Quando non si scherza

Amnesty inteational un rapporto-denuncia su 144 paesi

Non si scherza con i diritti umani, non solo nelle aree di conflitto, ma anche nelle operazioni di «peace keeping» e «peace building».
Secondo le Nazioni Unite, circa 200 milioni di persone nel mondo sono ridotte
in schiavitù, sfruttate in lavori infimi, abietti e pesanti;
e la tratta di esseri umani aumenta ad un tasso del 40-50% l’anno.
Se i governi credono nella giustizia, specialmente per le popolazioni povere,
non devono permettere che i soprusi abbiano il sopravvento.

PULIZIA ETNICA
O BOMBARDAMENTI?

Molte le popolazioni che nel 2000 hanno subìto repressioni. E non sono poche le nazioni in cui carcerazioni, torture e omicidi (soprattutto per motivi politici) sono stati commessi dai governi, per mantenere il loro potere. Si è così accentuato il divario tra «ricchi» e «poveri», innescando proteste sfociate in violenza.
È questa, in sintesi, l’introduzione al Rapporto annuale (2000) di Amnesty Inteational (A.I.). Si tratta del consueto appuntamento con 144 paesi e le preoccupazioni di milioni di persone che, ogni giorno, subiscono umiliazioni e abusi. Ecco invasioni e bombardamenti, che tentano una giustificazione proprio in nome dei diritti umani: giustificazione che è al centro di dibattiti sia tra i movimenti umanitari inteazionali sia tra gli esponenti delle Nazioni Unite.
Nel 1999 il dibattito si è concentrato soprattutto sugli interventi militari in Kosovo e Timor Est, giustificati per proteggere i civili dalle brutalità delle autorità politiche locali, e sul «silenzio» della comunità mondiale circa i bombardamenti russi in Cecenia.
«Noi riteniamo opportuno il dibattito – spiega Pierre Sané, segretario generale di Amnesty Inteational -, perché sono in gioco le vite e il futuro di milioni di persone. Ma, anche se siamo lieti per il dibattito, non accettiamo i termini in cui viene generalmente posto: invasione o non-azione non dovrebbero essere le uniche due opzioni possibili. La pulizia etnica o i bombardamenti: questa è una scelta che un attivista per i diritti umani non dovrebbe mai fare. Noi sosteniamo che le crisi dei diritti umani possono e debbono essere prevenute, poiché non sono assolutamente inevitabili».
Pur non respingendo l’uso della forza e affermando che la legge deve essere applicata, A.I. chiede ai governi di proteggere le persone dalle violazioni dei diritti umani e di consegnare i colpevoli alla giustizia.
Dalla Cina alla Russia
I governi che approvano l’intervento armato straniero in un paese lo fanno per motivi morali.
Pierre Sané ricorda che il presidente degli USA, Bill Clinton, ha giustificato i bombardamenti della Nato su Belgrado, perché il voltare le spalle alla pulizia etnica sarebbe stato «un disastro morale e strategico». Altri fautori degli interventi estei ricordano gli sviluppi della legislazione internazionale: per esempio, la Carta delle Nazioni Unite permette al Consiglio di Sicurezza di prendere misure coercitive, anche militari.
I governi contrari a questa tesi si basano sui principi di «sovranità nazionale» e di «non interferenza» negli affari interni di un paese. La Cina, ad esempio, si batte perché i diritti umani non siano sottoposti al controllo internazionale. «Noi – ha detto un portavoce del governo di Pechino in risposta alle critiche sullo scarso rispetto dei diritti umani – ci opponiamo a un tale atto di interferenza negli affari interni di un altro paese».
