitare l’«integrazione» del territorio isolato. Il
villaggio di Uiramutã è stato nuovamente circondato da garimpeiros. I
nuovi invasori hanno aperto bar e postriboli vicino alle case degli indios.
E le comunità indigene della regione sono state colpite da malaria,
malattie respiratorie, come pure da aggressioni fisiche che causano molti
decessi.

Però, in
questa circostanza, gli indios erano più organizzati e coscientizzati
rispetto al passato. La presenza di garimpeiros li ha stimolati a
sollecitare un urgente e quanto mai necessario riconoscimento ufficiale
della loro terra.

Nel 1993
la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) concluse e fissò il processo di
identificazione e demarcazione del territorio macuxí, ingaricó, taurepang
e wapixana e lo consegnò al ministro di Giustizia. Il fatto suscitò, da
parte del governo locale, proteste, minacce e tentativi di consolidare
l’invasione. Fra questi vi fu la costruzione della diga del Tamanduá, sul
fiume Cotingo, che gli indios contestarono con successo.

La
creazione del municipio di Uiramutã è stato l’ennesimo stratagemma
politico del governo di Roraima per impadronirsi del territorio.

Gli indios
hanno denunciato l’imposizione della struttura «bianca» nel villaggio di
Uiramutã e il Consiglio indigeno di Roraima è ricorso alla giustizia
contro la creazione illegale del municipio. Il processo è ancora in alto
mare e si aspetta la decisione definitiva di Brasilia.

Nella
regione, tra il 1997 e il 1998, la reazione degli indios portò
all’espulsione dei garimpeiros dall’area e la chiusura dei garimpos, che
costituivano insieme al settore terziario l’unica fonte di rendita per il
municipio. Al presente ci sono solo i salari dei dipendenti del municipio
a sostenere la «cittadina».

Si sappia
che le comunità indigene delle montagne hanno al presente il controllo di
quasi tutte le terre che dovevano teoricamente appartenere al municipio.

La corruzione dei capi

Uiramutã è
un villaggio che comprende due realtà diverse: il centro tradizionale
(chiamato vila), invaso dai bianchi, e il centro recente.

Il centro
tradizionale è una fascia di terra delimitata, da ovest ad est, da due
igarapés (torrenti), che confluiscono nello stesso punto dopo le ultime
case. Il territorio misura circa 1.000 metri di larghezza sul lato ovest,
300 sul lato est e circa 1.300 metri di lunghezza (vedi cartina). Tra i
due igarapés vivono 26 famiglie macuxí. Fra loro si trovano pure 31
famiglie di non-indios, per un totale di 110 persone.

Il governo
di Roraima ha installato proprio qui la sede del municipio e ha «riempito»
il luogo con le seguenti strutture politiche: una scuola elementare con
otto classi e una media con cinque, più un corso supplementare; un campo
sportivo; una casa di appoggio per l’esercito; due cistee d’acqua; un
palazzo comunale con la «camera dei deputati»; un centro di
amministrazione; un ambulatorio; due generatori elettrici; un
radiotelefono; una casa per «il club delle madri»; un commissariato di
polizia.

Il centro
recente del villaggio (situato lungo il limite settentrionale e
meridionale dell’area invasa e da essa separato solo dai due igarapés), è
amministrato dal tuxáua Orlando Pereira, figlio di Massaranduba. Qui si
contano 74 case, con un totale di 380 persone. Il centro possiede una
scuola con 83 alunni e diversi insegnanti indigeni, un ambulatorio, acqua
canalizzata, una chiesa cattolica, tre retiros per l’allevamento del
bestiame e 56 piccole piantagioni. La comunità indigena (e le sue
abitazioni) è circondata quasi totalmente dal complesso di edifici
costruiti dal governo. A lato dell’agglomerato delle case del villaggio,
c’è la sponda dell’igarapé meridionale, dove i militari vogliono costruire
la loro caserma. La distanza della base militare dalla casa indigena più
prossima è di appena 100 metri.

Nella
regione i rapporti tra indios e non-indios sono stati sempre tesi e
pericolosi per gli indigeni e i loro alleati. Basta ricordare alcuni
episodi recenti: il rogo di tre case indie a Uiramutã; l’invasione nel
1999 da parte di abitanti della vila del vicino villaggio di Weilimon, in
seguito al tentato omicidio del leader Paulo; il tentativo di pugnalare il
segretario generale del Cimi, Egon Eck.

Ma ancora
più grave è il fatto che il governo di Roraima abbia cornoptato e ingaggiato
alcuni leader indigeni con stipendi e promesse di ricchezza. Questi si
sono schierati addirittura contro i propri diritti e dei fratelli,
arrivando a chiedere la demarcazione di una superficie inferiore a quella
che la stessa legge loro garantisce, nonché il ritorno dei garimpeiros,
l’espansione della vila e, oggi, la costruzione della caserma a Uiramutã.

La
cornoptazione è stata la strategia principale, adottata dall’attuale
governatore dello stato di Roraima, per destabilizzare il movimento
indigeno e impedire l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do
Sol.

Articolo 2

Ladri,
corrotti e «viados»

di Carlo
Miglietta (*)

Boa
Vista, capitale dello stato di Roraima. Scendendo dall’aereo, il primo
assaggio del clima è tremendo. Fa molto caldo; soprattutto c’è un’umidità
che ti fa sembrare di camminare… nell’acqua calda! I missionari della
Consolata, venuti ad attenderci, ci prendono in giro: «Ma se è inverno!
Siamo nei mesi freschi delle piogge».

Ci
sorprende che ad attenderci non ci sia l’amico padre Silvano Sabatini.
Però subito ne comprendiamo il perché. La città è tappezzata di manifesti,
stampati dal governo e da fantomatiche associazioni di commercianti e
agricoltori, che attaccano i missionari e la Funai (Fondazione nazionale
dell’indio) per la loro difesa degli indios.

Alcuni
cartelloni recitano: «La Funai genera miseria e conflitti!»; «No alle
demarcazioni delle terre! A “isole” sì, ad “area continua” no!»; «Il
Brasile è dei brasiliani e non degli indios»; «La diocesi deve
catechizzare, non terrorizzare»; «La chiesa è contro la società»…

C’è lotta
senza quartiere tra i missionari (che premono perché le terre indigene
siano demarcate come aree continue, secondo la Costituzione brasiliana del
1994, e il governo locale, in mano alla lobby dei fazendeiros, che accetta
solo la demarcazione del territorio «a isole» (cioè a pezzetti),
accerchiate da grandi fazendas pronte ad inglobarle… Sui muri vistose
scritte: «Preti ladri, corrotti e travestiti! (viados)».

Padre
Sabatini è uno dei «ricercati», ed è meglio che non si faccia vedere in
giro. Il suo libro Massacre (1998) ha inchiodato, con nomi e testimonianze
precise, gli autori dell’uccisione di padre Giovanni Calleri e di numerosi
indios: militari, personaggi di compagnie minerarie e di sètte
nordamericane fiancheggiatrici.

Missione
di Calungá, alla periferia di Boa Vista. È anche la sede provinciale dei
missionari della Consolata. E qui abbracciamo finalmente padre Silvano,
che ci aggioa sulla situazione molto tesa.

Il diritto
degli indios alla demarcazione delle loro terre indigene è rimasto
disatteso. Bianchi, fazendeiros ed enti minerari hanno depredato gli
indios delle loro terre, massacrandoli con mitragliatrici e bombe,
inquinando i fiumi con derivati mercuriali, diffondendo malattie contro
cui gli indios non hanno difese immunitarie. In una trentina d’anni, da
300-400 mila sono passati a poche decine di migliaia.

Il governo
di Roraima, dato che i potenti fazendeiros non hanno alcuna voglia di
abbandonare (neanche dietro indennizzo) le aree da essi arbitrariamente
occupate, cerca addirittura di aumentare la presenza dei bianchi nelle
aree indigene, per rendee ancora più difficile l’espulsione. A tal fine,
ha favorito l’immigrazione di contadini del nordest, soprattutto del
Maranhão. In queste regioni era iniziata una timida assegnazione di terre
ai contadini, senza dotarli delle necessarie infrastrutture (trasporti,
scuole, ospedali): il contadino, che si è visto dare un terreno a 400-600
chilometri dalla città, ma senza mezzi per raggiungerlo, non sapendo come
vendere i raccolti, ha accettato la misera offerta del latifondista; e
dotato di grossi camion e aerei per i trasporti, con pochi soldi si è
visto di nuovo legalmente proprietario di tutti i terreni.

Il governo
di Roraima concede ai contadini poveri 100 metri quadrati di terra a Boa
Vista per costruire una baracca; ed essi vi giungono a frotte dal nordest.
Così la città è cresciuta, in una decina d’anni, da 70 mila a 360 mila
abitanti: tutti baraccati, senza fogne, con la luce rubata attraverso
allacciamenti di fortuna, con acqua solo se, scavando nel terreno, c’è la
ventura di trovarvi un pozzo.

Il governo
di Roraima ha indetto, contro la demarcazione delle terre, la «marcia in
difesa dello stato», favorendola in ogni modo con trasporti gratuiti e una
giornata di libertà per i dipendenti della pubblica amministrazione. La
Folha de São Paulo ha scritto che vi hanno partecipato 30 mila persone,
ma, secondo il giornale locale O Correio, la manifestazione è stata un
fiasco, con non più di 3 mila persone.

Visitiamo
l’ospedale infettivologico per gli indios, a pochi chilometri da Boa
Vista. È stato costruito dai missionari della Consolata a misura di indio:
come «reparti» ci sono «maloche», le tipiche costruzioni a capanna
plurifamiliare, e come letti le immancabili amache. Gli indios possono
cucinarsi il cibo secondo le proprie usanze; dispongono di locali per
lavori artigianali anche durante il ricovero; hanno possibilità di
alfabetizzarsi… L’ospedale è diretto da Renato, un avvocato brasiliano
di origine tedesca, anch’egli nel mirino della repressione, e vi operano
part time un medico colombiano e un radiologo venezuelano. Malattie più
frequenti: tbc, malaria, varicella, morbillo, che colpiscono gli indios in
forme devastanti.

Un
cruciale problema per l’ospedale sono i finanziamenti: lo stato, che
dovrebbe mantenerlo in convenzione, paga… qualche volta. Tempo fa i
missionari sono stati costretti a chiuderlo e a portare gli infetti
all’ospedale statale ottenendo… l’immediato pagamento degli arretrati.

Eucaristia
nella cappella (anche questa a forma di maloca) nella missione di Boa
Vista. Padre Silvano ricorda con viva commozione Micarnela, mancata un anno
fa, indicandola come vera «santa missionaria», per avere fino all’ultimo
pensato ai fratelli e alla missione, nonostante la sua gravissima
malattia.

Pure noi,
anche guardando il sacerdote celebrante, siamo commossi: padre Silvano,
dopo 79 anni di «intemperie», è cieco! Ma la mente, lucidissima, vede
sempre lontano e il cuore è appassionato… Preghiamo per gli amici di
Torino, i familiari, i sostenitori degli indios.

(*) Carlo
Miglietta è medico a Torino. Si è recato due volte nella zona di Roraima,
l’ultima delle quali per accompagnare gli inviati del settimanale
«Famiglia Cristiana».

Articolo 3


Surumú – Maturuca


Storia di liberazioni

di
Benedetto Bellesi

Una
volta si vergognavano di sentirsi indios; oggi si sono riappropriati delle
loro terre, dignità e valori culturali. È una lotta infinita, combattuta
su due fronti: contro l’oppressione estea e schiavitù intee, come
alcornolismo e dipendenza. Da 40 anni i missionari della Consolata camminano
con gli indigeni di Raposa Serra do Sol, aiutandoli a confrontarsi con la
parola di Dio, a cui traggono ispirazione e forza per continuare il loro
processo di riscatto.

Prima di
mettersi al volante padre Giacomo Mena si toglie le ciabatte e infila i
piedi nudi nelle scarpe d’ordinanza. «Meglio bollenti che una grana con la
polizia – spiega -. Non conviene farsi prendere in castagna, specie in
questi giorni in cui tutti cercano appigli per sbattere la chiesa in prima
pagina». Un bel segno di croce e ci mettiamo in viaggio per Surumú e
Maturuca. «Il Signore ce la mandi buona» continua, con un augurio che
vuole essere anche una preghiera.

Lasciata
alle spalle Boa Vista, infiliamo la statale che conduce in Venezuela.
L’asfalto invita a pigiare sull’acceleratore; ma per un’ora e mezza, un
occhio alla strada e l’altro al contachilometri, l’autista rispetta con
scrupolo i limiti di velocità. Poi svolta a destra, su uno stradone
sterrato. «Ora siamo al sicuro» afferma il padre con un sorriso soione:
ferma l’auto, rimette le ciabatte e riparte a tutto gas.

Padre Mena
non è fanatico di regole e comandamenti. Nato a Chiari (Brescia) 60 anni
fa, metà della vita spesa in Brasile, conosce bene la situazione e,
piccolo ma furbo quanto basta, sa dove finisce la sfida e inizia la
prudenza. «Sicuri dalla polizia, non da peggiori incontri – continua
sorridendo sotto i baffi e sbirciando di traverso per vedere la mia
reazione -. Qui si sa quando si parte, ma non quando e se si arriva a
destinazione. Preti e suore sono nel mirino di pistoleros pagati dai
fazendeiros. La situazione, ora, sembra calma; ma non si è mai sicuri al
cento per cento».

SPECIALISTI DEL PROGRESSO

Il viaggio
continua, invece, liscio come l’olio e dopo un’altra ora buona siamo a
Surumú: la vila (villaggio dei bianchi) è sotto l’amministrazione
regionale; la missione si trova nella riserva Raposa Serra do Sol.
«Abbiamo i piedi su due staffe – spiega suor Leta, missionaria della
Consolata -. E ciò crea una certa tensione. I bianchi non ci sopportano,
perché difendiamo gli indios; noi boicottiamo le loro botteghe, perché
vendono alcornolici agli indigeni».

La
missione di Surumú, la prima fondata tra gli indios della savana (1951), è
stato il centro della riscossa indigena. Iniziò con la scuola elementare e
inteato per una trentina di alunni, poi è stata adattata alle varie
esigenze della popolazione indigena, diventando centro di formazione per
leaders e capi indigeni; oggi è una specie di università agricola.

«Con la
demarcazione della riserva e il graduale recupero della terra – spiega
suor Leta, incaricata della formazione di questa scuola -, c’è bisogno di
gente capace di difendere i propri diritti e promuovere l’autonomia
economica delle comunità. Cinque anni fa, nella loro assemblea annuale, i
tuxáuas hanno chiesto ai missionari di assumersi questa responsabilità».

Un’équipe
di missionari e professori di antropologia, diritto, tecnica agricola ha
progettato un programma di tre anni e si è messo subito al lavoro. Una
trentina di giovani hanno già concluso i corsi e si sono reinseriti nelle
rispettive comunità.

Le
principali materie di studio riguardano la tecnica agricola e agropecuaria;
la formazione è integrata con lezioni di antropologia e diritto, perché
gli alunni conoscano e apprezzino i valori culturali dei vari gruppi
etnici, imparino a fronteggiare uniti le sfide che li aspettano in futuro.
Qualche volta padre Giorgio Dal Ben porta a scuola i tuxáuas, che
raccontano agli studenti il cammino di lotta che stanno percorrendo per
riacquistare la loro dignità. Così la memoria storica viene tramandata di
generazione in generazione.

Alle
lezioni teoriche segue la pratica. La missione ha un esteso campo, dove i
giovani coltivano fagioli, mais, orzo; un frutteto con banani, manghi,
aranci, limoni; stalle con mucche, porci, galline. Fa impressione vedere
ragazze maneggiare zappe, concimi e tritaforaggio. «Anche le ragazze
frequentano questa scuola – spiega la suora -. Fa parte della loro
cultura: è la donna che coltiva i campi».

