Una malattia chiamata fame


Non è difficile il passaggio dalla malattia psichica (schizofrenia, depressione) a quella organica (denutrizione, tubercolosi, Aids). Ed entrambe sono in relazione con le condizioni ambientali: famiglie disgregate, abbandoni del tetto coniugale,violenza contro donne e bambini. A loro volta, le tensioni familiari trovano terreno fertile quando manca il lavoro e le persone sopravvivono con il minimo, giorno dopo giorno. A Villa El Salvador (Perú), abbiamo visitato il «Centro de salud mental», nato per volontà di un sacerdote spagnoloe oggi diretto dalla «hermana» Patricia. Una realizzazione che ha dell’incredibile…

Villa El Salvador. Un giorno Reyna, di passaggio a casa mia per un caffè, mi dice che è di fretta, perché deve accompagnare una ragazza al Centro de salud mental.
Le chiedo informazioni e scopro che la mia vicina di casa è una volontaria del Centro e che le è stata affidata una ragazza-madre schizofrenica che vive nelle vicinanze.
Colgo l’occasione per chiederle di prendermi un appuntamento con il responsabile di questo Centro per un’intervista. Detto e fatto. Il giorno dopo, ho l’appuntamento.

A rrivato alla Capilla San José, entro in un piccolo ambiente con un bancone per accoglienza e sulla destra una piccola farmacia. Vengo fatto accomodare nel cortile interno, nel quale sono in attesa vari pazienti con alcuni accompagnatori.
Dopo pochi minuti, mi si avvicina una donna, che mi fa entrare in uno studio un po’ oscuro. Senza perdere tempo in convenevoli, inizia a parlare: «Bueno. Lavoriamo qui da quattro anni. Credo sia poco tempo, però forse si possono trarre alcune conclusioni».
Mi scusi – la interrompo -. Ci possiamo presentare?
«Ah, certo. Di lei so già tutto: me ne ha parlato Reyna. Io invece mi chiamo Patricia Yañez Cruz, hermana (sorella) Patricia. Sono qui da tre anni e sono la cornordinatrice cilena, professoressa e suora».
Di fronte ad una persona così sicura, all’inizio quasi non riesco a fare domande. Finalmente mi decido a porre la domanda che mi attanaglia: Hermana Patricia, che relazione esiste tra povertà e salute o, meglio, tra povertà e malattia?
«Lo abbiamo discusso parecchio con i nostri medici, i due psichiatri e lo psicologo. La verità è che molte delle malattie diagnosticate sono in relazione con la situazione economica, politica e sociale. Non oseremmo dire che ne sono la causa; però possiamo affermare che, sì, hanno una forte influenza».
«Pensiamo al fenomeno della disintegrazione familiare. In apparenza, è una questione di relazioni interpersonali; ma, a ben guardare, la maggior parte delle situazioni di disagio familiare ruota attorno ai problemi economici».
«Non oserei dirlo, perché ancora non abbiamo fatto studi specifici su questo; però a prima vista le cause dei problemi nelle famiglie nascono sempre dallo stesso punto. La famiglia non ha la possibilità di condurre una vita accettabile ed iniziano i problemi, le depressioni, le crisi, gli abbandoni del tetto coniugale, purtroppo molto frequenti».

C hiedo a suor Patricia come si è arrivati a decidere di lavorare in un settore così difficile e delicato e, soprattutto, in una comunità marginale come Villa El Salvador.
«Nacque tutto – mi racconta – da un’idea del parroco, padre Antonio Garzón, un sacerdote spagnolo che rimase qui per sette anni. Nel 1996, oppresso dai problemi (sempre più persone andavano a sfogarsi con lui) e cosciente che vi era un limite al di là del quale non poteva essere d’aiuto (un limite che doveva essere trattato da specialisti), propose alla comunità di avere un’assistente sociale e una psicologa, per rispondere ai problemi delle famiglie disintegrate, alle coppie, ai bambini».
«Inizió così. Tre persone che lavoravano alcune ore in parrocchia. Solo dopo si elaborò un progetto. Il Centro di salute mentale fu terminato nel 1998. In questo momento siamo quasi 40 persone che lavoriamo qui».
Quaranta persone non sono poche. E come è organizzato il lavoro?
«È organizzato per servizi. C’è un’area di psichiatria con medici, infermiere, una piccola farmacia (un lusso per Villa El Salvador), un gruppo di volontari che la gestisce e una psicologa».
«Poi c’è il settore di psicologia con tre psicologi e alcuni studenti dell’Università cattolica che vengono a fare i loro periodi di pratica. Infine abbiamo il servizio sociale, con due assistenti sociali e un programma di recupero pedagogico per i bambini con due professori assegnateci dal Provveditorato agli studi. C’è anche un’area di terapia fisica».
«È stato come muoversi in un circolo: una cosa ha portato all’altra. Quando si iniziò questo Centro, non c’era una metodologia pensata prima. Tutto fu creato man mano che ci si rendeva conto dei problemi e delle difficoltà. Si iniziò pensando ai bambini e alle donne. C’era molta violenza nei confronti delle donne, molti bambini maltrattati, violentati. Si pensò quindi a un servizio per questa tipologia di persone. Però questo gruppo era inserito in problematiche generali. Allora si pensò alla famiglia, agli adulti con problemi psicologici, con disordini psichici e si sviluppò anche quest’area. E quindi i bambini con problemi scolastici. Infatti, se nella famiglia c’è una situazione di violenza, immediatamente il bambino diminuisce il suo rendimento scolastico. Questo è automatico».
«Poi si notò che problemi economici, cattiva alimentazione (molta gente che viene da altre parti del Perú è male alimentata) e mancanza di educazione portano i bambini ad avere difficoltà di motilità fine e grossa. Si pensò quindi alla terapia fisica di riabilitazione, alla psicomotricità, alla stimolazione precoce. Insomma, il meccanismo che abbiamo messo in azione ha portato il Centro a crescere, fino a divenire un Centro di assistenza integrale».
Avete potuto svolgere degli studi per conoscere l’epidemiologia della malattia psichiatrica?
«Si stanno facendo studi, valutazioni, analisi delle diagnosi; però è complesso, perché abbiamo ancora pochi dati.
Possiamo confrontare solo tre anni perché all’inizio il lavoro era molto artigianale. Il servizio psichiatrico poi ha solo due anni e mezzo».
Quanti pazienti avete nel servizio psichiatrico?
«In psichiatria i pazienti sono 370, la maggioranza di Villa El Salvador e alcuni anche di altri distretti vicini, come Villa Maria del Triunfo, Lurin e Miraflores. Invece il numero di bambini è più elevato: circa 400 pazienti; si effettuano controlli programmati per tutto l’anno, con terapie fisiche, della parola o interventi pedagogici».
Ci sono a Villa altri servizi di salute mentale?
«Di questo tipo no: solo piccole cose. La gente arriva qui anche per la presenza della farmacia e perché i medici, che lavorano pure nell’ospedale zonale (Maria Auxiliadora) e nell’ospedale psichiatrico di Lima (Larco Herrera), ce li mandano, perché là non hanno possibilità di curarli come vorrebbero».
«In totale quest’anno abbiamo incontrato 9 mila pazienti. Non vogliamo però ampliarci ulteriormente, perché abbiamo raggiunto il limite delle nostre possibilità. Ciò che vogliamo è garantire il controllo costante ai pazienti. Vogliamo coinvolgere le famiglie e, in parte, ci siamo già riusciti, perché il paziente non deve venire da solo, ma accompagnato da un familiare; invitiamo sempre la famiglia a far parte dell’Orfasam (Organizzazione delle famiglie di salute mentale)».
«È un’organizzazione che si riunisce ogni 15 giorni per incontri e seminari, durante i quali si spiega cos’è la malattia mentale, che il paziente è una persona che non deve essere emarginata, che la malattia mentale è come ogni altra malattia. Si insegna poi come affrontare la sintomatologia dei pazienti, come capirli, appoggiarli, che fare quando sopraggiunge una fase critica».
«I familiari devono assistere a tali riunioni, impegnarsi a dare loro le medicine nel momento giusto e partecipare alle terapie di gruppo del venerdì. Tutto questo ha avuto come conseguenza un miglioramento del rapporto fra il paziente e la propria famiglia. È stato un lavoro duro, però bello, e ha portato a ricostruire una base di fiducia».
Qual è l’età dei pazienti?
«La maggioranza è giovane. Di ciò stavo discutendo con il medico, perché stiamo osservando che sta scendendo l’età dei primi sintomi della schizofrenia. Ci sono giovani di 17-18 anni, che presentano forme di schizofrenia. La maggioranza è però intorno ai 30 anni. Ci sono anche adulti; però il numero è più basso. I più sono giovani».
Sono malattie legate alla situazione sociale ed economica?
«Sì, certo. Sono fortemente legate, fortemente».
Quando cerco di raccontare di Villa El Salvador nel mio paese, quello che dico sempre è che la gente ha i nostri stessi problemi e in più la povertà.
«Più la povertà, è vero. Ed è una povertà molto, molto forte. Vivo da tre anni a Villa El Salvador e ancora mi sconvolge vedere la gente vivere con il minimo, giorno dopo giorno. Pensare che una famiglia possa risparmiare e programmarsi il futuro, immaginare di ottenere qualche cosa in più nel giro di un anno… no, qui questo proprio non è possibile! Moltissime donne e famiglie debbono cercare ogni giorno di ottenere il necessario per la sopravvivenza quotidiana. E un giorno di malattia è un giorno nel quale non si mangia del tutto. Così semplicemente…».
«Abbiamo discusso a lungo con l’assistente sociale. Costei ha trovato molti casi nei quali è la donna che deve uscire di casa per la quotidiana ricerca della sopravvivenza. È più facile, infatti, per una donna trovare lavoro che per un uomo: perché una donna può cucinare, preparare qualche cosa, vendere, lavare. Gli uomini, al contrario, possono soltanto lavorare nelle costruzioni, come tassisti o venditori».
La malattia psichiatrica si osserva di più nelle donne o negli uomini?
«Negli uomini. Io almeno l’ho vista più negli uomini, molti dei quali giovani».
Perché?
«Ci sono giovani che, finita la scuola superiore, non possono continuare a studiare e nel contempo non trovano lavoro. Così vanno in giro e possono passare un anno o due senza fare niente. Per questo cadono in uno stato depressivo, che è molto forte. Non possono aiutare la famiglia e questa rinfaccia loro di non portare niente a casa e di essere soltanto un peso economico. È molto duro da sopportare per un uomo».
Che legame esiste fra malattia psichiatrica, depressione e altre malattie come la tubercolosi o l’Aids? C’è una relazione?
«Per quanto ho potuto notare qui, sì. Le persone con problemi mentali, se la famiglia non li comprende, vengono respinte e quindi diventano dei vagabondi. È molto facile che contraggano malattie, nel senso che sono malnutriti, si ammalano più facilmente di tubercolosi e spesso anche di malattie a trasmissione sessuale. Nel Centro abbiamo casi di Aids… Non hanno un regime alimentare adeguato e stabile, si abituano a mangiare per strada cose che non sono nutritive, solo per riempirsi lo stomaco».
«Con altri centri medici parrocchiali, abbiamo visto un notevole incremento di tubercolosi in questo periodo e di tubercolosi associata all’Aids».
«Inoltre, non ho mai visto tanta spazzatura in Villa El Salvador come in questo momento e ciò porta come conseguenza un aumento delle malattie infettive».
Nel vostro lavoro, collaborate con altre istituzioni sanitarie?
«Questo è un centro parrocchiale e noi siamo parte del dipartimento della pastorale della salute nella diocesi. Al presente siamo otto centri sanitari parrocchiali con varie specializzazioni. Facciamo poi parte della “Rete municipale di assistenza e prevenzione della violenza sui minori”, alla quale partecipano più di 30 organismi statali, organizzazioni non governative ed altre istituzioni. Facciamo parte inoltre del gruppo di cornordinamento municipale Mesa de la Comunidad saludable».
La malattia psichiatrica è quindi una parte del grande problema della povertà?
«Sì, sì. Il dilemma è fra due atteggiamenti: l’assistenza o la prevenzione. Ci sono persone che, in questo momento, hanno bisogno di assistenza e occorre dargliela. Allo stesso tempo, però, sarebbe necessario un forte lavoro di prevenzione, educazione e formazione della gente da fare nelle scuole, in tutti i centri sanitari, nei municipi. Penso però che saranno necessari parecchi anni per vedere dei risultati. Senza dimenticare i cambi nella politica economica, affinché la gente possa avere più stabilità all’interno delle famiglie».
Hermana, lei ha visto peggiorare la situazione?
«Purtroppo sì, in questi tre anni ho notato un peggioramento. La gente è ogni giorno più povera e c’è sempre meno lavoro. Lo si nota vedendo quante persone vengono al Centro a chiedere aiuto».
Come si fa a raccontare questi problemi alla gente dell’Europa e di altri paesi ricchi? Per me è difficile, perché là non si conosce una povertà come questa e l’incertezza nella quale si vive.
«È vero, è difficile da spiegare… Quando uno vive in altre società e in altri ambienti, non riesce a comprendere una realtà così diversa. Anche in Perù ci sono sempre due mondi: il Perù turistico e quello della povertà inconcepibile. Basti pensare che a 20 minuti da Miraflores, dove ci sono gli hotel dei turisti, c’è Villa El Salvador con le sue invasioni di poveracci. Come spiegare l’inconcepibile?».
Gracias, Patricia!

R icordo quella volta che nell’ambulatorio si presentò una signora con un bambino.
Buon giorno, signora, che cos’ha il suo bambino?, le chiesi.
«Ha un po’ di tosse e di febbre, e vorrei che me lo controllasse».
Lo spogliai, lo pesai, tirai fuori il mio stetoscopio riscaldandolo prima fra le mani, glielo feci toccare affinché non si spaventasse e gli ascoltai i polmoni. Aveva solo una bronchitella.
Dopo avere tranquillizzato la signora, un qualche cosa di non spiegabile (qualcuno lo chiama intuito, ma forse è soltanto esperienza), mi suggerì una domanda: Signora, il bambino sta bene ma mi pare che lei abbia il viso sofferente. Cosa succede?
«Oh no, dottore – mi disse -. Ho i soldi solo per una visita e sono per il mio bambino (ndr: il municipio fa pagare una piccola somma, che in caso di necessità non è richiesta)».
Non si preoccupi, signora! Anzi, guardi: se la madre non sta bene; anche il bambino non sta bene. Allora mi dica: cosa succede?
«No, nulla. Sono solo un po’ debole».
Mi ritrassi nella sedia. La guardai negli occhi e le chiesi: Che cosa ha mangiato a pranzo?
«Un pane con il thè», mi rispose con gli occhi bassi.
E a colazione?
«Un pane con il thè».
E ieri sera?
«Un pane con il thè».

Cosa prova un medico a diagnosticare «la Fame» con la «F» maiuscola? La Fame di una madre che dà il poco che ha a suo figlio?
Capite, amici lettori di Missioni Consolata? Il bambino ha una leggera bronchite e la madre Fame; Katherine (cfr. Missioni Consolata di marzo) è cresciuta nella Fame e lavora nella Fame; il «matto» della Gillette (Missioni Consolata di gennaio) vive la propria malattia nella Fame; i ragazzi del Centro de salud mental si ammalano per la Fame.
E la Fame non è altro che la povertà, quella povertà che la hermana Patricia ha definito «inconcepibile».
Avevamo fatto, negli anni dell’iperinflazione nel Perù, una semplice constatazione: il dollaro cresceva e dopo 2 mesi aumentavano i bambini denutriti; dopo 6 mesi, aumentava la tubercolosi. Ora mi accorgo che, magari dopo un anno, aumenta anche la depressione e questa è, a sua volta, causa di altra Fame e di altre malattie.

Guido Sattin



Quando non si scherza

Amnesty inteational un rapporto-denuncia su 144 paesi

Non si scherza con i diritti umani, non solo nelle aree di conflitto, ma anche nelle operazioni di «peace keeping» e «peace building».
Secondo le Nazioni Unite, circa 200 milioni di persone nel mondo sono ridotte
in schiavitù, sfruttate in lavori infimi, abietti e pesanti;
e la tratta di esseri umani aumenta ad un tasso del 40-50% l’anno.
Se i governi credono nella giustizia, specialmente per le popolazioni povere,
non devono permettere che i soprusi abbiano il sopravvento.

PULIZIA ETNICA
O BOMBARDAMENTI?