La Russia sostiene che i suoi bombardamenti sui civili in Cecenia sono un affare interno.
Sulla medesima posizione è Abdelaziz Bouteflika, presidente dell’Algeria e dell’Organizzazione dell’unità africana. Questi compara l’intervento internazionale all’irruzione nella casa del vicino, perché (si dice) che un bambino sia stato picchiato dai genitori. «Questa – ha affermato – sarebbe una grave violazione della libertà. Nuove teorie vengono tirate in ballo soltanto per privare i popoli e gli stati della loro sovranità internazionale».
Il dibattito è costante con l’obiettivo comune di reagire alle tragedie umane, quali gli omicidi di massa e le amputazioni in Sierra Leone, le uccisioni etniche in Afghanistan, le deportazioni nell’ex Jugoslavia o a Timor Est. «Per gli attivisti di Amnesty Inteational – sottolinea il segretario Sané – il dibattito è acceso dall’angoscia per le sofferenze dei paesi divisi da conflitti armati o dal collasso delle strutture di governo; ma soprattutto dalla frustrazione, perché le tecniche tradizionali di A. I. (che riguardano singole vittime) non sembrano essere efficaci in situazioni caotiche e di fronte ad abusi commessi su larga scala».
La guerra in Kosovo
Nel marzo 1999 nell’ex Jugoslavia la situazione dei diritti umani è degenerata in una crisi internazionale. La Nato ha condotto attacchi aerei contro obiettivi della Serbia, dopo il fallimento degli sforzi politici per porre fine al conflitto tra le forze governative e l’Esercito di liberazione del Kosovo. I bombardamenti della Nato hanno causato notevoli violazioni dei diritti umani: sono state allontanate circa 750 mila persone, con una marea di rifugiati a livello regionale, cui sono seguite uccisioni, sparizioni, torture e stupri verso donne albanesi.
I membri di A.I. si sono mobilitati in tutto il mondo: hanno reso pubblici i fatti; hanno chiesto ai governi di intervenire per porvi fine, di assicurare alla giustizia i colpevoli e di garantire protezione ai rifugiati; ma hanno anche espresso preoccupazione per la mancanza di misure, da parte della Nato, per ridurre le uccisioni di civili e la possibile violazione delle regole di guerra, nonostante che siano emerse numerose prove di abusi dei diritti umani in terra kosovara.
Timor est e indonesia
Alla fine di agosto 1999 il 98% dei timoresi orientali, aventi diritto di voto, l’ha esercitato nella consultazione promossa dalle Nazioni Unite per definire il futuro del territorio. Dal 1975, allorché l’Indonesia occupò illegalmente Timor Est, la popolazione ha dovuto affrontare una repressione brutale: almeno un terzo degli abitanti è stato eliminato.
In seguito all’aumento della violenza, A.I. ha mobilitato il suo milione di membri per esercitare pressioni sulle autorità indonesiane. I governi hanno bloccato il commercio di armi, l’addestramento militare e, nel settembre 1999, le Nazioni Unite hanno dispiegato una forza multinazionale guidata dall’Australia. Allorché le truppe sono arrivate – si legge nel Rapporto di A.I. -, la maggior parte dei timoresi era già fuggita o era stata espulsa con la forza; al loro ritorno i rifugiati hanno dovuto affrontare la distruzione del tessuto sociale e delle infrastrutture essenziali.
A.I. si è prodigata per combattere l’impunità, sostenendo i difensori dei diritti umani di Timor Est e foendo protezione ai rifugiati, criticando pubblicamente il ritardo nello spiegamento di truppe da parte della Commissione di inchiesta delle Nazioni Unite.