Entro
nell’aula scolastica, dove il professore Martino sta tenendo una lezione
di apicultura. Gli alunni sono attenti e non badano alla nostra
intrusione. «Sono affamati di sapere – continua suor Leta – e
impegnatissimi». Quasi tutti hanno solo la licenza elementare; nei ritagli
di tempo si preparano privatamente per conseguire il diploma statale di
secondo grado. Spesso accompagnano il professor Martino nelle varie
malocas, per esaminae i terreni e studiae le possibilità di
coltivazioni. Un mese fa hanno filmato il loro lavoro: un trapianto di
banani, con relative spiegazioni su qualità del suolo, malattie, cure e
concimazione. Poi hanno proiettato la cassetta in una maloca, imparando
così a trasmettere agli altri ciò che apprendono.

Suor Leta
confessa che anche lei ha molto da imparare da questi giovani. «Quando
arrivai a Surumú – racconta – in questa veranda c’erano sempre otto grossi
rospi, nonostante i sette gatti e quattro cani che girano per casa; finché
una ragazza sparse un po’ di sale sul pavimento e i rospi sparirono. “Oggi
ho appreso una cosa nuova: come ammazzare i rospi” dissi. “I rospi non si
uccidono, suora” rispose la ragazza. Oltre a imparare che il sale
impedisce la respirazione dei rospi, ricevetti una bella lezione di
ecologia: il rospo mangia insetti e scarafaggi; il gatto mangia il topo, i
cani allontanono i serpenti… Nella cultura indigena ogni creatura ha il
suo posto nell’equilibrio della natura».

AGENTI DI SALUTE

Altro
fiore all’occhiello della missione di Surumú è il piccolo, ma
attrezzatissimo ospedale S. Camillo, il primo e l’unico in tutto la parte
settentrionale della riserva Raposa Serra do Sol, la savana di Surumú e
Basso Cotingo e la «regione delle montagne» di Maturuca. Da otto anni lo
dirige suor Teresa, missionaria della Consolata kenyana. Oltre ai vari
reparti, mi mostra con orgoglio il giardino da lei curato, zeppo di alberi
da frutta ed erbe medicinali.

Ma i
frutti più belli del S. Camillo sono gli operatori di sanità, infermieri e
infermiere che già operano in molti villaggi della riserva. «Sono tanti e
ben preparati – spiega suor Teresa -. Se la cavano benissimo nei casi di
ordinaria amministrazione. Per quelli più complicati i pazienti vengono
portati qui, dove sono curati o immediatamente inviati a Boa Vista o a
Santa Eléna, in Venezuela, a seconda dell’urgenza e disponibilità: Boa
Vista è a due ore e mezza di viaggio; il confine venezuelano è
raggiungibile in un’ora».

Fino a
poco tempo fa, suor Teresa era supervisore della scuola infermieristica,
dei centri di salute e scuole della riserva: le visitava periodicamente
con grande beneficio per insegnanti e operatori sanitari. Poi
l’amministrazione regionale ha cominciato a mettere i bastoni tra le
ruote: la suora ha dovuto smettere le sue visite e i corsi di
infermieristica sono chiusi. «I fondi stanziati per l’ospedale sono
bloccati dall’amministrazione di Roraima – spiega sconsolata suor Teresa
-; medici, insegnanti e microscopisti hanno cercato lavoro altrove. Da tre
mesi sto aspettando l’arrivo di sussidi e altro personale per mandare
avanti l’ospedale. Ma sono stanca di sperare. È stanchezza mentale: ogni
progetto viene prima approvato e poi sistematicamente impedito, con grande
danno della popolazione indigena».

È la
strategia messa in atto dalla società locale contro la chiesa di Roraima,
con un continuo stillicidio di attacchi, calunnie, sospetti, minacce,
boicottaggi, fino a veri atti di violenza. «È in corso una guerra di
logoramento – sospira padre Luciano Stefanini (una vita spesa accanto alla
popolazione indigena) -, per costringerci a gettare la spugna nella difesa
dei diritti degli indios; una lotta che assorbe tempo, energie e denaro
per controbattere gli attacchi, anche per via legale, a scapito del lavoro
religioso e formazione della gente».

VIVERE NELLA TERRA PROMESSA

A Surumú
si tengono anche le assemblee annuali, dove i tuxauas della savana e delle
montagne prendono le decisioni più importanti per la vita delle loro
comunità. Storica è stata quella del 1977, quando dichiararono guerra
all’alcornolismo e giurarono di lottare uniti per riscattare terra, cultura
e dignità. Nel presbiterio della chiesa sono ancora appesi i simboli di
tale decisione: un fascio di rami, per indicare che l’unione fa la forza,
e una croce di legno, simbolo della volontà di sacrificarsi per il bene di
tutta la popolazione.

Anche i
giovani hanno assimilato le decisioni dei loro capi; sono consapevoli che
tutti i loro mali sono legati all’alcornolismo, che ubriacarsi significa
abbrutirsi. Per questo gli alunni della scuola di Surumú hanno forgiato
uno slogan e lo hanno inserito nel loro regolamento interno: «Ha bevuto?
Fuori!». Chi beve deve allontanarsi dalla scuola. E vi si attengono con
scrupolosa serietà.

«Qui è
iniziata e continua una storia di liberazione – afferma suor Leta -. Una
volta tutta la regione era in mano ai fazendeiros; gli indios erano alle
loro dipendenze e affogavano le loro frustrazioni nell’alcornol; ora quasi
tutti i bianchi hanno lasciato le fazendas e gli indigeni sono ritornati
padroni della propria terra e del proprio destino. Un conto, però, è
entrare nella “terra promessa”; come viverci è una storia tutta da
inventare».

Articolo 4

Maturuca, scuola di liberazione

Lasciamo
la savana e ci addentriamo nella regione delle serras (montagne). La
strada costeggia fiumi e ruscelli, attraversa amene vallette e e si
arrampica per dorsali scoscesi. Il panorama diventa sempre più vario e
pittoresco: bello da fotografare, affatto comodo per viverci. «Delle 46
comunità di Maturuca – dice padre Mena – non sono molte quelle
raggiungibili per strada camionabile. Alcune sono a 200 km di distanza: se
ne percorre 60 in auto, il resto a piedi. Le visitiamo tutte almeno due o
tre volte all’anno».

Tenendo
conto che, durante il periodo delle piogge, strade e sentirneri sono
impraticabili, rimangono sei mesi in cui è possibile raggiungere le
malocas più isolate. Le visite richiedono fino a due o tre settimane.
Tanto di cappello ai due missionari, Giorgio Dal Ben e Giacomo Mena,
parroco e vice, che in barba all’età, rispettivamente 58 e 60 anni,
continuano con immutato ritmo giovanile.

«Una
volta, per raggiungere un villaggio ingaricó – continua padre Giacomo – ho
impiegato 10 giorni. In un’altra occasione, i miei accompagnatori ogni ora
si fermavano a parlottare, con la scusa di farmi riposare. Dopo mezza
giornata, riuscii a capire che si erano perduti e cercavano punti di
riferimento». In questa regione montagnosa e senza strade anche gli angeli
perdono le ali.

CUORE DEL RISCATTO

Grazie a
Dio, l’auto di padre Mena non ha le ali: al tramonto siamo in vista di
Maturuca. Una corona di alture scintillanti fanno da sfondo a un arioso
anfiteatro, in cui le ombre lunghe degli alberi di mango ed anacardio
nascondono case e capanne disseminate nel pianoro. A parte la scuola, un
edificio ampio e moderno, gli altri fabbricati del villaggio appaiono
poveri e male in aese.

Cuore
della vita economica e sociale della comunità è un ampio piazzale
rettangolare, i cui lati sono delimitati da due casette bianche, sedi
dell’ambulatorio medico e laboratorio di taglio e cucito, da un grande
padiglione a cupola, dove sono raccolti una trentina di agenti di salute
per un corso di aggioamento, e da due file ben allineate e ad angolo
retto di capanne e tettornie, destinate a mercati e fiere nel periodo
estivo.

In
disparte, la vecchia chiesetta, distinta a mala pena da una crocetta di
legno, pendolante dal culmine del tetto. Neppure l’antistante casa dei
padri dà nell’occhio: tre stanzette basse e scure, con mobilia ridotta
all’osso. Unica comodità modea è un paio di pannelli solari che
alimentano le fioche lampadine dell’abitazione e della chiesa.


Disposizione e caratteristiche degli edifici sono significative: la chiesa
riveste un ruolo di presenza, sostegno e accompagnamento del cammino di
liberazione delle popolazioni indigene. Ma protagoniste sono le comunità,
che hanno preso in mano le redini del proprio futuro.

Il cammino
è stato lungo e faticoso ed è ancora tutto in salita. È iniziato alla fine
degli anni ’60, nella maloca di Raposa, nella zona della savana, quando i
missionari della Consolata si schierarono con un capo makuxí, Gabriel
Viriato, nella difesa della sua terra dalle invasioni dei bianchi. Una
vittoria che diede una svolta all’impostazione del lavoro missionario tra
gli indigeni della diocesi di Roraima.

Uno degli
animatori di tale cambiamento è padre Dal Ben, che nella regione di Raposa
fece le prime esperienze e lanciò varie iniziative a favore degli indios;
e quando si trasferì a Maturuca, questa divenne il centro della
liberazione di tutte le popolazioni indigene della riserva Raposa Serra do
Sol: macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang. Qui fu ideata,
discussa e avviata la famosa campagna «una mucca per l’indio»: nel 1979
avvenne la prima consegna di bestiame alla maloca di Maturuca; l’anno dopo
a quelle di Enseada e Petra Branca e negli anni seguenti il progetto fu
esteso a tutte le comunità che ne fecero richista.

Con tale
progetto gli indigeni riuscirono a bloccare l’avanzata dei bianchi nel
loro territorio; con la campagna per la demarcazione della riserva Raposa
Serra do Sol, sempre partita da Maturuca, essi cominciarono a recuperare
le terre perdute.

LOTTA ALL’ALCOOLISMO

«Non siete
troppo coinvolti nel sociale?» domando con una punta di provocazione. «Il
lavoro impostato dalla missione di Maturuca nella regione delle montagne –
comincia padre Mena, serio e composto come non lo avevo mai visto – si
basa sul progetto di Dio, come appare dalle prime righe della bibbia:
“Creati a immagine di Dio”, da cui derivano rispetto, dignità e valore
della propria e altra persona; “crescere e moltiplicarsi”, cioè
organizzazione familiare e comunitaria; “occupare e dominare la terra”,
cioè lavoro e responsabilità individuale e collettiva. Sono i tre pilastri
della nostra attività missionaria, basati sul confronto con la parola di
Dio».

Una delle
prime decisioni prese a Maturuca fu la lotta all’alcornolismo. «Era l’inizio
del 1977 – racconta il maestro indigeno Elias -. Riflettendo sulla parola
di Dio, i nostri tuxauas presero coscienza della necessità di liberarsi
dalla schiavitù dell’ubriachezza, che distrugge l’essere di Dio che è in
noi, oltre a minacciare l’estensione fisica di individui e comunità».
Iniziò così la lotta alla cachaça, una grappa estratta dalla canna da
zucchero e venduta dai bianchi, e al caxirí e pajuarú, micidiali bevande
alcornoliche fatte in casa con la fermentazione della farina di manioca.
L’impegno fu accolto da tutti i tuxauas della riserva indigena
nell’assemblea tenuta lo stesso anno a Surumú.

Nonostante
la buona volontà, non è facile sbarazzarsi delle cattive abitudini
assimilate da oltre mezzo secolo di invasioni, oppressioni, frustrazioni e
abusi provocati dai fazendeiros. Il discorso fu ripreso nel natale 1993:
durante i 15 giorni di riflessione sul primo capitolo della bibbia, i
catechisti di Maturuca si presentarono in chiesa e dissero alla comunità:
«Noi abbiamo deciso di non bere più bevande alcornoliche e vogliamo che
tutta la comunità faccia altrettanto».

Era una
decisione drastica, coraggiosa, quasi una violenza psicologica e
culturale. «È vero che caxirí e pajuarú ci sono stati tramandati dai
nostri antichi – continuarono i catechisti -, ma noi ne abusiamo, fino a
commettere dei crimini. Non dobbiamo più né berle né produrle». Dopo tre
giorni di discussioni e contorsioni, metà della comunità accettò tale
decisione.

«Fu un
grande passo verso la liberazione – racconta Jaime, cornordinatore dei
catechisti di Maturuca -. In un incontro a livello diocesano abbiamo
proposto la nostra scelta ai catechisti di altre parrocchie. La reazione
fu durissima; siamo tornati a casa con la coda tra le gambe. Più positiva,
invece, è stata la risposta delle comunità di Maturuca che, dopo lunghe e
snervanti discussioni, hanno accolto tutte il nostro motto: no alle
bevande alcornoliche, sì all’organizzazione comunitaria».

«Se siano
stati sempre fedeli, non lo posso giurare – aggiunge padre Giacomo,
riprendendo il suo sorriso soione -. Ma il cambiamento è avvenuto,
specialmente negli ultimi anni. La gente ha preso coscienza che l’alcornol
distrugge la vita comunitaria; ha pure constatato che si ammala di meno,
ha più energia per lavorare e più cibo per la famiglia».

LOTTA ALLA DIPENDENZA

Per
recuperare la propria dignità, l’immagine e somiglianza di Dio, è
necessario avere una buona alimentazione, che si ottiene lavorando e
producendo con le proprie mani. Madre natura è particolarmente prodiga in
questa regione: fiumi, ruscelli e sorgenti dappertutto, foreste e
praterie, terreno per allevamenti, orti, frutteti, piantagioni.

Inoltre,
con la demarcazione di Raposa Serra do Sol, quasi tutto il territorio
indigeno è ritornato nelle mani delle varie etnie. Ora la gente è libera
di stabilirsi dove vuole, con l’autorizzazione dei capi villaggi,
naturalmente, poiché la terra, secondo la cultura india, appartiene alla
comunità. Ma bisogna farla rendere.

«Il lavoro
– continua il padre – risolve un’altra piaga secolare degli indios: la
dipendenza dal bianco». Anche oggi, con la cosiddetta «cesta basica»,
pacco di alimenti, vari politici corrompono e manipolano a piacere alcuni
gruppi indigeni rimasti fuori dal processo di liberazione, fino a far dire
loro quello che vogliono contro la chiesa e quelle organizzazioni indigene
schierate contro la politica ufficiale.

Per
sciogliere il legame della dipendenza, padre Mena vuole introdurre nella
regione delle montagne le cornoperative o botteghe di generi di prima
necessità. L’iniziativa non è nuova; già negli anni ’70 padre Giorgio
l’aveva lanciata con otto comunità della zona di Raposa e ripetuta a
Maturuca; ma è stato un fallimento: la gente comprava la merce a credito e
finiva per non pagare più. Da una decina di anni non ne esistono più e gli
indios continuano a dipendere dai bianchi, fazendeiros e commercianti
delle vilas.

Altro
sogno di padre Mena è recuperare i vecchi crediti delle cornoperative
fallite. Un’operazione del genere è riuscita con le donne della scuola di
taglio e cucito: con il capitale recuperato sono stati aperti altri
laboratori di cucito in varie malocas che hanno chiesto e sottoscritto le
regole del gioco. «Anche questo è un modo di aiutare la gente a recuperare
dignità, libertà, indipendenza e responsabilità comunitaria. Storia e
cultura li hanno abituati a vivere alla giornata. Ma hanno cominciato a
pensare al futuro: calcolare spese, costi di produzione e guadagni,
risparmiare e capitalizzare per ulteriore sviluppo, prevedere manutenzione
e riparazioni».

Lo stesso
senso di responsabilità è richiesto nei progetti di allevamento del
bestiame. Quando in un villaggio la mandria assegnata non aumenta o
addirittura diminuisce, gli animali vengono ritirati consegnati ad
un’altra comunità, che s’impegna a «recuperare il progetto», cioè
riportarlo il più presto possibile al numero originario: 50 mucche e due
tori. Recuperato il bestiame, la comunità può chiedere di continuare o
passarlo a un’altra maloca.

