CONGO, RD – Ambasciatori in scarpette e calzoncini

Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti
ha raggiunto la regione orientale della Repubblica democratica del Congo
per unirsi alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare
pace e rispetto dei diritti umani.
L’iniziativa ha seminato forti speranze che attendono di diventare realtà.

Sembrava un’idea temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso, quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati i costruttori di pace», «Operazione colomba» e «Chiama l’Africa», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo, nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo, per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.
PROGETTO «VISIONARIO»
A volte la causa della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante appoggio logistico ai pacifisti.
L’ispiratore di tale iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri e manifestazioni varie.
Che i tempi fossero maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.
Alla frontiera ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman, percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno. In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!» (pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?» domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama: la chiamano «Organizzazione non utile».
Dopo una sosta a Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del Rassemblement congolais pour la democratie (Rcd) di Goma, appoggiati dai rwandesi.
A Butembo apparvero ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati ufficiali?».
SIMPOSIO PER LA PACE
A Butembo i pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali attori politico-militari della regione.
«Simposio» è una parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.
All’apertura dei lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba, presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia assoluta».
La replica di Bemba non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a volte è necessario combattere».
Il Sipa chiuse i lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza intercongolese di pace.
Nonostante il moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine della giornata conclusiva.
IL CAPO CHIEDE PERDONO
Lentamente, le circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio contributo.
La cerimonia finale, che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa. «Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -. Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare ritorno alle loro sedi».
L’annuncio è accolto dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.
Stupore anche fra le fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati, obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo intrapreso quest’avventura.
SPERANZA APPESA A UN FILO
Solo il tempo dirà se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.
Nessuno è così ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae. L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.
Le ultime notizie che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle truppe straniere di occupazione.
La smobilitazione delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu (uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.
Non è chiaro, infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo, il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.
Il futuro rimane ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.
Marco Pontoni è giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.

Marco Pontoni




La lettera dell’inafferrabile

R itengo opportuna qualche osservazione sull’articolo di Missioni Consolata, febbraio 2001, che presenta la travagliata lotta di liberazione dei mau mau in Kenya.
Il direttore africano della Chinga Girls’ Secondary School, dove insegnai come volontaria laica missionaria (1970-72), mi regalò il libro Mau Mau General di Waruhiu Itote. È stato uno dei testi da cui ho tratto i brani per l’antologia Un angolo d’Africa, che presenta «il Kenya visto dai suoi scrittori». L’essere vissuta in zona mau mau, ascoltando la storia scritta dai kikuyu, mi ha molto influenzata. Con i dovuti «distinguo», ho paragonato la loro lotta di liberazione al nostro risorgimento.
Invito a leggere Un chicco di grano di Ngugi Wa Thiong’o, presentato su Missioni Consolata, giugno 1998. Scrivo: «Gikonyo e Mumbi, protagonisti del romanzo, portano i nomi che la tradizione kikuyu attribuisce ai progenitori della tribù e incarnano le sofferenze di un popolo umiliato e oltraggiato dalla dominazione coloniale, diviso e perseguitato durante l’emergenza mau mau, ma caparbio nel volere conquistare libertà e dignità». Purtroppo la violenza genera sempre morte e distruzione. Leggendo però le cifre al termine della rivolta, risultano morti: mau mau 10 mila; lealisti 2 mila; forze governative 534; europei 63; civili 32.

C ome si comportarono i missionari della Consolata in quel tempo? Durante il sinodo della diocesi di Nyeri (1975-76), che mi vide impegnata come sociologa, raccolsi molte testimonianze, redatte da gruppi di lavoro, sulla storia della loro parrocchia. Ne cito alcune riportate nel mio libro Una chiesa africana s’interroga. Cultura tradizionale kikuyu e cristianesimo.
«F ra i missionari citati dal 1904 al 1961, a Ruchu ricordano padre Francesco Comoglio come loro leader spirituale per tutto ciò che fece. Durante l’emergenza mau mau aiutò in tutti i modi i cristiani, anche coloro che erano in carcere. Battezzò moltissime persone e costruì tantissime cappelle, malgrado fosse un periodo difficile, e dimostrò un notevole coraggio».
«Padre Bartolomeo Negro fu parroco di Karima dal 1946 al 1955: attivo, generoso, misericordioso, allegro, coraggioso e gentleman. Amò amici e nemici. Aiutò chiunque avesse bisogno. Si acquistò le simpatie della maggioranza della gente e tutte le scuole “protestanti”, chiuse durante l’emergenza, furono riaperte grazie a lui».
«Nel 1954 la gente fu rinchiusa in villaggi. Padre Ottavio Sestero, aiutato dalle suore, iniziò l’insegnamento del catechismo in ogni villaggio. Grazie a tale notevole lavoro, la parrocchia mise radici ovunque. Padre Sestero lavorava giorno e notte per conquistare i leaders che predicavano contro la chiesa cattolica. Riuscì nel suo intento e divenne amico di tutti, che iniziarono a rispettare i cattolici» (Kerugoya).

