Per diventare cittadino americano

… si fa di tutto.
Gli immigrati provenienti da Haiti (il più povero
paese dell’America Latina) sono circa un milione e mezzo, in maggioranzacattolici. A parte
qualche eccezione, per loro le difficoltà di integrazione sono state numerose.
Ne abbiamo parlato con mons. Guy Sansaric,
direttore della pastorale haitiana negli Stati Uniti.

N egli Stati Uniti ci sono attualmente circa un milione e mezzo di haitiani, due terzi dei quali sono cattolici, rappresentando così il numero più alto di cattolici neri immigrati in America. Tuttavia, malgrado tali cifre, solo 60 chiese provvedono alle necessità pastorali di questa popolazione.
Il direttore della pastorale haitiana statunitense è monsignor Guy Sansaric. Lo incontro nella sua sede di Brooklyn durante una conferenza su rifugiati e immigrati haitiani, svolta per una commissione pastorale venuta da Washington, D.C.
«H aiti – ammette con dolore mons. Sansaric – è la nazione più povera dell’America Latina e una delle più povere del mondo».
Secondo il censimento statunitense del 2000, si possono distinguere tre grandi flussi migratori da Haiti verso gli Usa: il primo sotto la dittatura di François Duvalier detto «Papa Doc», prima del 1970; il secondo sotto il regime del figlio Jean Claude Duvalier, detto «Baby Doc», dagli anni ’70 fino al 1987; il terzo flusso ha interessato il periodo che va dall’esilio di Duvalier fino ai giorni nostri.
«Sotto il regno di terrore di Papa Doc, solo gli intellettuali e i ricchi haitiani potevano emigrare con facilità in America e ricevere, grazie al loro talento o denaro, l’ambitissimo visa – spiega Sansaric -. L’opposto avvenne sotto il regime brutale di suo figlio, Baby Doc. Constatammo che moltissime persone scappavano su povere barche in cerca di libertà politica e di un pezzo di pane. Durante il viaggio tantissimi annegavano e solo il 70 per cento di coloro che approdavano sulle coste americane riuscivano ad ottenere il visa, mentre gli altri venivano arrestati e rispediti indietro».
Gli stati principali verso cui gli emigrati haitiani si dirigevano erano il Massachusetts, il New Jersey, e soprattutto New York e la Florida. «Ma – precisa subito Sansaric – durante i miei 40 anni di lavoro qui negli Stati Uniti, ho trovato haitiani in ogni stato, ad eccezione dello Iowa».
Data la presenza di numerosi illegali e le minime risorse di cui possono disporre, gli haitiani, a differenza di altri gruppi etnici, tendono a marinare di più la scuola e a non frequentare l’università. Di conseguenza sorgono tante forme di crimine: dallo spaccio della droga alla prostituzione, dai furti agli omicidi.
«La mancanza di istruzione e, in particolare, il basso livello di stima personale dovuti alla povertà economica, generano il peggio in un individuo. Gli tolgono la bellezza dello spirito – spiega Sansaric -. È per questo che la nostra organizzazione si prefigge di instillare nei giovani l’amore alla scuola, la dignità personale e la possibilità di un lavoro decente basato sulla legalità».
Un dato particolare del gruppo haitiano in America è la bassa percentuale di matrimoni. «Anche durante il flusso migratorio degli anni ’70, periodo in cui le condizioni economiche nell’isola erano relativamente buone, gli haitiani erano meno propensi a sposarsi di qualsiasi altro gruppo etnico» dichiara Sansaric. Secondo l’intervistato, la ragione di questo fenomeno è da attribuirsi al fatto che gli haitiani desiderano ad ogni costo raggiungere il livello sociale degli altri emigrati in America; per cui sacrificano perfino la famiglia.
«È sempre stato difficile per un haitiano diventare cittadino americano, cosa che ogni emigrato desidera disperatamente per liberarsi dal giogo di una enorme povertà e per sognare un futuro migliore altrove», ribadisce Sansaric.

L a composizione della popolazione haitiana in America mostra che, fin dall’inizio, il numero delle donne supera di un terzo quello degli uomini: una percentuale che si è mantenuta costante anche col passare degli anni. Per quanto riguarda l’età, la stragrande maggioranza include persone che oscillano dai 31 ai 40 anni.
Sansaric conferma che gli haitiani che vennero in America prima degli anni ’70 guadagnavano più degli altri emigrati, poiché provenivano da famiglie ricche ed intellettuali.
«Questo è decisamente cambiato negli ultimi 30 anni: gli haitiani sono passati da una classe media ad una inferiore. Oggi chi lavora fa il tassista, il meccanico, il custode di palazzi, si occupa delle pulizie o è assunto in fabbrica», riferisce il nostro interlocutore. A causa dell’ancora alto numero di illegali, la presenza di haitiani medici, avvocati, managers, banchieri, maestri, infermieri e tecnici specializzati è ancora minoritaria rispetto ad altri gruppi etnici. «È nostro desiderio – dice con speranza e ottimismo il monsignore – che la piccola rappresentanza di élite possa influire di più sugli altri haitiani e spianare così la via per un futuro migliore».