Molte le popolazioni che nel 2000 hanno subìto repressioni. E non sono poche le nazioni in cui carcerazioni, torture e omicidi (soprattutto per motivi politici) sono stati commessi dai governi, per mantenere il loro potere. Si è così accentuato il divario tra «ricchi» e «poveri», innescando proteste sfociate in violenza.
È questa, in sintesi, l’introduzione al Rapporto annuale (2000) di Amnesty Inteational (A.I.). Si tratta del consueto appuntamento con 144 paesi e le preoccupazioni di milioni di persone che, ogni giorno, subiscono umiliazioni e abusi. Ecco invasioni e bombardamenti, che tentano una giustificazione proprio in nome dei diritti umani: giustificazione che è al centro di dibattiti sia tra i movimenti umanitari inteazionali sia tra gli esponenti delle Nazioni Unite.
Nel 1999 il dibattito si è concentrato soprattutto sugli interventi militari in Kosovo e Timor Est, giustificati per proteggere i civili dalle brutalità delle autorità politiche locali, e sul «silenzio» della comunità mondiale circa i bombardamenti russi in Cecenia.
«Noi riteniamo opportuno il dibattito – spiega Pierre Sané, segretario generale di Amnesty Inteational -, perché sono in gioco le vite e il futuro di milioni di persone. Ma, anche se siamo lieti per il dibattito, non accettiamo i termini in cui viene generalmente posto: invasione o non-azione non dovrebbero essere le uniche due opzioni possibili. La pulizia etnica o i bombardamenti: questa è una scelta che un attivista per i diritti umani non dovrebbe mai fare. Noi sosteniamo che le crisi dei diritti umani possono e debbono essere prevenute, poiché non sono assolutamente inevitabili».
Pur non respingendo l’uso della forza e affermando che la legge deve essere applicata, A.I. chiede ai governi di proteggere le persone dalle violazioni dei diritti umani e di consegnare i colpevoli alla giustizia.
Dalla Cina alla Russia
I governi che approvano l’intervento armato straniero in un paese lo fanno per motivi morali.
Pierre Sané ricorda che il presidente degli USA, Bill Clinton, ha giustificato i bombardamenti della Nato su Belgrado, perché il voltare le spalle alla pulizia etnica sarebbe stato «un disastro morale e strategico». Altri fautori degli interventi estei ricordano gli sviluppi della legislazione internazionale: per esempio, la Carta delle Nazioni Unite permette al Consiglio di Sicurezza di prendere misure coercitive, anche militari.
I governi contrari a questa tesi si basano sui principi di «sovranità nazionale» e di «non interferenza» negli affari interni di un paese. La Cina, ad esempio, si batte perché i diritti umani non siano sottoposti al controllo internazionale. «Noi – ha detto un portavoce del governo di Pechino in risposta alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani – ci opponiamo a un tale atto di interferenza negli affari interni di un altro paese».
La Russia sostiene che i suoi bombardamenti sui civili in Cecenia sono un affare interno.
Sulla medesima posizione è Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria e dell’Organizzazione dell’unità africana. Questi compara l’intervento internazionale all’irruzione nella casa del vicino, perché (si dice) che un bambino sia stato picchiato dai genitori. «Questa – ha affermato – sarebbe una grave violazione della libertà. Nuove teorie vengono tirate in ballo soltanto per privare i popoli e gli stati della loro sovranità internazionale».
Il dibattito è costante con l’obiettivo comune di reagire alle tragedie umane, quali gli omicidi di massa e le amputazioni in Sierra Leone, le uccisioni etniche in Afghanistan, le deportazioni nell’ex Jugoslavia o a Timor Est. «Per gli attivisti di Amnesty Inteational – sottolinea il segretario Sané – il dibattito è acceso dall’angoscia per le sofferenze dei paesi divisi da conflitti armati o dal collasso delle strutture di governo; ma soprattutto dalla frustrazione, perché le tecniche tradizionali di A. I. (che riguardano singole vittime) non sembrano essere efficaci in situazioni caotiche e di fronte ad abusi commessi su larga scala».
La guerra in Kosovo
Nel marzo 1999 nell’ex Jugoslavia la situazione dei diritti umani è degenerata in una crisi internazionale. La Nato ha condotto attacchi aerei contro obiettivi della Serbia, dopo il fallimento degli sforzi politici per porre fine al conflitto tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del Kosovo. I bombardamenti della Nato hanno causato notevoli violazioni dei diritti umani: sono state allontanate circa 750 mila persone, con una marea di rifugiati a livello regionale, cui sono seguite uccisioni, sparizioni, torture e stupri verso donne albanesi.
I membri di A.I. si sono mobilitati in tutto il mondo: hanno reso pubblici i fatti; hanno chiesto ai governi di intervenire per porvi fine, di assicurare alla giustizia i colpevoli e di garantire protezione ai rifugiati; ma hanno anche espresso preoccupazione per la mancanza di misure, da parte della Nato, per ridurre le uccisioni di civili e la possibile violazione delle regole di guerra, nonostante che siano emerse numerose prove di abusi dei diritti umani in terra kosovara.
Timor est e indonesia
Alla fine di agosto 1999 il 98% dei timoresi orientali, aventi diritto di voto, l’ha esercitato nella consultazione promossa dalle Nazioni Unite per definire il futuro del territorio. Dal 1975, allorché l’Indonesia occupò illegalmente Timor Est, la popolazione ha dovuto affrontare una repressione brutale: almeno un terzo degli abitanti è stato eliminato.
In seguito all’aumento della violenza, A.I. ha mobilitato il suo milione di membri per esercitare pressioni sulle autorità indonesiane. I governi hanno bloccato il commercio di armi, l’addestramento militare e, nel settembre 1999, le Nazioni Unite hanno dispiegato una forza multinazionale guidata dall’Australia. Allorché le truppe sono arrivate – si legge nel Rapporto di A.I. -, la maggior parte dei timoresi era già fuggita o era stata espulsa con la forza; al loro ritorno i rifugiati hanno dovuto affrontare la distruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture essenziali.
A.I. si è prodigata per combattere l’impunità, sostenendo i difensori dei diritti umani di Timor Est e foendo protezione ai rifugiati, criticando pubblicamente il ritardo nello spiegamento di truppe da parte della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite.

IL CASO PINOCHET
In Cile i parenti dei desaparecidos per via extragiudiziaria, durante il governo militare del generale Augusto Pinochet, attendono ancora di sapere cosa è successo ai loro cari. Anche migliaia di individui, vittime di arresti arbitrari, torture ed esilio, aspettano di ottenere giustizia, mentre resta impunita la maggior parte di coloro che, approfittando del ruolo rivestito nell’apparato statale cileno, hanno ordinato e compiuto violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990.
È ancora nella memoria di molti quell’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet guidò un sanguinoso colpo di stato e la sua giunta militare si distinse nella repressione: le garanzie costituzionali vennero sospese, il parlamento fu sciolto e in tutto il paese fu dichiarato lo stato d’assedio. La tortura fu sistematica e le «sparizioni» una pratica ufficiale.
Nel novembre 1974 A.I. pubblicò il primo rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani in Cile e, in seguito, produsse altre centinaia di documenti e appelli in favore delle vittime, appoggiando la battaglia delle famiglie dei desaparecidos nella ricerca della verità e giustizia. Il destino della maggior parte di essi resta sconosciuto; però esistono prove secondo le quali gli «scomparsi» sono stati vittime di un programma governativo, teso ad eliminare tutti i potenziali oppositori.
La lotta all’impunità di Pinochet è iniziata nel luglio 1996, con la presentazione al tribunale spagnolo delle prime denunce, sino ad arrivare al dicembre 1999, quando due giudici dell’Alta Corte hanno fissato al marzo 2000 l’udienza per l’appello del militare cileno contro la sentenza del giudice Bartle. Oggi il generale è in Cile in attesa di giudizio.
bambini-soldato
Quasi tutti i governi non hanno mantenuto le promesse di protezione speciale per i bambini. In tutto il mondo i minori non solo continuano a subire molti degli stessi abusi patiti dagli adulti, ma sono anche vittime di particolari infamie, perché più vulnerabili e dipendenti da altri.
Esistono oltre 300 mila ragazzi, sotto i 18 anni, che fanno la guerra: di questi oltre 120 mila sono coinvolti nei numerosi conflitti in Africa.
Inoltre, secondo stime dell’Onu, superano i due milioni i bambini oggetto di abusi sessuali, per un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari: il solo mercato delle cassette poografiche frutta oltre 280 milioni di dollari. A.I. ha partecipato a iniziative nazionali e inteazionali, come la Conferenza panafricana sull’impiego dei bambini-soldato, nel corso della quale è stato previsto un Protocollo opzionale che elevi l’età minima per un soldato a 18 anni. La campagna di A.I. sui diritti dei bambini si è attivata con lo slogan «Diritti dei bambini: il futuro inizia qui», dando risalto al concetto che i diritti dei bambini sono una pietra miliare per costruire una solida cultura di pace per le generazioni future.
donne: «delitti di onore»
I diritti delle donne sono centrali nell’azione di A.I., che ha lanciato campagne contro le violazioni dei diritti femminili in Stati Uniti, Pakistan e Brasile.
Milioni di donne in Pakistan, ad esempio, sono limitate dalla tradizione, che le confina nella segregazione e sottomissione al maschio. Gli uomini «possiedono» le parenti femmine e puniscono le loro trasgressioni con la violenza. Quando le donne rivendicano i propri diritti, per quanto minimi, la reazione è dura e immediata. Così i «delitti d’onore» sono aumentati, ma anche la crescente consapevolezza delle donne. Tuttavia sono molti i casi che restano sconosciuti e quasi tutti impuniti.
Non meno drammatico è il problema delle donne in carcere. Il relativamente contenuto numero di detenute rivela che i penitenziari femminili sono talvolta improvvisati e inadeguati. In Brasile le celle presso le stazioni di polizia sono affollate all’inverosimile: e, sebbene sia la legge carceraria sia la costituzione stabiliscano che alle detenute siano garantite agevolazioni, per prendersi cura dei figli piccoli e per mantenere contatti regolari con quelli più grandi, tali diritti sono spesso negati con disprezzo. Per non parlare dei servizi sanitari: per le detenute in carcere sono inadeguati, mentre non esistono affatto per le donne trattenute in stazioni di polizia.
La campagna di A.I. contro i «delitti d’onore» in Pakistan evidenzia, soprattutto, la responsabilità dello stato nella mancata tutela delle donne; nello stesso tempo A.I. auspica nuove leggi inteazionali che obblighino gli stati a prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne. Circa il Brasile, A.I. condanna la situazione delle prigioni, ma fornisce anche raccomandazioni costruttive alle iniziative di riforma carceraria nel paese.

Questi sono alcuni casi di violazioni dei diritti umani nel mondo. Ma il Rapporto di Amnesty Inteational 2000 (un volume di 648 pagine) esamina 144 nazioni, documentando la situazione di ognuna: geografia, capo di stato e governo, popolazione, lingua ufficiale, esistenza o meno della pena di morte o altre pene restrittive… E c’è da riflettere.

Eesto Bodini




KENYA – L'”8.4.4.” dà i numeri

Sistema scolastico e ragazzi di strada:
due fenomeni che rivelano il malessere del paese africano.
Ormai tutti ammettono che bisogna intervenire.
Ma come? Intanto, il 25 marzo scorso, 58 studenti sono arsi vivi.
Forse una vendetta per una bocciatura generale.

Scuole in crisi
«8. 4. 4.». No, non sto dando i numeri del lotto, né quelli del calcio! Sto, invece, parlando dell’ordinamento scolastico del Kenya. Otto anni di elementare, quattro di superiori e quattro di università: il sistema introdotto dal governo di Moi, all’inizio degli anni Ottanta.
Sembrava il fiore all’occhiello. Invece ha dimostrato di fare acqua da tutte le parti. Dalla fine di aprile del 1998 una commissione ha studiato cosa e come cambiare: segno che pure il governo ha cominciato ad ammettere ciò che tutti dicevano da tempo: bisogna cambiare!
Costo della commissione? Un miliardo di scellini (uno scellino vale circa 30 lire).
Fin dal 1985, quando il sistema è stato introdotto, maestri, genitori e esperti in educazione si sono accorti che qualcosa non andava. Allora la lamentela maggiore era che c’erano troppe materie (nell’ultimo anno delle elementari ben 13). Troppe discipline e troppo approfondite. Con l’introduzione di questo sistema, il governo ha iniziato anche la politica del cost-sharing nel campo dell’educazione: una delle richieste degli organismi inteazionali di aiuto, che esigevano una partecipazione alle spese di chi usufruisce di un servizio pubblico.
Nel piano di sviluppo 1974-78 ci si era accorti che l’educazione assorbiva somme sempre più elevate. Secondo il programma governativo, il sistema dell’«8. 4. 4» avrebbe dato agli studenti una formazione tecnica; per cui sarebbe stato facile per loro trovare un lavoro o crearselo essi stessi. Ma c’era bisogno di laboratori e attrezzature e questo ha richiesto una spesa enorme per un paese come il Kenya. Una spesa che il sistema scolastico precedente (7. 6. 3.) non aveva mai domandato ed era un sistema «tried, tested and trusted» (provato ed efficace).
Il governo si è praticamente tirato fuori e l’onere di provvedere tutte le nuove strutture è ricaduto sui genitori. Chi non poteva pagare aveva e ha un’unica amara possibilità: non mandare più i figli a scuola. C’è stata poi, da parte delle autorità, una grande preoccupazione per dare sviluppo alla struttura universitaria. Si sono aperte nuove università: Egerton, Moi e Kenyatta University. I fondi che prima andavano alle elementari e superiori hanno incominciato ad essere dirottati alle università e il livello accademico si è abbassato di molto.
I critici hanno sempre sostenuto che questo sistema è stato introdotto troppo in fretta ed è stato troppo politicizzato. Ora bisogna fare fronte a tre grossi problemi.

1. Il costo del sistema, che ha ridotto di molto la percentuale dei bambini che vanno a scuola. Sembra che, nel 1989 (prima cioè che il sistema entrasse completamente in vigore), quasi il 95% dei bambini andasse a scuola; nel 1996 si era scesi all’80%. Nelle zone più povere, la percentuale è tra il 25 e il 32%. Molto bassa. Studi recenti hanno dimostrato che la povertà e l’alto costo dell’educazione sono le cause del declino di scolarità. Moltissimi sono i bambini che non riescono ad arrivare alla fine delle elementari. Intervistati, il 71% dei genitori ha dichiarato che i testi scolastici costano troppo.
2. Nessun sistema di giustizia nell’educazione. Tutti i bambini di età scolare non hanno uguali opportunità di andare a scuola. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, il 74% dei kenyani guadagna meno di 5.000 scellini (circa 90 dollari) al mese. Il 23% guadagna tra i 5.000 e 10.000 scellini. Solo il 3% ne ottiene più di 10.000 al mese. Il costo della vita è sempre più elevato: cibo, trasporto, affitto… e molti genitori non possono dare un’educazione ai loro figli. Quando mancano aule, laboratori, libri di testo, anche i maestri non possono fare miracoli e la qualità dell’educazione diventa scadente. Solo il 53% di quanti finiscono le elementari può continuare nella scuola secondaria.
3. L’obiettivo della scuola secondaria era di insegnare discipline pratiche e tecniche, per avere più facilità di trovare lavoro. Mancando le strutture, anche questo insegnamento diventa scadente. Secondo statistiche del Ministero dell’educazione, solo il 3% dei candidati all’esame di form 4 prendono soggetti tecnici e di avviamento professionale. Troppa teoria a scapito della pratica.
Sembra che questo sistema abbia creato tutta una generazione di disoccupati. Ben venga, pertanto, la commissione di revisione del sistema, anche se molto in ritardo. Era dal 1985 che i genitori, i maestri e gli esperti in educazione la desideravano. Troppe famiglie messe sul lastrico. Troppi giovani ridotti alla disoccupazione perenne, pur con un diploma in mano.