IL CASO PINOCHET
In Cile i parenti dei desaparecidos per via extragiudiziaria, durante il governo militare del generale Augusto Pinochet, attendono ancora di sapere cosa è successo ai loro cari. Anche migliaia di individui, vittime di arresti arbitrari, torture ed esilio, aspettano di ottenere giustizia, mentre resta impunita la maggior parte di coloro che, approfittando del ruolo rivestito nell’apparato statale cileno, hanno ordinato e compiuto violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990.
È ancora nella memoria di molti quell’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet guidò un sanguinoso colpo di stato e la sua giunta militare si distinse nella repressione: le garanzie costituzionali vennero sospese, il parlamento fu sciolto e in tutto il paese fu dichiarato lo stato d’assedio. La tortura fu sistematica e le «sparizioni» una pratica ufficiale.
Nel novembre 1974 A.I. pubblicò il primo rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani in Cile e, in seguito, produsse altre centinaia di documenti e appelli in favore delle vittime, appoggiando la battaglia delle famiglie dei desaparecidos nella ricerca della verità e giustizia. Il destino della maggior parte di essi resta sconosciuto; però esistono prove secondo le quali gli «scomparsi» sono stati vittime di un programma governativo, teso ad eliminare tutti i potenziali oppositori.
La lotta all’impunità di Pinochet è iniziata nel luglio 1996, con la presentazione al tribunale spagnolo delle prime denunce, sino ad arrivare al dicembre 1999, quando due giudici dell’Alta Corte hanno fissato al marzo 2000 l’udienza per l’appello del militare cileno contro la sentenza del giudice Bartle. Oggi il generale è in Cile in attesa di giudizio.
bambini-soldato
Quasi tutti i governi non hanno mantenuto le promesse di protezione speciale per i bambini. In tutto il mondo i minori non solo continuano a subire molti degli stessi abusi patiti dagli adulti, ma sono anche vittime di particolari infamie, perché più vulnerabili e dipendenti da altri.
Esistono oltre 300 mila ragazzi, sotto i 18 anni, che fanno la guerra: di questi oltre 120 mila sono coinvolti nei numerosi conflitti in Africa.
Inoltre, secondo stime dell’Onu, superano i due milioni i bambini oggetto di abusi sessuali, per un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari: il solo mercato delle cassette poografiche frutta oltre 280 milioni di dollari. A.I. ha partecipato a iniziative nazionali e inteazionali, come la Conferenza panafricana sull’impiego dei bambini-soldato, nel corso della quale è stato previsto un Protocollo opzionale che elevi l’età minima per un soldato a 18 anni. La campagna di A.I. sui diritti dei bambini si è attivata con lo slogan «Diritti dei bambini: il futuro inizia qui», dando risalto al concetto che i diritti dei bambini sono una pietra miliare per costruire una solida cultura di pace per le generazioni future.
donne: «delitti di onore»
I diritti delle donne sono centrali nell’azione di A.I., che ha lanciato campagne contro le violazioni dei diritti femminili in Stati Uniti, Pakistan e Brasile.
Milioni di donne in Pakistan, ad esempio, sono limitate dalla tradizione, che le confina nella segregazione e sottomissione al maschio. Gli uomini «possiedono» le parenti femmine e puniscono le loro trasgressioni con la violenza. Quando le donne rivendicano i propri diritti, per quanto minimi, la reazione è dura e immediata. Così i «delitti d’onore» sono aumentati, ma anche la crescente consapevolezza delle donne. Tuttavia sono molti i casi che restano sconosciuti e quasi tutti impuniti.
Non meno drammatico è il problema delle donne in carcere. Il relativamente contenuto numero di detenute rivela che i penitenziari femminili sono talvolta improvvisati e inadeguati. In Brasile le celle presso le stazioni di polizia sono affollate all’inverosimile: e, sebbene sia la legge carceraria sia la costituzione stabiliscano che alle detenute siano garantite agevolazioni, per prendersi cura dei figli piccoli e per mantenere contatti regolari con quelli più grandi, tali diritti sono spesso negati con disprezzo. Per non parlare dei servizi sanitari: per le detenute in carcere sono inadeguati, mentre non esistono affatto per le donne trattenute in stazioni di polizia.
La campagna di A.I. contro i «delitti d’onore» in Pakistan evidenzia, soprattutto, la responsabilità dello stato nella mancata tutela delle donne; nello stesso tempo A.I. auspica nuove leggi inteazionali che obblighino gli stati a prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne. Circa il Brasile, A.I. condanna la situazione delle prigioni, ma fornisce anche raccomandazioni costruttive alle iniziative di riforma carceraria nel paese.

Questi sono alcuni casi di violazioni dei diritti umani nel mondo. Ma il Rapporto di Amnesty Inteational 2000 (un volume di 648 pagine) esamina 144 nazioni, documentando la situazione di ognuna: geografia, capo di stato e governo, popolazione, lingua ufficiale, esistenza o meno della pena di morte o altre pene restrittive… E c’è da riflettere.

Eesto Bodini

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