N el campo religioso, gli haitiani in America sono in maggioranza cattolici, mentre il 35 per cento sono protestanti. Tuttavia, la religione protestante sta avendo molto successo e questo è dovuto sia al numeroso e qualificato personale, sia alle abbondanti risorse pastorali e all’insistente proselitismo che viene svolto tra gli emigrati.
«Per esempio nella città di New York i protestanti contano 600 parroci, mentre noi cattolici ne abbiamo solo 13; essi posseggono una radio religiosa che trasmette 24 ore su 24, mentre noi ne siamo assolutamente privi; e poi loro mettono a disposizione numerosi centri e chiese dove si parla, insegna e diffonde la lingua e cultura creola, mentre noi cattolici vantiamo pochi centri del genere», lamenta Sansaric.
Per far fronte a questi bisogni impellenti, monsignor Sansaric sta portando avanti numerosi progetti: ha proposto ai vescovi americani programmi di leadership per laici haitiani, centri satellitari di comunicazione culturale e religiosa sparsi nei vari stati del paese, biblioteche di libri scritti in creolo e in francese, frequenti ritrovi nazionali tra sacerdoti, diaconi, suore e laici che lavorano con gli haitiani, un programma televisivo di due ore al giorno in lingua creola, e una vasta rete in tutto il paese di sensibilizzazione ai problemi giovanili.
«Vedo già il giorno in cui gli emigrati haitiani non solo lavoreranno per l’America che li ha accolti, ma offriranno anche la loro cultura – spiega Sansaric -. Non solo creeranno benessere, ma porteranno anche una nuova politica culturale, religiosa, manageriale e questo sarà motivo di orgoglio per il paese da cui provengono e un ponte tra Haiti e il loro paese d’adozione».

DAI CORSI IN LINGUA CREOLA
ALL’«HAITIAN TIMES»

Nato in una famiglia cattolica a Jeremie, Haiti, nell’ottobre del 1934, all’età di 13 anni Sansaric decide di diventare sacerdote. Frequenta il seminario della sua diocesi natale, per poi essere inviato dal vescovo a studiare all’Università pontificia di S. Paolo, ad Ottawa, in Canada: per 7 anni studia filosofia e teologia. Ottiene la laurea in ambedue le discipline prima di essere ordinato sacerdote nel 1960.
Dopo essere stato assegnato assistente-parroco alla cattedrale di Les Cayes, Haiti, per un anno, il vescovo lo manda come cappellano degli immigranti haitiani a Nassau, nelle Bahamas; vi resta per 7 anni, studiando nel frattempo anche giurisprudenza. Nel 1968 è a Roma per studiare scienze sociali all’Università Gregoriana, ottenendone la licenza.
Nel 1971 viene accettato dal vescovo della diocesi di Brooklyn e assegnato alla parrocchia del Sacro Cuore in Cambria Heights nel Queens, dove rimane 22 anni. Nel 1974 il vescovo lo nomina direttore dell’apostolato haitiano di Brooklyn e, un anno dopo, la Conferenza episcopale americana lo assume a lavorare per la comunità haitiana nazionale. Dal 1990 Sansaric è direttore del Centro nazionale dell’apostolato haitiano. In tale ruolo pubblica Haitian Times, una newsletter mensile, che viene spedita a 1.500 sacerdoti e a 10.000 laici impegnati a servire la comunità haitiana degli Stati Uniti e ad inserirla nella vita culturale, politica, economica e religiosa americana.
Il monsignore dirige l’Istituto pastorale in lingua creola, organizza convegni annuali dell’apostolato haitiano e vari congressi giovanili per cattolici haitiani. Dal 1993 è anche responsabile della chiesa di San Girolamo, nel Queens.
A.Ba.

SUPERANO MURI E DIVIETI

Gli Stati Uniti hanno una popolazione di 265.283.783 persone. Secondo il censimento dell’ottobre 1996, nel paese ci sono 21.631.601 immigrati legali. La suddivisione per continente di provenienza è la seguente:

– 8.524.594 dal Nord e Centro
America
– 1.107.000 dal Sud America
– 5.412.127 dall’Asia
– 4.812.117 dall’Europa
– 400.591 dall’Africa
– 122.137 dall’Oceania
– 915.046 non specificati.

Le stime sugli immigrati illegali parlano di 5 milioni di persone. Di queste ben 2,7 milioni provengono dal Messico. Lo stato che attira di più gli immigrati illegali è la Califoia, seguito a distanza dal Texas e New York.

Fonte: i dati sono stati foiti dal Centro studi sull’immigrazione della «New York University».

Al Barozzi




I tingatinga del Tanzania

«Tingatinga». Un nome simpatico,
che caratterizza una scuola d’arte nata e cresciuta
in un contesto tipicamente africano.
E apprezzata anche in Occidente.