Sulla strada

Se sei fortunato, riesci a parcheggiare la macchina nel centro di Nairobi. In un momento sbucano (chissà da dove) alcuni ragazzini sporchi e stracciati e ti tendono la mano… Una volta succedeva solo nella capitale; oggi in molte altre cittadine del Kenya. Il fenomeno è in rapida crescita.
Sto parlando dei ragazzi di strada, gli street boys. Solo a Nairobi sono circa 70 mila: la metà di loro torna a casa alla sera; l’altra metà ha come dimora perenne strade e ponti.
Da studi fatti per il Ministero della giustizia, nel 1991 risultava che 300 mila bambini/giovani, tra i 6 e i 18 anni, non frequentavano la scuola. E dove stavano? Molti sulle strade. Sembra che il 10% di questi ragazzi siano delinquenti… Il dottor Onyango, uno psicologo-sociologo dell’università di Nairobi, osserva: «Non dobbiamo sorprenderci di vedere molti bambini per le strade. Nel 1991 più del 90% dei bambini era a scuola. Da allora, però, la percentuale è scesa di molto». Secondo il piano nazionale di sviluppo 1997-2001, solo il 76% dei bambini tra i 6 e i 13 anni era iscritto alla scuola nel 1995; e solo il 27% dei giovani frequentava la scuola superiore. Un aumento del 10% l’anno.
Anche l’Aids contribuisce a tale aumento. Sempre secondo Onyango, la maggior parte dei 300 mila orfani a causa dell’Aids finisce sulle strade o nel lavoro minorile. Da un rapporto pubblicato nell’opuscolo Aids in Kenya sulle conseguenze socio-economiche della malattia, si legge che il 54% degli orfani ha già lasciato la scuola. Spesso i bambini sono maltrattati dai familiari, devono cibarsi dei rimasugli, vengono derubati della proprietà lasciata loro dai genitori. L’unica soluzione, per molti di loro, rimane la strada. Questi orfani «di Aids» stanno aumentando tremendamente. Secondo alcuni studi, hanno superato i 600 mila nel 2000 e saranno 1 milione nel 2005.
Recentemente l’università di Nairobi ha condotto una ricerca interessante. Scelti a caso 150 di questi ragazzi, gli studiosi si sono fatti portare a casa loro. Il 90% dei bambini ha solo un genitore che non si cura di loro e Onyango ricorda che, quando entravano in queste baracche o tuguri (un unico stanzone che serve per tutto), le madri e le nonne chiedevano al ragazzo: «Ma dove sei stato? Cosa hai combinato?». Molte delle mamme sono venditrici ambulanti o prostitute e in queste immense baraccopoli il crimine è di casa.
Dallo studio risulta che la maggior parte dei ragazzi è stata a scuola e l’ha abbandonata dopo la terza classe… Nell’unico stanzino di tre metri per tre si svolge la vita della famiglia. Non c’è spazio per studiare. Gli adolescenti non possono dormire con i genitori. In campagna le cose sono diverse: il giovane si costruisce la sua capanna. Però negli slums… che fare? La strada può diventare il dormitorio.
Il problema degli street children non è nato ieri. Alcuni, ormai adulti, si sono sposati, hanno bambini… Un fatto, capitato a Nairobi, ha rivelato quanto siano organizzati. Sull’imbrunire, l’auto di una compagnia di guardie nottue ha involontariamente urtato uno di questi ragazzi, sbattendolo a terra. Nulla di grave. Ma i ragazzi si sono sentiti attaccati e sono passati alla carica. Ne è risultato una battaglia per le strade: due i morti (uno per parte), parecchi i feriti. Molti i danni materiali a negozi e macchine parcheggiate nelle vicinanze.
Interessanti i commenti sui giornali: questa, dei ragazzi di strada, è una bomba che può esplodere ad ogni momento. È già esplosa!
Divenuti adulti, non possono più elemosinare e, allora, cercano di far soldi con altre attività: più illecite che lecite. Sono coscienti di essere stati rifiutati dalla società e questo li indurisce, crea in loro un senso di ribellione che li porta alla criminalità.
Il dottor Onyango divide i ragazzi in due categorie: quelli che hanno rotto completamente con la famiglia e la strada è la loro casa (circa la metà) e quelli che tornano a casa la sera. Questi ultimi vengono spesso mandati dai genitori a raccogliere soldi, e il loro gruppo aumenta molto più rapidamente del primo. Talora i genitori stessi li accompagnano in città e si servono di loro per raccogliere fondi. Molti rompono ogni relazione con la famiglia e vanno sulla strada a causa della violenza. Povertà, problemi familiari e desiderio di avventura sono i motivi che portano i ragazzi sulle strade. Poiché le baraccopoli sono congestionate, la strada può sembrare uno spazio dove si può respirare.
Ancora, secondo Onyango, il fenomeno è causato anche dalla rottura delle relazioni familiari. Nella società tradizionale la parentela sostituiva, in qualche modo, i genitori che abdicavano al loro lavoro nell’educazione dei figli. L’urbanizzazione e le trasformazioni sociali ed economiche hanno distrutto gli usi tradizionali della società africana. Anche se i bambini sono portati a scuola (ammesso che accettino di continuare), creano problemi per la mancanza totale di disciplina, il linguaggio volgare e certe abitudini asociali… Il loro stato di salute lascia a desiderare: molti hanno la scabbia, malattie della pelle e veneree; altri hanno l’Aids e tutti hanno grossi traumi psicologici. Onyango conclude il suo studio, dicendo che ormai le ricerche sono molte, troppe; continuare sarebbe solo uno spreco di soldi e tempo.
È tempo di agire. Ma come?
Molte Ong e chiese (compresa la cattolica) stanno facendo qualcosa. Le «Piccole ancelle del Sacro Cuore» hanno una casa ad Embu per questi ragazzi e anche i missionari della Consolata ne hanno aperta una a Nairobi.
Padre Franco Cellana (cfr. box), con il collega padre Daniel Ortega, argentino, cerca di recuperare i ragazzi e le donne che vivono per la strada, dormono sotto i tunnel e sui marciapiedi. Lo chiamano «padre-ragazzo di strada», in quanto trovano in lui il papà, la mamma e il maestro che nella vita non hanno mai avuto. Sono persone rimaste sole al mondo, vivono di espedienti e il loro sogno è di avere una famiglia e un’istruzione per poter vivere. Non chiedono denaro, ma lavoro, cibo e la possibilità di poter frequentare la scuola, poiché non hanno soldi per pagarla.
Un lavoro ammirevole, ma difficilissimo e scoraggiante. Il numero dei ragazzi che si riesce a raggiungere è minimo. Non più del 3-4%, ad essere molto generosi. Il governo locale ha troppi altri problemi da risolvere: tante parole e pochi fatti. Il fenomeno continua ad essere una bomba ad orologeria.
E se scoppiasse?

LUCI E OMBRE A NAIROBI

Padre Franco Cellana, missionario trentino, lavora nella parrocchia della Consolata a Nairobi. La capitale del Kenya conta 4 milioni di abitanti e in città si trovano 110 baraccopoli (slums), nelle quali vivono circa 2 milioni di persone (il 55% della popolazione). Gli slums più popolati sono Kibera (con 140 mila abitanti), Korogocho (120 mila), Mathari (70 mila) e Kankemi (80 mila): dati approssimativi, in quanto la popolazione qui non è censita. Non c’è acqua, luce, servizi igienici, fogne; niente di niente! Mucchi di immondizie fanno da contorno e i bimbi giocano a piedi scalzi fra scatolette, lamiere e rifiuti degli alberghi della città.
Queste cifre rappresentano la drammaticità di tante persone provenienti da ogni parte del Kenya, senza i valori tradizionali della famiglia, la religiosità, il rispetto per il bambino, la donna e l’anziano. Ognuno cerca di sopravvivere con mille espedienti: furti, violenza, convivenze saltuarie, usura. Qui le malattie, come malaria e Aids, si propagano molto velocemente. Le persone ogni giorno devono affrontare la realtà di una vita difficile, vissuta in baracche abusive di 10 mq. costruite con fango e cartoni e coperte con pezzi di lamiera; all’interno il pavimento è in terra battuta, non vi sono finestre e una tenda divide il letto da una cucina comprendente un piccolo fornello, due pentole di latta, qualche piatto di plastica e taniche per l’acqua. Com’è possibile vivere così? Considerando che il terreno è del governo, oppure di privati ai quali devono pagare l’affitto sia del terreno che delle baracche stesse.
Girando a piedi, padre Franco ha avuto modo di conoscere Nairobi, la città dei contrasti, fra palazzi, ville e baracche, la «città del sole, con tante ombre». Racconta: «Ho visitato gli insediamenti di Deep Sea, Suswa, Kirua Be Masai, che sono vicini alla mia parrocchia. Sotto il sole cocente, fra cumuli di immondizia e baracche di cartone e lamiere, ho visto un’infinità di gente che sopravvive per un domani che non riesce a trovare. Un giorno ho trovato un biglietto sull’altare, dove c’era scritto che, durante la notte, erano state bruciate in un incendio doloso, nello slum Deep Sea, 34 baracche».
Ma la gente, che lo vede girare a piedi, ha subito intuito che è una persona speciale, della quale si possono fidare e ora gli chiedono aiuto. Tutti ormai lo conoscono, perché è disponibile a tutti; quando un dottore arriva dall’Italia a trovarlo, si reca con lui a visitare bambini, donne e ammalati degli slums.
Mentre camminiamo per la città di Nairobi, è un continuo brulichio di «Father Franco» e tutti questi giovani, stracciati e sporchi, porgono la mano al missionario in segno di riconoscenza e amicizia. Al mattino presto c’è già una lunga fila di persone che lo attendono sulla panchina, di fronte alla porta della missione, per parlare con lui; se non è in parrocchia, lo attendono fino al tramonto. Il mercoledì e venerdì offre il pranzo a tanti ragazzi di strada; per qualcuno, sono gli unici due pasti della settimana.
Nasce anche un’«Associazione amici di Padre Franco», che opera a Tione di Trento (tel 0465.321.914), i cui scopi sono: ricostruzione delle baracche, costruzione di una serie di tornilettes e docce negli slums, costruzione di un edificio polifunzionale adibito anche a dormitorio per il recupero dei ragazzi di strada e costruzione di un dispensario; è, inoltre, in previsione un programma di adozioni a distanza. Chi volesse dare una mano…

D io ha dato all’Africa un cielo azzurro e un sole caldo; ai suoi abitanti ha donato un caloroso sorriso e tanta giovialità,
mentre l’oscurità della notte è ravvivata
da infinite stelle che brillano nel cielo.
Mille luci e colori, suoni e odori,
rivestono Nairobi, città delle contraddizioni.
Le umili baracche che si moltiplicano ogni giorno
sono testimoni della vita di tanti disperati
e la strada illuminata dalla luna,
è il giaciglio di giovani, mamme e bambini.
Fra tutti aleggia la speranza
di un futuro migliore,
e, mentre si affidano all’aiuto di father Franco,
dai loro sguardi, dalle strette di mano
e dai tanti ashante (grazie),
traspare la riconoscenza
per questo missionario della Consolazione.
Dio mio, dona a questo popolo
un tetto e un letto per coricarsi,
un pezzo di pane e un sorso d’acqua,
affinché sui loro volti
splenda il sorriso della serenità.
E alle persone «speciali» che (come i missionari)
ogni giorno, con fatica e amore
si fanno carico del dolore di questa gente
dona salute, forza, pace e bene.
Adriana Valenti

Motto wa siasa




Urgenti e scottanti

Inculturazione

Prima di parlare di inculturazione (radicare il messaggio evangelico nella cultura locale), serve avere una buona comprensione del cristianesimo; poi si può scegliere ciò che nel costume non ne travisa le regole. L’inculturazione va fatta con coscienza. Poiché nella cultura africana la fede cristiana ha una storia breve, penso che la gente non sia pronta per tale discorso, che comunque va attuato passo dopo passo.
Oggi l’esistenza di molti cristiani in Tanzania è caratterizzata da una profonda dicotomia tra la professione della fede cristiana e il concreto vivere quotidiano. Mentre teoricamente la fede può essere espressa in modo ortodosso, la vita contraddice spesso la fede: si rimane meravigliati dalla coesistenza di atteggiamenti antitetici in un individuo. Una duplicità a livelli così fondamentali necessariamente causa sofferenze: a livello psicologico e socio-relazionale.
La situazione che ne consegue è paragonabile a quella dell’indemoniato di Gerasa, descritta dall’evangelista Marco al capitolo 5. Il pover’uomo, da una parte si sente attratto dalla persona di Cristo e, dall’altra, chiede che il Maestro lo lasci solo… La condizione in cui si trovano molti cristiani necessita del messaggio salvifico di Cristo. Bisogna attuare un’inculturazione autentica del messaggio evangelico nella vita del popolo. In questo processo, Cristo ed il suo vangelo devono avere precedenza assoluta.
Se non ci si basa solidamente su questo principio, si finirà solo con il «battezzare» istituzioni culturali che hanno causato sofferenza e paura, intromettendosi nella concezione tradizionale di vita della gente. In questo modo priveremmo il messaggio evangelico del suo potere salvifico e liberatorio.
Polycarp Pengo
arcivescovo di Dar es Salaam

Musulmani

Il rapporto tra cristiani e musulmani è la questione più rilevante in Africa. In generale abbiamo sempre mantenuto buone relazioni; ma negli ultimi 15 anni alcuni gruppi di fondamentalisti islamici hanno creato problemi. Il governo sostiene che i movimenti sono sotto controllo. Ma, durante le ultime elezioni, abbiamo sperimentato che il fondamentalismo islamico sta cercando di inserirsi nei partiti: in particolare nel Kaf (partito formato in prevalenza da musulmani), che ha avuto parecchi consensi soprattutto nelle isole, dove sta esasperando le differenze tra cristiani e musulmani. Ci sono motivi per credere che cercherà di fare altrettanto sulla terraferma.
Polycarp Pengo

Rivoluzione

I tanzaniani vedono le ingiustizie, ma non le affrontano direttamente: non sono aggressivi. Vogliono risolvere i problemi adeguando le mete da conseguire al loro temperamento e vogliono la giustizia «pacifica». Nel governo opera il Partito della rivoluzione, ma non si può dire che i tanzaniani siano rivoluzionari.
Noi, della commissione «Giustizia e pace», collaboriamo con il governo e le altre istituzioni per portare graduali miglioramenti. L’anno scorso ci siamo impegnati non solo perché la popolazione andasse a votare, ma anche perché si sentisse coinvolta nella gestione della cosa pubblica. Abbiamo cercato di sensibilizzare i politici per indurli a fare scelte prioritarie a favore dei più poveri.
In particolare abbiamo messo in risalto un errore: il paese, allontanandosi dal 1986 dal socialismo dell’ujamaa, con la scelta del capitalismo sta causando una crescente e macroscopica ingiustizia nei confronti della classe meno abbiente, che diventa sempre più povera.
Negli ultimi cinque anni il governo ha cercato di fare delle riforme per ridurre il grande squilibrio tra ricchi e poveri, ma i risultati tardano a farsi notare: le riforme macroeconomiche non raggiungono la stragrande maggioranza della popolazione. Il 60% è totalmente escluso da ogni beneficio.
Paul Ruzoka,
vescovo di Kigoma,
presidente di «Giustizia e pace»

Carceri

Molte persone sono in prigione per reati minori. Le carceri traboccano di persone ammassate in modo disumano. Ci sono 44 mila detenuti in strutture atte a contenee molto meno della metà. E si verificano moltissimi abusi.
Due anni fa i vescovi hanno scritto una lettera aperta per far capire che i prigionieri non devono essere considerati come i rifiuti della società e che c’è sempre uno spazio per aiutare chi sbaglia a correggersi e riprendere un posto nella società. Hanno lanciato un programma per migliorare il sistema giudiziario e per coscientizzare la gente sui diritti dei prigionieri, in particolare dei ragazzi, considerati alla stregua di criminali incalliti e messi in carcere con delinquenti che li seviziano. Molti prigionieri sono reclusi a causa del cattivo modo di procedere delle «corti primarie»: ce ne sono circa 900 nel paese, composte da persone non sempre competenti. I vescovi hanno lanciato un programma di formazione per chi deve giudicare la criminalità spicciola.
Si cerca di educare per andare oltre la legge, ponendo al primo posto la persona, per superare i limiti di chi, poco preparato culturalmente, tende a giudicare superficialmente e in modo rigido, senza considerare l’individuo. Si vuol far capire che la legge deve essere uno strumento per aiutare la società e non un mezzo per liquidare chi non si adegua a certi canoni, spesso discutibili.
Paul Ruzoka

Donne

Le donne che vivono in città hanno maggiori possibilità di ricevere un’educazione. Però chi intende continuare gli studi (una minoranza) si rende conto che non può sposarsi giovane, né avere tanti figli. Tale esigua minoranza, inoltre, avverte la necessità di una pianificazione familiare, per garantire ai figli una buona educazione scolastica. Il problema non si pone nei villaggi, dove nessuno vuole sentire parlare di limitazione delle nascite e di contraccezione, perché l’unica ricchezza delle famiglie sono ancora i figli.
Dovremmo sensibilizzare la gente sulla necessità di una pateità responsabile. Io sono molto preoccupata che, ai nostri giorni, sia terribilmente aumentato il numero degli orfani: sono troppi i genitori irresponsabili nei loro rapporti sessuali; l’Aids si diffonde in modo impressionante. Non si contano i morti.