LA FORZA DELLA COMUNITÀ

E tutto
avviene attraverso l’organizzazione comunitaria. Il missionario ispira e
sostiene le iniziative; ma le decisioni vengono prese e realizzate
comunitariamente. È tutta la comunità che deve chiedere e sottoscrivere la
responsabilità dei progetti del bestiame o della scuola di cucito; sono
gli indigeni che gestiscono i vari progetti, assegnano o ritirano il
bestiame, controllano se le regole vengono applicate e comminano eventuali
sanzioni. È tutta la comunità che si impegna a evitare le bevande
alcornoliche.

Fuori
della comunità, l’indio è perduto; non ha forza per resistere da solo.
Basta che uno si ubriachi e tutta la maloca lo segue.

La
dimensione comunitaria permea tutta la vita, compresa naturalmente quella
religiosa. Ogni domenica la gente si raduna per pregare insieme e,
riflettendo sulla parola di Dio, esamina e discute i problemi di ogni
giorno, per concludere con un impegno concreto, che coinvolge tutti e di
cui rendere conto la domenica seguente.

Battesimi,
matrimoni e altri sacramenti sono eventi importanti per tutta la comunità.
Vi partecipano tutti e intervengono con discorsi, consigli, esortazioni,
interpretazioni, gesti simbolici: come lanciare nell’acqua sassi o
pezzetti di legno, per indicare che si gettano via i peccati, perché
l’acqua se li porti via.

«Nel rito
del battesimo – spiega padre Mena – la rinuncia a Satana e alle sue
seduzioni e la professione di fede si traducono in impegni concreti e
comunitari: no alle bevande alcornoliche e ubriachezza; sì al rispetto della
persona, al lavoro e aiuto reciproco; fedeltà nei doveri comunitari e
nell’impegno missionario, per comunicare agli altri la propria fede. Il
prete non ha bisogno di fare tante prediche; ci pensano i genitori, capi,
animatori, catechisti a dare consigli, fare raccomandazioni ai
battezzandi, ed esortare gli adulti a dare il buon esempio».

In questo
processo di crescita nello spirito e impegno comunitari anche i missionari
e loro ospiti sono chiamati a dare il buon esempio. Posso giurare che nei
giorni passati nella riserva indigena non ho visto neppure una birretta.

box 1


Glossario

box 2


Con il fiato
sospeso

i fatti
degli ultimi mesi

Novembre
2000 – Ruspe dell’esercito raggiungono Uiramutã e cominciano a spianare il
terreno per la caserma: una collinetta accanto alle case macuxí, separata
da esse solo dalla strada verso il villaggio. Avvalendosi dei militari, il
prefetto Venceslau Braz fa spianare un altro luogo nel villaggio, per
costruire un campo di calcio. Gli indios ne impediscono l’uso.

Dicembre
2000 – Orlando Pereira, leader di Uiramutã, e Jacir De Souza, cornordinatore
indigeno della regione delle montagne, a nome delle comunità, richiedono
alla giustizia di proibire la costruzione della caserma.

3 gennaio
2001 – Il giudice federale di Roraima, Helder Girão Barreto, dà parere
favorevole alla sospensione dei lavori. Il giudice considera infondata
l’argomentazione che l’opera è necessaria per la sovranità nazionale,
ricordando che la sovranità («concetto antico e abusato») non è
compromessa in alcun modo con la demarcazione delle terre indigene.
Secondo Girão, la vicinanza della caserma metterebbe a rischio
l’organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni dei
popoli indigeni, «in netto contrasto con l’articolo 231 della
Costituzione».

18 gennaio
2001 – Il generale Claudimar N. Magalhães, comandante della prima brigata
della selva, reagisce alla sentenza del giudice federale: organizza in
loco una visita di autorità per ascoltare le parti coinvolte, cercare
l’appoggio degli indios e dimostrare l’inesistenza di un conflitto con
loro. I capi, legati al Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e la
Fondazione nazionale per l’indio (Funai) non sono invitati. Gli unici
indios presenti sono quelli che appoggiano la suddivisione delle terre da
parte del governo.

26 gennaio
2001 – Capi macuxí organizzano a Uiramutã un incontro con le autorità
statali e federali per discutere dove costruire la caserma. I militari non
vi partecipano, perché «tutto è già stato verificato il giorno 18 e
nient’altro può più essere fatto».

31 gennaio
2001 – Il giudice Feando T. Neto, presidente del tribunale regionale
federale della prima regione di Brasilia, accoglie la richiesta
dell’Avvocatura generale dell’unione contro la sentenza di sospensione dei
lavori. I militari possono ricominciare a ricostruire la caserma.
L’Avvocatura sostiene il leader Pereira e il cornordinatore De Souza non
avevano legittimità nella loro iniziativa, non avendo dimostrato di
appartenere al villaggio. Ma la contestazione è infondata, perché si basa
solo sulle carte d’identità rilasciate a Boa Vista e non considera il
riconoscimento della Funai, secondo la quale i due sono registrati come
dirigenti della comunità e della regione.

5 febbraio
2001 – Neto ritorna sui suoi passi e sospende la decisione del 31 gennaio.
Il giudice decreta che «l’esercito brasiliano e la comunità indigena,
entro 15 giorni, si riuniscano per trovare un’area che sia strategicamente
favorevole alla vigilanza dell’esercito, ma che non sia nel villaggio
degli indios, restando ad una distanza che non comprometta questi ultimi».
La decisione è presa in seguito al ricorso di Deborah Duprat, procuratrice
del Ministero pubblico federale di Brasilia.

5-8
febbraio 2001 – Circa 400 capi di varie etnie si riuniscono a Pium (Roraima)
per la loro XXX Assemblea generale annuale: inviano un documento al
presidente della Repubblica, ai ministri di Giustizia, Ambiente e Difesa,
al presidente della Funai e ai procuratori del Ministero pubblico
federale, chiedendo che i loro diritti, riconosciuti dalla Costituzione,
siano rispettati: soprattutto la omologazione immediata delle terre;
specie Raposa Serra do Sol, minacciata dall’invasione dei risicoltori, dal
Parco nazionale del Monte Roraima e dal municipio di Uiramutã. Inoltre il
documento si appella affinché non siano costruite nuove basi militari fra
i yanomami. Ve ne sono già tre (Awauris, Surucucus e Maturacá) e una
quarta è prevista a Ericó. Pure a Raposa Serra do Sol vi sono due basi
militari.

15
febbraio 2001 – L’Avvocatura annuncia alla stampa che si appellerà contro
Neto, presidente del Tribunale regionale federale della prima regione, che
impedisce a Uiramutã la costruzione della caserma del sesto battaglione di
frontiera a Raposa Serra do Sol (Folha de São Paulo 15/02/2001).

21
febbraio 2001 – Autorità giudiziarie, militari e politiche visitano
Uiramutã su invito del Comando militare dell’Amazzonia, quando già è
scaduto il tempo, stabil

Benedetto Bellesi Carlo Miglietta




PAKISTAN: il paese islamico è retto da una giunta militare. I FRAGILI EQUILIBRI DI ISLAMABAD

Sorto
soltanto nel 1947, il paese asiatico ha già una lunga storia di conflitti
(interni ed estei), colpi di stato, dittature. La presenza di gruppi
fondamentalisti provoca frequenti scontri tra musulmani sunniti e
minoranza sciita. Ancora peggio stanno i cristiani, privi di tutele,
spesso accusati di blasfemia, reato punibile con la morte. Mentre, a causa
della contesa sul Kashmir, sono sempre molto tese le relazioni con
l’India, esasperate da una folle corsa alla bomba nucleare.

Sembrano
comparse di un film biblico, capitate tutte insieme su questo aereo un po’
macilento. Alcuni hanno un fagotto o un telo ripiegato sulla spalla e
sembrano i pastori del presepe. Uniche donne,  due madri velate di nero e
circondate da uno stuolo di marmocchi. Siamo appena atterrati
all’aeroporto di Karachi e, in attesa di scendere, si sono alzati in piedi
e ora mi scrutano con i loro occhi neri e brillanti. Il naso grande e
aguzzo  sembra un punto interrogativo.

Domani
inizia Eid ul Azhad, la festa islamica che commemora la decisione di
Abramo di sacrificare il figlio Isacco. L’aeroporto è pieno di pakistani
emigrati per lavoro, che tornano in famiglia per qualche giorno. La folla
spinge e strattona senza riguardo, spingendo i carrelli stracolmi di
scatoloni e grossi involti legati con lo spago. Un primo assaggio per noi
della violenza che caratterizza questo paese. Eppure il volo era iniziato
con l’esortazione: Allah uh Akbar, gridato per tre volte, seguito da altre
suppliche incomprensibili. Forse una preghiera. Alla fine ho inteso la
parola fatale: Inshallah! E siamo partiti.

LA DOTE E LE NOZZE COMBINATE

A Karachi
oggi le strade sono tranquille. Passano bus colorati, decorati da pitture
stravaganti con visi di donne e paesaggi montani, coi bigliettai che si
sporgono a chiamare i clienti. Passano «Ape» e camioncini che trasportano
mucche e pecore agghindate di corone di fiori e lustrini, pronte per il
sacrificio. C’è chi sta lavando accuratamente un agnello, chi sta dando
alle bestie l’erba fresca. Ameer mi accompagna in questi primi giorni
pakistani e mi spiega come intende questa festa.

Due
settimane fa ha comprato una capretta: «Le mie figlie devono affezionarsi
all’animale, prima che venga sacrificato. Le cai verranno poi
distribuite ai poveri. Noi non faremo il barbecue, come la maggior parte
dei pakistani. Dopo aver curato e nutrito la capretta per 15 giorni, le
bambine oggi piangeranno, quando arriverà il macellaio a sgozzarla. Questo
è il vero senso del sacrificio».


Rabbrividisco. Comincia così la mia esperienza in Pakistan, che mi porterà
a conoscere aspetti sconcertanti di quello che è un paese confessionale
islamico, fondato nel 1947, dopo la drammatica divisione dall’India.

Quando
esco nelle vie, pare che sia tutto finito: il sangue ha formato pozze
scure nei vicoli, mentre sui marciapiedi si lavora a tagliare in piccoli
pezzi le bestie sacrificate.   Ameer è andato presto in moschea, per la
preghiera, mentre le donne erano a casa a preparare il pranzo. La famiglia
di Ameer, originaria del Rajastan, è di fede islamica da molte
generazioni. I suoi antenati, di stirpe Rajput, si convertirono dall’induismo
seguendo gli insegnamenti dei mistici sufi missionari, provenienti dalla
Persia. Nel ’47 il padre di Ameer scelse di trasferirsi qui. Lasciò tutto
e prese il treno per Lahore, dove trovò condizioni di vita molto
difficili.

«I primi
anni vivevo in una stamberga con altri profughi. Poi mi sposai ed ebbi 10
figli». Munawar è un signore alto e magro, dalla pelle scura e segnata
dall’età, che parla bene l’inglese: «Allora a Karachi c’erano anche i
tram. Tutto funzionava bene, gli uffici pubblici e i trasporti. Oggi
abbiamo solo vecchi pullman privati, che cercano di attirare clienti con
le decorazioni fantasiose. Anche le scuole sono private; quelle pubbliche
non bastano, sono sporche e di basso livello». Parliamo anche del
terrorismo, finanziato dall’India, della guerra senza fine nel Kashmir e
delle armi che arrivano dall’estero.

Padre e
figlio hanno passato molti anni all’estero, anche in Giappone, lavorando
in ristoranti e caffè. Ora hanno una bella casetta e vivono tutti insieme,
nonno, figli e uno stuolo di nipoti. Il pomeriggio lo passeremo da loro,
stretti nel salottino coperto di tappeti, a sorseggiare il tè cremoso al
latte, mentre nel vicolo si sta asciugando la pozza di sangue della bestia
uccisa.

Parliamo
del matrimonio. Ameer ha visto la sposa solo il giorno delle nozze, che
erano state combinate dalle famiglie. «Credo sia meglio così. Sono molto
felice con mia moglie: i genitori sanno quello che è giusto per i figli».
In Pakistan convivono tradizioni islamiche con altre tipiche dell’induismo,
difficili da eliminare: come la dote per le figlie femmine, un peso grave
per la famiglia, che non è prevista nell’islam.

Toerò in
albergo passando dalla via principale, che prende nome dal padre della
patria, quel Jinna che morì di tubercolosi l’anno dopo aver visto
realizzare il suo sogno di un paese islamico libero e indipendente. Sulla
banchina spartitraffico, alla luce del tramonto, un uomo è ancora intento
a preparare la carne, tagliandola minuziosamente, dopo aver fatto a pezzi
la carcassa.

LA BLASFEMIA

«Amiamo
molto la musica e le canzoni napoletane». Conosco Julie e Austen a un
concerto: stasera suona un bravo sassofonista, accompagnato da un
pianista. Scopro che sono tutti originari di Goa.  «Mio padre era medico a
Bombay – mi dice Austen -. Prima della II guerra mondiale si era
trasferito a Karachi, come molti commercianti e professionisti indiani».
La moglie, che veste una camicia e una gonna all’occidentale, aggiunge:
«Siamo cristiani e viviamo in un paese islamico per il 97%, ma non abbiamo
problemi. Nelle campagne del Punjab, presso Multan, sappiamo invece
esserci situazioni molto gravi. I cristiani sono sovente ingiustamente
accusati di blasfemia, soltanto come pretesto per poter togliere loro la
terra». La legge islamica vigente nel paese  prevede la condanna a morte
per questo reato. Basta la testimonianza di 4 musulmani. La parola del
cristiano non conta.

GLI
SCHIAVI DEI GRANDI LATIFONDISTI

Moemjo
Daro è forse la più antica città del mondo. Certamente quella più
sorprendente, per le soluzioni urbanistiche. Edifici di mattoni disposti a
scacchiera e dotati di canalizzazioni per la raccolta delle acque,
palazzi, templi e bagni, tutto dominato dal gigantesco stupa (monumento)
buddista. Dopo 4.500 anni, solo ora il sito corre il rischio di
sbriciolarsi a causa dell’umidità e del sale.

Il
Pakistan ha sete d’acqua e le dighe costruite sull’Indo hanno innalzato la
falda freatica. Il grande fiume, che un tempo passava qui vicino, pare un
rigagnolo ormai, dopo tre anni di siccità. Attraversiamo Larkana, la città
feudo della famiglia Bhutto, con il suo mercato vivace. Si sta
festeggiando un matrimonio e lo sposo si esibisce con una decorazione
vistosa sul petto: un ventaglio di banconote che sembra porti fortuna agli
sposi. C’è chi non ha casa e vive ai margini, sotto ripari di fortuna, nel
centro cittadino, in mezzo ai rifiuti. La carne del sacrificio si sta
seccando, appesa ai fili, tra una tenda e l’altra.

In questa
regione, il Sind, i viaggi non sono sicuri. Ci sono i ribelli, i banditi
che negli anni passati hanno anche rapito alcuni stranieri. «Qui ci sono
ancora gli schiavi» mi sorprende Ameer. «I servi della gleba – continua –
ci sono sempre stati e il regime feudale è ben radicato, in questa zona. I
loro figli faranno la stessa vita, dato che ben pochi di loro possono
andare a scuola e avere la speranza di migliorare. Legati al lavoro dei
campi da generazioni, ricevono dal padrone un poco di cibo per
sopravvivere».


Naturalmente i grandi latifondisti non abitano qui, ma a Karachi, Londra o
nei paesi del Golfo Persico. Ameer aggiunge che ci sono anche i forzati,
prigionieri condannati per crimini comuni, che lavorano in campagna e la
sera rientrano in prigione.

LE
PREOCCUPAZIONI DEL VESCOVO

Polvere,
caldo, mendicanti e tombe. Così si presenta Multan, una città famosa sin
dal medioevo come centro spirituale islamico. Con due milioni e mezzo di
abitanti, ai margini del deserto del Cholistan, è ricca di mausolei dove
riposano i santi mistici dell’islam, tuttora meta di pellegrinaggi.