In Tanzania l’arte si è in qualche modo arrestata e il suo cammino è stato interrotto a causa della modeizzazione, arrivata nei modi più diversi; con questo fenomeno, infatti, si assiste ad un trasferimento di valori dal mondo occidentale verso quello africano e viceversa.
Allora cosa succede? Ci sono tre possibilità.
La prima: i valori tradizionali tanzaniani resterebbero tali e quali erano nel passato; ma ciò non è possibile, poiché la situazione è cambiata e anche il Tanzania ha bisogno di altre culture per… sopravvivere. La seconda ipotesi: i valori tradizionali coesistano con quelli modei. E, terza, sono completamente rimpiazzati da quelli contemporanei, anche se quest’ultima ipotesi sembra un po’ esagerata.
La miglior strada sembra, dunque, essere quella della coesistenza e del dialogo, vista anche la domanda di produzioni artistiche che viene dall’Occidente e che i clienti degli artisti tanzaniani sono occidentali. Così l’arte tanzaniana è accessibile alla comunità internazionale, anche se c’è il rischio di perdere la propria identità per piacere ai clienti. Nell’epoca della globalizzazione, infatti, i criteri sono differenti e il commercio impone le sue inflessibili leggi di mercato.
Ma che cosa succede, per esempio, con la pittura tingatinga, tipica del Tanzania? I pittori di quest’arte hanno conservato i valori tradizionali o hanno ceduto alle leggi del profitto?

Un’arte giovane

La pittura tingatinga è quasi contemporanea, perché ha inizio negli anni ’30 e, dopo il suo modesto debutto, ha conosciuto un rapido sviluppo. Oggi essa è riconosciuta nel mondo intero come espressione dell’arte tanzaniana e i tanzaniani ne sono particolarmente fieri. Purtroppo poche persone hanno visto gli originali di tale arte, dal momento che, attualmente, il mercato è saturo di copie e imitazioni.
Non si può parlare dell’arte tingatinga senza accennare ai gruppi etnici makua e makonde in cui è nata. Tingatinga è semplicemente il nome del suo primo importante pittore, ma dietro a lui c’è tutta l’eredità dei due popoli.
I makua e i makonde si considerano artisti nati, come racconta una loro leggenda: «All’inizio c’era un solo uomo, abitava in luoghi selvaggi e viveva senza compagnia. Un giorno prese un pezzo di legno in cui scolpì una forma, per un attrezzo. Piazzò la scultura al sole, vicino alla sua casa. L’indomani, all’alba, la forma era diventata una bella donna, che egli prese come sposa. Ebbero un bambino; ma, tre giorni dopo la nascita, il piccolo morì. “Lasciamo il fiume e saliamo più in alto, dove crescono i canneti con i quali facciamo i nostri letti” – disse la donna. E così fecero. Ebbero un altro bambino; ma, tre giorni dopo, anch’egli morì. Allora la donna disse: “Spostiamoci ancora più in alto, là dove crescono i cespugli robusti”. Si misero ancora una volta in viaggio; ebbero un terzo bambino e questo sopravvisse. Divenne il primo makonde, il cui destino fu segnato dalla creatività artistica».
È in questo ambiente di artisti-nati che si situa Edward Said Tingatinga. Era nato nel villaggio di Mindu nel 1937 e morì a Dar-es-Salaam nel 1972. Era un makua, tribù della regione di Tunduru, distretto nella regione di Ruvuma, nel sud del Tanzania. Edward ricevette la sua educazione in una scuola cattolica; poi si mise a girare alla ricerca di un lavoro: dapprima a Tanga, come shamba boy, cioè operaio in una piantagione di sisal. Perso il lavoro, arrivò a Dar-es-Salaam nel 1961, nel momento in cui il Tanzania diventava indipendente. La sua morte fu accidentale: scambiato per errore come un ladro, venne gravemente ferito e morì prima di arrivare all’ospedale.
Tingatinga aveva cominciato a dipingere quando lavorava sui cantieri: i soggetti erano animali e persone, su uno sfondo unico. Dipingeva anche su muri pubblicità per piccole compagnie. Nonostante la sua breve educazione scolastica e che non avesse ricevuto alcuna formazione artistica, riuscì a creare un’arte popolare, caratterizzata dall’uso di lacche e il ricorso a soggetti semplici, il cui impatto e messaggio sono molto forti. Come succede a numerosi artisti, le sue prime opere non lo resero né ricco né famoso, ma l’interesse per il suo stile pittorico attirò verso di lui numerosi discepoli.
I pittori della prima scuola tingatinga erano, in maggioranza, parenti del fondatore o membri della stessa tribù: pertanto della regione di Ruvuma e tutti appartenevano (e appartengono) ai makua o makonde. Coloro che non sono originari di là hanno, comunque, qualche legame: ad esempio, il matrimonio o una particolare amicizia.
lacche e smalti
Gli artisti tingatinga vivono e lavorano in un quartiere di Dar-es-Salaam come in una grande famiglia: i figli crescono insieme e imparano a dipingere osservando i genitori. Hanno creato anche una cornoperativa, chiamata «Tingatinga Cooperative Society». Dei 50 artisti che lavorano negli ateliers, soltanto 27 sono veramente membri della cornoperativa; si contano appena due donne.
All’inizio esponevano i loro quadri a Musasani, sotto un grande albero; ora hanno una specie di galleria. Il valore viene stabilito in base alle dimensioni del quadro, ma non ci sono prezzi fissi e, secondo lo stile africano, bisogna mercanteggiare.
Il tema ricorrente dei quadri tingatinga è la riproduzione stilizzata di animali della fauna tanzaniana. I lavori vengono eseguiti con veici, per permettere colori più vivi e si utilizzano pannelli di legno e sacchi di sisal o juta. Il laboratorio è all’aperto, in un cortile, e sovente numerosi artisti collaborano alla stessa opera. Se qualcuno sperimenta un nuovo colore o forme nuove, subito gli altri li introducono nei quadri, così che ciascuno partecipa allo sviluppo di una espressione comune.
I quadri, normalmente, non si distaccano troppo dallo stile originale creato dal fondatore; per cui, con questa organizzazione comune del lavoro, si può parlare di quadri tingatinga come di un gruppo artistico, un movimento, una scuola o, per usare concetti africani, un’arte di famiglia, di clan o tribù.
Le tecniche utilizzate sono semplici e originali. Vi si possono riconoscere le seguenti fasi:
– dapprima l’applicazione di macchie di un solo colore unitario, senza alcuna mescolanza;
– l’aggiunta di linee;
– punti più o meno grossi, come presso i macchiaioli;
– non c’è quasi mai mescolanza di colori ed è anche rara l’applicazione di pittura con la punta di pennelli o spazzole.
Uno degli effetti più caratteristici della pittura tingatinga è senza dubbio il riverbero prodotto dalla lacca o dagli smalti, frequentemente usati senza diluizione o mescolanza. I soggetti (persone, animali e piante) sono delimitati da contorni netti, sovente accentuati dalla giustapposizione di colori contrastati, che producono un rilievo particolare. La messa in evidenza dei contorni fa apparire uno stile grafico a due dimensioni, che caratterizza quasi tutta la pittura tingatinga; non c’è mai rilievo o prospettiva. Gli artisti impiegano pochi colori: verde e giallo, bianco e nero, rosso e blu e una specie di bruno-marrone.
Le pitture hanno qualcosa di speciale? Certamente sì:
– esprimono in modo originale la cultura del Tanzania;
– sono una fonte di informazioni e notizie sulla vita quotidiana della gente;
– diventano una miniera di immagini per l’industria tessile di kanga e vitenge (abiti tipici femminili);
– esaltano la natura e l’ambiente, essendo particolarmente decorativi;
– sono la «spia» di altri fenomeni culturali complessi; così, ad esempio, la rappresentazione della flora e fauna riflette la loro importanza nella vita e cultura africana;
– infine, con la sua apertura internazionale, la pittura tingatinga ha permesso una migliore conoscenza e comprensione della cultura tanzaniana.