Monika Mbega, parlamentare

aa.vv.




Io sono perchè, noi siamo

L’ Africa non cessa di sorprendere. Nonostante i crescenti problemi, fa di tutto per sopravvivere, anzi per danzare la vita.
Lo scorso anno, in Etiopia, per un corso di aggioamento ai religiosi e al clero, presi lo spunto da un disegno di un artista africano intitolato: «Il Cristo che ride».
Oggi in Tanzania, per sviluppare il tema della salvezza, mi avvalgo come ispirazione del presepio allestito dai missionari della Consolata nella loro casa-procura di Dar es Salaam. Si tratta di una scultura, che si dispiega in uno stupendo groviglio di corpi scolpiti nell’ebano («maconde»), plasticamente culminante in una culla: vi riposa il bambino Gesù, che si massaggia un piede con il particolare atteggiamento che prelude… al sonno. «Dormire è bello – commenta un giovane africano -, dormire e sognare».
Interessante anche l’osservazione di un missionario della Consolata su quel divino infante: «Si sta togliendo una pulce penetrante. Povero Cristo! Ha sperimentato di tutto sulla terra».
I vangeli canonici non ci parlano di pulci penetranti; forse gli apocrifi… San Paolo afferma che, attraverso la sofferenza, il figlio di Dio ha capito che cosa significa essere figlio dell’uomo. E a tutti ha offerto la salvezza.
Anche alla pulce penetrante? Se questa non viene tolta subito, porta a complicanze irreparabili. Presa in tempo, è facilmente eliminabile, come fosse uno scherzo, un gioco da bambini.

«I l sorriso» e «il massaggio del piede»: due immagini che ci parlano dell’arte di ridimensionare ogni cosa, mantenendo un sostanziale ottimismo. Questo atteggiamento, tipico di molti africani, è riscontrabile anche in Tanzania, paese dai mille problemi, sapientemente affrontati con calma uno dopo l’altro, oppure rimandati in attesa di tempi migliori… quando a Dio piacerà.
L’arte di ridimensionare tutto non va confusa con la superficialità né, tanto meno, con il cinismo. Quando il peso della sofferenza è eccessivo e il lavoro per salvare il salvabile cozza contro una serie di fallimenti, è facile scoraggiarsi e sembrare indifferenti al dolore.
Se nell’ospedale di Ikonda, nel sud del Tanzania, durante il fine-settimana muoiono otto pazienti, in prevalenza giovani e tutti a causa dell’Aids, diventa indispensabile radunare gli infermieri e cercare insieme le ragioni per motivare ancora l’impegno al servizio della vita: anziché contare i decessi, si ricordano perciò i successi ottenuti. In ospedale la gente (non abituata agli antibiotici), con poche pastiglie ritrova condizioni di vita accettabili, mentre se fosse rimasta al villaggio, priva di medicinali o con le sole cure del «dottore tradizionale» (stregone), sarebbe morta in tempi brevissimi.
Ridimensionare, in questo caso, significa trasferire tutto in una nuova dimensione: non lasciarsi sopraffare dall’angoscia e dal senso d’impotenza, ma sentirsi orgogliosi delle vite salvate o che si è tentato di salvare.
L’arte del ridimensionare è teorizzata dall’arcivescovo di Dar es Salaam, Polycarp Pengo, ed è vissuta da lui con la spontaneità di un bambino. Dice: «Bisogna ridimensionare ogni cosa, sforzandosi di vedere prevalentemente le cose belle».
Il bambino attualizza il ridimensionamento e lo mette in pratica attraverso un rito che non ho mai visto in altre parti dell’Africa. Dai tre ai sette anni, i piccoli salutano i grandi ponendo la manina sulla testa degli adulti e ripetendo più volte: «Sono ai tuoi piedi». Per lasciarsi toccare la testa, il grande deve abbassarsi al livello del piccolo e, così facendo, si ridimensiona. Forse chi è coinvolto in questo gesto non ne apprezza a sufficienza la portata. Ma, visto dall’esterno, è molto significativo.
I bambini della scuola matea l’hanno ripetuto più volte anche con me e mia nipote Maria Rosa Lorini, coautrice di questo dossier. C’è da augurarsi che non vada perduto con il passare del tempo e il sovrapporsi delle culture.

C’ è pure da sperare che i tanzaniani mantengano inalterati i valori, ribaditi con forza da Julius Nyerere, il «maestro» per antonomasia del Tanzania.
Visitiamo questo paese ad un anno circa dalla sua morte, anche con l’intento di capire quale ricordo abbia conservato la gente di quest’uomo amante della giustizia, cattolico, convinto del valore della fede, vista pure come mezzo per motivare ulteriormente l’impegno politico.
Anche Nyerere è stato un esperto nel coinvolgere i suoi concittadini nell’arte di ridimensionare tutto: per lui si basava sulla familiarità con il pensiero di Dio, la nascita e la morte. Dava per scontata la vita eterna; considerava quella terrena il bene più grande, affidatoci dal Creatore, e aiutava il suo popolo a vedere ogni realtà nella giusta prospettiva.
E, mentre non usava mezzi termini nel denunziare lo sfruttamento dell’occidente nei confronti dell’Africa, invitava i popoli del continente a convivere in pace, senza sognare l’impossibile, ma vivendo una povertà dignitosa, cercando di essere liberi, autosufficienti e capaci di governarsi gestendo con intelligenza le risorse a loro disposizione.

P iù che riportare le mie impressioni o analisi, nel presente dossier preferisco, con Maria Rosa, cedere la parola ai missionari che stanno spendendo la vita al servizio dello sviluppo integrale del Tanzania.
Abbiamo incontrato parecchi preti e suore anche avanzati in età. Ma nessuno di loro sembra preoccuparsene, e continuano a rimanere sulla breccia: annunciano il vangelo, insegnano, guidano la jeep, fanno operazioni chirurgiche, programmano costruzioni di case e ponti come se non dovessero mai morire.
Vivendo in missione, hanno imparato a ridimensionare anche la morte.
Valentino Salvoldi
Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di autonomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito della rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.
«Batti il tamburo,
non i bambini!»

Q uesto è lo slogan che padre Franco Sordella e i bambini della Faraja House hanno scelto per l’inaugurazione della loro nuova scuola elementare nel settembre scorso. La Faraja House (casa della consolazione) è un centro nella città di Iringa per ragazzi difficili: in maggioranza provenienti dalla strada e parecchi orfani. Ognuno con il suo bagaglio di abbandono, violenza, miseria.
Il progetto (uno dei tanti realizzati dai missionari della Consolata) è iniziato dal nulla tre anni fa. Oggi consta di due settori: il primo, «ragazzi di strada» per la riabilitazione; il secondo, per l’avviamento professionale anche di minori che non vivono nella Faraja House. Il tutto è quasi un villaggio: comprende dormitori, refettori, cucine, laboratori, dispensario e la scuola tecnica, che annovera 60 ragazzi. Con gli altrettanti bambini della Faraja House, si raggiunge un totale di 120.
Ma ci sono anche i frequentatori della domenica: ragazzini che sopravvivono lavorando al mercato e vivendo in «tane» (ad esempio, presso i mucchi di crusca dietro i mulini). Ad essi, «il dì di festa», viene offerto un buon pasto e la possibilità di lavarsi e di non restare analfabeti.
Oggigiorno anche le scuole governative sono a pagamento: perciò pochi sono i bambini che hanno la possibilità di frequentarle. Nel paese scarseggiano strutture e maestri: così non bisogna stupirsi se, entrando in una classe, si trovano anche 100 allievi, che devono solo rimanere seduti e buoni, presente o meno l’insegnante, se non vogliono essere castigati.
Accanto al «problema scolastico», sta aumentando anche il numero di bambini che, come Issa, rimangono orfani a causa dell’Aids. Issa (Gesù) è stato accolto nella Faraja House a natale.
Visto che Gesù bambino fu rifiutato, perché – si sono detti i missionari – non cercare in città il ragazzo più abbandonato e solo? Uno di quelli che dormono nascosti per paura di essere picchiati o abusati dai più grandi… e dargli una famiglia? È saltato fuori Issa, che ha trovato finalmente casa, ma anche chiesa, scuola e lavoro.
Già, lavoro. Non bisogna stupirsi se, nella Faraja House, la prima cosa che si compra all’inizio della scuola non sono i libri, ma la zappa. L’importante è che il lavoro non diventi l’unico riferimento a scapito dell’istruzione e, soprattutto, che gli insegnanti non costringano i ragazzi a lavorare nei loro campi tutto il giorno sotto la minaccia del bastone.

M entre la Faraja House ospita bambini di strada, per i ragazzi che cercano un lavoro (in particolare le ragazze) è stato creato il Centro «Stella del mattino», anch’esso nel territorio di Iringa. Costruito e gestito dai missionari della Consolata, «Stella del mattino» ospita 60 adolescenti provenienti da villaggi dove non esistono le strutture necessarie per l’istruzione.
Il sistema educativo del Centro è «studio e lavoro»: lo stesso che vige nelle scuole statali fin dai tempi dell’ujamaa. La filosofia pedagogica di base enfatizza «l’importanza di trasmettere ai ragazzi le conoscenze che possano situarli in una buona posizione sociale e renderli cittadini capaci di autoguidarsi e portare il loro popolo fuori dalla povertà e dall’ignoranza» (J.T.K. Ulimwengu, capo editore Rai/Mtanzania).
Nel Centro si punta all’autosostentamento: sia per non dover dipendere da aiuti estei, sia per rendere più consapevoli i giovani. Qui essi possono mantenersi allevando animali, coltivando i campi e, nello stesso tempo, formandosi culturalmente per far fiorire domani tutte le potenzialità che la nazione possiede. In Tanzania nel 1996, durante il seminario organizzato dal «Centro per l’energia, lo sviluppo, la sicurezza e la tecnologia», si discusse sul deterioramento del livello qualitativo dell’educazione. Se nelle scuole primarie il problema maggiore è legato al sovrannumero, alle secondarie (dove il numero degli studenti è contenuto a causa della selezione per merito) la violenza sessuale costituisce il principale fattore di ingiustizia e continua ad essere al centro di dibattiti e della cronaca locale.
Il Ministro dell’educazione ha rivelato che, tra il 1995 e il 1998, 12.721 ragazze furono espulse dalla scuola poiché incinte. Anche da parte degli insegnanti.

HO VSTO LA BONTA’ LIBERATRICE

«Abbiamo visto i miracoli dell’amore» potremmo intitolare un libro, se volessimo narrare ciò che uomini e donne di Dio, preti e suore locali, missionari e laici, stanno realizzando a favore dei più poveri nei più remoti angoli della terra, là dove manca tutto: acqua, cibo, strade, ospedali, scuole.
La jeep s’inerpica sui monti a sud della Tanzania, oltre i 2 mila metri: antichi tratturi trasformati in «strade», che si possono affrontare durante la stagione secca, ma che si convertono in rovinosi torrenti durante i sei mesi delle piogge. Nonostante si creda che quattro ruote motrici possano fare miracoli, sovente ci s’impantana al punto da non potersi più muovere.
E quelle zone che sembravano deserte, d’un tratto si animano di persone che sbucano da ogni angolo, si organizzano in breve tempo e rimettono la macchina in condizione di riprendere il viaggio. È uno dei volti della solidarietà africana, una dimostrazione che l’antica massima vale ancora: «Io sono, perché noi siamo». Non si contano i saluti, i complimenti e i ringraziamenti, anche se qualcuno afferma che non è conveniente ringraziare perché, come dicono soprattutto i musulmani, «chi ha una ricompensa in terra non l’avrà in paradiso».
Da Njombe – dove finisce la strada asfaltata – a Ikonda, per percorrere 70 chilometri impieghiamo più di tre ore. Fortunatamente da alcuni giorni non piove. Intoo a noi spazi immensi e verde… verde dappertutto: siamo nella stagione delle piogge. Le poche abitazioni che si scorgono sono in terra rossa e hanno il tetto di paglia, dal quale fuoriesce fumo. Il cibo è cotto in pentole appoggiate su tre pietre, che costituiscono il focolare, per terra, in mezzo all’abitazione «multiuso». E il cibo è tutti i giorni uguale: polenta e fagioli.
Lo stesso cibo ci viene offerto dai parenti degli ammalati nell’ospedale di Ikonda. Quando la struttura venne ultimata, fu chiesto ai capi dei wakinga e wabena (etnie locali) come dovesse essere l’ambiente affinché i degenti si sentissero più a loro agio. Risposta: una grande stanza aerata, dove ognuno posa le sue tre pietre, simbolo dell’unità familiare, sulle quali cuoce la solita farina di mais. È meglio non cambiare troppo le abitudini delle persone. Poi toeranno al loro villaggio…
Ogni tanto suor Magda porta ai bambini un uovo oppure, alle mamme, un po’ d’olio per condire le patate bollite quando ci sono. La malnutrizione non aiuta certamente la guarigione.
L’ospedale è gestito dai missionari della Consolata. Può ospitare 200 ammalati e vi lavorano tre medici africani e tre spagnoli. Attualmente è il governo spagnolo a fornire i fondi per il funzionamento della scuola-infermiere e per la formazione degli assistenti medici; ma il personale competente è insufficiente. L’organizzazione Medicus Mundi cerca costantemente volontari, e si può contare sulla presenza di persone disposte a spendere qualche anno della loro vita per gli altri.

Fra le malattie (che richiedono il ricovero in ospedale) nel 1995 al primo posto c’era la malaria, passata poi al secondo. Oggi è l’Aids che detiene il triste primato: lo è anche nella classifica dei decessi. Nell’ospedale abbiamo sfogliato il voluminoso registro dei pazienti che fanno il test dell’Hiv.
Il fatto che tante persone vi si sottopongono significa che hanno comportamenti a rischio, o che vivono in ambienti dove il contagio può essere frequente, oppure che manifestano già alcuni sintomi. Orbene: ogni pagina del registro reca 18 nomi; quelli scritti in rosso sono «sieropositivi»; solo due (a volte tre) i nomi in nero, cioè i «negativi».
Nella regione di Iringa-Njombe la trasmissione dell’Aids è particolarmente accentuata anche a causa del lavoro «offerto» dalla Brooke Bond, multinazionale del tè. Il lavoro si protrae per 11-12 ore al giorno, anche sotto la pioggia, per una paga mensile che varia da 90.000 a 150.000 lire, a seconda della quantità di foglie raccolte.
I lavoratori, immigrati stagionali per la raccolta, vivono nelle casette degli accampamenti costruiti dalla compagnia, isolati. Ovunque ci sono contadini che non lavorano «in proprio», costretti anche a comprare il cibo (per lo più proveniente dal campo del manager). Non essendoci alcun diversivo, sono facile preda dell’alcornol e della promiscuità.
All’ospedale di Kibao (della Brooke Bond) risulta che 9 operai su 10 sono affetti da Hiv positivo. Quando la malattia comincia a manifestarsi, viene loro corrisposta una piccola liquidazione e sono licenziati. Con l’aggravante che, non essendo stati informati della natura e della pericolosità del male, tornando al villaggio, contagiano chi vi è rimasto. La compagnia del tè ha pensato di risolvere il problema così: un’ora settimanale di istruzione sull’uso di profilattici e sull’importanza di anticoncezionali e abortivi. Nessun accenno viene fatto agli effetti collaterali che, usando i farmaci Depoprovera e Norplan, comportano rischi elevati. Non a caso, nel Nord del mondo, tali farmaci sono stati banditi. E non solo perché, con il passare del tempo, causano sterilità nelle donne.
Se nei centri sanitari governativi non fossero praticate regolarmente «certe» iniezioni, il paese non riceverebbe più gli aiuti dall’estero. E questo sistema sta distruggendo l’«orgoglio delle tanzaniane». Una donna, infatti, diventa tale solo dopo aver partorito il primo figlio: da quel momento sarà «la mamma di…». Col tempo, il ricorso sommario a contraccettivi distruggerà la fertilità di un’intera popolazione.
Inoltre negli ospedali governativi, al momento del parto, soprattutto se c’è stato un cesareo o in seguito a complicazioni, spesso sono i medici a decidere indiscriminatamente, senza chiedere il consenso di alcuno, di chiudere le tube delle giovani madri. Queste vengono a scoprirlo soltanto in seguito quando, vedendo che non arrivano altri figli, effettuano visite di controllo, magari negli ospedali dei missionari.
Una tanzaniana, confidandosi con una missionaria della Consolata, ha commentato: «Noi abbiamo molta più fiducia nei vostri ospedali, perché qui c’è il timore di Dio, mentre in quelli del governo c’è solo il timore della nazione».
Maria Rosa Lorini

Maria Rosa Lorini




Perché non sono americano

Superiore generale dei missionari della Consolata per 12 anni
e oggi superiore di quelli in Tanzania,
padre Giuseppe Inverardi, bresciano,
ci permette di approfondire la situazione di questo paese,
in relazione anche ad altre nazioni dell’Africa…
Il socialismo di Nyerere: successi e fallimenti.
L’importanza del kiswahili. Il dramma dell’Aids e dei ragazzi di strada.
L’azione della chiesa.