A llego pure la lettera che il capo dei mau mau, Dedan Kimathi, scrisse a padre Nicola Marino. La lettera, conservata a Roma nell’archivio dell’Istituto Missioni Consolata, fu pubblicata nel maggio 1957 su Wathiomo Mukinyu, settimanale della diocesi di Nyeri.
Silvana Bottignole – Torino

Ecco la lettera di Dedan Kimathi, impiccato dagli inglesi. Una testimonianza della misericordia di Dio e di fiducia verso i missionari.
Caro Padre Marino, è circa l’una di notte e mi sono munito di matita e carta per ricordare lei e tutti gli amici, prima che scocchi la mia ora. Sono indaffarato e felice di andare in Cielo domani, 18 febbraio 1957.
Desidero farle sapere che padre Whellan venne a visitarmi in carcere, non appena seppe del mio arrivo. È una persona molto cara e gentile, come non mi sarei aspettato. Mi ha visitato spesso e incoraggiato in tutti i modi. Mi ha dato dei libri importanti, che più di ogni cosa mi hanno acceso di speranza per la strada verso il Paradiso… Padre Whellan mi visitò anche il giorno di natale, mentre ebbi parecchie visite negli altri giorni. Mi spiace che non mi abbiano ricordato il giorno della nascita del Nostro Salvatore. È un peccato che mi abbiano dimenticato in una ricorrenza così felice.
Ho il problema di mandare mio figlio a scuola. È lontano da voi, ma spero che possiate fare qualcosa perché sia istruito sotto la vostra cura. Cerchi anche di visitare mia madre, molto anziana, e di confortarla perché sarà tanto addolorata.
Mia moglie è prigioniera nel carcere Kamiri e spero che venga rilasciata. Vorrei che le suore avessero cura di lei, ad esempio suor Modesta, perché si sente molto sola. Avrei piacere che fosse vicina alla missione di Mathari, così da essere accanto alla chiesa.
Addio a questo mondo e a quanto c’è in esso. I migliori auguri agli amici che non incontrerò più in questo mondo nervoso.
Trasmetta i miei complimenti a quanti leggono Wathiomo Mukinyu. Mi ricordi a tutti i padri, fratelli e sorelle. Pieno di speranza, la saluto, caro padre. Con affetto, il suo convertito che sta per lasciare questo mondo.
Dedan Kimathi

Silvana Bottignole




L’imbarazzo del buon Dio

L’imbarazzo del buon Dio

Cari missionari, la mamma (abbonata alla vostra rivista) è mancata il 18 giugno 2000, vigilia del suo compleanno e onomastico. Infatti era stata battezzata con il nome di Maria Consolata su suggerimento di una sorella del nonno, devota della Vergine Consolata.
Mamma Maria Consolata fu malata per diversi anni e, dal 1996, rimase a letto, immobilizzata, a causa di una forma di demenza senile che l’aveva colpita nel 1993, a 70 anni. La malattia, grave, progressiva e invalidante, l’aveva trasformata in una persona «diversa», completamente alla dipendenza degli altri… Il dolore è stato il compagno fedele di nostra madre. Non ci è stato facile accettare il suo inesorabile decadimento fisico e psichico.
Spesso mi sono affidata alla Vergine: nei momenti di scoraggiamento ho chiesto aiuto a Lei, la Consolata.
Ora desidero che Missioni Consolata sia indirizzata a me, per continuare la tradizione familiare di lettura e riflessione di questo mensile. È una «finestra aperta sul mondo», una testimonianza di fede e coraggio di tanti uomini e donne, che hanno saputo scoprire l’essenzialità, l’umiltà, la carità.
Teresa Ressia – Saluzzo (CN)

