SE OSPEDALI E SCUOLE DIVENTANO IMPRESE

Vivo
nella periferia di Lima, con due figli piccoli e mia moglie peruviana. Pur
essendo qui da 9 anni, ancora non riesco a farmi una ragione di ciò che
vedo. Non mi abituo a considerare gli ospedali, anche i più umili, come
luoghi proibiti per molta gente, perché, se vi entrassero, dovrebbero
pagarsi tutto… Due anni fa donai il sangue per una ragazza con cancro
terminale. Nell’ospedale «pubblico» dovetti pagare 20 dollari… per
donare il sangue!… Quattro anni fa una donna incinta arrivò all’ospedale
per un parto d’emergenza; le cose si complicarono e si rese necessario il
taglio cesareo. Ma, sorpresa, il medico non poteva operare, perché la
donna non aveva i soldi per le spese dell’intervento. Morì sia lei sia la
creatura che portava in grembo. Sconvolto, chiesi spiegazioni. Il medico
rispose che situazioni così erano comuni. Se avesse deciso di operare la
donna, avrebbe dovuto pagare lui l’intervento, perché l’ospedale non
fornisce neppure il bisturi.

Non mi
abituo ad ascoltare i bambini che non vanno neppure alla scuola pubblica,
perché non possono comprarsi il grembiule. O perché non hanno tempo,
dovendo lavorare per aiutare la famiglia. E continuo a domandarmi: perché
succede questo? Nel centro di Lima, mi capita di passare tra grandi ville
con piscina, campo da tennis, governanti e guardiani. Non posso non
chiedermi: perché tanto sfarzo?

A parte
l’eterna e crescente differenza tra ricco e povero, ho scoperto che
ospedali e scuole sono delle imprese e, come tali, devono chiudere il mese
in attivo. Tutto rientra nei programmi del Fondo monetario internazionale,
che partono dall’assioma: lasciare tutto al Mercato perché Lui regolerà
ogni bisogno. E così, negli ultimi 10 anni di impero del mercato, si è
consumato di più in cosmetici che in alimenti. Ed è rispuntata la TBC, che
in America Latina chiamano «malattia della nuova economia». Nella nostra
zona ha già colpito oltre la metà dei bambini. L’assistente sociale
vorrebbe mettere su un programma per prevenirla. Però mancano i fondi e lo
stato rimane a guardare in attesa che il mercato regoli anche questo
bisogno… A meno che non si ricorra alla carità (si parla infatti di
«capitalismo compassionevole»). Questo è l’unico spazio che ci lascia il
sistema neoliberista, che così prende due piccioni con una fava: da una
parte toglie ai poveri la dignità e, dall’altra, permette ai ricchi di
sopire i problemi di coscienza che di tanto in tanto affiorano, nonostante
l’overdose di indifferenza.

D ico:
«Cambiamo i politici. Votiamo per quelli più vicini ai problemi della
gente». Poi scopro che tutti devono obbedire alla nuova trinità: un unico
dio (il neoliberalismo) in tre entità (Fondo monetario internazionale,
Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio). Questi hanno
deciso che tutto deve essere riducibile a merce acquistabile sul mercato,
anche i servizi basici (salute, educazione, cibo, casa). Lo stato
interventista è scomparso; resiste solo come esercito per difendere i
confini, come polizia per la sicurezza intea e come ufficio per pagare
il debito estero. Alcuni, con tanta ipocrisia, parlano di «neoliberalismo
dal volto umano». Io non riesco a vederlo.

Credo che
occorrerà fare un enorme lavoro educativo. Partendo dall’antidoto della
solidarietà (che fa rima con dignità, non con elemosina), si potrà pensare
a nuovi rapporti nella società e nel mondo. Ma queste conclusioni (così
ovvie in una realtà latinoamericana) non sono tanto scontate per altri in
altri luoghi (in Italia, per esempio). A volte, anche per chi dice di
condividere un discorso missionario a servizio di una vita degna per tutti
i figli di Dio.

Sarà che
ormai io sono troppo distante dalla realtà italiana e, in generale, dal
Nord del mondo?

Gianni
Vaccaro, Lima (Perù)

Gianni Vaccaro