Padre Giuseppe, hai potuto girare il mondo fin da giovane. Che cos’è stato più consono alle tue aspettative?

Ho studiato teologia per quattro anni a Washington D.C. e ho lavorato per altri nove negli Stati Uniti. So di aver ricevuto molto dall’America e le sono grato delle opportunità che mi ha dato. Ma non ho mai desiderato di diventare cittadino americano. Il mio ha voluto essere un atteggiamento di apertura al mondo, un desiderio vivo di «partire», perché il mio sogno era l’Africa, senza escludere altri continenti.
Ho sempre desiderato la dimensione pastorale della missione; ma solo per due anni e mezzo ho potuto viverla in Kenya e per cinque in Tanzania. Spesso ho avuto incarichi di altro genere, fino ad oggi che ho 62 anni. Però non mi sono mai sentito frustrato. Mi ha sorretto la convinzione che la missione non è né il posto né l’attività, ma il cuore, e che essa è al «plurale»: cioè, compiuta nella diversità e organicità dei servizi.
Nel tuo servizio di superiore generale che cosa hai imparato?

Ho incontrato molte persone significative e profetiche, ad esempio: gli arcivescovi Paulo As e Luciano Mendes in Brasile, madre Teresa di Calcutta, i cardinali Joseph Malula e Edoardo Pironio (rispettivamente in Congo e Argentina), teologi di fama internazionale. E la lista potrebbe allungarsi. Il contatto con queste e altre persone ti consente un’analisi nuova della realtà, ti apre orizzonti sconfinati e ti lascia un’impronta. Sono ricordi indimenticabili.
Ho partecipato a numerosi incontri importanti, inclusi quelli dei superiori generali degli istituti missionari. Uno tra i più emozionanti: l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo in Mozambico, presso la comunità di S. Egidio a Roma… Ho conosciuto la complessità delle situazioni dei paesi visitati e del mondo in generale. Ho avvicinato e apprezzato culture e popoli diversi, nonché una chiesa cattolica dalle espressioni più varie.
Ovviamente il mio ministero era rivolto soprattutto ai fratelli missionari, ai quali riservavo il mio tempo. Da loro ho imparato che cosa significa essere evangelizzatori nelle situazioni più disparate, remote e difficili: la guerra civile e i sequestri di padri e suore in Mozambico, lo snervante stato di apartheid in Sudafrica, lo Zaire defraudato da Mobutu, la lotta continua in Brasile per i diritti degli indios yanomami e macuxí, la guerriglia e il dramma della coca in Colombia, ecc.
Ho capito che l’atteggiamento più valido è la vicinanza, la frateità, la comprensione. Non ho mai preteso di essere maestro di missione: mi sono considerato un alunno, con il desiderio di comprendere la realtà e di amare i missionari. Ho colto il mistero della persona nei risvolti belli e meno belli. Ho appreso che il silenzio è spesso più valido della parola. Ho pure imparato a soffrire per decisioni difficili.

Pensando agli ultimi 30 anni, vedi prevalentemente dei progressi o dei regressi nell’Africa in generale?

Il progresso è visibile: africani intelligenti, capaci e sapienti in posizione di responsabilità a livello nazionale e mondiale; nazioni con più scuole e università, ospedali, città cresciute, strade asfaltate, mezzi di comunicazione più diffusi, gente che veste meglio, una dieta più ricca, più automobili, e così via.
Ma c’è anche un regresso. Il sogno che, con l’indipendenza, le nazioni dell’Africa avrebbero avuto un cammino di continua crescita e di auto nomia economica si è infranto, lasciando una sensazione di sfiducia. Oggi esiste la consapevolezza che è impossibile per il continente tenere il passo dei paesi sviluppati. Questa è, forse, la più grave povertà.
Il regresso lo si vede nelle nuove guerre etniche e nelle quasi-dittature, nel numero dei rifugiati, nella decadenza generalizzata delle strutture scolastiche e sanitarie. La capacità di acquisto della moneta locale è minore rispetto ad anni fa. La giustizia è difficile da ottenersi, la corruzione è un cancro dilagante, l’Aids è un flagello con risvolti sociali immensi. Manca la pratica di un’amministrazione seria e onesta. Soldi che vengono deviati e rubati…
Problemi immani nei confronti dei quali ti senti impotente. Se fai qualcosa, avverti che è solo una goccia.

Nei paesi africani anglofoni ho notato, da parte degli studenti, un calo nella comprensione della lingua matea. Che ne pensi?

In Kenya l’inglese è parlato molto, perché la percentuale di chi frequenta la scuola secondaria è alta. In Tanzania la percentuale è molto bassa; qui inoltre il kiswahili è stato privilegiato: un fattore che ha avuto e ha grande importanza nell’unire la nazione ancora oggi, perché gli studenti e gli ufficiali governativi vengono spostati da un angolo all’altro del paese.
Il kiswahili è un patrimonio irrinunciabile: con la conseguenza, tuttavia, di staccarsi da un mondo globalizzato, che fa sempre più uso dell’inglese. La questione è dibattuta sui giornali. Sarebbe da miopi non guardare al futuro. Non per nulla parecchi mandano i figli a studiare in paesi anglofoni e molte scuole private danno priorità all’inglese come strumento di istruzione e comunicazione.

Che cosa puoi dire della situazione generale del Tanzania?
Colpisce il dato che questo è forse l’unico paese dell’Africa che non ha avuto guerre: il Tanzania è sereno fin dall’indipendenza. Può essere il frutto sia della politica di Nyerere sia del fatto che non c’è una tribù decisamente superiore e più forte delle altre. Ci sono pace e unità.
I missionari spesso commentano: «È persino una pace troppo… pacifica, senza voci che protestano contro le ingiustizie». La giustificazione data è: nel paese i conflitti non vengono risolti con la denuncia e la violenza, ma con il dialogo, l’intesa e la cooperazione tra stato e chiesa.

Ma ci vorrebbero altri «Nyerere»! Come giudichi quest’uomo a poco più di un anno dalla sua morte?

Nyerere ha avuto un grande significato politico nell’unire la nazione, nell’avere una visione e un programma da proporre. Qualcuno ha detto che era troppo idealista ed evangelico. Infatti l’ujamaa, come sistema economico, non ha funzionato e, come ogni forma di socialismo, sembra avere generato una persistente apatia: ancora oggi non è facile parlare di cooperazione, di lavoro d’insieme. Prevalgono individualismi e interessi personali.

La visione di Nyerere era nitida, ma il Tanzania è povero: non ha ricchezze del sottosuolo, un problema grave per una nazione che nasce. Fin dall’indipendenza è stato aiutato dai paesi nordici dell’Europa e da altri. Allo stesso tempo, però, Nyerere sottolineava il kujitegemea o «autosufficienza» e rifuggiva dal gioco capitalistico. Chi è venuto dopo di lui ha cambiato rotta, con il risultato di creare classi sociali in conflitto, specie nelle città.

Indubbiamente la statura politica e morale di Nyerere è grande. Ha lasciato al paese un’eredità di unità e pace. La sua visione andrebbe rivisitata e applicata ai nuovi tempi.

Dopo il cattolico Nyerere, la presidenza è passata al musulmano Mwinyi. Cosa è successo?

C’è stato un netto favoreggiamento degli appartenenti all’islam, che – si afferma – venivano messi in posti di responsabilità, indipendentemente dalla loro preparazione. È seguita una politica di apertura verso i paesi arabi. Forse la gente se n’è accorta poco; ma, se la situazione fosse continuata, oggi avremmo un Tanzania dal volto musulmano, non consono alla realtà numerica dell’islam.

E l’attuale presidente?

Mkapa è cattolico, ed è dello stesso partito di Nyerere, il «Partito del la rivoluzione». Govea una nazione tra le più povere del mondo, priva di risorse e indebitata per circa 7 miliardi di dollari. È chiamato ad intervenire con urgenza su tre fronti: sanità, educazione e pagamento del debito estero; ma anche ad eliminare la corruzione. Lo promise qualche anno fa e stabilì una commissione ad hoc. Ma non si vedono i frutti, anzi!
In seguito al giubileo, il Tanzania ha ottenuto il condono di una parte del debito, purché la somma condonata sia devoluta ai servizi sociali. È un processo difficile, che avrà certamente i suoi vantaggi, ma non così immediati come si vorrebbe.

Perché non decolla l’industria?

Forse perché all’inizio Nyerere ebbe dei dubbi sugli investimenti esteri e la sua scelta prioritaria fu l’agricoltura, che oggi è di sussistenza; forse perché il governo pone condizioni troppo pesanti a chi vuol investire… temendo che i profitti volino all’estero. Anche così, circa 20 anni fa, nacquero delle aziende, ma ora la maggioranza di esse sono chiuse.
Il vuoto industriale genera mancanza di lavoro. È uno dei problemi più gravi del Tanzania. Non ci sono prospettive. Per chi studia e si prepara alla vita, anche all’università, questa è un’amara constatazione.

Da chi è maggiormente aiutato il Tanzania e con quale scopo?

Fin dai tempi di Nyerere – come hai ricordato -, i donatori più generosi di personale e mezzi sono stati i paesi del Nord Europa. Sono presenti in tanti campi: salute, agricoltura, ecologia, forestazione, preparazione e aggioamento del personale. Credo che siano due i motivi di tale disponibilità: l’affinità ideologica socialista e il desiderio di venire incontro alla povertà del paese. Poiché dubito che la seconda motivazione sia del tutto pura, sarebbe interessante sapere il prezzo che il Tanzania deve e dovrà pagare in futuro.

Rispetto ai tempi di Nyerere, oggi il paese è ancora più povero. Come vive la gente?
Di un’economia di pura sussistenza. In alcune regioni la siccità è endemica e la carestia è di casa; per cui l’agricoltura non soddisfa i bisogni della gente ed anche la sussistenza molte volte non c’è. Con questa economia è difficile educare i figli. Teoricamente la scuola è gratis, ma in realtà vengono continuamente sollecitati dei contributi: per i banchi, le costruzioni nuove, i quadei, gli esami, ecc. E la percentuale della popolazione scolastica è scesa.
Anche per quanto riguarda la sanità, il servizio dovrebbe essere gratuito. Però, se vai al dispensario governativo, le medicine non ci sono; e, per andare ai dispensari privati, spesso non hai i soldi. Così si vive alla giornata, senza possibilità di risparmio. I salari sono bassi e il governo ha già più volte dichiarato che non può aumentarli, perché lui stesso è il primo a non poterli pagare. Infatti, spesso, per gli impiegati governativi ci sono lunghi ritardi nel percepire il salario.

Nyerere aveva creato i villaggi «ujamaa». Di tali villaggi cosa rimane oggi?

Il mwalimu Nyerere aveva radunato la gente in villaggi per facilitare i servizi a tutti. Ci furono delle forzature ingiuste, che in alcune località resero odiosa l’operazione e crearono malcontento. Oggi rimane una struttura in virtù della quale ogni villaggio ha un’autorità governativa e di partito, la scuola elementare e il dispensario in molti casi. L’alfabetizzazione per tutti è uno dei grandi meriti di Nyerere.

Come funzionano i mass-media?

I giornali principali sono quattro: due in kiswahili e due in inglese. Vi sono altri organi di cronaca, ma senza indirizzo politico. Due giornali e la radio sono espressione del governo. La televisione è molto povera di programmi. Quasi inesistente internet. Il paese è, quindi, tagliato fuori dalla comunicazione globale.

Che percezione ha il tanzaniano del mondo? Come reagisce, ad esempio, vedendo i turisti?

I turisti non sono molti in Tanzania. Mancano infrastrutture, escluso un po’ il nord a motivo dei parchi nazionali. Non c’è una presenza di massa; per cui non si può parlare di impatto sulla gente. Invece a Zanzibar, negli ultimi cinque anni, sono stati costruiti 70 hotel. Il turismo si limita soprattutto a quest’isola e, meno, a Dar es Salaam. Ci sono voli diretti tra le città europee e Zanzibar. L’anno scorso i turisti furono circa 215 mila.
Quello del turismo è, in ogni caso, un mercato incerto. Prima delle elezioni del novembre scorso, i turisti avevano paura di venire; ora il timore continua, perché la situazione politica in generale è molto critica. Ci sono state bombe e almeno due hotel bruciati. Questo è controproducente, perché i turisti si guardano bene dal venire. Come si sa, poi, i profitti ritornano soprattutto alle compagnie di viaggio e ai paesi da dove provengono i turisti stessi.
Le Organizzazioni non governative aiutano il paese?

Ce ne sono molte e il governo cerca di controllarle e cornordinarle. Però si sente dire che tante nascono più per interessi privati che per aiutare la popolazione. Recentemente sono state soppresse una cinquantina di Ong.

Si può dire che la gente vive la povertà in modo dignitoso?

Oso dire che tutto è dignitoso nell’africano… Subisce dignitosamente anche la povertà, perché ha una capacità immensa di sopportazione del dolore e delle traversie varie. Ma ciò non toglie che sia un peso.
È un peso quando i genitori non possono educare i loro figli, quando mancano i denari per le medicine… quando vai all’ospedale e non ti curano, quando giunge il tempo della semina e non hai due soldi per il concime, quando vendi i prodotti a prezzi irrisori, quando i mezzi di trasporto sono scarsi, quando la malaria ti aggredisce più volte e ti debilita!
Per me è un mistero come l’africano possa vivere in certe situazioni e… sorriderti come se nulla fosse. Che le necessità siano innumerevoli, a livello personale e comunitario, lo testimonia il numero di richieste di aiuto.

Quali sono le priorità d’intervento dei missionari della Consolata per venire incontro alle necessità del paese?

Da tempo gestiamo un ospedale a Ikonda, nell’Ukinga, una zona remota. Legata alle esigenze dell’ospedale, è nata una scuola per infermiere, riconosciuta dallo stato. Da tanti anni a Mafinga è attiva un’importante scuola secondaria, che è anche una Boarding School, cioè un collegio.
Ancora: nella città di Iringa sono nati la Faraja House (casa della consolazione) e il Consolata Vocational Centre, che è una scuola professionale. La Faraja House accoglie i ragazzi di strada; la scuola professionale è per loro ed altri ragazzi. Queste opere sono a carattere regionale e assorbono molte risorse, anche finanziarie.
Poi ogni missione ha le sue strutture, che riguardano educazione, salute, acqua… Da sempre consideriamo lo sviluppo parte integrante dell’evangelizzazione. La vicinanza alla gente è una nostra caratteristica fin dagli inizi della nostra presenza in Africa (Kenya).

«Ragazzi di strada»? Pensavo che in Africa un ragazzo, orfano di entrambi i genitori, fosse facilmente assorbito dalla famiglia estesa…

Certamente era così nel passato e in alcuni luoghi continua ad esserlo. Ma, in seguito all’Aids, il numero degli orfani è cresciuto in modo tale da rendere impossibile a molte famiglie di assorbirli, avendo già grosse difficoltà a crescere i propri figli. Pertanto molti orfani fanno della strada la loro casa: vivono in bande, si danno al furto e alla droga leggera.

Quali sono gli aspetti positivi della chiesa in Tanzania?

Ricordo i più evidenti.
1) La struttura delle «piccole comunità cristiane». È una realtà capillare, un’autentica benedizione, feconda di frutti. A differenza delle comunità di base dell’America Latina, quelle tanzaniane non hanno un carattere sociale, ma solo di preghiera e riflessione sulla parola di Dio. Si desidererebbe che avessero anche un impatto sociale. Tuttavia sono una fonte di ministeri, una opportunità di aiuto vicendevole e una sorgente di istanze per l’intera parrocchia. Tutto passa attraverso le «piccole comunità».
2) L’impegno dei laici (incominciando dai catechisti) è ammirevole. I consigli parrocchiali sono presenti anche nei villaggi. E sono i laici che portano avanti tutte le varie attività e stimolano la crescita della comunità. C’è sete di formazione. Anche le associazioni sono vive e attive.
3) L’attività della chiesa nel campo sociale. Nessuna area di bisogno esula dal suo interesse. Si prodiga con generosità e successo.