Lettere come questa ci ricordano le parole di Gesù: «Alzati e cammina!»; ed anche quelle del beato Allamano: «Coraggio e avanti». Grazie, Teresa.
E grazie pure a Maddalena Soccini, di Montodine (CR), che ci scrive:
Cari missionari, vi mando un’offerta a nome di mio nipote: lui non va a messa, ma crede ai missionari e si serve di me per fare un po’ di bene.
Sono una povera vecchia, che ha battezzato 10 figli. Il 1° aprile ho compiuto 95 anni. Prego sempre il buon Dio che mi chiami, però Lui sta tardando un po’. Ho anche un altro nipote, sacerdote. Lui invece prega così: «Signore, se vuoi, lascia ancora un po’ la nonna con noi…».
Da parte nostra, commossi, osiamo commentare: ecco come si può mettere in imbarazzo anche il Padre Eteo.

Teresa Ressia




La verità è verità

Spettabile redazione,
ho letto il «numero straordinario» sui 100 anni dei missionari della Consolata. Nel 1936 la rivista Missioni Consolata esaltò il trionfo dell’Italia in Etiopia. Ma oggi voi parlate di «aggressione da parte dell’Italia fascista». Non voglio più ricevere la rivista.
Claudio Simonetti
Cumiana (TO)

Signor Simonetti, il suo rifiuto della verità storica ci lascia perplessi.

Claudio Simonetti




Nessuno sconto alle mine antiuomo

Caro direttore,
mi riconosco in pieno nell’appello di Massimo Veneziano (Missioni Consolata, marzo 2001): «Facciamo guerra alla guerra!». Le mine antiuomo e le bombe cluster sono diverse solo nel nome, non negli effetti sulle popolazioni, sull’agricoltura, sull’ambiente, compreso quello marino (come hanno dimostrato gli ultimi inquietanti episodi nell’Adriatico).
Non dimentichiamo che, come è già avvenuto nel recente passato, le aziende produttrici di mine sono più vive che mai: è il caso della Società Esplosivi Industriali (SEI) di Ghedi che, aggirando la legge 22/10/1997, nota anche come Legge Antimine o Legge Occhetto, sta per realizzare un nuovo impianto a Domusnovas (Cagliari): intende costruire «una linea di ordigni militari da destinare al mercato mondiale».
Uniamo dunque la nostra voce a quella del vescovo di Iglesias, Tarcisio Pillolla, che rifiuta la retorica vigliacca dell’industria diversificata, portatrice (si dice) di lavoro per i giovani e di sviluppo per il territorio locale. Ribelliamoci a chi, come la Regione Sardegna, sembra disponibile a incoraggiare l’impresa con denaro pubblico.
Non dimentichiamo l’appello alla pace e alla riconversione vera (non truccata) dell’industria bellica, che un altro vescovo, Bruno Foresti, lanciò ai funerali di Giuseppe Bignotti, Dario Cattina e Franco Sentimenti, uccisi il 22/8/96 dall’esplosione del capannone per la lavorazione delle bombe MK 82 di proprietà della SEI.
È stata proprio la SEI a provvedere al caricamento degli stampi della Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, con migliaia di schegge (vetro, plastica e metalli vari), tanto minute quanto devastanti, disseminate a milioni in decine di paesi e in grado di colpire indiscriminatamente uomini e animali, militari e civili, donne che lavorano nei campi e bambini che giocano in cortile. E, in un numero non trascurabile, anche volontari che portano soccorso alle vittime e sminatori impegnati nell’ingrato compito della bonifica.
Rispettiamo le atroci sofferenze di Tonina Cordedda, bambina di 9 anni di Nughedu San Nicolò, che nel 1973 incappò in un ordigno antipersona (probabilmente un residuato della seconda guerra mondiale) perdendo occhi e braccia.
La costruzione di una nuova fabbrica di esplosivi militari in Sardegna, a un’ora di macchina dal luogo dell’episodio che cambiò brutalmente la vita di Tonina, sarebbe un cinismo imperdonabile.
Francesco Rondina
Fano (PS)

Varie volte Missioni Consolata ha denunciato il business e le tragedie provocate dalle mine antiuomo, senza concedere sconti.