Nell’importante tempo dell’ujamaa (socialismo comunitario) il presidente Nyerere invitava le persone a rinnovarsi, partendo dalla cultura autentica… L’arte tingatinga potrebbe essere considerata una strada maestra per esprimere l’animo più autentico del popolo del Tanzania.

Dietrich Pendawazina




COLOMBIA – Grilletto Facile

Guerriglia, narcotraffico, paramilitari, delinquenza comune… All’origine di tutto c’è il sistema perverso dell’economia mondiale. Accompagnate dai missionari, le popolazioni indigene e contadine del Cauca (Colombia) si oppongono a tali forme di violenza con l’organizzazione popolare, difendendo il diritto alla terra e al rispetto delle proprie tradizioni culturali.

A El Nilo, località situata sulle pendici delle Ande, il 16 dicembre 1991, uno squadrone della morte, con la collaborazione e protezione della polizia locale, ha trucidato 20 giovani indios, 3 donne e 17 uomini, riuniti insieme ad altri per progettare la gestione delle terre da poco recuperate.
Il tempo ha cancellato l’eco internazionale dell’eccidio e il ricordo delle condanne dei responsabili , come capita spesso quando sono i poveri a morire; ma ne rimane vivo il messaggio, scritto insieme ai nomi dei martiri sul muro bianco di un edificio diroccato: «Le vostre vite stroncate sono le pietre vive della nostra comunità».
Non tutti sono sepolti in quel luogo, dove l’erba è soffice e il filo di recinzione impedisce alle mucche di pascolarvi liberamente. Lo sguardo spazia sulle montagne, pendii e pianura: meditazione e preghiera sgorgano spontanee dal profondo dell’anima; il silenzio avvolgente pare messaggero di pace, ma non è così.
Questo sguardo d’insieme valica le montagne ed entra nei palazzi del potere, dove è stato deciso il Plan Colombia: investimenti clamorosi per 1.300 milioni di dollari, con cui gli Stati Uniti, col pretesto di combattere il narcotraffico, stanno introducendo nel paese militari specializzati per controllare il territorio e difendere ricchi e privilegiati.
Per ora l’Europa pare incerta. Speriamo che tale incertezza non nasconda oscure complicità o pilatesche neutralità, ma si trasformi presto in una ricerca di dialogo e collaborazione attiva con quella parte della società colombiana impegnata nella giustizia, legalità e diritti umani.