Siamo nel
Punjab, la regione più fertile del Pakistan, irrigata dai canali e dagli
affluenti dell’Indo. Numerose sono le foaci di mattoni, dove il lavoro è
svolto tutto manualmente, con l’aiuto di muli. Le strade sono percorse dai
carri trainati da buoi e nei fossi asciutti le bufale cercano un po’ di
umidità. Lembi di campagna penetrano anche nel centro storico di questa
città estesissima. Non lontano dall’animato bazar vedo un uomo che munge
una bufala e bambine che preparano le mattonelle di letame da seccare sui
muri. Dopo tre anni di siccità, ora scarseggia anche l’energia elettrica e
in tutto il paese i black out sono la regola.

Oggi è
domenica e la sera vado alla ricerca di una chiesa, nel cantonement, il
verde quartiere coloniale. So che c’è una piccola comunità cattolica, ma è
difficile trovare il complesso del vescovado, nelle strade buie.
Finalmente una croce, un portone che si apre su un vasto piazzale con la
grotta di Lourdes e la Madonna illuminata. Incontro subito il padre
Domenico, una persona aperta, comunicativa, che parla bene l’italiano. Ha
studiato a Roma e ora lavora sul territorio della diocesi , che è la più
povera del paese e ha tanti problemi. Deve essere lui il braccio destro
del vescovo Andrew Francis, che mi accoglie nel suo studio. Purtroppo
abbiamo poco tempo per parlare e domani devo partire. Il vescovo è
contrariato. Ha rinunciato ad un impegno, per potermi parlare, ma ora
insiste: «Devi restare alcuni giorni con noi, per poter testimoniare della
situazione. Voi in Europa dovete sapere i drammi che stiamo vivendo».

Allora mi
scrive un nome, Class (**) e un numero di telefono. Quando sarò a Lahore,
forse avrò tempo per documentarmi.

CRISTIANI SENZA PROTEZIONE

Eiga,
giovane collaboratrice di Class, mi dà le prime notizie sull’attività del
centro. Poi mi accompagna in ufficio, al primo piano di un edificio
anonimo nel centro di Lahore. Mr. Joseph Francis dirige l’associazione,
che si occupa di assistenza legale e accoglienza di donne e bambine che
hanno subìto soprusi e violenze. «La giustizia non esiste, in questo
paese. Con il denaro si mette tutto a tacere».

Mr.
Francis mi spiega che gli aiuti per il centro vengono dall’unione delle
chiese cristiane di Ginevra e dagli Usa. Poi mi presenta una delle giovani
donne che sta ricevendo aiuto. Una ragazza di campagna dal viso
spaventato. Anche lei vittima di violenza, perché cristiana, quindi donna
senza valore e non credibile. Qui i cristiani appartengono ai ceti più
poveri. La conversione avvenne durante i secoli, per opera dei missionari
in India, che riuscivano a convertire i «fuori casta», gli intoccabili,
che trovavano dignità e senso di comunità nella chiesa cristiana.

Nel
dossier che mi viene presentato vedo un articolo del Times. Leggendo le
testimonianze raccolte e pubblicate,  mi rendo conto che la situazione è
veramente tragica.

Nel Punjab,
dove vive la grande maggioranza dei cristiani, la comunità cristiana e
quella islamica sono sempre vissute una accanto all’altra in perfetto
accordo. Solo da alcuni anni  si manifesta un aumento di risentimento,
intolleranza e violenza. Posso solo fare un’ipotesi sulle cause: la
miseria senza speranza che coinvolge ambedue le comunità, e l’ignoranza. I
casi di violenze sono seguiti da persecuzioni che arrivano alla
distruzione di case e chiese delle piccole comunità contadine. I
capifamiglia vengono imprigionati, sottoposti a tortura e accusati di
crimini mai commessi.

Nel maggio
1998 fece scalpore il vescovo di Faisalabad, mons. John Joseph: non
riuscendo ad aiutare uno di questi disgraziati, si suicidò davanti al
tribunale. La sua fu una tragica denuncia contro il regime, che discrimina
i non-musulmani. Nonostante le lettere di protesta spedite al primo
ministro e al Vaticano, il giorno dopo un altro cristiano venne condannato
a morte.

Eppure,
quando il padre della patria Jinnah dichiarò solennemente la formazione
del nuovo stato,   disse: «Potete appartenere a qualsiasi credo, casta o
religione. Potete andare alla moschea o in altro luogo a pregare. Non ci
sarà discriminazione tra le diverse comunità». Oggi invece siamo in piena
crisi. La legge sulla blasfemia è recente. Nel 1986, durante una
conferenza, l’avv. Asma Jehangir, musulmana impegnata in progetti di
riforma, descrisse l’islam come una religione senza icone, nella quale i
credenti hanno un rapporto diretto con Dio. Chiunque, disse, trova la fede
come fece il profeta, nonostante la sua mancanza di educazione.

I mullah
più conservatori si risentirono e l’accusarono di blasfemia, per aver
insultato Maometto, definendolo illetterato. Si mobilitarono affinché il
parlamento modificasse una sezione del codice penale, introdotto dagli
inglesi nel 1860. Nel 1992 si arrivò ad approvare una legge, secondo la
quale «chiunque, con parole o scritti, insinuazioni o reticenze,
direttamente o indirettamente, sminuisce il nome del profeta Maometto,
sarà punito con la pena capitale». Quattro mesi dopo il primo cristiano
veniva condannato a morte.

I
PROFUGHI AFGHANI DI PESHAWAR

La strada
che sale al passo Khyber è sotto di noi, un nastro sinuoso d’asfalto tra
le montagne aride. Prima di partire da Peshawar ho dovuto chiedere il
visto alla polizia tribale della città, che ha giurisdizione nella zona
del passo, a statuto speciale.

Tutti sono
passati di qua. Dai persiani achemenidi ad Alessandro, dal cristianesimo
all’islam, ai mongoli e infine gli inglesi. Anche oggi il traffico
continua. Passano camion, carichi di farina per l’Afghanistan affamato, e
altri mezzi nella direzione opposta, con merce di contrabbando. Le case
sulle pendici dei monti, da entrambi i lati del confine, sono piene di
attività. Si fabbrica di tutto, ma specialmente armi. Siamo fermi in una
curva a tornante, dove due bambini sui 10 anni aspettano con un secchio di
latta. Vi hanno messo qualche vite e bullone di recupero, da vendere ai
camionisti di passaggio. Sono profughi afghani e parlano solo pathan, la
lingua delle tribù che abitano queste montagne.

Anche Khan
è un pathan, ma ha studiato all’università di Peshawar, parla bene
l’inglese e mi può aiutare a capire. La scuola è giù nel villaggio:
profughi e ragazzini ci andranno nel tuo di pomeriggio, per due ore.
«Gli afghani sono persone meravigliose, ospitali e gentili – mi assicura
Khan -; il loro è un paese stupendo. I profughi qui si danno molto da
fare. Sopravvivono senza alcun aiuto, accettando tutti i lavori più duri».

In
effetti, ho visto a Peshawar il vecchio accampamento dei profughi, che
negli anni si è trasformato in un villaggio di casette di fango, costruite
secondo la tradizione. Alcuni, tra gli afghani più furbi, trafficano con
la merce di contrabbando che continua ad entrare nel paese. Roba che viene
anche dal Giappone, dall’Italia o dall’America, che riempie il mercato
«dei ladri» di Peshawar. Sbarca a Karachi e non fa dogana, passando subito
la frontiera a Quetta. Poi rientra nel paese dal passo Khyber.
L’Afghanistan è un paese allo sbando, porto franco, e come sempre in
questi casi, c’è chi  fa molti soldi.

Come il
proprietario della villa che abbiamo visto sulla strada per il Khyber: un
grande parco chiuso da muro di cinta alto con le guardie al cancello. Un
signore della droga che è stato in galera negli USA per tre mesi, ma si è
poi comprato la libertà. Uno che ha offerto al governo la stessa cifra che
il Pakistan riceveva dalla Banca mondiale, per avere le mani libere nei
suoi loschi traffici.

LA
VALLE DELLO SWAT: VERDE, «STUPA» E POVERTÀ

La mattina
il cielo era scuro. Saliamo verso Bahrain e una lama di luce rischiara il
greto secco dello Swat. Uomini e muli stanno lavorando: trasportano sabbia
e sassi del fiume e le loro figure silenziose riempiono il paesaggio. Vedo
che sui monti più lontani è caduta la neve, nella notte. Saliamo, e i
villaggi umidi incollati alle pareti ripide hanno i camini che fumano.

Fa freddo,
per noi che veniamo dal calore del Punjab. Le cime che ci circondano
superano i 6.000 metri. Le case di Bahrain sono addossate le une alle
altre, piccoli cubicoli di legno e fango, scuri e fumosi. La moschea
vecchia ha perso le decorazioni e il portale di legno scolpito, sostituiti
da infissi nuovi, che stonano con il complesso antico. Forse sono stati
venduti ad antiquari stranieri. La gente è calorosa, gentile. Piove e,
dopo qualche incertezza, siamo invitati ad entrare. La povertà della gente
e delle case è impressionante. Questa località è meta di vacanze estive
per i ricchi pakistani di Lahore e Islamabad. Ma la gente vive in
condizioni terribili.

Lo Swat
potrebbe essere un piccolo paradiso, come forse era ai tempi di Alessandro
Magno. Pare che i soldati del grande condottiero si siano fermati qui,
sulla via del ritorno. La prova sarebbero i capelli biondi e gli occhi
chiari di alcuni tra gli abitanti, poverissimi, della valle.

Da qui si
diffuse il buddismo, grazie ad Ashoka, l’imperatore maurya. Qui fiorì
l’arte gandhara e per la prima volta il Budda venne rappresentato in forma
umana, con un sorprendente profilo greco e lineamenti occidentali. Il
regno dei Kushana (1° sec. a.C.) rappresentò un periodo di grande
prosperità e pace, mai più raggiunto. Centinaia di stupa, molti in rovina,
punteggiano la valle, mentre le statue e i rilievi salvati dalle ruberie
riempiono i musei pakistani.

LA
BOMBA ATOMICAE L’INGENUITÀ DEI POVERI

Uno dei
più belli è lo stupa di Shingardhar, che fu costruito in memoria di un
elefante. La leggenda dice che, all’epoca del grande imperatore Ashoka (3°
sec a.C.) qui sostò un principe. Ritornava da un lungo viaggio intrapreso
per portare nella valle dello Swat una reliquia del Budda. Il suo elefante
si ammalò, morì e fu seppellito qui, dove venne poi eretto il grande
stupa.

La casa di
Gulbar si trova accanto al monumento. La moglie e i suoi figli ci
accolgono tra le mura di fango secco. Tutto è lindo e ordinato, nella
povertà. Ci sono le nicchie per le stoviglie e il foo, ma non c’è una
porta. La casa si apre sul cortile che confina con l’antico stupa.  Marwan
è il figlio maggiore, conosce qualche parola di inglese e mi chiede subito
di portarlo in Italia. Con il passaggio di visitatori stranieri, ormai
Marwan ha capito che il mondo non finisce nella valle dello Swat. Una
valle protetta da un passo, il Malakand, che ferma il calore e l’aridità
del Punjab. Una conca verdissima che non soffre la siccità come il resto
del Pakistan. Qui si coltiva di tutto, e tutti potrebbero stare bene, se
non ci fosse miseria e ignoranza.

Le
priorità del governo, oggi, dovrebbero essere educazione e sicurezza. Ma
fino a 2-3 anni fa non se ne parlava nemmeno, di scuole. Gli ospedali
mancano di tutto, e se si vuole essere curati si deve pagare. Il bilancio
delle spese dello stato favorisce, per primi, esercito e armamenti.

Ho visto
uno strano monumento, presente nelle piazze di tutte le città pakistane.
Una montagna in scala ridotta, la copia di un monte del Beluchistan,
diventata famosa nel maggio del 1998, quando è stata fatta scoppiare la
prima bomba nucleare. I pakistani ne sono orgogliosi e questo fa
dimenticare tutto ciò che a loro manca.

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PAKISTAN


 Superficie:  kmq 796.100
   Abitanti:  134,5 milioni
   Capitale:  Islamabad
   Lingua:  urdu (ufficiale), punjabi, singhi, pashto, baluchi,
inglese
   Gruppi etnici:  punjabi (48%), pashtu, sindi, saraiki, urdu
   Religione:  musulmani (95%, in maggioranza sunniti), cristiani
(2%), indù (1,5%)

Forma di
governo:  repubblica islamica a guida militare; il Pakistan è una potenza
nucleare (la prima del mondo islamico e, oggi, la prima retta da militari)


Presidente:  generale Pervez Musharraf, dal 12 ottobre 1999, in seguito a
un colpo di stato che ha spodestato il presidente eletto, Nawaz Sharif; la
Corte suprema ha dato alla giunta militare un tempo limite di 3 anni,
scaduto il quale dovrebbero tenersi le elezioni generali

Risorse
economiche:  l’economia si basa sull’agricoltura (riso, frumento, canna da
zucchero, mais, patate) e l’allevamento (ovini, caprini, bufali); il paese
è un grande produttore di cotone, che alimenta l’industria tessile e le
esportazioni

Problemi
interni:  periodicamente, si verificano violenze tra sunniti e sciiti in
varie città del paese; il Pakistan intrattiene relazioni con l’Afghanistan
dei talebani, i quali sono arrivati al potere con l’indispensabile aiuto
di Islamabad; sempre grave la tensione con l’India per la regione del
Kashmir

Claudia Caramanti




RUSSIA: l’esercito dei senzatetto (2). E’ FREDDA LA NOTTE DI MOSCA

In
prossimità delle feste, a Mosca e Pietroburgo i barboni che bivaccano
nelle vie del centro vengono caricati su camion e portati fuori città.
Perché i russi «normali» trascorrano le festività in pace… In
alternativa a questa soluzione, i senzatetto sono rinchiusi per qualche
settimana in «centri di raccolta». Oggi come ieri lo stato non si occupa
dei «bomzh», se non in modo punitivo. Per fortuna, «Medici senza
frontiere», «Caritas» e altre organizzazioni di volontariato fanno il
possibile per alleviare l’esistenza di chi è caduto nel baratro.

All’inizio
del secolo scorso i senzatetto erano circa 150.000 in tutto il paese e
potevano contare su diverse forme d’assistenza, attuate sia dallo stato e
dalla chiesa sia da organizzazioni benefiche private. A Mosca esistevano
diversi ospedali per i poveri, tra cui il famoso istituto Sklifosovskij.
Con la rivoluzione e l’instaurazione del regime sovietico, il fenomeno non
scomparve (al contrario), però non se ne ammetteva l’esistenza (in un
paese socialista non poteva esistere il disagio sociale!). Con il nuovo
codice penale del 1933, non avere una residenza e un lavoro ufficiali
divenne un reato punibile con una reclusione fino a due anni.

La fine
del regime sovietico ha fatto riaffiorare quelle situazioni di disagio,
che per anni erano rimaste relegate nel sottosuolo.

Adesso
essere senza fissa dimora non è più un reato. Tuttavia, l’atteggiamento
dello stato verso i senzatetto non è molto cambiato rispetto ai tempi in
cui erano considerati delinquenti da isolare dalla società. Il pregiudizio
nei loro confronti, condiviso in generale dall’opinione pubblica e
alimentato dai mass media, fa sì che non ci sia da parte delle istituzioni
il tentativo di comprendere il problema e di trovarvi soluzioni adeguate.
Basti dire che, a tutt’oggi, non c’è una legge sui senzatetto, che per lo
stato in Russia non esistono persone ridotte a vivere senza una casa, ma,
tutt’al più, «individui bomzh», da cui la società si deve difendere.

Del 1992 è
un decreto presidenziale a loro riguardo, che s’intitola: «Sulle misure
per prevenire vagabondaggio e accattonaggio». Dopo quasi 10 anni, il
progetto di legge che il governo del 2001 vuole sottoporre al parlamento
s’intitola: «Sulla riabilitazione sociale degli individui che praticano
vagabondaggio e accattonaggio».