Julius Nierere – Il “Gandhi” dell’Africa nera

IL «GANDHI» DELL’AFRICA NERA

L o chiamavano «mwalimu», maestro. Laureato in pedagogia in Inghilterra, si era dedicato all’insegnamento: maestro nella primaria e maestro di vita poi per tutta l’Africa, che voleva liberata senza spargimento di sangue.
Determinanti sono state le sue mediazioni per portare la pace in Sudafrica, Mozambico… Ha liberato il Tanzania con una precisa tattica: esercitando ogni sorta di pressione non violenta sugli inglesi e alle Nazioni Unite, per ottenere autogoverno e indipendenza. Lui, il «Gandhi» dell’Africa nera.
Ha fondato il partito Tanu (Tanganyika African National Union) con il programma Uhuru na umoja (libertà e unità). Ha creato vincoli di amicizia tra le 120 tribù del paese, facendo appello all’unità nazionale, più forte dei vincoli etnici; ha favorito la lingua kiswahili come fattore di coesione nazionale; ha saputo trarre vantaggio dalle tensioni delle «tribù» europee (inglesi, tedeschi e greci), per farsi ascoltare dagli inglesi che accettarono di ritirarsi dal Tanzania senza rappresaglie né sabotaggi. Diventato presidente, non cambiò stile di vita: viveva i principi che insegnava, basati su una particolare forma di socialismo, mirante a raggruppare la gente in villaggi per vivere una vita sociale in forma di cornoperativa, dove tutti potessero interessarsi e partecipare al bene comune, con l’aiuto dello stato nelle grandi opere: strade, acquedotti, ospedali.
Viveva modestamente. Lo posso testimoniare in seguito ad un significativo incontro avuto con lui. Avevo intervistato padre Walsh, dei Padri Bianchi, cappellano degli universitari e direttore spirituale di Nyerere. Grazie a questo missionario, potei incontrare il presidente nella sua casa, semplice e dignitosamente povera. Finito il colloquio, egli stesso ci accompagnò all’università di Dar es Salaam, guidando la sua modesta automobile. Edificante il colloquio sul rapporto tra fede e politica.
Fede in Gesù Cristo: appena poteva, partecipava all’eucaristia inginocchiato tra i ragazzi. Fu anche visto in fila, davanti al confessionale.
Fede nell’uomo, nella sua sostanziale bontà: da qui la scelta di spingere i tanzaniani a vivere con un ideale fin troppo elevato per le deboli forze di queste popolazioni, da sempre chiuse entro i limitati confini delle necessità quotidiane.
Q ualcuno lo chiamava «il maestro rosso», specie per i suoi precisi interventi contro la corruzione di coloro che il popolo aveva argutamente ascritto alla «tribù» dei «Wabenzi», cioè di quanti potevano permettersi il lusso di girare su costosissime Mercedes Benz! Aveva promulgato «il codice dei dirigenti», per impedire ai ricchi di percepire due stipendi.
La gente aveva un’estrema fiducia in lui; per cui lo seguì sulla strada di una riforma che intendeva dare al paese un indirizzo socialista, tipicamente africano, non marxista, alieno dalla lotta di classe, basato sul tradizionale collettivismo rurale e legato alla cultura del passato. «Giustizia, uguaglianza, dignità»: erano i cardini del socialismo e dell’autogestione, proclamati nella famosa dichiarazione di Arusha (1967).
Il suo socialismo si chiamava «ujamaa», termine kiswahili che significa «stato di famiglia». Nyerere sognava che l’intero Tanzania diventasse una famiglia. Cominciò la campagna di nazionalizzazione. Nello stesso tempo nacquero le cornoperative di produzione e consumo autogestite ed autornamministrate. Bellissimo l’ideale. Deboli gli uomini chiamati a metterlo in pratica.
S i parlò di disastro, di completo fallimento. I forti e contrastanti interessi economici, i boicottaggi, le invidie, l’estrema povertà del paese, la mancanza di preparazione e di incentivi personali; poi anche l’aumento del prezzo del petrolio, la guerra contro l’Uganda di Amin…
I malcontenti portarono ad un tentativo di colpo di stato. Quando Nyerere incontrò colui che progettava di destituirlo, gli mise un fucile in mano e lo invitò a sparargli: era disposto a morire se ciò fosse servito ad evitare un bagno di sangue per la sua gente.
Quando, nel 1984, si accorse che c’erano tensioni e rischi di aggravamento delle proteste separatiste, spontaneamente lasciò la presidenza al musulmano Mwinyi. Egli, convinto cattolico, parlò in favore del suo successore, per cementare tutto il paese e facilitare così la transizione del potere.
Si ritirò nel suo villaggio a coltivare la terra e a fare il catechista, lasciando tali occupazioni solo quando percepiva di poter essere ancora utile come mediatore di pace presso popolazioni travagliate dalla guerra.
Valentino Salvoldi

aa.vv




MOZAMBICO – Ma era proprio biondo?

Appartengono alla «Scuola d’arte macúa» del Niassa.
Diversi per carattere, formazione culturale e vicende familiari,hanno in comune l’odio per la guerra
(tutte le guerre) e il gusto per il «nuovo». Anche nel ritrarre la bibbia.

J oão Torchio e Luís Prisciliano entrano titubanti nella redazione di Missioni Consolata. Vengono dal Mozambico: ed è la prima volta che escono dal loro paese. Li accompagna padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata.
Fa abbastanza caldo a Torino. Ma il signor Prisciliano se ne sta rannicchiato in un giaccone grigio-nero: ha l’aria severa, espressione accentuata dalla barba ispida. Invece il compagno Torchio, dal volto più disteso, spicca per una camicia gialla a mezze maniche. Entrambi sono artisti della Escola de arte «macúa», fondata da padre Frizzi.
«Benvenuti, amici, e accomodatevi! Grazie della vostra visita».
un orfano alla ribalta
– Signor Torchio, il suo cognome è un po’ curioso…
– Infatti non è mozambicano. È italiano. Sono figlio di un vostro connazionale.
– E dov’è oggi suo padre?
– Dovrebbe essere in Italia.
Dunque João Torchio, 43 anni, è figlio di un italiano. La mamma invece è del Malawi. Però João si ritiene orfano, perché da molto tempo ha perso ogni traccia dei genitori. Era ancora bambino quando il padre lo «consegnò» ai missionari della Consolata di Massangulo: di tanto in tanto, fino al 1975, il genitore visitava il figlio. Lo stesso facevano la madre e uno zio materno. Poi più nulla.
Il padre di João ritoò in patria, dove tutt’oggi vivrebbe con moglie e figli.
«Considero genitori padre Pietro Calandri e suor Franca Cavicchi – dichiara il meticcio -, cui devo grande riconoscenza, come pure ad altri missionari della Consolata. Oggi sono sposato con 10 figli: insieme alla moglie, sono la mia unica gioia. Ciò non toglie che la mia esistenza sia ancora dura. Mia compagna è sempre la solitudine».
Una solitudine resa più acuta dale tragedie sofferte dal Mozambico. João era ancora bambino quando, negli anni ’60-70, il suo paese lottava contro il Portogallo per l’indipendenza nazionale: uno scontro armato durato circa 15 anni. Poi, quasi subito dopo l’indipendenza del 1975, la devastante guerra civile tra Frelimo e Renamo, terminata solo nel 1992. «Due conflitti sanguinosi – commenta Torchio -, senza contare le persecuzioni religiose, le nazionalizzazioni forzate, i profughi interni, la fame, l’ingiustizia».
Nel frattempo il giovane João, abbandonato dai genitori, cresceva accanto ai missionari. Il ragazzo era attratto, soprattutto, da padre Calandri «pittore»: le «nature morte» e i «paesaggi sconfinati» del missionario lo affascinavano. Suor Franca capì che nel ragazzo non c’era solo curiosità: e gli mise in mano carta e pastelli. Fu così che João si rivelò un cartellonista e fumettista prodigioso: con i suoi disegni rallegrava tutte le feste della missione di Massangulo…
Se ne accorse anche padre Frizzi, che gli propose di lavorare nella Escola de arte «macúa» presso la missione di Maúa. «João Torchio – afferma il missionario – varia molto lo stile, alternando quello realista con quello semirealista, impressionista ed altri stili: cubico-geometrico, circolare-duale. Ma, al di là della tecnica, l’autore ha sempre presente la bibbia, che traduce secondo la cultura africana».
– Signor Torchio, qual è la fonte di ispirazione delle sue raffigurazioni?
– Innanzitutto la mia fantasia. Poi, quando padre Frizzi, mi ha chiesto di ritrarre il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli, fonte di ispirazione sono i fatti della bibbia.
– Fatti che, tuttavia, lei non copia, ma «interiorizza».
– L’artista non copia; trasfigura, interpreta.
– Come sono stati accolti i suoi lavori?
– Non sempre con favore.
Ad esempio: fu chiesto a Torchio di pitturare l’abside della cattedrale di Lichinga; ma il suo progetto venne respinto dai «tradizionalisti». E l’artista fu costretto a modificarlo. Questo lo ha molto rattristato. Oggi, però, non mancano segnali di comprensione ed accettazione del suo stile.
– Signor Torchio, in questi giorni lei è in Italia. Quali sono le sue impressioni?
– Finora sono stato solo a Roma. Ma penso di avere già visto molto nella vostra capitale, che è anche quella di tutti i cattolici del mondo. Roma è pure un centro storico unico e un immenso tesoro d’arte. Io sono rimasto senza parole nel camminare lungo le strade della «città eterna», perché le emozioni erano troppe.
– Ora, in Italia, non le piacerebbe sapere anche qualcosa di preciso su suo padre?
– E me lo domanda?
un «eretico» estroverso
«Se l’amico João è interamente figlio dei missionari della Consolata, io lo sono solo per metà: infatti devo la mia formazione anche a padri monfortani…». Esordisce così Luís Prisciliano, senza attendere la nostra domanda. Nel frattempo si liscia i baffi con il pollice e l’indice. Il suo volto, ora illuminato dal sorriso, appare meno «nero».
Ma ritorna «nerissimo», quando bolla le «guerre criminali patite dal popolo mozambicano». Al che ci sentiamo quasi obbligati di replicare, ricordando che nel paese la situazione è migliorata.
– Oggi, finalmente, vivete in pace e godete della democrazia!
– Certo, certo. Ma bisogna passare dalla democrazia delle parole a quella dei fatti. Il popolo vuole gesti concreti, non ideologie.
Prisciliano è un eclettico. È stato maestro e contabile, con alle spalle un buon bagaglio culturale. Voleva anche fare l’infermiere. «Poi, come mestiere, ho cominciato a dipingere per guadagnare. Però non sono diventato ricco, anzi!».
Un giorno capisce che la vera arte ha bisogno di una ispirazione pura, profonda. «E dove potevo trovarla se non nella mia cultura africana?». Ha cessato di dipingere per soldi e ha iniziato a farlo per «vocazione»: e comunica il messaggio evangelico. Però sentiva il bisogno di vagliare la sua ispirazione. «L’ho fatto – dice il pittore – vivendo nella foresta con la gente, per capire meglio la religiosità tradizionale. La foresta è un santuario: qui avvenivano e avvengono i sacrifici antichi». Tanti gli hanno dato del matto. Ma il «nuovo pittore» non ha demorso.
Così l’artista ha recuperato la tradizione e, soprattutto, «l’obbedienza ai sogni. Ogni mio progetto, prima di essere schizzato, è visto nel sogno».
– Signor Prisciliano, che cosa intende per «sogno»?
– La visione di simboli. Questi (elemento tipico della nostra tradizione) consentono di trasmettere il messaggio biblico con categorie africane. I simboli non si possono pensare; si ricevono nel sogno.
– Li riceve da chi?
– Dagli spiriti degli antenati.
Il ricorso ai simboli ci rimanda al libro «Gesù mediatore e medico», curato da padre Frizzi in lingua italiana e macúa, che raccoglie anche numerosi disegni di Torchio e Prisciliano. Vi si legge che Gesù è… gazzella, tartaruga, camaleonte.
Qual è il significato cristiano di tale simbologia? «Gesù è la gazzella per eccellenza, che con la sua innocenza primordiale cura e redime l’umanità; Gesù è la tartaruga, che con l’umiltà scala la montagna, ottiene da Dio l’indicazione del deposito d’acqua e l’offre all’umanità assetata; Gesù è il camaleonte, che si fa tutto a tutti, cioè ebreo con gli ebrei, greco con i greci, macúa con i macúa».
– Signor Prisciliano, i cattolici del Niassa, abituati ad un Gesù biondo e con gli occhi azzurri, si ritrovano nel suo Cristo… camaleonte?
– Ma è proprio vero che Gesù era biondo?… In ogni caso, il Cristo-camaleonte, oltre che valorizzare la nostra tradizione, è in sintonia con l’insegnamento di Paolo apostolo.
– E i cristiani approvano?
– I seminaristi, studenti di teologia, mi hanno duramente contestato.
– Allora?
– Allora costoro devono sapere che sono succubi dei colonialisti religiosi.
– Non teme di offendere i suoi concittadini con una simile espressione?
– Già! Qualcuno ha detto che la verità offende… Però mi consola che il popolo capisce, a differenza dei preti.
– E i missionari?
– Tutto dipende dal cuore di ognuno. Numerosi missionari si sforzano di capire.
«Luís Prisciliano – commenta padre Frizzi – è un pittore dalla fantasia fervida e non sempre viene capito. Ha rischiato anche di essere espulso dalla comunità cristiana. Io mi sono opposto e l’ho rilanciato nell’attività artistica con temi biblici. Nella nostra escola si dedica alle via crucis e ne ha prodotte parecchie dalle tinte forti».
Il pittore è certamente imprevedibile, anticonformista, provocatorio. A differenza di Torchio (affascinato dalla «grande» Roma), Prisciliano in Italia è rimasto colpito dai cimiteri delle auto. «Da noi sarebbero ancora tutte sulla strada. Da voi sono il segno della ricchezza o dello spreco?».
D opo cena saliamo con gli ospiti sul Monte dei Cappuccini, per ammirare Torino by night, sotto l’occhio distaccato della luna. Un improvviso vento rende quasi fredda la notte. Giunti in vetta, usciamo dalla Fiat Uno: João Torchio indossa un K-way a maniche lunghe, mentre Luís Prisciliano si sfila il giaccone e resta a braccia nude, sotto lo sguardo divertito persino delle stelle.
Paese che vai… artista che trovi.

CORRUZIONE IN MOZAMBICO

Padre Couto, da mesi sei preoccupato del modo con cui si parla della corruzione in Mozambico. Perché?
Secondo alcuni, nel paese tutto è corrotto: governo, polizia, magistratura, banche… Io non sono d’accordo, perché, se tutto è negativo, lo è anche l’evangelizzazione. Lo squalificare l’intera nazione è disonesto. I mezzi di comunicazione, le istituzioni culturali e le religioni dovrebbero affrontare il problema «corruzione» con la dovuta responsabilità e discrezione.

Ma la corruzione esiste o non esiste?
Esistono diverse forme di corruzione. Però bisogna dimostrarle in modo chiaro e definito per superarle.

Che fare per «dimostrare», «definire», «superare»?
Occorre fissare dei presupposti come punti di partenza per agire. Primo: creare un nuovo contesto legale. Ci sono mozambicani che hanno accumulato beni mobili e immobili, che noi generalmente riteniamo corrotti. Nel «nuovo contesto legale» queste persone dovrebbero essere riconosciute come proprietarie dei beni accumulati e diventerebbero la classe degli imprenditori, in accordo con le leggi. Dovremmo legittimare tale classe.
Secondo: legare l’azione degli imprenditori alla politica del paese. Goveo, assemblea della repubblica, partiti, sindacati… dovrebbero concertare la loro azione anche secondo gli interessi degli imprenditori.

Da quando esiste la classe degli imprenditori?
Dall’indipendenza del paese (1975). Sono persone e gruppi che provengono dal «Fronte di liberazione del Mozambico» (Frelimo): alcuni hanno formato e formano l’apparato del governo; altri sono direttori di banche, porti, ferrovie, trasporti, comunicazioni. Esistono membri del Comitato centrale del Frelimo che hanno una partecipazione dei capitali di Compagnie industriali dell’Asia, Europa e America. Esistono quindi «Joint Venture» fra imprenditori mozambicani e stranieri.
E fra i partiti dell’opposizione?
Ci sono pure gruppi che stanno diventando la classe imprenditrice del paese.

Dunque: bisogna proteggere legalmente i mozambicani che, dopo l’indipendenza del paese, hanno rimpiazzato i colonialisti portoghesi e ora si stanno legando a capitali nazionali e stranieri. È forse un’amnistia per chi ha accumulato beni anche in modo illecito?
Io dico che gli imprenditori sono il motore per formare una società meno corrotta. Vado oltre: le istituzioni della società civile, quelle religiose e umanitarie devono avvicinarsi alla classe degli imprenditori per essere loro di esempio nel «senso della patria», nell’etica sociale e nella politica in favore del bene comune. Prospetto un compromesso fra tutte le forze del paese.