SOFFOCATI DALLA VIOLENZA
Avverto profonde sintonie con i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, due amici, missionari della Consolata di cultura e spiritualità, coscienza lucida e coerenza trasparente. Insieme a un’équipe di altri preti, laici, religiose, essi condividono progetti, difficoltà, durezze e speranze degli indios nasa, una popolazione di 120 mila persone sulla cordigliera centrale delle Ande, nella regione sud-occidentale del paese.
«Questo popolo – spiega padre Antonio – vive una profonda memoria mitica, nella quale interpreta avvenimenti e persone, fra cui le grandi figure che ne hanno segnato la loro storia. Una di esse è padre Alvaro Ulcué, prete indio ucciso nel 1984. Anche per noi egli è un costante riferimento dell’uomo nuovo che, alla luce di Cristo liberatore, riprende il processo storico per costruire una nuova comunità. Per gli indios è lo stesso Spirito che si incarna in queste figure di profeti, liberatori, salvatori, nelle fasi di resistenza, ribellione e speranza».
Padre Antonio si fa triste e perplesso quando gli chiedo una valutazione sulla situazione della Colombia. «Dieci anni fa, avrei risposto in modo più positivo. Nella società civile di allora, insieme al conflitto, c’erano spazi di movimento, elaborazioni e scelte. Tali spazi, oggi, sono venuti meno. Ci sentiamo soffocati dalla violenza, che colpisce soprattutto i civili. I paramilitari, cresciuti nell’esercito, uccidono in modo diffuso e terribile le persone sospettate di sopportare o fare parte della guerriglia. I guerriglieri uccidono i simpatizzanti dei paramilitari; sono diventati prepotenti; pare che abbiano perso gli ideali originari di lotta per la giustizia e mirino solo al potere. Lo affermo con cognizione di causa, avendo avuto colloqui con loro che, pur non condividendo il nostro lavoro, lo apprezzano.
Poi ci sono la violenza legata al narcotraffico e la delinquenza comune, alimentata da una crisi economica spaventosa e da una grande disoccupazione. La situazione, quindi, è molto difficile. Ciò non sminuisce il nostro impegno quotidiano con le comunità, sostenendo il movimento indigeno, che pretendono e difendono l’autonomia nelle decisioni che riguardano la loro vita. Parlo di autonomia, non di neutralità, che è impossibile e rifiutata dalla gente. Tale sforzo può sembrare un’utopia, eppure il cammino continua. Da parte nostra occorrono costante formazione delle coscienze e partecipazione attiva ai progetti, impegni e verifiche».
Quando chiedo che senso abbia continuare a essere missionario in una situazione del genere, padre Antonio insiste sull’importanza di entrare in profondità negli spazi, luoghi e tempi delle persone e delle comunità, del contributo per costruire una chiesa dal cuore e volto indio.
Indicando una nuova costruzione appena terminata, il missionario aggiunge: «Sono strutture semplici ed essenziali, destinate agli incontri comunitari, anche di lunga durata, per riflettere sulla fede, cultura, spiritualità india alla luce liberatrice del vangelo di Cristo».
PADRE ALVARO… VIVE
A poca distanza da Toribio, sorge un centro scolastico e culturale, destinato all’istruzione di 600 giovani, incontri di formazione per adulti e assemblee di vario genere.
Costruita con i contributi della Comunità Europea e altri organismi di solidarietà, la struttura si autogestisce finanziariamente: i percorsi formativi, infatti, includono allevamento di bestiame, galline e pesci; coltivazioni di caffè, banane e ortaggi, destinati al sostentamento di alunni e insegnanti.
Nel settembre 2000, la popolazione indigena ha celebrato i 20 anni del «Progetto Nasa», iniziato nel 1980 da padre Alvaro Ulcué, che ne ha indicato anche obiettivi, criteri e metodi di operazione. Si tratta di un progetto culturale fatto di lavoro, resistenza, lotta, organizzazione e progettazione comunitari.
L’anniversario ha offerto l’occasione per valutare, verificare e rilanciare i progetti, con la costante ricerca di conciliare i valori tradizionali con le novità imposte dalle sfide e insidie della modeizzazione.
Padre Ezio Roattino mi guida a Pueblo Nuevo, paese natale di padre Alvaro. Sostiamo in preghiera davanti alla sua tomba. Il missionario rievoca il senso della vita e della morte di questo profeta, la presenza sempre viva nelle comunità e le parole ridette in ogni assemblea: «Pensate con profondità, studiate con impegno e passione, lottate con coraggio, siate persone di valore».
Nei lunghi colloqui durante i viaggi di trasferimento, padre Ezio ribadisce le preoccupazioni di padre Antonio sulla situazione colombiana. Come contrastare tante e continue uccisioni e violenze contro la popolazione civile? Combattere la violenza con la violenza aumenterebbe solo il caos, continua il padre pensando ad alta voce; l’ipotesi della violenza come situazione estrema per abbattere il tiranno è impraticabile in una situazione storica così complessa: se è facile individuare il tiranno nel neoliberismo, nelle multinazionali, nel latifondismo, è difficile muoversi fra tutti i soggetti armati. L’autonomia dei popoli indigeni può sembrare un’ingenuità, ma è un cammino di realismo, l’unico tentativo valido di liberazione dalla violenza.