Sembra che
il tempo sia passato invano. D’altra parte, se lo stato riconoscesse
l’esistenza del problema, dovrebbe anche far qualcosa per risolverlo.
Invece, ecco cosa si legge in uno studio del ministero del Lavoro e dello
Sviluppo sociale: «Gli individui bomzh che abbiamo interrogato negli
ospedali, nei centri raccolta-smistamento, alle discariche, non desiderano
cambiare il proprio stile di vita. Sono soddisfatti della propria vita e
apertamente disprezzano e deridono le persone che lavorano».

PER FORTUNA,
CI SONO LORO


Fortunatamente, negli anni Novanta, con l’apertura all’iniziativa privata
e la caduta della cortina di ferro, hanno cominciato ad operare sul
territorio russo organizzazioni umanitarie non governative sia russe che
inteazionali, sia religiose che laiche. Tra i primi ad arrivare sono
stati i Medici senza frontiere (MSF), le suore di Madre Teresa, la Caritas.
A Pietroburgo i pionieri sono stati i fondatori dell’associazione
Nochlezhka (Il rifugio), giustamente famosa in tutto il paese.

Oltre ad
assistere materialmente i senzatetto, queste organizzazioni si sono
trovate costrette a difendee i diritti sistematicamente conculcati.

MSF,
inoltre, si è più volte scontrata con le preoccupazioni «estetiche» delle
autorità. Nel 1992 una loro unità medica cominciò ad operare nelle
stazioni di Mosca, ma nel 1993 furono fermati dall’amministrazione
ferroviaria, preoccupata della visibilità che la cosa stava assumendo.
Infatti, la possibilità di ricevere assistenza medica, altrimenti negata,
richiamava un certo numero di senzatetto. Se durante l’epidemia di
difterite scoppiata a Mosca nel 1994, che costituiva una minaccia per
tutta la popolazione, a MSF fu concesso di riprendere l’attività nelle
stazioni, nel 1998 erano in arrivo nuovi guai. In preparazione alle
Olimpiadi dei giovani, l’amministrazione di Mosca decise di ripulire la
città dai barboni e chiuse anche gli ambulatori di MSF nelle stazioni.
Rimase in funzione quello aperto nel cortile dell’ospedale per malattie
infettive. Il posto è più defilato e non dà nell’occhio.

Non si
deve pensare che Mosca venga ripulita solo in occasioni così
straordinarie, come quella di un’olimpiade internazionale. Tali operazioni
si svolgono con una certa frequenza. Tanto per cominciare, in occasione
delle feste.

LE «PULIZIE»
DELLA FESTA

Arrivata a
Mosca alla vigilia dello scorso capodanno, mi sono stupita nel trovare le
vie del centro e la metropolitana sgombre di barboni.

I miei
sospetti al riguardo hanno trovato conferma parlando con gli operatori di
MSF e della Caritas: nella ricorrenza delle feste di capodanno e Natale
(il Natale ortodosso è il 7 gennaio), la città viene sgomberata dai
poveracci, tanto che in questo periodo le organizzazioni umanitarie
registrano un sensibile calo dell’attività. «Di solito abbiamo una coda di
gente che arriva fino in cortile, ma oggi riusciamo a chiudere addirittura
prima del tempo» mi spiegava Elena della Caritas.


Ovviamente, queste operazioni di sgombero vengono attuate alla
chetichella, sebbene possa capitare che se ne venga per caso a conoscenza
attraverso i mass media. Ad esempio, all’inizio di gennaio si è saputo
dalla radio che i comuni confinanti con Mosca si erano lamentati, perché
dalla capitale camion carichi di bomzh erano stati fatti arrivare e
scaricati nelle loro periferie. Alla base di questi trasferimenti c’è un
disegno primitivo: prima che i barboni riescano a riguadagnare la capitale
passano un po’ di giorni, quanto basta perché i moscoviti trascorrano «in
santa pace» le festività. Ma non sempre questi carichi umani vengono
lasciati all’interno di centri abitati. A Pietroburgo i senzatetto,
periodicamente rastrellati nella stazione ferroviaria vengono portati nei
boschi lontano, dalla città, con tutte le conseguenze che si possono
immaginare. A nulla per il momento sono valse le proteste delle
organizzazioni umanitarie, prima fra tutte Nochlezhka.

Nel 1999,
grazie all’intervento di una Tv privata, ha avuto ampia risonanza un
episodio, che altrimenti sarebbe passato inosservato, come tanti altri
simili. Il comando di polizia di un quartiere della capitale decide di
ripulire la zona dalla presenza dei senzatetto. Raccolti e caricati su un
camion, essi vengono portati a una discarica fuori città. Tra loro si
trova anche un uomo senza le gambe. L’operazione si svolge in una fredda
sera di fine estate. Al mattino alla discarica viene trovato il cadavere
del mutilato, che non aveva potuto, come gli altri, cercare un riparo ai
rigori della notte. Qualcuno ha avvertito l’emittente televisiva NTV, che
è corsa sul posto e ha reso il caso di pubblico dominio. Ciò ha spinto la
polizia ad aprire le indagini per individuare i responsabili. Ebbene, i
responsabili sono stati trovati, i loro nomi trasmessi alla magistratura,
ma quest’ultima dopo tre mesi ha chiuso l’inchiesta come se nulla fosse.
Del caso si sta occupando ora Aleksej Nikiforov, cornordinatore del
programma d’aiuti di MSF, il quale ha ottenuto che l’inchiesta fosse
riaperta.

DIETRO LE
SBARRE

Di
professione medico, Aleksej è da tempo impegnato a difendere i diritti dei
senzatetto. «Mi rivolgo alle istituzioni, chiedendo spiegazioni sul loro
operato. Per il momento, questo diritto lo abbiamo ancora. Chiedo, in
sostanza, che gli organi dello stato agiscano secondo quanto è stabilito
dalla legge».

È dura per
un medico districarsi tra i cavilli e i sotterfugi della burocrazia.
All’inizio lo menavano facilmente per il naso, ma poi si è fatto più
accorto. Il suo non è compito da poco. La legge è sistematicamente
ignorata dalla magistratura, che preferisce attenersi alle indicazioni
delle autorità, piuttosto che rispettare la costituzione.

Un
esempio. Ai tempi dell’Urss, quando essere senza residenza era reato, il
ministero degli Intei aveva istituito i cosiddetti «Centri
raccolta-smistamento», che, al di là di tutte le alchimie verbali, erano
in realtà delle specie di prigioni (con la rivoluzione, le carceri furono
ufficialmente abolite, in quanto istituzioni borghesi; comparvero, invece,
i «luoghi di isolamento» o i «luoghi di privazione della libertà»).

Oggi la
legge proibisce di trattenere un cittadino per più di 48 ore, a meno che
su di lui non gravino pesanti sospetti di reato, che motivino un ordine
scritto del tribunale a riguardo. Ciononostante, ogni anno 400 mila
persone vengono trattenute dai 10 ai 30 giorni in questi «centri», perché
prive di documento e registrazione. Gli ordini vengono firmati da
procuratori disinvolti e motivati con la necessità di rilasciare alla
persona un nuovo documento d’identità, il che accade molto raramente. In
realtà questa pratica tradisce la convinzione che i senzatetto siano dei
potenziali delinquenti, da tenere in gabbia il più possibile.

«Essi_
sono causa d’incendi e dell’aumento della criminalità», leggiamo sempre
nella stessa pubblicazione ministeriale, cui ho già accennato sopra.

I
senzatetto entrano ed escono da questi luoghi di detenzione
silenziosamente. D’altronde, quali concrete possibilità avrebbero di
chiedere giustizia? Ma la primavera scorsa uno di loro, appoggiato da
Novyj dom, ha fatto causa alla procura di Mosca. Un giornalista, amico di
Novyj dom, è riuscito a scriverne sul quotidiano Novye Izvestija: «Quest’uomo
ha trascorso più di un anno e mezzo nei cosiddetti centri
raccolta-smistamento, dove veniva rinchiuso a forza “per identificazione e
rilascio dei documenti”. Ne usciva, tuttavia, non con la carta d’identità,
che non riuscivano a rilasciargli, ma con un certificato della polizia. Al
primo controllo documenti, quel certificato veniva stracciato dai tutori
dell’ordine, e “l’individuo bomzh” si ritrovava di nuovo dietro le
sbarre».

Dopo gli
ennesimi 30 giorni di detenzione, «l’individuo bomzh», il signor Lemekhov
ha denunciato il procuratore che ne aveva sanzionato il fermo. Ma il
giudice non si è lasciato impressionare dai riferimenti alla Costituzione
(1993); ha giudicato molto più autorevole quanto sta scritto in un decreto
del presidente Eltsin (emanato alla vigilia della nuova costituzione) e in
una disposizione del ministero degli interni dell’Urss (1970). D’altra
parte, conclude il giornalista, è noto che il sindaco Luzhkov, di propria
iniziativa, ha assegnato un sostanzioso contributo allo stipendio dei
giudici moscoviti.

L’ARBITRIO
SOSTITUISCE LA LEGGE

«Quando
vengono a trovarci i corrispondenti stranieri, dopo un po’ vediamo che il
loro sguardo si appanna. Quello che raccontiamo è per loro così assurdo,
che a un certo punto smettono di seguirci. Chiudono la saracinesca. Anche
noi spesso non riusciamo a capire, ma siamo abituati a convivere con la
follia» mi dice Elena, durante il nostro incontro presso il centro-aiuto
Caritas.

Stiamo
parlando da due ore e si stupisce che io non abbia ancora voglia di
chiudere la conversazione. «Ecco, ad esempio, adesso è un po’ di tempo che
agli uffici passaporti mancano i moduli per chiedere un nuovo documento.
Così tutto è fermo, non si può fare domanda. E anche se si potesse, le
domande dei senzatetto di regola non vengono accettate. Se uno di loro
chiede il rilascio di un nuovo documento, lo si indirizza all’ufficio
passaporti del luogo dell’ultima registrazione, sebbene la legge non lo
richieda. Anche ritornando all’ultimo luogo di residenza ufficiale, le
cose non sono così semplici, perché tutto il processo può richiedere mesi
(per legge, invece, non più di 15 giorni). E intanto, che si fa? Se poi
l’ultimo luogo di residenza era una repubblica ex-sovietica, è la fine».

Per porre
un freno all’arbitrio che regna negli uffici passaporti, MSF e Caritas
distribuiscono ai loro assistiti un foglio da consegnare al funzionario di
tuo, in cui si ricorda che, per legge, chi non ha una residenza ha
diritto a ottenere il documento d’identità là dove soggioa. «Quel pezzo
di carta col nostro timbro sopra è stato pensato per influenzare il
poliziotto – mi conferma Aleksej di MSF -. Qui accade qualcosa solo se hai
qualcuno alle spalle che ti sostiene. È quello che tentiamo di fare».

«COM’È FACILE
AFFONDARE!»

Il centro
Caritas per i senzatetto è stato aperto 7 anni fa. Qui si può ricevere un
pasto caldo, vestiti e scarpe. Ma l’aiuto materiale non basta. Queste
persone sono così disorientate che hanno bisogno di qualcuno che le
indirizzi, le consigli, o semplicemente ascolti le loro storie. Così sia
Caritas che MSF offrono un servizio di assistenza sociale.

«È facile
perdere l’equilibrio con la vita che fanno» incalza Elena, mentre mi
mostra i dati raccolti durante i colloqui con i senzatetto. «È incredibile
quanto si faccia presto ad andare a fondo e quanto difficile sia
rimettersi in piedi. E pensare che il 16% delle persone che vengono da noi
hanno una laurea universitaria. Abbiamo i barboni più istruiti del
mondo!». È vero che qualcuno si è mosso e si sta muovendo per aiutarli;
pasti caldi vengono distribuiti anche presso alcune parrocchie o da
associazioni come l’Esercito della Salvezza. Le Suore di Madre Teresa
hanno una casa con 30 letti, dove raccolgono i più infelici, i più malati;
ma nessun miglioramento radicale si potrà ottenere se non cambierà
l’atteggiamento delle autorità, dei cittadini, dei mass media nei
confronti di chi è stato sbrigativamente segnato con l’infamante marchio
di bomzh.

Biancamaria Balestra




GRAZIE, MR. BUSH!

Il surriscaldamento della terra e le scelte miopi del nuovo presidente statunitense. Si accoderà anche l’Italia di Berlusconi?

L’uso
indiscriminato dei combustibili fossili e il conseguente aumento della
temperatura del pianeta costituiscono un vero pericolo. I modelli al
calcolatore e le simulazioni, effettuate da centri di ricerca, concordano
nel prevedere aumenti della temperatura media che variano, secondo i
laboratori, da 1,5 a 4,5 gradi centigradi in questo secolo. A queste
conclusioni sono giunti gli scienziati dell’Hadley Centre dello Uk
Meternorological Office, quelli dell’Ufficio svizzero dell’ambiente e l’Intergovemental
Panel on Climate Change dell’ONU.

La
valutazione sugli incrementi di temperatura deriva dall’ipotesi di un
raddoppio del consumo di combustibili fossili nel corso del secolo: una
proiezione ragionevole, difficilmente smentibile, se non grazie a scelte
politiche coraggiose che coinvolgano tutte le nazioni. L’aumento di
temperatura avrebbe conseguenze molto gravi: crescerebbe il livello del
mare (con una drastica riduzione delle aree agricole), sparirebbero boschi
e foreste dalle zone temperate, si scioglierebbero i ghiacci perenni delle
regioni polari, si intensificherebbero le precipitazioni e assisteremmo a
violente manifestazioni meternorologiche.

A fronte
di scenari così inquietanti, l’amministrazione Bush si è opposta al
trattato internazionale di Kyoto (dicembre 1997), il protocollo secondo
cui i paesi industrializzati (tra cui l’Italia) dovrebbero diminuire
l’emissione dei gas che, come il biossido di carbonio, intrappolano il
calore realizzando l’effetto serra. Nonostante gli Stati Uniti siano
firmatari del protocollo, il presidente George W. Bush non lo ha
sottoposto al senato per la ratifica. Il trattato, secondo la Casa Bianca,
danneggerebbe l’economia degli Usa.

La signora
Christie Whitman, dell’Agenzia statunitense per la protezione
dell’ambiente, ha cercato invano di avere dall’amministrazione istruzioni
sulle risposte da dare agli alleati occidentali sulla nuova politica
statunitense circa l’uso incontrollato dei combustibili fossili. E, dato
il silenzio, al meeting di Montreal sulla politica ambientale Whitman ha
dichiarato che sarebbe stato più saggio, da parte della Casa Bianca,
esprimere la presa di posizione contro il trattato di Kyoto solo dopo aver
elaborato una strategia alternativa. Non aveva torto Whitman. Ora infatti
l’amministrazione Bush  cerca suggerimenti, consultando scienziati,
economisti e imprenditori in una trafelata azione di recupero.


All’imbarazzo seguito a scelte ambientali discutibili, si aggiunge il
problema della crescita dei prezzi dell’energia. La questione è grave in
Califoia (sesta potenza industriale del mondo), dove il governatore
Davis e l’opinione pubblica accusano l’ex petroliere Bush di favorire una
deregulation (liberalizzazione) del mercato che arricchisce i produttori
del Texas, il suo stato.

Per far
fronte alle crescenti richieste di energia, l’amministrazione Bush ha
pensato di dare il via alla costruzione di nuovi impianti nucleari.
Ebbene, secondo riviste americane conservatrici (quali Forbes), nel
passato gli investimenti statunitensi nel nucleare avrebbero causato solo
perdite. I costi di costruzione e gestione sono stati assai superiori alle
aspettative: e questo sia per errori sia per ragioni tecnologiche. Il vero
problema – si sa – è quello delle scorie. Il loro esaurimento richiede 500
anni! Dove conservarle nel frattempo?

La
questione, in realtà, non è affatto controversa: ben 5 laboratori
americani hanno dimostrato che il risparmio e l’efficienza, più che nuove
centrali nucleari, potrebbero rappresentare la vera soluzione alla crisi
energetica. Nuove tecnologie sul risparmio potrebbero ridurre il
fabbisogno statunitense dal 20 al 47%: una diminuzione corrispondente a
265 centrali da 300 megawatt.