Francesco Rondina




Padre Giovanni Milo

Caro direttore,
sono un fratello di padre Giovanni Milo, tragicamente scomparso di recente e di cui, penso, siate a conoscenza. A nome di mia madre, affranta ancora da profondo dolore e dei familiari tutti, ringrazio sentitamente per quanto avete fatto per lui.
So che padre Giovanni era molto legato ai missionari della Consolata e l’ha dimostrato sempre e in ogni modo. Nell’esaminare la sua documentazione, ho riscontrato che ha stipulato cinque polizze-vita presso una banca del luogo, il cui beneficiario è l’Istituto Missioni Consolata. E questo nell’ultimo mese, prima di morire, quasi come un segno premonitore.
Accludo anche copia di uno scritto in forma poetica, indirizzato a padre Giovanni, che meglio sintetizza e descrive la sua figura, nella speranza che voglia pubblicarlo sulla sua rivista.
Michele Milo
Patù (LE)

Eri il vincastro
di nostro Signore
a tutti additavi
la strada priore,
eri severo
da confessore
ma, a chi pentito,
donavi il tuo cuore.
Sei stato per noi gran testimone cristiano
di sagge parole
e molto umano,
avevi per tutti
un sincero sorriso
e proseguivi con
la saggezza sul viso.
Le tue omelie
scavavan la mente
d’ogni fedele
che era presente,
eran penetranti
le tue parole,
che scuotevan
la coscienza
e arrivavan al cuore.
Una volta affermasti, spiegando il Vangelo,
a chi pensa:
«C’è tempo per le cose del cielo,
Dio vuol la primizia
e non i miseri resti».
Io rimasi colpito
di quanto dicesti.
Or hai lasciato
tragicamente
questa vita terrena
improvvisamente.
Nella tua vita,
primizia tu hai dato
e colmo d’amore
a Dio sei arrivato.

Francesco Petracca

Michele Milo




Cresciuta con voi

Cari missionari,
ho letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.
Vi mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio, l’era multirazziale.
Immacolata Antonacci

Capurso (BA)

Eccola Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in compagnia dei genitori.

Immacolata Antonacci




Un tesserato… della speranza

Signor direttore,
sono stupefatto nel leggere, oltre ad ascoltare, di tante persone che descrivono Berlusconi come un alfiere della libertà e del progresso. Costoro alimentano una confusione terribile tra «liberalismo» e «neoliberalismo».
Innanzitutto una precisazione doverosa, per evitare ulteriori confusioni e distinguere in maniera chiara in quali «acque stiamo nuotando».
Il liberalismo nasce come un fenomeno di emancipazione (della borghesia), con un senso di libertà e progresso di fronte alla monarchia assoluta e al feudalesimo. Invece il neoliberalismo non si afferma contro un governo reazionario, ma ha un forte sentimento di conservazione, rifiuta la politica come qualcosa di sporco e, soprattutto, domina il grande capitale.
Anche il tratto psicologico è diverso: rispetto alla società del liberalismo, in quella del neoliberalismo c’è ansietà, paura di quelli che vivono in «basso» e si difende la propria nicchia di benessere. A tale proposito, lo studioso tedesco E. Fromm diceva che esistono solo due grandi partiti nella storia: quello della speranza e quello della paura. Nel primo le persone lottano per un futuro migliore dell’umanità, rifiutano lo status quo e il sistema vigente perché non lo considerano umano. Le persone del partito della paura, invece, cercano rifugio nel passato, nelle nicchie dove possono proteggersi di fronte ad un futuro che non conoscono.
A mio avviso, stiamo vivendo in un periodo di oscurantismo culturale, sociale ed economico chiamato neoliberalismo, che ha ereditato troppo poco dal liberalismo. Questo sistema è capeggiato a livello internazionale dalla Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione mondiale per il commercio. In Italia il suo degno rappresentante politico si chiama Silvio Berlusconi, leader del «partito della paura».
Intendiamoci: non considero Berlusconi un’appendice nazionale delle organizzazioni mondiali menzionate, bensì il prodotto della loro cultura e, in particolare, di coloro che danno dignità e rappresentanza al partito della paura descritto da Fromm. Perché?
Perché si auspica che la competizione di mercato possa regolare tutti i rapporti economico-sociali, escludendo ogni forma di mediazione che metta in contrasto con il «Dio denaro» e il «Dio successo».
In Perù ho assistito all’instaurazione del regime neoliberalista di Alberto Fujimori, che della paura fece il partito della farsa e dell’inganno. Ho anche visto, a causa delle privatizzazioni selvagge, le scuole trasformarsi in privilegio per pochi e gli ospedali diventare un business per i più facoltosi, anziché rappresentare un diritto e un patrimonio sociale collettivo. Infine ho costatato che la precarietà di ogni giorno può, nei soggetti deboli, cambiare i rapporti fra le persone, la cui regola di vita diventa il peggiore individualismo, sinonimo di paura.
Personalmente mi considero un tesserato del «partito della speranza» e spero di essere in numerosa compagnia con tanti lettori di Missioni Consolata, affinché i «partiti della paura» siano sconfitti nelle prossime elezioni.
Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Ai vincitori delle ultime elezioni ci permettiamo, con il signor Gabriele Vaccaro, di rivolgere un invito.
«Per vincere “il partito della paura”, si deve rompere con l’individualismo neoliberalista, e cioè: aprirsi alla solidarietà, passare da un mondo che ha il suo epicentro nell’“io” ad uno che parta dall’“altro”. Un “io” che si riscopra di fronte all’altro, dando priorità a una relazione che permetta di rivendicare la propria libertà, ma che non esiga la subordinazione degli altri».