CHI SONO I DEBITORI?
Padre Ezio passa all’analisi del debito estero, cominciando dall’espropriazione dei nomi originali, sostituiti con quelli europei: America da Amerigo Vespucci, Colombia da Cristoforo Colombo.
Lo sviluppo del mercantilismo, poi del capitalismo, in Europa e Usa ha provocato il saccheggio di manodopera e materie prime in quantità impressionante: è l’Occidente in debito nei confronti degli indigeni latinoamericani. Ed è enorme, se si aggiungono le decine di milioni di persone oppresse o eliminate, i milioni di schiavi neri, importati come manodopera a buon mercato.
È questo il debito che, iniziato da oltre 500 anni, dovrebbe essere smascherato con più evidenza alla luce profetica della bibbia e del grande Giubileo, proclamato ma non attuato come severo vincolo storico di restituzione.
Il diritto internazionale non detta all’economia le regole dell’equità e della giustizia che la vita di questi popoli esige. Siamo in un circuito perverso: i governi di paesi nel Sud del mondo sono debitori a Europa, Usa, banche: devono pagare gli interessi per uno sviluppo che non è stato tale; anzi, si è risolto in un continuo impoverimento; non riuscendo a pagarli, il debito aumenta sempre più, determinando una condizione di soffocamento.
Bisognerebbe ribaltare completamente la prospettiva: l’Europa e gli Usa dovrebbero restituire ai paesi amerindi le immense ricchezze rubate con la forza; e sarebbe solo un parziale risarcimento materiale, perché la negazione delle diversità culturali e religiose richiedono un lungo cammino di liberazione dalla logica del dominio; i milioni di vite umane eliminate resteranno sempre una drammatica domanda aperta all’imperdonabile ed omicida presunzione.
Sono frammenti dei lunghi dialoghi con padre Ezio, uomo ricco di umanità e spiritualità, minacciato, qualche tempo fa, perché pienamente inserito nei processi delle comunità indigene.
Per celebrare l’anno santo ha proposto che le mete giubilari per gli indios nasa fossero la tomba di padre Alvaro, luogo sacro per la spiritualità indigena, dove è stata collocata una grande pietra simbolica; El Nilo, dove sono stati massacrati i 20 giovani, e la cattedrale di Popayan, come centro della celebrazione eucaristica. Tre luoghi strettamente legati alla profezia, al martirio e ai valori della fedeltà. E non si è parlato di indulgenze, ma d’impegno per rinnovare le comunità, con missioni sulle montagne, affidate a donne e uomini provenienti da luoghi diversi.

LA RADICE DELLA VIOLENZA
A Popayan incontro gli amici della Fundacion Aurora e del sindacato degli insegnanti Asoinca. La prima è un’iniziativa comunitaria a cui partecipano rappresentanti di organizzazioni di quartiere, ecclesiali, contadine e indigene. Impegnata nella prevenzione e lotta alla violenza, la fondazione si muove in varie direzioni. Sotto l’ispirazione e guida delle tradizioni e culture autoctone, essa promuove lo studio e la conoscenza dei diritti umani nella famiglia, scuola, organizzazioni comunitarie. Raccoglie documenti e notizie su conflitti armati, sparizione di persone, uccisioni, sfollati, condizione di indigeni e contadini e altre violazioni dei diritti fondamentali, per poi diffonderle attraverso organismi nazionali e inteazionali.
La fondazione, inoltre, cerca di rafforzare le organizzazioni comunitarie, sostenendo progetti di produzione, distribuzione e consumo per combattere le coltivazioni illecite, promuovendo l’autogestione delle stesse comunità, nell’ambito di uno sviluppo sostenibile che integri produzione e difesa delle risorse naturali e dell’ambiente.
Nella sede dell’Asoinca è appesa una lista impressionante di nomi: 187 persone hanno ricevuto minacce di vario genere; 28 sono state assassinate tra il 1985 e 1999; numerosi sono i maestri uccisi nel 2000.
L’impegno del sindacato degli insegnanti consiste nell’essere presenti nelle comunità, organizzazioni popolari e contadine. Ma la situazione è preoccupante: nei primi sei mesi del 2000 tredici insegnanti sono stati uccisi dall’esercito e dai paramilitari. Ricatti e violenze continuano contro coloro che sono direttamente e apertamente impegnati nel sindacato.
Incontro un prete italiano incaricato del cornordinamento delle associazioni italiane impegnate in iniziative e progetti di sviluppo nella regione del Cauca. Chiedo anche a lui un giudizio sulla situazione del paese. «La Colombia è la pietra di paragone per capire la strategia dei poteri economici e finanziari per controllare tutte le risorse naturali del pianeta. Il capitale non guarda in faccia nessuno: né alle popolazioni né all’ambiente; i governi nazionali non contano nulla: sono burattini manovrati; l’Onu e altri organismi inteazionali sono impotenti, talora legati ai capitali. È questa violenza macroscopica, che si vuole ignorare, la causa della violenza sociale sistematica sulle persone così diffusa in Colombia e in altri paesi latinoamericani. Ad opporsi a tale processo mostruoso restano comunità e organizzazioni che non hanno nulla da perdere e che sono le più esposte e colpite».