È un compromesso tra chi ha già molto e chi non ha niente, con l’avallo della legge. Non è pericoloso?
È l’unica via ragionevole per costruire un ordine sociale dove giustizia e sicurezza incomincino a funzionare. Gli imprenditori, legalizzati i loro capitali, saranno interessati alla pace del paese per salvaguardarli; nello stesso tempo dovranno lavorare per accrescere gli utili: così facendo, investiranno parte del loro patrimonio in opere che andranno a beneficio di chi ha un livello di vita molto basso.

Hai in mente qualche modello di riferimento?
Paesi come Belgio, Germania, Olanda e le nazioni scandinave hanno fatto il «compromesso». Se sono riusciti loro, perché non noi in Mozambico?

E pensi anche di superare le «differenze di classe»?
Queste esisteranno sempre. Ma una cosa sono le differenze in una società «abbastanza soddisfatta» un’altra in una società «totalmente insoddisfatta».

Queste riflessioni entrano pure nell’Università Cattolica del Mozambico?
Stanno entrando in tutte le università del paese. Queste devono lavorare per raggiungere la «tranquillità dell’ordine» (sant’Agostino di Ippona). Legare le università agli imprenditori è un dovere, anche per tutelare i valori della società. di F. B.

Francesco Beardi




Un’antenna per l’indio

Assemblee dei capi, «una mucca per l’indio», progetti sanitari sono state tappe importanti per il processo di liberazione degli indios di Roraima.
È in vista un altro traguardo:
la stazione radio che trasmetterà i valori del vangelo
nella loro lingua.

D a oltre 50 anni i missionari della Consolata lavorano nella regione di Roraima. Dopo i primi contatti con le popolazioni indigene, essi si sono impegnati nel riscatto della loro dignità, aiutandole a riscoprire l’identità culturale e difendere i propri diritti. Tra incomprensioni, calunnie e minacce da parte della società dominante, gli indios hanno cominciato a diventare protagonisti del proprio futuro. Ma il cammino è ancora lungo e insidioso.
ASSEMBLEE DEI CAPI
Una tappa storica iniziale fu raggiunta nel gennaio del 1977 con la prima riunione dei capi villaggio. Fu un evento caratterizzato da dubbi e timori, angustie e sofferenze, che avviò un cammino di cambiamenti inarrestabili. Per la prima volta gli indios trovarono il coraggio di denunciare apertamente le angherie che dovevano subire da parte dei bianchi, invasori delle loro terre. Al tempo stesso s’impegnarono a lottare contro certe abitudini, come l’alcornolismo, che contribuivano a mantenerli in stato di emarginazione e semischiavitù.
Presa coscienza della situazione di emarginazione e oppressione in cui vivevano, gli indios cominciarono ad affermare la volontà di reagire pacificamente, ma con determinazione, per prendere in mano le redini del proprio futuro. Il processo di coscientizzazione è continuato nelle successive assemblee annuali, in cui sono emerse nuove idee e progetti concreti per realizzare un autentico riscatto sociale e culturale.
«UNA MUCCA PER L’INDIO»
L’idea era balenata nella mente dei missionari fin dal 1983: i bianchi dicono che «terra senza bestie è terra di nessuno»; allora gli indios della savana possono riappropriarsi del loro territorio allevando il bestiame. Dopo alcune esperienze fatte in pochi villaggi, fu tracciato un piano insieme alle comunità indigene e nel 1985 fu varato il progetto «una mucca per l’indio».
Lanciata in Italia, presso amici e conoscenti, in breve tempo l’iniziativa conquistò la simpatia di migliaia di persone, che contribuirono generosamente all’acquisto del bestiame. Dal 1985 al 1993 la diocesi di Roraima poté distribuire 7.800 mucche alle comunità, già preparate ad assumersi le responsabilità previste dal piano. Grazie alla riproduzione delle bestie, la distribuzione è continuata negli anni seguenti, in misura ridotta, ad altre comunità preparate per entrare nelle regole del progetto.
Oggi gli indios possiedono circa 30.000 capi di bestiame, senza contare quelli macellati o venduti per vivere o quelli morti durante la grande siccità di due anni fa. Il numero è destinato ad aumentare.
Più rilevanti dei numeri sono gli effetti straordinari di tale iniziativa, che ha provocato un profondo cambiamento nella vita sociale e culturale dei makuxí, wapixana e altre etnie minori, e di riflesso sui yanomami.
Oltre a sollevare gli indios dalla situazione di miseria, il progetto ha istillato e nutrito in individui e comunità un profondo senso di dignità e responsabilità collettiva, coesione e solidarietà tra i villaggi nella lotta per la comune sopravvivenza, crescita nella fede cristiana (gli indios della savana sono quasi tutti battezzati) e senso di appartenenza alla chiesa, grazie alla solidarietà dei fratelli nella fede che da lontano hanno pensato a loro e li hanno sostenuti con l’aiuto economico.
Tale sentimento di appartenenza e unità ha dato forza e coraggio alle popolazioni indigene per esigere dal governo la demarcazione delle loro terre, come mezzo indispensabile per vivere secondo la propria cultura.
SANITÀ COMUNITARIA
Fin dal 1952 la chiesa di Roraima si è preoccupata della salute degli indigeni, organizzando un ospedale con una ventina di letti nella missione di Surumú. Piccolo segno di fronte alla vastità dell’area indigena. I malati dovevano affrontare enormi distanze per raggiungere l’ospedale.
Suor Rosa Claudia, missionaria della Consolata, ebbe un’idea geniale: radunò 12 giovani, ragazzi e ragazze di 15-16 anni; per due anni trasmise loro una buona conoscenza di anatomia e fisiologia, igiene, malattie e relativi rimedi con farmaci che si comperano in farmacia e con quelli estratti dalle piante locali. A tale scopo organizzò nel terreno dell’ospedale un orto con erbe medicinali, quelle già note ai giovani, per averle viste nei villaggi, ed altre di cui la suora stava prendendo conoscenza.
Finita la preparazione, i giovani tornarono alle loro comunità con due compiti: costruire una piccola capanna, denominata «posto medico comunitario», e dar vita a un orticello di piante medicinali, chiamato «farmacia comunitaria». Al tempo stesso i giovani cominciarono a curare ferite, raffreddori, diarree di adulti e bambini, tossi, febbri malariche ed altri malanni comuni nella zona, usando sia medicine naturali che quelle comperate.
Inoltre erano capaci di applicare flebo, fare iniezioni e altri trattamenti di ordinaria amministrazione. Per i casi più gravi dovevano ricorrere all’ospedale della missione. La prima esperienza di questi giovani fu meravigliosa; grande fu, soprattutto, il senso di responsabilità e competenza con cui lavoravano.
Così, accanto alla chiesetta e alla scuola con catechisti e maestri, nei villaggi iniziava ad apparire il «posto medico» con i suoi responsabili, avviando un nuovo capitolo di attività che migliorò enormemente la vita comunitaria.
L’esperienza continuò. Altri giovani vennero formati e i centri sanitari si moltiplicarono in tutta la savana, con enorme beneficio delle comunità indigene, che imparavano a conoscere le malattie, difendere la propria salute, rispettare le norme igieniche, proteggere le piante medicinali. Con il progetto-mucche era migliorata l’alimentazione, con i posti medici anche la salute.
Qualche anno dopo, mentre i centri sanitari erano in piena funzione, un giovane medico brasiliano si offrì di lavorare a favore della salute degli indios della diocesi di Roraima. Si mise al lavoro con entusiasmo e ancora oggi accompagna con impegno e professionalità il settore sanitario del piano diocesano.
Nel frattempo fu costruita, presso la città di Boa Vista, la «casa di cura», un ospedale riservato prevalentemente agli indios yanomami, che vivono nella foresta, molto distante dalla regione dei makuxí. Anche questa struttura si è rivelata provvidenziale per la sopravvivenza di questo gruppo etnico.
LAICI CORAGGIOSI
Di fronte al perpetuarsi dei soprusi contro gli indios e le sfacciate calunnie e diffamazioni lanciate contro la diocesi di Roraima dalla classe politica e imprenditoriale locale, tra la popolazione bianca è maturato un folto gruppo di laici cattolici praticanti, che hanno preso posizioni ferme nel difendere i diritti degli indios e il lavoro del vescovo e dei missionari.
Più di una volta hanno sfidato con lettere aperte l’élite che controlla la vita politica, economica e sociale di Roraima; l’ultima, di pochi mesi fa, si è schierata a difesa di padre Giorgio Dal Ben, vigliaccamente attaccato da una popolare rivista brasiliana. Ne presentiamo alcune frasi.
«Noi, laiche e laici cattolici della diocesi di Roraima, coscienti del nostro dovere di evangelizzazione e ispirati dall’opera liberatrice di Cristo, gridiamo la nostra protesta, ripudio e indignazione contro gli attacchi lanciati alla nostra diocesi dalla élite capitalista, nel tentativo d’infangare l’immagine della chiesa di Roraima, perché essa difende con coraggio la causa degli esclusi, poveri, emarginati… Ripudiamo con veemenza calunnie, ingiurie e diffamazioni dirette contro i missionari e missionarie della Consolata, da una rivista di circolazione nazionale, che divulga menzogne e informazioni infondate e senza ascoltare le parti interessate. Affermiamo di nuovo pubblicamente la nostra solidarietà al vescovo, ai sacerdoti, religiosi e religiose di Roraima nel difficile compito di promuovere la giustizia, difendendo coloro che sono sfruttati».
UNA RADIO PER LA VERITÀ
Nel suo impegno in difesa degli indigeni la chiesa di Roraima deve affrontare autentiche persecuzioni, scatenate con l’appoggio dei mezzi di comunicazione, giornali, radio e spesso televisione: tutti strumenti in mano al governo. È quasi impossibile far sentire la sua voce oltre la cerchia dei fedeli che frequentano le funzioni religiose.
Da tempo si pensava a una stazione radio, sia per spiegare l’operato della chiesa, sia come strumento di evangelizzazione, per diffondere il messaggio e i valori del vangelo a tutti gli abitanti di Roraima.
L’impresa non era facile: la concessione di una emittente radiofonica dipende dal ministero delle comunicazioni e occorre l’appoggio dei politici. Per quelli di Roraima una radio cattolica è come il fumo negli occhi. Nonostante tutto tentammo la scommessa.
Per aggirare l’ostacolo, con l’aiuto di persone competenti fu costituita la «Fondazione educativa e culturale Giuseppe Allamano» a cui affidare la responsabilità della nuova struttura davanti alle autorità, senza far figurare la diocesi. Quindi, con l’aiuto di tecnici, fu preparato il progetto con estrema precisione: scopo della radio, esclusivamente educativo e culturale e non commerciale; potenza e area di irradiazione; programmi da mandare in onda; temi specifici per le varie ore della giornata, responsabilità legale della fondazione.
Dopo un anno di lavoro, nel 1990 il progetto fu presentato al ministero competente e fu elogiato per la perfezione con cui era stato elaborato. Sapevamo, però, che l’approvazione avrebbe richiesto molto tempo. Ma eravamo disposti ad attendere. Ogni volta che passavo nella capitale, facevo una capatina al ministero per sollecitare l’approvazione.
Quando giunse il tempo di lasciare la diocesi a un altro vescovo (1996), raccolsi copia di tutta la documentazione, la chiusi in una scatola di cartone e l’affidai alla segretaria perché la conservasse, anche se ormai avevo perso ogni speranza.
Ma alla fine del 1998 una lettera proveniente da Roraima mi comunicava che il ministero aveva approvato il progetto per l’installazione della radio. Il mio successore, mons. Apparecido, mi chiese di interessarmi del caso per reperire i fondi.
Grazie a Dio e all’interessamento del card. Ersilio Tonini, che da tempo ha preso a cuore la sorte degli indios di Roraima, sono arrivati i fondi per finanziare il progetto e sono iniziati i lavori di installazione.
Rimane ancora un punto interrogativo, sollevato a suo tempo da mons. Apparecido: «E poi chi sosterrà le spese di funzionamento e manutenzione?». Non esitai a rispondere: «Coloro che hanno reso possibile il progetto delle mucche faranno anche questo miracolo».
Negli anni passati, attraverso la campagna «una mucca per l’indio», gli amici italiani ci hanno aiutato a salvare gli indigeni di Roraima dalla fame e dalle malattie; sono certo che la loro solidarietà continuerà a sostenerci, per raggiungere un nuovo e più importante traguardo: aiutare i nostri fratelli indios a crescere spiritualmente e intellettualmente, oltre a difenderli e liberarli dalle menzogne dei loro oppressori. È questo lo scopo della «Radio educativa e culturale» che sta nascendo in Roraima.

Aldo Mongiano




Rompere il cerchio

Per 136 paesi del Sud del mondo il debito estero significa condanna
al sottosviluppo; per i paesi creditori è strumento di autentica usura e ricatto.
La situazione si sta ritorcendo come un boomerang contro le nazioni ricche. L’opinione pubblica preme su governi e organismi finanziari
perché i debiti vengano cancellati.
In questa lotta contro lo scandalo della povertà c’è posto per tutti.

Sommando i prestiti contratti tra gli anni ‘70-‘80 e obblighi accumulati nell’ultimo decennio, il debito estero dei paesi più poveri del pianeta ha raggiunto la somma di 2.500 miliardi di dollari, pari a 5 milioni di miliardi in lire. I debitori non riescono né a restituire i prestiti né a pagare gli interessi, senza drastiche misure economiche con effetti devastanti sull’ambiente e sulla vita di milioni di persone.
Alle scadenze di pagamento degli interessi, enormi quantità di valuta viene sottratta ai progetti di sviluppo per arricchire le economie del Nord. Per onorare tali impegni, l’America Latina, per esempio, spende 100 miliardi di dollari annui: la metà del Pil (prodotto interno lordo) e il triplo delle entrate delle esportazioni; i paesi dell’Africa subsahariana spendono risorse quattro volte superiori a quelle investite nel settore educativo e sanitario.

MANI ALLA GOLA

Il sistema dei prestiti è iniziato nel 1978, con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei paesi del terzo mondo. In due anni, con la rivalutazione del dollaro e l’innalzamento del tasso d’interesse dal 5% al 30%, i paesi debitori si son visti raddoppiare il valore del debito e moltiplicare per decine di volte gli interessi da pagare, sempre calcolati in valuta americana. Iniziava lo strozzinaggio planetario.
Senza contare i cinque secoli in cui l’Occidente ha depredato i paesi del Sud del mondo (vedi riquadro), oggi ci si domanda chi siano veramente i debitori. Per ogni dollaro dato al Sud del mondo, al Nord ne vengono rimborsati tre. Tra il 1980 e il 1996 l’Africa subsahariana ha pagato due volte l’ammontare del debito estero; eppure oggi è tre volte più indebitata di 20 anni fa: nel 1980 doveva ai creditori 85 mila dollari; nel 1997 sono saliti a 235 milioni.
Tradotte in costo umano, tali cifre sono uno strangolamento. In Zambia, tra il 1990 e il 1993, per ogni dollaro che il governo ha investito nell’istruzione elementare, ne ha pagati 35 ai paesi ricchi per gli oneri del debito. L’esempio riportato vale anche per gli altri paesi poveri: le somme devolute per il debito sono molto superiori a quelle investite per l’istruzione, sanità e altri servizi di base.
Per salvare la vita a 21 milioni di persone in Africa, calcola l’Unicef, basterebbe aggiungere 9 miliardi di dollari agli investimenti attuali; ma ogni anno il continente versa 13 miliardi di dollari per onorare i debiti.