All’osservatore imparziale risulta poco chiaro che cosa impedisca
all’amministrazione statunitense di percorrere quella che, agli occhi di
tutti, è la strada più ragionevole. Soprattutto quando scopre che gli
Stati Uniti, con una popolazione pari al 5% del totale, sono responsabili
del 24% dell’emissioni inquinanti mondiali e che il consumo medio annuo di
energia di uno statunitense è doppio di quello di un europeo e pari a
quello di 16 africani.

(*)
Fisico, Maurizio Dapor lavora a Trento. Oltre a numerosi articoli
pubblicati su riviste scientifiche inteazionali, è autore di due libri
usciti per «La Stampa»: «L’orologio di Albert» (1998) e «Sfere di
cristallo» (1999).

Maurizio Dapor




HAITI: RITI E PERSONE DI UNA FESTA VUDU’. SODO’ LA CASCATA DEI MIRACOLI

REPORTER DI STRADA

Minute sacerdotesse e corpulenti ragazzoni
emigrati a Miami. Donne gravide e contadini. Colorati ministri di riti
misteriosi. Ogni anno a metà luglio un piccolo villaggio nel centro
dell’isola rigurgita di pellegrini. È la festa della beata Vergine del
Carmelo e degli spiriti dell’acqua.

Quel
giorno, a bordo di un potente fuoristrada, cercavo di raggiungere la
località di Sodò nel cuore di Haiti. In creolo, la lingua del paese,
significa «salto d’acqua» e avrei presto capito il significato di quel
nome.

Da
Mirbalais, sul plateau centrale, mi diressi verso ovest. La strada era
diventata poco più che un sentirnero, l’erba ai lati era alta e la
vegetazione intorno lussureggiante: strano per un paese in cui la foresta
tropicale è stata quasi interamente distrutta. Ogni tanto lo sterrato si
faceva pantano e l’automobile rischiava di restare bloccata nel fango.
Guadato un grosso fiume, grazie alle quattro ruote motrici e alla dovuta
rincorsa, arrivai a Ville Bonheur (letteralmente la città della felicità),
il secondo nome di Sodò. È un villaggio sperduto, non troppo grande e
neppure bello, ma occupa un posto centrale nella «spiritualità haitiana».
Con questo termine intendo quella complessa mescolanza di credenze e fede
che fanno, al tempo stesso, sentirsi cristiani e praticanti del vudù (vuduizanti),
in un sincretismo religioso che solo gli haitiani sanno capire.

Il miracolo e il vudù

Siamo a
metà luglio. Sodò è già piena di pellegrini e con essi mercanti, musici e
prostitute. Nella settimana che precede il 16 arrivano da tutto il paese e
anche dall’estero, per partecipare alla festa della Vyèj mirak (Vergine
del miracolo), Nostra signora del Carmelo.

Era il 16
luglio del 1843 quando apparve la Vergine Maria in cima a una palma. Ma la
chiesa locale negò il miracolo e la pianta fu tagliata. La gente del
popolo però incominciò a venire in quel luogo per pregare e chiedere
miracoli. Il curato decise allora di far sradicare il ceppo rimasto e si
dice che in seguito ebbe un incidente in cui perse le gambe. Nel 1881,
sempre il 16 di luglio, ci fu una seconda apparizione e da allora nessuno
cercò più di impedire il pellegrinaggio.

Ma la Vyèj
mirak è anche, nella religione vudù, il loà Erzuli-freda (Ezili), allo
stesso tempo spirito dell’amore e madre. La mitologia vudù è complessa.
Trae le sue origini da alcuni riti africani (radà, petrò, kongò), ma ha
aggiunto nel corso dei secoli ingredienti tipici haitiani ed è in continuo
divenire. I loà del pantheon vudù sono un’eterogenea schiera di divinità e
spiriti o geni. Vi sono quelli superiori, di origine africana,
riconosciuti da tutti, accompagnati da un’infinità di loà creoli, più
recenti e in continua evoluzione. I loà sono il legame tra il visibile e
l’invisibile e possono entrare nel corpo di un individuo per possederlo.
Sono gli intermediari tra Dio e l’uomo e sono capaci del bene e del male.
I fedeli cercano di propiziarseli per ottenere protezione e i favori più
diversi. Sono comunque tutti creati da Gran Mèt (il grande maestro, ovvero
Dio), per venire in aiuto agli uomini e qualcuno li definisce come angeli
un po’ ribelli. Alcuni, più maligni, vengono chiamati diab, diavoli.
Erzuli-freda è uno dei loà principali. Rappresentata come una bella
mulatta, appartiene al gruppo degli spiriti del mare e impersonifica la
bellezza e la grazia femminili. È civetta, sensuale e ama lusso e piacere.

La chiesa
bianca nel centro di Ville Bonheur è straripante di fedeli, che entrano,
pregano ed escono in un flusso continuo. È difficile riuscire a inserirsi.
Ma questi uomini e donne, ancor prima di venire qui sono stati a
purificarsi nel vero posto magico di Sodò: la grande cascata, il salto
d’acqua, poco lontano dal villaggio.

Verso il salto d’acqua

È la
vigilia della festa. Fin dalle prime ore dell’alba un colorato fiume di
gente crea un continuo andirivieni lungo la stradina sterrata che si
inerpica verso lo splendido santuario naturale. I colori forti degli
houngan e delle mambo – preti e sacerdotesse vudù – in smaglianti abiti
blu e rossi, bianchi e blu, verdi si mischiano a quelli dei contadini,
piedi nudi e cappello di paglia e della diaspora (haitiani che vivono
all’estero), con i loro pesanti braccialetti dorati, occhiali scuri e
vestiti americani. Le persone che vengono in pellegrinaggio a Sodò sono di
tutte le classi sociali e si ritrovano nella stessa settimana in questo
splendido angolo di Haiti.

«Bét sur
bét» (bestia su bestia) urla qualcuno per farsi largo nella folla
cavalcando goffamente un asinello. «Veniamo per pregare la Vyèj mirak,
affinché ci dia salute e fortuna negli affari».

Eddy e
Mariette sono una giovane coppia di Port-au-Prince, capitale di Haiti. Lui
è muratore, mentre lei lavora a casa. Hanno pochi vestiti addosso, ma
portano una borsa di plastica con nuovi indumenti. «Butteremo via questi
abiti durante la preghiera, per metterci quelli nuovi» dice Eddy. È una
purificazione che passa anche attraverso gli oggetti. Raoul Deorcely è di
Leogane, una cittadina a sud est della capitale. Dice di aver diciott’anni
ma sembra più giovane. Va alla preghiera per chiedere la possibilità (o il
miracolo) di poter partire all’estero e trovare un buon lavoro: «In questo
modo sarei in grado di aiutare la mia famiglia qui» ci dice.

Vicino,
una giovane donna urla a squarciagola: «Sto chiedendo alla vergine di
avere un bambino! Sono sposata, ma sto ancora aspettando». «Chiederò di
avere gioia e felicità per tutto l’anno» risponde un uomo di mezza età.

Saturazione dei sensi

Lungo la
strada, in alcuni luoghi, per noi casuali, piccole candele colorate sono
accese e piantate nella terra dalla gente in lenta marcia verso la
cascata. Qui si fermano a pregare un momento, legano un cordino colorato,
accendono il loro lumicino. Poi continuano. L’atmosfera spirituale è molto
forte. I nostri sensi sono tutti sollecitati, quasi saturati. Gli odori
sono intensi e i colori vivaci, quasi aggressivi. C’è chi sta in silenzio
con gli occhi chiusi e chi urla allargando le braccia. Come una striscia
di formiche in movimento verso il formicaio, anche noi immersi nel mezzo,
arriviamo nei pressi del luogo sacro.

In un
piccolo spiazzo dove l’erba è più brillante e l’aria si è fatta umida,
troviamo dei piccoli banchetti di legno, ricolmi di strana mercanzia. Sono
i venditori di oggetti sacri, essenziali nei diversi riti. A fianco dei
biscotti espongono candele di cera colorata: rossa, gialla, nera, cordini
blu e rossi o bianchi e rossi. Sono le offerte delle giovani donne a
Erzuli, la vera regina della festa, o agli altri spiriti dell’acqua. Ci
sono poi bottiglie che contengono strani liquidi ed erbe medicinali.
Talvolta immagini di santi e simboli di loà sono incollati come etichetta.
Speciali frasche sono vendute in gran quantità ai pellegrini di passaggio.
In un cantuccio, sopra a un ceppo, ancora candele accese e alcune anziane
mambo intorno.

Il bagno nella fortuna

La
splendida cascata naturale appare all’improvviso in fondo a una stretta
gola. È incoiciata da giganteschi alberi dalle lunghe fronde, in passato
comuni sull’isola caraibica, oggi una rarità.

Tutto è
immerso in un vapore di goccioline minuscole, che ti avvolge e ti bagna
senza che tu possa accorgertene. Un po’ ovunque si formano i colori
dell’arcobaleno quando un raggio spunta dalla sommità della montagna.
L’acqua spumeggia e poi scorre in piccole conche alla base della cascata,
fino a ridiventare un fiume. La gente sembra ora concentrarsi, cercando un
percorso per arrivare sotto i flutti. Uomini, donne, bambini si spogliano
di tutto, o quasi – mentre la gente della diaspora si riconosce dai
variopinti costumi da bagno – si spingono sotto la potenza dell’acqua che
cade da oltre trenta metri di altezza. Pregano, urlano, si lavano uno con
l’altro. Una donna strofina con le frasche il ventre gonfio dell’amica
gravida. Qualcuno cade in trance e si rotola nell’acqua, sulle rocce
muschiose presenti ovunque. È posseduto da uno spirito. Nella cascata
infatti abitano tutti i loa legati all’acqua. Damballah, il potente
dio-serpente associato ora con l’arcobaleno ora al lampo, a lui sono
dedicati alcuni grossi alberi – anch’essi, come è noto, rifugio dei
serpenti – sui quali i fedeli legano le cordicelle colorate, dopo averle
portate ai fianchi, accendono candele sul tronco e pregano. Con lui Aida,
sua moglie, e gli altri spiriti acquatici. Condividono il luogo di culto
con la vergine del Carmelo in un perfetto sincretismo.

Qui i
fedeli cercano il bagno di chance, una sorta di purificazione (lavaggio
dai problemi) ma anche un’immersione di forza spirituale che fortifica
contro i nemici e le avversità della vita. Si può fare a casa o in un
tempio vudù, ma funziona molto meglio in questi particolari luoghi sacri,
residenze dei loà. Si utilizzano erbe, piante e profumi che piacciono allo
spirito e si chiede la sua protezione. Tutto intorno a noi la gente si
lava con piccoli pezzi di sapone che poi abbandona su una roccia.
«Attenzione: non bisogna portarsi a casa il sapone – spiega una mambo –
lasciarlo sotto la cascata vuol dire lasciare tutto ciò che è male e di
cui volete liberarvi. Se un pellegrino non ha il sapone è meglio che si
lavi senza: se ne raccoglie un pezzo rischia di prendersi tutti i problemi
di chi lo ha lasciato lì!».

Per una
vita migliore

«Prendiamo
un po’ d’acqua in un bidone per mia madre – dice Etienne, un bambino
venuto qui dalla capitale con il suo cuginetto – è a casa malata e noi
siamo venuti qui per pregare per lei». Marie-Jò, una giovane donna dell’Artiboinite
(l’unica ampia pianura del paese, zona di contadini e di riso), viene qui
ogni anno e prega la Vergine (o Erzuli) di allontanare da lei tutti i
problemi. «Chiediamo una nuova casa – sostiene Marie-Héléne, con la sua
amica Louise che ha in braccio un bimbo – siamo di Cité Soleil (la più
grande bidonville di Port-au-Prince, ndr) e abbiamo perso la nostra casa.
Abbiamo tre bambini ognuna e i nostri mariti ci hanno lasciate. Cosa
possiamo fare?».

Mentre
qualcuno si sta rotolando nell’acqua, urlando e piangendo, un’anziana
cerca di uscire dalla folla sotto i flutti. Ha un mucchietto di terra
coperto di muschio nella mano sinistra, «La porto a una malata del mio
villaggio. Penso che la aiuterà». Dietro di lei un uomo corpulento ride e
dice in misto creolo-inglese, tipico della diaspora: «Sono di Okap (grande
città del nord, ndr), ma vivo a Miami. Mi piace venire a questa festa ogni
volta che posso». Va via con un grosso stereo portatile sulla spalla.

Tutt’intorno
luoghi di culto, pieni di candele e gente in preghiera. Sotto la cascata
lo spettacolo è impressionante: una massa di persone, quasi nude, assieme
senza distinzione di classe sociale e luogo di origine, ma ognuno con la
sua preghiera o qualcuno solo per divertirsi. E anche noi, che vuduizanti
non siamo, restiamo rapiti da un’atmosfera di sacralità profonda, che
ancora non riusciamo a capire.

Audétte ha
tre figli da tre papà diversi. Fa la commerciante di strada in capitale ed
è partita da Port-au-Prince con due amiche. Hanno affrontato il viaggio
nel cassone di un camion per raggiungere Sodò e pregare la vergine-loà.
«Mamma Vyèj mirak è una donna, conosce il dolore dei bambini e i problemi
delle donne come lei» ci racconta sotto un rovescio.

Alla
cascata cerca una vita migliore. Mentre si bagna elenca tutte le
difficoltà che l’acqua deve portarsi via: malattie, usura, affitto della
baracca, un marito che ha abbandonato i figli, i problemi con i vicini.
Quando ha finito lascia una moneta per lo spirito dell’acqua. Ora il suo
volto è sereno. Pensa che i suoi problemi siano svaniti ed è tornata a
riempirsi di speranza. In un certo senso, il miracolo la Vergine del
Carmelo, Erzuli e i loà acquatici – in una parola la Vyèj mirak – lo hanno
già fatto.

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Breve vademecum vudù

Vudù (o
vodù): religione sincretica che trae le sue origini dalla spiritualità
africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con il vudù praticato in
paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina, ma si differenzia
per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani.

Loà: sono
le divinità e gli spiriti del vudù e fanno parte del pantheon vudù. Ne
esistono un’infinità e sono in continua evoluzione. I principali,
riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono creoli, meno
potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loà protezione e questi
li «posseggono» durante i riti. I loà sono capaci del bene e del male e
collegano il visibile con l’invisibile. I diab sono gli spiriti cattivi.
Molti loà sono associati a santi cristiani.

Radà,
petrò, kongò e gli altri: i primi due sono i riti principali del vudù
haitiano secondo i quali si classificano i loà. Nel radà si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petrò ha spiriti più vendicativi e
utilizzati nella magia. Il kongò ha origini bantu, prevede sacrifici e
riti più violenti. Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna
universale. Ogni categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi
e saluti propri.

Mambo e
hungan: sacerdotessa e prete vudù (questo chiamato anche boko) sono i
maestri dei riti.


Erzuli-freda: spirito della bellezza e della sensualità, ma anche
dell’amore materno. È uno spirito del mare e delle acque. Ha tutte le
caratteristiche di una bella donna ed è associato alla Madonna. Esistono
altre Erzuli, sempre femminili ma con caratteristiche diverse.


Damballah-redo: è il dio-serpente, vive sugli alberi e nei corsi d’acqua.
È una delle divinità più popolari del vudù haitiano. Il colore bianco è
suo simbolo ed è padrone dell’argento. È lui che dà la ricchezza. Sua
moglie Aida-redo: è anch’essa uno spirito acquatico.

Bains de
chance: sono i bagni della fortuna che i fedeli del vudù fanno per
propiziarsi i loà e ricevere grazie e protezione.

Vévé: è il
disegno simbolico che raffigura tutti gli attributi del loà. Viene
tracciato durante le cerimonie per richiamare lo spirito.

Potò-mitan:
oggetto sacro è il palo situato al centro del peristilio e la via dei loà
per scendere, durante i riti, dal cielo alla terra.

Ma.Be.

