Ma se l’è proprio cercata?

Aids tra scienza e coscienza

Nel tunnel chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce,
dopo il buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo,
anche se dal Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo
(finora proibitivo) dei farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti.
Specie quando si deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani) non ci saranno più?».
Quelli erano gli anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di pochi anni.
Oggi quasi tutti i sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.
Ecco cosa può fare la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è attaccabile in maniera molto selettiva.
La svolta di Vancouver
Yokoama, agosto 1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte: tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…
Vancouver (Canada), luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile. Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15 mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è diffusa, sono tutti lì.
David Ho parla dei nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici, pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.
Dal 1996 poco tempo è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo, attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad ogni livello.
Molte cose sono cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.
il medico «sa»
Oggi si ammalano di Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le terapie.
Però i sieropositivi continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul medico vengono «scaricate» angosce e timori.
Il medico è uno dei pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte, si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza tecnico-scientifica o di fuga.
Personalmente mi sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non «identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.
D’altro canto l’Aids ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi, nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle terapie.
In questi anni alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.
Ho visto cambiare tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri. Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le cure (cfr. box, pagina 40).
Mentre sto scrivendo questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39 case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla forza di piccoli-grandi eroi.
Già, quanti «eroi» ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.
Nella introduzione agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge: «Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».
Spesso penso ai tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che, durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca, Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…
Giustamente si paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic» incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi) vi hanno trovato posto.
«Ipersesso» e stranieri
Accennavo alla prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.
Ma oggi sarebbe necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade, nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura dell’Aids.
Ma a che gioco giochiamo?
Luc Montagnier, grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.
Esiste poi il grande problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere individuati, schedati, espulsi.
Non hanno ancora capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.
La prevenzione con gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma se colta in tempo.
Vi sono poi alcune situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo, cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il figlio diventa bassissimo.
Prudenza, non moralismo
«Dottore, che mi consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande prudenza.
Purtroppo la gente non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’ più di fortuna o prudenza in qualche occasione…
L’ignoranza è ancora dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata: «Lo sai che Tizio ha l’Aids?».
Pure il moralismo da quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone moralmente molto più a terra dei giudicati!
E poi, applicando questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…
Un giorno entra in ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’ di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:
– Ma a questo qui, quanto gli resta da vivere?
– Come ha detto? Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un mio paziente. Non si permetta di parlare così!
La signora abbozza una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria. Avrà capito?
In ogni caso ci vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.
Insieme ai farmaci, l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi, operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari. Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri limiti.
Come ha ragione quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.
Esiste un gruppo di persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per iscriversi è sempre aperta.

di Giancarlo Orofino (*)

Giancarlo Orofino