CIRCOLO VIZIOSO
Per avere valuta pregiata con cui pagare i debiti, i paesi poveri sono costretti a distruggere l’agricoltura di sussistenza, per dare spazio alle coltivazioni intensive di prodotti per l’esportazione (caffè, cacao, fiori…). Immessi nell’arena dei mercati inteazionali, tali prodotti diventano preda delle multinazionali che, proprietarie delle catene di produzione e distribuzione, decidono a piacimento i prezzi di acquisto. Per i paesi produttori ne deriva enorme riduzione dei guadagni; il che rende impossibile pagare gli interessi e promuovere sviluppo.
Il debito è al tempo stesso causa ed effetto di impoverimento, con conseguenze disastrose: contrazione di nuovi debiti, tracollo della bilancia dei pagamenti, caduta dei salari, aumento della disoccupazione, migrazioni verso le città, delinquenza, analfabetismo, malnutrizione.
Tale situazione è poi fonte di corruzione. La collusione tra interessi di governi e banche occidentali, società finanziarie e multinazionali fanno del debito un lubrificante della macchina del capitalismo mondiale in costante ricerca di nuove aree d’investimento o sfruttamento.
Gli interessi sono bene rispecchiati nei «Piani di aggiustamento strutturale» (Pas), che il Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm) impongono ai paesi debitori, perché questi possano mantenere i loro impegni verso i creditori. Tali programmi, infatti, esigono l’apertura del mercato ai prodotti occidentali, con enorme danno alla produzione locale che soccombe alla concorrenza del più forte. In secondo luogo i Pas costringono i governi a tagliare le spese improduttive: scuola, sanità, strutture di utilità pubblica, aggravando le situazioni di povertà e miseria della popolazione.
Nelle mani dei creditori, infine, il debito estero si trasforma in potente arma politica per le scelte e il destino delle nazioni: dilazionamenti nei pagamenti o riduzioni del debito sono condizionate dai giochi di interessi politici o economici dei creditori; l’intransigenza si attenua in cambio della compiacenza dei debitori verso le manie egemoniche delle potenze occidentali.
All’Egitto, per esempio, fu annullato un terzo del debito, in cambio della lealtà verso gli Stati Uniti durante la guerra del Golfo contro l’Iraq. Un’importante quota dei debiti della Polonia fu cancellata e 31 miliardi di dollari furono stanziati per la ricostruzione e lo sviluppo degli altri paesi dell’Est, a patto che questi entrassero nell’orbita europea e aprissero le frontiere a prodotti e investimenti occidentali.
RITARDI E LATITANZE
Dei 136 paesi inscritti nei registri della Bm, 41 sono inseriti nella lista dei «paesi poveri fortemente indebitati»: 30 di essi sono in Africa. Nel 1996 è stato varato un programma per la riduzione dei debiti. Ma fino ad oggi i risultati sono stati scarsi. Nel 1999 Fmi e Bm hanno parlato di «aggiustamenti strutturali». Oggi cominciano a parlare di «strategia di riduzione della povertà»; esponenti della società civile sono stati invitati ai summit del Fmi e Bm: è un’autentica rivoluzione culturale.
Ma i paesi africani continuano a sentirsi abbandonati da oltre un decennio. La disavventura statunitense in Somalia e l’assenza di un forte interesse geopolitico nella regione hanno provocato una sorta di smobilitazione diplomatica e umanitaria generale, come testimonia il clima d’indifferenza che circonda le assurde guerre tra Etiopia ed Eritrea, nella regione dei Grandi Laghi e in altre nazioni africane.
«Nemmeno i cadaveri sugli schermi sono più in grado di smuovere l’opulenza dei paesi ricchi» ha esclamato il ministro degli esteri etiope, Seyoun Masfin, al recente vertice euroafricano del Cairo, denunciando l’indifferenza degli europei.
È vero che la miseria in Africa nasce dalla miscela di capricci climatici e disordini politici; ma la tragedia si consuma anche a causa della meschinità umana. Per esempio: il parlamento di Strasburgo, il 14 aprile 2000, non ha votato la delibera sull’aumento degli aiuti al Coo d’Africa per mancanza di quorum, rimandando la decisione al mese seguente: i parlamentari anticiparono il rientro a casa per paura di difficoltà nei trasporti. Un tranquillo week-end in famiglia vale di più della sorte di 8 milioni di persone che stanno morendo di fame!
La stessa sorte è toccata al Mozambico, in occasione dell’ultima alluvione: la Commissione europea ha approvato l’invio di aiuti umanitari a un mese dall’inizio dell’emergenza.
Tale catastrofe ha moltiplicato il coro di proposte per chiedere la cancellazione del debito estero del Mozambico; ma il Club di Londra, che raduna le più grandi banche private occidentali, ha risposto con una vaga decisione di rinviare i pagamenti per il servizio del debito. Eppure, lo stesso Club non ha esitato a cancellare alla Russia 10 miliardi di dollari di debito, permettendo così al Cremlino di continuare a finanziare la guerra in Cecenia.
Nel vertice tra paesi europei e africani, svolto al Cairo il 3 e 4 aprile 2000, i capi africani avevano messo in cima all’agenda la discussione della cancellazione del debito. Ma i rappresentanti europei non hanno preso alcuna misura degna di rilievo per arginae la crescita galoppante. Le speranze sono rimandate ai prossimi incontri che, su decisione dell’incontro del Cairo, si terranno ogni tre anni.

EQUITÀ E SOLIDARIETÀ
Intanto i rapporti tra Europa e Africa continuano a viaggiare su binari di scambi commerciali ineguali e lontani da vera solidarietà. Da una parte, infatti, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) costringe i paesi in via di sviluppo ad aprire i loro mercati, mentre per quelli occidentali persistono le barriere doganali a svantaggio dei prodotti del Sud del mondo; a ciò si aggiunga che i prezzi dei prodotti esportati e importati dai paesi poveri vengono sempre stabiliti nelle capitali della finanza occidentale. E il debito di questi paesi continua a crescere; mentre lo sviluppo rimane un sogno.
Con la Convenzione di Lomé, l’Europa ha accordato a 71 stati di Africa, Caraibi e Pacifico (Acp) un trattamento privilegiato per i loro prodotti di esportazione. Dal 29 febbraio 2000 tale trattamento ha aperto lo spazio a nuovi accordi da negoziare tra il 2002 e il 2008. Ma lo spirito che li animerà è stato cinicamente espresso da Philippe Lowe, capofila della delegazione europea: i nuovi accordi commerciali «dovranno essere compatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio».
Un saggio di tale spirito si è avuto il 15 marzo 2000: il parlamento europeo ha approvato l’uso del 5% di grassi vegetali nella fabbricazione di cioccolato, meno costosi del burro di cacao. Tale delibera penalizza i paesi produttori di cacao, africani e latinoamericani. Si calcola, infatti, che con l’impiego di grassi vegetali la richiesta di semi di cacao diminuirà di 80-120 mila tonnellate.
Secondo la Ong inglese Oxfam, 11 milioni di persone (1,2 milioni di famiglie con appezzamenti di 4-5 ettari) sopravvivono grazie alla produzione di cacao; oltre tutto il suo prezzo si è dimezzato nel giro di due anni. Quale futuro per il Ghana, per esempio, che produce 400 mila tonnellate di burro di cacao l’anno e che prevede una perdita di 300 milioni di dollari? Quali prospettive per la Costa d’Avorio, che ne produce 1,2 milioni di tonnellate, quasi tutte per l’esportazione?

EFFETTO BOOMERANG
Secondo l’Osservatorio geopolitico delle droghe e dei conflitti in Africa (Ogd), negli ultimi 15 anni l’aumento della coltivazione di droga è legata al calo dei prezzi dei prodotti agricoli da esportazione (caffè, cacao, arachidi), causato dalle leggi del mercato globale, e alla crisi dell’agricoltura di sussistenza.
Nonostante sia illegale in tutta l’Africa, la coltivazione della cannabis (canapa indiana) è diventata una vera coltura di sostituzione: cresce in qualsiasi terreno, non ha bisogno di cure particolari ed è più redditizia. Un ettaro di terra coltivato a cannabis rende al contadino della Costa d’Avorio 300 volte di più del cacao; in Senegal 50 volte la coltivazione di arachidi; rispetto a riso e manioca il guadagno è 55 volte superiore. Il prezzo della marijuana sale; quello degli altri prodotti da esportazione scende: nel 1995 il rapporto di prezzo tra marijuana e cacao era di 60 a 1; col caffè, di 100 a 1.
Secondo Laurent Laniel, ricercatore dell’Osservatorio di Parigi, i principali responsabili della rivoluzione della cannabis sono i piani di aggiustamento strutturale, che hanno abolito le barriere doganali e misure protezionistiche, tagliato finanziamenti e assistenza tecnica all’agricoltura di sussistenza, danneggiato la produzione intea.
Stretta nella morsa del debito, l’Africa ha cominciato a sostituire la coltivazione dei prodotti da esportazione con quelle imposte dal mercato internazionale: quello della droga è sempre in espansione. L’infiltrazione nella rete di traffici mafiosi e criminali inteazionali nel continente trasforma l’Africa in centro di smistamento di cocaina ed eroina destinate a Europa e Stati Uniti.
Così, una semplice normativa, come quella sul cacao varata dal Parlamento europeo per accontentare gli interessi di pochi, non riguarda solo un innocuo cambiamento di gusti per i consumatori del Nord, ma incide profondamente nella vita delle popolazioni africane e ritorna al mittente come un boomerang, sotto forma di quel traffico di stupefacenti che si vuole combattere.
BASTA CON LE PAROLE
La soluzione del problema del debito dei paesi indebitati e dello scandalo della povertà non riguarda solo i governi e le istituzioni finanziarie inteazionali, ma chiama in causa anche noi. In occasione del giubileo sono state fatte diverse campagne di mobilitazione della società civile per rinnovare l’appello della cancellazione del debito ai paesi poveri. Qualcosa si è mosso, ma la strada è ancora lunga. Tali campagne devono continuare, per sensibilizzare maggiormente la gente e aumentare la pressione sui governi creditori, perché facciano scelte responsabili per alleviare la situazione di miseria in cui vivono miliardi di persone.
Inoltre, il debito estero è solo una delle tante cause del sottosviluppo. È un segmento della spirale perversa del sistema economico mondiale in cui viviamo. Alla pressione politica, bisogna unire una nuova mentalità nei nostri consumi. L’acquisto di certi prodotti alla moda, per esempio, ci rende complici dell’oppressione e sfruttamento a cui sono sottoposti operai, donne e bambini nelle fabbriche dove tali beni vengono prodotti. L’investimento dei propri risparmi può renderci inavvertitamente azionisti d’imprese e banche che speculano sulla vendita di armi o traffici criminali.
È necessario, secondo un famoso slogan, «pensare globalmente e agire localmente». Il che significa operare una coraggiosa inversione di tendenza nel nostro agire quotidiano, passando dal consumismo a uno stile di vita più sobrio, adottando strategie di solidarietà che consentano a tutti una vita più dignitosa.
A livello locale sono molte le strategie in atto che aiutano a fare scelte responsabili in fatto di consumi e investimenti: commercio equo e solidale, consumo critico e boicottaggio dei prodotti di certe multinazionali, imprese non profit, banche etiche, mutua autogestione, bilanci di giustizia… Senza contare le varie reti di solidarietà, iniziative di protesta, conferenze e forum per le alternative… che vengono organizzate a livello nazionale e internazionale.
È questione di viaggiare informati e non arrendersi. La sfida delle ingiustizie locali e globali è grande e difficile: oggi può sembrare utopia.
Domani sarà realtà.

DEBOTORE SARAI TU

«Ho scoperto che anch’io posso pretendere rimborsi dagli europei – ha detto un capo indigeno messicano, in occasione del 500° anniversario della “scoperta” dell’America -. Ne fa fede l’Archivio delle Indie. Foglio dopo foglio, ricevuta dopo ricevuta, risulta che solo tra il 1506 e il 1660 sono arrivate in Spagna 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento.
Non ci abbassiamo a chiedere ai fratelli europei i sanguinari tassi d’interesse variabile tra il 20-30% da essi imposti ai paesi del terzo mondo. Ci limitiamo a esigere la restituzione dei materiali preziosi prestati, più il modico interesse fisso del 10% annuale, accumulato negli ultimi tre secoli.
Su questa base, applicando la formula europea dell’interesse composto, informiamo gli scopritori che ci devono 185 tonnellate d’oro e 16 mila d’argento, ambedue elevate alla potenza di 300. Come dire, un numero per la cui espressione sarebbero necessarie più di 300 cifre e il cui peso supera ampiamente quello della terra».

Italia: chiesa e governo contro il debito

I n occasione del giubileo in Italia è stata lanciata la «Campagna ecclesiale per la riduzione del debito estero ai paesi poveri». L’iniziativa si era proposta un triplice scopo: raccogliere fondi per comperare quote di debito di Zambia e Guinea Bissau verso l’Italia; sensibilizzare la comunità ecclesiale e civile, invitandola ad adottare nuovi stili di vita; pressione politica sul governo italiano perché cancelli i debiti dei paesi poveri e spinga i paesi creditori a fare altrettanto.
Iniziata con l’avvento del 1999, la Campagna è terminata con la chiusura dell’evento giubilare. Il resoconto verrà presentato in questo mese all’assemblea della Cei; ma il Comitato ha iniziato a fare i conti. Sono stati raccolti 25 miliardi di lire; la somma finale dovrebbe superare i 30 miliardi.

I l primo obiettivo, la raccolta di 100 miliardi, è lontano dalla meta fissata originariamente. Si poteva fare qualche cosa di più dicono gli organizzatori. La Campagna ha coinvolto la chiesa italiana a macchie di leopardo.
Tuttavia il bilancio complessivo è positivo. Un terzo della somma (oltre 9 miliardi) è passato attraverso la Banca Etica: un grande successo di immagine e fiducia per questa istituzione, che si propone di usare in modo trasparente e solidale i risparmi in essa depositati.
Oltre 5 milioni di persone sono state sensibilizzate sui problemi dei paesi poveri, mediante convegni, seminari, momenti di formazione: 30 mila animatori formati allo scopo, in maggioranza fuori della cerchia del mondo missionario e Ong: un importante potenziale umano per continuare, anche quando le campagne mondiali saranno concluse, l’impegno per combattere povertà e disuguaglianze, mettere in discussione i meccanismi che regolano i rapporti tra Nord e Sud.
Infine, con altri organismi, la Campagna ha esercitato un’efficace pressione politica sul governo e parlamento italiano, spronandolo a passare dalle promesse ai fatti.

I debiti complessivi dei paesi del Sud del mondo verso l’Italia ammontano a 60 mila miliardi di lire. Nel luglio 2000, governo e parlamento hanno varato una legge che prevede la rinuncia di 12 mila miliardi di lire di crediti. È lo strumento normativo più coraggioso tra quelli emanati dai paesi creditori: non si fa distinzione tra debiti antichi e nuovi; sono coinvolti 70 paesi, non solo i 41 classificati come Hipc; la cancellazione effettiva, legata a progetti di lotta alla povertà, dovrà avvenire entro tre anni; sono previsti interventi indipendentemente dagli obblighi inteazionali.
Sono già stati presi contatti con vari paesi debitori e nel gennaio scorso il governo ha annunciato la cancellazione totale dei crediti italiani per 22 tra i paesi altamente indebitati, per un ammontare di 4 mila miliardi.
Ma non è il caso di abbassare la guardia. È necessario continuare a vigilare sulla trasparenza delle modalità di future cancellazioni e, soprattutto, insistere perché nel vertice dei G8 (il prossimo si terrà a Genova in luglio) l’Italia spinga la Bm, Fmi e tutti i paesi creditori a cancellare definitivamente e in fretta tutti i debiti dei paesi poveri.

Benedetto Bellesi

Antonio Rovelli




Lacrime di una musulmana

Egregio direttore, ci ha disgustati la copertina di Missioni Consolata, gennaio 2001: il volto di una musulmana e non «lacrime di donna samburu».
Così avvenne per il centenario della rivista (ottobre-novembre 1998): anche su quel numero il volto di una musulmana. Idem in quattro o cinque numeri del 1998: sempre facce di musulmane e pagine e pagine di interviste a donne cristiane diventate musulmane.
Ci chiediamo se sia il caso di mettere, come primo messaggio della rivista, donne musulmane. Quale attinenza hanno con la rivista e con i missionari della Consolata? Molti lettori hanno commentato negativamente.
È vero che l’islam è la seconda religione in Italia e che di musulmane ce ne sono a migliaia; ma proporle sulla copertina di una rivista missionaria è del tutto fuori posto.
Egregio direttore, se lei è un «patito» per i volti musulmani, si prenda due o tre segretarie musulmane: così le può contemplare come e quando vuole. Ma abbia rispetto per la rivista, per i suoi lettori, per i missionari della Consolata.
Lettera firmata
Kenya
La copertina incriminata ritrae una donna, con due lacrime che le solcano il volto. La foto fu scattata da padre Benedetto Bellesi, il 18 settembre 1998, nella chiesa di Maralal (Kenya) durante il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso quattro giorni prima.
La commozione di quella musulmana per un missionario cattolico è quanto mai eloquente: come minimo esige (questa volta sì) «rispetto».
Secondo la Qabbalàh (tradizione mistica dell’ebraismo), l’Eteo raccoglie le lacrime delle donne, di tutte le donne. Ma qualcuno neppure le vede, perché chi piange è una musulmana!

lettera firmata