Marco Bello




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno




BETANIA (COLOMBIA): unico statunitense nella zona smilitarizata. UNO «YANKEE» NEL REGNO DELLE FARC

Per i
guerriglieri è uno yankee: lo tengono d’occhio, ma lo rispettano. Per la
gente è il gigante buono, che rischia la vita accanto agli emarginati,
nella cosiddetta zona smilitarizzata, controllata da guerriglia e
narcotraffico. È padre Van Allen Hager, missionario della Consolata, nato
a Buffalo (Usa) 57 anni fa: alto 1,86, guarda i pericoli dall’alto in
basso, ma con gli occhi fissi al cielo.

Il
gracchiare di un altoparlante rompe il sonnolento pomeriggio di Betania,
uno sperduto paese in riva al fiume Caguán, mentre un gruppo di uomini
puntano scommesse su un’accalorata partita a domino. Poi la voce
fortemente accentata di padre Van Allen Hager, unico cittadino
statunitense presente nella regione controllata dalla guerriglia nel sud
della Colombia, lancia importanti messaggi in spagnolo: è evidente che non
è la lingua imparata da sua madre. «Signore, per amore della mia vita; non
riesco a capire una parola di quanto dice» lamenta uno dei giocatori,
levando le palme al cielo con comica espressione.

ZONA A
RISCHIO

Dopo
cinque anni di lavoro in quest’area maledettamente violenta, dove ci sono
tante anime da salvare e cuori feriti da guarire, padre Hager confessa che
deve mettercela tutta per essere all’altezza del suo lavoro missionario.
Betania, la sua parrocchia, si trova nell’estremo lembo meridionale della
cosiddetta «zona smilitarizzata», un territorio grande come la Svizzera,
che il presidente Andrés Pastrana ha ceduto alle Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) alla fine del 1998. Il paese, famoso
per la sua storia di violenza, è generalmente considerato insicuro perfino
per i più coraggiosi colombiani; immaginarsi per un solitario americano.

Non è
facile, confessa il missionario, occupare un posto in prima linea tanto
eccezionale, a causa del caos creato da guerra e narcotraffico: una
situazione che ha posto la nazione colombiana tra le priorità della
politica estera di Washington in America Latina. Padre Hager è convinto
che i guerriglieri si fidino di lui; ma intanto continuano a tenere
strettamente d’occhio i suoi movimenti. «Sono certo che sanno dove vado e
con chi parlo» dice il 57enne missionario.

Il suo
lavoro è diventato più difficile, e forse più pericoloso, da quando gli
Stati Uniti hanno varato il controverso «plan Colombia»: si tratta dello
stanziamento di 1,3 miliardi di dollari (quasi 5 mila miliardi di lire), 
destinati soprattutto alla famigerata fumigazione delle coltivazioni di
coca, con la conseguente distruzione della produzione agricola
circostante. In questo modo si pensa di colpire le Farc e altri gruppi
ribelli che traggono profitto dal commercio della droga, esigendo
un’imposta sia dai coltivatori di coca che dai narcotrafficanti.

Le Farc,
tradizionalmente nemiche dell’«imperialismo yankee», hanno dichiarato
«obiettivi militari» tutti i consiglieri nordamericani presenti in
Colombia e sono responsabili dell’assassinio di tre indigenisti
statunitensi nel 1999.

Nei raduni
settimanali convocati dai ribelli, la cui partecipazione è obbligatoria,
«essi fanno sempre riferimenti a ciò che i nordamericani stanno facendo
nel paese – continua il missionario -. Dicono che siamo responsabili di
tutto ciò che di sbagliato accade in Colombia. Siamo sempre colpevoli.
Qualsiasi cosa facciamo è sbagliata».

«Ho paura
per la sua vita» dice uno dei giocatori di domino che, come gli altri
paesani, rifiuta di dare il proprio nome, per timore di rappresaglie da
parte dei guerriglieri: questi pattugliano il paese, ma non se ne trova
uno disponibile a fornire una parola di commento.

Tutti i
ribelli sanno della presenza del missionario. D’altronde sarebbe
impossibile non dare nell’occhio: 1 metro e 86 di statura, capelli
d’argento, talare bianca, zaino verde e sbrindellato, è inconfondibile
quando si sposta da un villaggio all’altro, per visitare le 15 comunità
della parrocchia. Ed è sempre in viaggio. Alcune comunità sono
raggiungibili solo per via fluviale, altre richiedono fino a otto ore a
dorso di mulo, sotto il sole implacabile, per sentirneri fangosi e
pericolosi attraverso la giungla tropicale.

Eppure «i
guerriglieri non hanno mai messo in discussione la mia presenza e i miei
viaggi in questa zona – aggiunge il padre -. Posso dire onestamente che mi
è sempre stato riservato un trattamento preferenziale». Esempio tipico di
tale trattamento lo sperimenta nei posti di blocco: i ribelli rinunciano
alle lunghe perquisizioni e interrogatori a cui sono sottoposti tutti gli
altri.

NON SCUOTERE
LA BARCA

La vita
nella zona controllata dalle Farc è un esercizio di attento riserbo e
autocensura, racconta il padre. I capi ribelli hanno proibito di usare
nelle omelie la parola «sequestro». I frequenti rapimenti di uomini, donne
e bambini e relativi riscatti sono giustificabili conseguenze della
guerra, dicono loro e insistono perché si parli invece di «prigionieri».

A chi non
frena la lingua arrivano minacce di morte. È capitato anche a un
missionario di San Vicente del Caguán, capitale della zona smilitarizzata
e controllata dalle Farc: i superiori lo hanno trasferito in un’altra
diocesi, dopo che i ribelli avevano inserito il suo nome nella lista nera.

Alcuni
mesi fa, mons. Romulo Emiliani, vescovo di Darien, in Panama, ha ricevuto
minacce di morte per le critiche contro le incursioni oltre confine dei
ribelli colombiani. A cinque missionari protestanti americani, della
regione sud-orientale del Panama, è capitato di peggio: sequestrati nel
1992, due furono uccisi, dopo essere stati rapiti dalle Farc; degli altri
tre non si sa più nulla; si sospetta che anche questi siano stati portati
in territorio colombiano.

Perché non
capitino cose del genere ai missionari che lavorano nelle sette parrocchie
comprese nella zona smilitarizzata, il vescovo di San Vicente, Francisco
Xavier Munera, ha tracciato l’anno scorso una nuova politica,
raccomandando estrema cautela in ogni dichiarazione pubblica: «Sostieni la
gente meglio che puoi; ma non schierarti politicamente da nessuna parte –
dice padre Hager, citando le nuove norme -. Non scuotere la barca e cerca
di essere neutrale in ogni situazione».

Ma per un
uomo come padre Hager, con alle spalle una reputazione di franchezza e
attivismo radicale, non è semplice osservare tali regole. Negli Stati
Uniti, alcuni anni fa, venne alla ribalta dei mass media nazionali per la
sua partecipazione alla crociata contro l’aborto: guidò veglie di
preghiera e assedi alle cliniche abortiste in varie parti del paese. Un
giorno, in un alterco con il personale di una clinica, asperse gli
impiegati con l’acqua benedetta; uno di essi minacciò di fare causa alla
sua congregazione religiosa, i missionari della Consolata. Il superiore lo
invitò a spostarsi nel sud della Colombia, sperando che si desse una
calmata.

Sorride il
missionario mentre rievoca tali avventure. E aggiunge: «Data la mia
storia, la tentazione di non seguire le nuove direttive è molto forte: mi
è duro non essere là fuori a protestare contro gli abusi che mi tocca
vedere ogni giorno, soprattutto le violazioni dei diritti umani di cui
sono testimone». E aggiunge subito che non sono solo le Farc responsabili
di violenze e atrocità; anche i gruppi paramilitari e le truppe
governative sono altrettanto responsabili.


L’esperienza negli Stati Uniti e i pericoli reali che si affrontano in
Colombia «mi hanno insegnato a moderare i bollenti spiriti. Mi considero
ancora molto attivo; ma qui la partita è totalmente differente».

ABUSI E
PERICOLI QUOTIDIANI

Di abusi
da fare perdere le staffe padre Hager ne ha visti tanti, come quelli
contro i bambini di appena 10 anni, costretti dalle Farc a eseguire lavori
pesanti, arruolati in squadre di operai per costruire strade. In gennaio,
due uomini furono uccisi da banditi davanti alla chiesa, mentre stava
celebrando la messa. Dal momento che solo le Farc possono maneggiare armi
nella zona smilitarizzata, si deduce che l’assassino fu opera dei
guerriglieri.

Il sindaco
del paese è stato condannato a un mese di lavoro forzato, perché si era
lamentato delle interferenze dei comandanti delle Farc nella gestione del
comune. «Ci sono troppi capi» dice padre Hager, citando il sindaco; «il
suo crimine è di aver criticato la rivoluzione» aggiunge, citando i
guerriglieri.

Un altro
caso: una catechista fu costretta da un pistolero ad abbandonare la zona
smilitarizzata insieme al marito e ai figli. Arma in pugno, fu minacciata
di morte, senza altra spiegazione. Il fatto è che un locale comandante
delle Farc aveva messo gli occhi sul loro campicello e la famiglia si era
rifiutata di venderlo.

«La gente
non ha alcuna possibilità di godere il più elementare diritto come
cittadini» conclude il padre.

Mentre una
lunga barca a forma di canoa, carica di una dozzina di guerriglieri
armati, mescolati tra i civili, si avvicina all’attracco, padre Hager
riprende: «Ciò che stai vedendo è una flagrante violazione della legge
internazionale. Come pastori, raccomandiamo alla gente di non salire mai
in una imbarcazione dove viaggiano anche combattenti armati. Quando la
barca passa i confini della zona smilitarizzata, pochi chilometri a sud di
Betania, in qualsiasi momento potrebbero esserci scontri con i soldati
dell’esercito o gruppi paramilitari».

Ma i
pericoli che deve affrontare il missionario non sono solo di natura
militare. Negli ultimi due anni, padre Hager ha avuto violenti attacchi di
malaria, tifo e dengue. Mentre visitava alcuni villaggi, ha riportato
ferite alle gambe e alla schiena per una caduta da cavallo. Oltre a tutti
i pericoli in Colombia, egli è stato testimone di massacri ben peggiori,
mentre lavorava come missionario in Etiopia, dal 1973 al ’78, durante la
rivoluzione che detronizzò l’imperatore Hailé Salassié. «In quattro anni,
ho visto 30 mila bambini uccisi e abbandonati sulle strade, perché i
genitori li ritrovassero – racconta -. Sia qui che in Africa, mi sono
trovato in molte situazioni di pericolo; ma me la son cavata sempre». Poi
aggiunge, con un rapido sguardo al cielo: «Lassù qualcuno mi protegge».

(*) Tod
Robberson è un giornalista dell’Associated Press; questo articolo è
apparso su The Dallas Moing News (Usa) del 2 maggio 2001.

Tod Robberson




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): una missione quasi agli inizi. POVERTA’ E FRATERNITA’

Presenti in Costa d’Avorio da pochi anni, i
missionari della Consolata si sono buttati nella nuova impresa con slancio
ed entusiasmo. Anche se le difficoltà sono sempre in agguato e la strada
per superarle è zeppa di imprevisti…

Ma, quando
si arriva nella bidonville di Bardot, nella periferia di San Pedro (il
secondo porto della Costa d’Avorio), ci si rende conto immediatamente che
qui la povertà è, prima di tutto, miseria materiale, mancanza delle cose
più essenziali per vivere, anche se la popolazione ha spesso il senso
dell’umorismo, è intelligente e, soprattutto, è ricca di ospitalità e
sorrisi.

Io non ho
mai vissuto in una bidonville e mi chiedevo quali fossero i bisogni di chi
vive qui, in periferia. Allora ho chiesto a padre Armando Olaya,
missionario della Consolata colombiano, di organizzarmi un incontro con
qualche leader della parrocchia, proprio nel bel mezzo delle casupole e
capanne di Bardot.

Ho posto
due semplici domande: quali fossero i loro bisogni più urgenti e come la
comunità tentasse di rispondervi.

Salute,
prima di tutto

Nel
quartiere di 50-60 mila persone vi sono parecchie cliniche private e,
nella città di San Pedro, anche un ospedale pubblico. Il problema però è
che, in clinica o nel pubblico ospedale, qualsiasi cura è troppo cara per
le possibilità della gente di Bardot. «Le cliniche private possono
iniziare l’attività con una autorizzazione governativa e la maggior parte
di esse cura soltanto piccoli malesseri, piccole ferite» – spiega
Feando.

Qui
bisogna pagare non solo il medico e il suo infermiere, ma anche le
medicine e tutto il materiale che si usa. Ancora prima di essere visitati
da un medico di un ospedale pubblico, bisogna anticipare la somma di 1.000
franchi. Spesso occorre aggiungervi anche una mancia per l’infermiere o il
medico, altrimenti si rischia di aspettare giorni e giorni. Poi bisogna
pagare tutte le prescrizioni.

Claudio,
un professore, racconta che la settimana precedente era stato all’ospedale
con una delle sue sorelle, in preda ad una forte crisi di malaria: in soli
due giorni, le ricette gli sono costate ben 25 mila franchi. In seguito la
sorella è stata ricoverata in una sala comune e lì ha dovuto sborsare 5
mila franchi al giorno_ ma solo per il letto, perché la famiglia ha dovuto
procurare all’ammalata il cibo quotidiano.

Mi
permetto di notare: «Ma, almeno, ricevono tutte le cure?». Bonifacio
aggiunge il suo granello di sale: «Non tutte, perché, per alcuni test e
analisi, i campioni devono essere mandati ad Abidjan, la capitale, a 500
km da qui».

Cosa
potrebbe fare, allora, la comunità di Bardot per superare questa difficile
situazione sanitaria? Tutti sono d’accordo che non ci sono
soluzioni-miracolo. Senza dubbio la strada migliore sarebbe un dispensario
gestito dai missionari, che prestasse le cure ad un prezzo minimo.
Feando aggiunge che, nella parrocchia vicina, le suore hanno un
dispensario e, dal momento che ricevono le medicine dall’Europa, i costi
sono meno elevati. Un altro aggiunge che ad Abidjan ci sono dei grossisti
e vi si possono acquistare farmaci a prezzi accessibili.

«Ma allora
– chiedo io – perché non lo fate questo dispensario?». La risposta (dopo
una risata generale) è che mancano i mezzi. Mi dicono che le offerte in
chiesa, la domenica, non arrivano a 15 mila franchi: il che non basta
nemmeno a pagare il cibo dei due preti della parrocchia.

Nel
quartiere di Bardot, poi, sono molto rari coloro che possono usufruire di
una retribuzione fissa, adeguata e… sicura. La maggior parte ha un
salario minimo e lavora soltanto qualche mese l’anno.

Scuole, tasse
e… prestiti!

Il secondo
ambito dove i bisogni sono più urgenti è quello dell’educazione. Per i
15-20 mila ragazzi di Bardot c’è una sola scuola pubblica e cinque
private. Alla scuola pubblica non è raro vedere 70-80 alunni nella stessa
classe.

Il
presidente del consiglio parrocchiale ha otto figli e mi spiega che spesso
i genitori iscrivono i loro figli e cominciano a pagare le tasse
scolastiche; ma, dopo tre o quattro mesi, il ragazzo viene allontanato
dalla scuola semplicemente perché i parenti non ce la fanno più a pagare.
Tra le spese scolastiche e la pentola di riso, si preferisce il riso!

Ciò vale
soprattutto per le scuole private, poiché in quelle pubbliche (almeno
teoricamente) non dovrebbero esserci spese scolastiche.

È un altro
papà a spiegarmi come nelle scuole pubbliche ci siano le famose
«collette»: se la scuola deve acquistare dei nuovi banchi, si organizza
una raccolta tra i genitori; se la classe necessita di essere ridipinta,
un’altra raccolta; così pure se bisogna acquistare le scope_ Insomma,
qualsiasi acquisto diventa oggetto di raccolta da parte dei parenti. «E
poi – aggiunge un altro – bisogna mettere in conto anche le mance!».

Se è vero
che la scuola cattolica è stata costruita per gli alunni cattolici, non è
normale che i genitori non possano mandarvi i loro figli, a causa delle
spese troppo elevate! Il direttore, interpellato, mi ha risposto che le
tasse erano alte perché gli alunni erano… pochi! Ma gli alunni sono
pochi, perché le spese sono alte. Un bel circolo vizioso!