TERRORE DILAGANTE
Gli amici di Popayan ribadiscono quanto ho sentito da padre Antonio e padre Ezio: la minaccia dei paramilitari, o «Gruppi uniti di autodifesa» come si proclamano, diventa sempre più preoccupante. Nel maggio 2000 hanno solennemente annunciato la loro presenza organizzata in tutta la regione del Cauca.
Questi gruppi armati sono sostenuti logisticamente e operativamente dall’esercito. Con la motivazione ufficiale di combattere la sovversione, entrano nelle zone ricche di risorse naturali o in posizioni strategiche per appropriarsene o per aprire la strada ai megaprogetti delle multinazionali. Terrorizzano le popolazioni, indios e campesinos, uccidendoli e scacciandoli dalle loro terre. Minacciano sindaci, leaders popolari, insegnanti, sindacalisti e quanti sono impegnati nella difesa e promozione dei diritti umani.
Lo stato afferma che combattere il fenomeno dei paramilitari non fa parte del suo programma politico; in pratica, però, tale inerzia si traduce in connivenza con le multinazionali e in copertura del diffusissimo sistema di impunità.
I paramilitari entrano anche nell’attuazione del Plan Colombia, che impone la fumigazione delle piantagioni di coca con un fungo micidiale: questo non distrugge solo le foglie di coca o di papavero, ma attacca tutto ciò che trova, producendo effetti collaterali devastanti e ancora imprevedibili. I contadini sono costretti ad abbandonare i loro campi o, nel migliore dei casi, diventano braccianti sottomessi ai padroni dei terreni di cui erano proprietari.

UN PRETE SULLA MONTAGNA
Gli amici di Fundacion Aurora mi portano nel sud del Cauca. Lasciata l’auto a Sucre, continuiamo il viaggio a cavallo e a piedi, fino a raggiungere la comunità di Tequendama: 12 famiglie con 105 persone, che da tre anni si sono organizzate in cornoperativa per lavorare la terra data loro in comodato, utilizzando metodi di produrre tradizionali.
Parte del tempo è impiegato nel lavoro comunitario, parte per coltivare l’orto familiare. Hanno tutti il fermo proposito di non abbandonare la terra, di non lasciarsi condizionare e fagocitare dal mercato, di conservare i semi naturali per la produzione. Una casa per incontri comunitari è in costruzione con canne incastrate in modo perfetto.
Gli uomini mostrano con orgoglio la «loro» canna da zucchero, piante di caffè che possono resistere 80 anni, il terriccio del sottobosco custodito gelosamente, perché ricco di alimenti. Il volto di una giovane contadina s’illumina di orgoglio mentre descrive i vari prodotti che crescono nell’orto sperimentale.
A sera, scrivo sul diario: «Passa un prete (sono io) su questa montagna, dove i preti non salgono mai. Uno arriva fino a Sucre, celebra i riti e se ne va. Un uomo mi dice che darà il mio nome al suo bambino; una donna mi chiede una preghiera; un’altra la benedizione di un po’ d’acqua e l’aspersione di persone e ambiente. Un medico tradizionale cerca di guarire un’ammalata. Prima della preghiera e delle benedizioni dico “qualcosa”: che sono fra loro per ascoltare; che Dio è unico, chiamato con nomi diversi; che noi europei abbiamo preteso di imporre loro il nostro Dio, confondendolo con i nostri concetti e riti; che sto imparando da loro come Dio parli attraverso la creazione, gli spiriti, le persone; che l’acqua è vita, segno di purificazione, cambiamento e ripresa; che preghiera e benedizione ci aiutano a camminare accompagnati da Dio e accompagnandoci tra noi, come figli dello stesso Padre».

Paolo Moiola




TURKMENISTAN – Dalla via della seta a quella del petrolio

Il paese è ricchissimo di gas naturale e petrolio, ma i suoi cinque milioni di abitanti vivono
in condizioni
di arretratezza.
L’ex repubblica sovietica è oggi nelle mani
di Saparmuryad Niyazov, presidente che, al pari
di Gheddafi e Saddam,
riempie strade e piazze
con le sue immagini.

Le formalità alla frontiera uzbeko-turkmena sono state lunghe. Abbiamo aiutato e raccolto anche due giovani francesi, che non avevano un mezzo di trasporto. Uno dei due sta male, piegato in due dal mal di pancia. Daniel invece parla abbastanza bene l’italiano, perché ha lavorato a Torino per qualche mese. Ci racconta le avventure passate sul traghetto, attraversando il mar Caspio.
Il pullmino prosegue in territorio turkmeno, tra campi di cotone e villaggi che denunciano l’arretratezza del paese, ma anche la sua tranquillità. La gente è occupata nei campi e si vedono muli bendati girare intorno alla macina del grano. Non vi è traffico d’auto e, quando dobbiamo fermarci per una foratura, possiamo apprezzare l’ospitalità della gente. Da un piccolo incidente si possono fare incontri che rimangono tra i ricordi più belli del viaggio. Un fossato e una fila di pioppi ci dividono da una bassa costruzione di mattoni di fango. Il portone di legno scolpito si apre sulla corte ombreggiata dalla vite: la padrona di casa ci fa cenno di entrare con un largo sorriso. Beviamo l’acqua offerta, mentre arrivano i ragazzini e ci circondano curiosi. Non è necessario parlare la stessa lingua, per capirsi. Proseguiamo poi per il villaggio di Igor, il nostro autista, dove troviamo ospitalità per il ragazzo francese infermo.
La moglie di Igor è una maestra di origine russa. La casa è di mattoni crudi di fango a un solo piano. L’interno è fresco e arioso, con la stanza dei giochi, il televisore e tanti tappeti sul pavimento, che danno un tono di benessere alla famiglia.
«Ci siamo trasferiti da pochi anni da Kazan, la capitale del Tatarstan, – ci spiega Olga -, una città in mano alla mafia e alla delinquenza. Abbiamo accettato il lavoro in questo tranquillo villaggio e siamo molto contenti». Intanto arrivano i vicini, attirati dalla visita inaspettata di noi turisti. Il paese si sta aprendo da poco ai visitatori, anche se gli interessi stranieri sono già ben radicati, come vedremo ad Ashkabad, la capitale.