Gabriele Vaccaro




Ipocrisia armata

Signor direttore,
la lettera del signor Fressoia è molto discutibile, specialmente quando afferma che la ricchezza economica favorisce la maturazione sociale e culturale. I soldi non hanno certo fatto maturare molto la nostra epoca. Parecchi – è vero – posseggono un buon conto in banca. Ma è «maturazione sociale e culturale»?
Quanto al terzo mondo, non facciamo gli ipocriti! In Africa impazzano dittatori rozzi e armati fino ai denti. Ma chi vende loro armi e non pasta? Sono anche personaggi di fabbriche italiane, eleganti, pacati, persino con parole da «vangelo». E qui mi incavolo, perché se vogliamo eliminare le guerre, dobbiamo prima smettere di costruire armi. Invece, nel mercato libero della globalizzazione…
La verità è che i dittatori dell’Africa o dei Balcani stanno al gioco di altri dittatori: dittatori veri, che il signor Fressoia tende ad esaltare. Gli Stati Uniti e l’Europa ne sono pieni.
L’Africa vanta un sottosuolo ricchissimo, eppure annaspa fra mille problemi. Allora non sempre la ricchezza fa ricchezza. Un problema di fondo è pure il clima. Non per niente, in genere, i paesi più industrializzati godono di buone condizioni climatiche. Se l’Europa avesse il clima del Sudan, non ci sarebbero Agnelli e Berlusconi che tengano. E, dinanzi a siccità e uragani, la nostra fatica quotidiana conterebbe zero.
Alessandro B.
Modena

Nel 2000 l’Italia ha esportato armamenti per 1.658 miliardi di lire. Fra le armi non scordi quelle leggere. Uccidono una persona ogni due minuti: 300 mila vittime all’anno. Nel 1999 è stato di 600 miliardi il nostro profitto delle armi leggere. La legge 185 del 1990 impone restrizioni, ma… l’Italia è terza al mondo.

Alessandro B.




Tutti mercanti

Egregio direttore,
intervengo nel dibattito aperto dai signori L. Fressoia e L. Trobbiani sul numero di marzo. In molti casi ormai non c’è più distinzione tra destra e sinistra.
Ho sempre votato a sinistra; ma ho visto sussiegosi politici sorridere e ridere all’affermazione che «la sinistra dovrebbe difendere i poveri». Ingenuità imperdonabile vero? Ora siamo tutti liberi mercanti. Che amarezza!
Francesco Benegiamo
Galatina (LE)

Nell’amarezza del lettore scorgiamo anche un positivo senso di rivolta.

Francesco Benegiamo