Un altro
prende la parola: «Se potessimo diminuire le spese per le foiture
scolastiche, non sarebbe già un buon passo nella giusta direzione? Se la
comunità aprisse una cartoleria_». Ma si porrebbe lo stesso problema: la
comunità cattolica di Bardot non ha capitali disponibili per iniziare tale
progetto.

Arrischio
una soluzione «audace»: perché non si tenta un prestito delle banche? La
risposta mi arriva dal solito presidente: «Le banche prestano soltanto
alle persone sicure e che possono pagare; ma gli abitanti della bidonville
di Bardot non lo sono!».

Un
insegnante spiega allora che esiste un programma della «Banca africana per
lo sviluppo»: libri agli studenti, con una cauzione all’inizio dell’anno;
se tornano in buono stato, la cauzione viene rimborsata. Ma questo non
vale per le ragazze!

C’è poi il
problema delle campagne. Qui le scuole non esistono affatto e i ragazzzi,
per studiare, devono andare in città. «Sovente – spiega un giovane papà –
i giovani vivono in condizioni spaventevoli: si trovano un “tutore”
(spesso un parente), che li sfrutta e non solo finanziariamente; per
questo sarebbe utile che la comunità aprisse un foyer, una specie di
pensionato per accogliere i giovani che provengono dalle campagne».

Non
mancano le idee

Così, in
quasi tutte le soluzioni prospettate dalla popolazione, ciò che manca alla
comunità di Bardot è il capitale per realizzare le iniziative. Ma perché
non istituiscono una cornoperativa, una specie di cassa popolare? Uno, che
finora non si era espresso, prende la parola: «Sì, ma nel villaggio di…
il responsabile ha preso la fuga con tutti i soldi dei contadini!».

La
principale obiezione rimane, tuttavia, il fatto che i cattolici di Bardot
sono in numero limitato, probabilmente troppo pochi per costituire una
cornoperativa che renda.

Un giovane
professore interviene decisamente: «Io penso che ciò che manca alla gente
del nostro quartiere sono le specializzazioni. Se non trovano lavoro, è
perché sono manovali da impiegare con il salario minimo e che si
licenziano quando termina il lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno è un
centro di formazione professionale».

Subito due
o tre aggiungono: «È vero: con una formazione intensiva si potrebbero
preparare tecnici in avicoltura in sei mesi. Abbiamo professori
disponibili, ma manca l’equipaggiamento». E un altro commenta: «Da San
Pedro esportiamo legname in tutto il mondo, eppure non abbiamo falegnami,
né carpentieri!».

Tutti sono
d’accordo: c’è bisogno di un centro di formazione professionale. Ma dove
trovare il capitale per comperare l’equipaggiamento e un luogo dove dare
questi corsi?

Conclude
tristemente il presidente: «Vedi, padre Jean (il sottoscritto): abbiamo
molte idee; ma siamo sempre bloccati dalle finanze».

Nella mia
piccola testa ronza, insistente, un’idea: le comunità ricche d’America e
Europa non potrebbero, anch’esse, diventare più fratee e solidali con
gli amici della Costa d’Avorio?

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GLI INIZI

Quando il
vescovo Barthelemy accolse i missionari della Consolata nella sua diocesi,
sognava una magnifica cattedrale, costruita proprio da loro. Il «figlio»,
però, ha deluso le  attese del «genitore».

In questa
loro ultima «impresa» del XX secolo, i missionari della Consolata hanno
voluto, dall’inizio, incamminarsi su sentirneri nuovi, utilizzare metodi
diversi, senza ripetere quelli che molti considerano errori del passato.
Tra l’altro sovente, in Africa, si rimprovera ai missionari di aver
costruito tanti e splendidi edifici, che le chiese locali, però, non sono
capaci di curare e portare avanti.

Così
monsignor Barthelemy è un vescovo senza cattedrale.

Lo spirito
di famiglia è una delle caratteristiche dei missionari della Consolata. Ma
in una comunità dove le generazioni si susseguono rapidamente e
l’inteazionalità mette insieme missionari di differenti culture, non è
sempre facile andare d’accordo.

Nel primo
gruppo di missionari giunti in Costa d’Avorio, vi erano due spagnoli e un
colombiano, un giovane e due già in età matura. L’intesa non è stata
facile: né sullo stile di vita e neppure sui metodi di apostolato. Ma gli
stessi missionari confessano che è proprio nella sofferenza che sono
maturati insieme. E i frutti cominciano a vedersi.

Nella
nuova missione di Sago tutto era da costruire. Siccome nessun missionario
era esperto di edilizia, i superiori inviarono da Roma un fratello
costruttore per i primi edifici. All’inizio del 1998, fratel Pietro
Menegon venne mandato in Costa d’Avorio.

Ma un
imprevisto era in agguato: fratel Pietro, con i suoi 64 anni, avrebbe
resistito ad un clima caldo e umido come quello della costa ivoriana? Dopo
qualche mese, la sua salute cominciò a creare problemi: crisi di malaria
una dopo l’altra. Il fratello fu costretto (ahimé!) a rientrare in Italia.

Però,
nonostante tutte le difficoltà, la missione in Costa d’Avorio non si è
fermata. I padri presenti non si sono scoraggiati. Anzi, il gruppo è
aumentato. E un nuovo centro è stato aperto a Grand-Béréby.


L’evangelizzazione continua più viva che mai.

Jean Paré




BAMBINI SCHIAVI: infanzia negata e segni di cambiamento. L’ARCOBALENO SPEZZATO

La nave
africana, carica di piccoli destinati alle piantagioni spinge ad alcune
riflessioni: non solo sul lavoro minorile, ma anche su cammini
possibili,per opporsi a questa situazione. Insieme a Claudia, Daniela,
Arturo, Feliciano… per gridare insieme: «Un altro mondo è possibile!».

La vicenda
dell’«Etireno» (la nave carica di piccoli schiavi apparsa e scomparsa
tempo fa sulle coste africane) ha riportato alla ribalta della cronaca la
drammatica situazione dell’infanzia «negata» nel mondo.

I mass
media – è vero – ci bombardano di statistiche, dati e analisi, ma non si
sente la voce dei protagonisti, dei 250 milioni di baby lavoratori.

Si pensa
ad una merce «particolare»: ragazzini imbarcati per essere venduti come
manodopera. Chi conosce il Sud del mondo sa che è cosa normale per ragazzi
e ragazze dai 12-13 anni lavorare: impiegati nella cosiddetta «economia
informale». Per le ragazze, questo significa di solito fare le domestiche
o le venditrici; per i ragazzi finire a lavorare nelle piantagioni di
cacao, caffè o altre produzioni da export dell’Africa occidentale, non
certo a paga sindacale.

I
rappresentanti dei ragazzi lavoratori africani provenienti da Benin, Costa
d’Avorio, Mali, Senegal e Togo si sono incontrati a Bamako (Mali) nel
novembre 2000, con il sostegno di Enda (la maggiore organizzazione non
governativa dell’Africa francofona) e hanno sottolineato il contesto in
cui può avvenire il traffico di giovanissimi, fuori dalle mitologie sui
«bambini schiavi»: un contesto regionale di migrazioni transfrontaliere di
ogni tipo, in particolare per attività di commercio, spesso assimilabili
alla frode, al contrabbando e altri traffici.

La
povertà, l’insufficienza alimentare, la mancanza di soldi o il costo
troppo elevato per mettere a scuola un bambino (quando la scuola esiste),
un certo sentimento di miseria e abbandono… spingono alla fuga in città.

Compagni
di questi ragazzi lavoratori africani sono i movimenti Nats («Niños
adolescentes trabajadores»), organizzazioni interamente autogestite da
bambini e adolescenti lavoratori, nate nel Perù degli anni ’70 e diffuse,
poi, a tutta l’America Latina ispanofona (ultimamente anche all’India).

Proprio
rivolgendosi ad Alejandro Toledo (dallo scorso 3 giugno presidente del
Perú, figlio di una povera famiglia e per questo a 10 anni già lavorava
come lustrascarpe), i rappresentanti del «Movimento nazionale dei bambini
e ragazzi lavoratori» organizzati del Perù (rappresentanti di ben 12 mila
ragazzi/e), gli hanno rivolto una «lettera aperta»: in essa difendono il
proprio diritto a lavorare in condizioni degne, a poter usufruire di
un’adeguata istruzione ed assistenza sanitaria.

Sul tema
della povertà, i ragazzi chiedono un nuovo piano di azione a livello
nazionale che tuteli gli interessi dell’infanzia e unisca alla lotta
contro la miseria quella per l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento
del lavoro minorile. Particolare attenzione viene, inoltre, richiesta alle
esigenze dei bambini delle aree rurali e comunità indigene.

La
«lettera aperta» è stata diffusa da Fabio Cattaneo, presidente
dell’Associazione Italia-Nats (che raccoglie 14 associazioni,
Organizzazioni non governative e Botteghe del commercio equo italiane,
collegate in rete per far sentire la  voce dei bambini di tutto il mondo)
ad un convegno dal titolo: «L’arcobaleno spezzato: dall’infanzia negata
nasce il cambiamento».

In quell’occasione
Maria Teresa Tagliaventi (esperta di lavoro minorile e componente
dell’Associazione Nats) ha sottolineato che «i movimenti Nats hanno la
peculiarità di lottare contro ogni forma di sfruttamento economico dei
minori, pur essendo contrari ad una abolizione del lavoro infantile che
sia globale e aprioristica. I Nats adottano, infatti, l’approccio della
cosiddetta valorizzazione critica, secondo cui il lavoro, quando è svolto
mediante opportune modalità, può essere un mezzo di sviluppo e crescita
del soggetto, anche se si tratta di un bambino.

L’azione
di questi movimenti è incentrata sul miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’eliminazione di tutte le  altre forme di sfruttamento economico
del bambino.

È questo
un approccio non convenzionale, che purtroppo, deve fare i conti con
l’ostracismo l’avversione di tutte le principali istituzioni
transnazionali, ministeriali e sindacali.

I Nats
dimostrano con la loro esperienza che il lavoro non serve solo per
sopravvivere materialmente, ma ha anche una valenza sociale nel favorire
lo sviluppo integrale della persona, nello stimolare i rapporti
interpersonali e nel creare identità, cittadinanza e protagonismo; può
quindi diventare strumento di cambiamento delle stesse realtà di
ingiustizia sociale che lo generano.

 

In qualità
di educatore e cittadino solidale, che ha condiviso il cammino con
ragazzi/e a «rischio d’esclusione» a Palermo (i picciriddi scannazzati),
con meninos de rua in Brasile, con ragazzi/e lustrascarpe in Ecuador,
testimonio l’importanza di riconoscere e valorizzare il loro protagonismo
di autogestione, cittadinanza attiva e mutamento dal basso.

Sono
piccoli costruttori di speranza in un mondo impoverito da un’economia, che
accentra nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone la
ricchezza e che esclude masse sempre più grandi dalla possibilità di una
vita umana e dignitosa.

«In una
società che mette al centro il profitto e l’avere, anche noi bambine/i e
ragazze/i diventiamo oggetti e cose sacrificate all’efficienza e alla
competitività del sistema e soffriamo per la fame; siamo sfruttati nel
lavoro precoce. I nostri corpi sono usati e consumati nella prostituzione,
per soddisfare gli adulti. Siamo coinvolti nel traffico e nel consumo di
droga e nelle guerre degli adulti; reclutati come bambini soldato per far
esplodere campi minati; decimati dagli squadroni della morte, siamo
vittime di violenze  persino nel seno delle nostre famiglie» (tratto dalla
«Lettera dei ragazzi/e del mondo», provenienti da Brasile, Ecuador,
Guatemala, Perú, Cameroun, rivolta all’Onu dei popoli radunati ad Assisi
nell’ottobre 1997).

Questo
grido di denuncia è stato lanciato anche durante la carovana «Grido della
speranza» di un anno fa, dove per un mese ho accompagnato 30 ex meninos de
rua che hanno percorso le strade d’Italia per offrire uno spettacolo di
arte e cultura brasiliana, capace di esprimere la forza della frateità:
un’alternativa di cambiamento, che nasce dall’universo dell’infanzia
negata.

Dopo 500
anni, le caravelle approdate in America Latina sono ritornate indietro con
un messaggio di pace e giustizia per risvegliare la vecchia Europa. I
ragazzi invitano i coetanei italiani a partecipare al Giubileo al rovescio
«Pachacutik» (in lingua quechua, «inversione di rotta»), svoltosi nel
gennaio scorso a Rio de Janeiro (nella frontiera della Baixada Fluminense,
dove padre Renato Chiera lotta contro gli squadroni della morte per
difendere i meninos de rua).


Organizzato dall’Associazione internazionale «Noi Ragazzi del mondo», vi
hanno preso parte 134 ragazzi/e, lavoratori nel microcosmo della strada,
provenienti da Ecuador, Perù, Brasile, Guatemala e Italia.

Ricordo
l’ultimo giorno dell’anno a Rio de Janeiro. Ci immergiamo in una folla di
2 milioni di brasiliani, che stanno aspettando il 2001 lungo le spiagge
di  Copacabana. Questo formicaio umano sembra resistere alla furia di un
uragano di pioggia e freddo, davvero anomalo a queste latitudini.

Mi
avventuro tra questi «gironi danteschi», protetti da grattacieli: con la
loro maestosità e ricchezza, vorrebbero costruire un altro muro di Berlino
per difendersi dalla miseria e dalla violenza delle favelas.

Sono in
compagnia di Claudia, «passionaria» ecuadoriana di 28 anni (la mia età),
che accoglie 40 bambini di strada nella Sierra andina; Daniela, un’ex baby
prostituta carioca di 16 anni, «affamata» di carezze; Arturo, intelligente
piccolo lavoratore quattordicenne di Lima e militante nei Nats, che ci ha
raccontato come stanno lottando in Perù contro il debito estero; Marcelino,
un ex ragazzo di strada, sopravvissuto agli squadroni della morte e ora
ottimo animatore di «minori a rischio d’esclusione», che imparano a
gestire i conflitti, scoprire la pace in un Guatemala segnato da oltre 30
anni di guerra civile; Anita, adolescente india dell’etnia quechua che, 5
anni fa, spacciava droga e ora, a 16 anni, fa da mamma ai bambini
abbandonati accolti nella casa famiglia «Cristo de la calle»; Jussara,
«pantera nera» di 29 anni e fiera di essere afrodiscendente, che, pur
provenendo da un quartiere povero, si è laureata e sta aiutando la sua
comunità nell’educazione popolare.

Con
Claudia, Daniela, Arturo, Feliciano, Anita e Jussara formiamo una banda di
pazzi, innamorati della vita, malgrado tutto. Ci stringiamo forte le mani,
ci abbracciamo stretti per riscaldarci col calore dei corpi, con l’energia
della nostra anima. Con la forza della nostra nudità di «piccoli della
terra», ci opponiamo ad un uragano ben più violento e oppressore: il
neoliberismo.

Non
brindiamo con champagne, ma condividiamo i sogni che abbiamo espresso a
madre natura, al Signore della vita.

È una
passione che continua ad accendermi come un fuoco d’utopie inarrestabili:
il piccolo Davide continua a lanciare pietruzze contro il gigante Golia; è
la strategia lillipuziana dei piccoli passi, per indignarci di fronte alle
ingiustizie e costruire un’alternativa all’economia che idolatra il
profitto e mercifica perfino i sentimenti e le relazioni umane.

Anche noi
gridiamo: «Un altro mondo è possibile!». L’abbiamo fatto insieme ai 10
mila partecipanti al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e lo faremo in
luglio al G8 di Genova. È la speranza del cammino di coscientizzazione,
liberazione e protagonismo dei ragazzi/e lavoratori nel microcosmo della
strada. Una speranza che non muore.

(*)
Cristiano Morsolin è un educatore che ha lavorato con i ragazzi di strada
di Palermo, del Brasile e dell’Ecuador. Fa parte della Comunità
internazionale di Capodarco (AP).

Cristiano Morsolin