F inalmente arriviamo al sito archeologico di Khonye Urgench. Chi potrebbe immaginare che il tessuto di seta più bello e sottile, l’organza, trae il suo nome da questo paese? Ormai da giorni percorriamo l’antica via della seta, tuttora segnata da file di gelsi: qui passavano le carovane che collegavano l’Estremo oriente all’Europa.
Rasa al suolo dalle truppe di Gengis Khan, Khonye Urgench fu la capitale dei turchi selgiuchidi, il cui impero andava dall’Oxus (l’Amu Darya, che abbiamo attraversato in Uzbekistan) al Mediterraneo.
Architetti geniali, lasciarono nei loro territori una ricca eredità culturale. Il governo turkmeno ha avviato da qualche anno i lavori di restauro degli edifici antichi: moschee, mausolei e madrase, che sono sparsi in un’area molto vasta.
Arriviamo che il sole è già alto, implacabile, caldissimo. Le cupole azzurre sono state quasi interamente ricostruite; ma qui manca la frescura dei cortili e dei pergolati di Bukhara e Samarkanda.
Cammino su quello che, nel 12° secolo, fu il campo di battaglia dei mongoli di Gengis Khan, che punirono l’insolenza di chi aveva tradito e aveva rifiutato la resa. Muhammad II si credeva troppo forte e rispose con disprezzo alle offerte di amicizia del capo mongolo. Il vuoto che ora circonda i preziosi resti e le tombe dei sovrani selgiuchidi denuncia l’abbandono successivo alla seconda e ultima distruzione, attuata da Tamerlano, che vedeva nella risorta Khonye Urgench una rivale della sua Samarkanda.
I russi arrivarono qui già in epoca zarista. Dopo molti tentativi falliti di conquista armata, la Russia riuscì a penetrare nel territorio delle bellicose tribù turkmene, inviando famiglie cosacche di coloni che si insediarono lungo il tracciato della ferrovia in costruzione. Fu quindi la ferrovia il mezzo usato per poter conquistare l’impero del Centro Asia. Si arrivò così facilmente all’annientamento della forte resistenza dei tekkè, e delle altre tribù nomadi che si opponevano all’invasione. In epoca sovietica arrivarono coloni e maestranze a migliaia da Russia e Ukraina.

A rriviamo stanchi, dopo giorni e giorni di viaggio in pullman. Troviamo pure un pezzo d’Italia nella capitale più sconosciuta che abbia visitato. Infatti chi conosce Ashkabad? Chi sa dove si trova?… Certo, così non me l’aspettavo. Avevo già sorriso davanti a monumenti e manifesti con le immagini di Assad (Siria), Gheddafi (Libia), Saddam (Iraq). Sapevo che anche quello turkmeno è un regime autoritario e che il capo è sempre lui, il turkmenbashi, il «capo di tutti i turkmeni»: Saparmuryad Niyazov, il presidente-dittatore di stampo sovietico che riesce a farsi rieleggere, sempre con una maggioranza altissima.
I monumenti che si è fatto erigere sulle piazze e agli incroci sono luccicanti d’oro e sovente sono sormontati da una corona imperiale. Vorrei fotografae uno, ma è proibito e qui la polizia fa presto a materializzarsi. Ti sequestrano la macchina fotografica e ti portano subito in questura. Abbiamo avuto già l’esperienza di un amico, trascinato via dai poliziotti perché sorpreso mentre si accendeva una sigaretta. È anche proibito fumare, ovunque.
Ovviamente i partiti d’opposizione sono fuorilegge, mentre il paese rimane il più arretrato tra le repubbliche centro-asiatiche. Dove vanno i proventi delle sue immense risorse?
La capitale è una strana città, con un bel mercato dove si trovano in vendita, oltre a frutta, verdura e mercanzie varie, i tappeti annodati delle tribù nomadi. Espressione di un’antica cultura, i loro disegni non sono solo decorativi, ma simboli di comunicazione tribale. Hanno teso le corde e li hanno appesi al sole, nella polvere per farceli vedere. La lana è quella delle pecore della tribù, tinta con i colori naturali delle erbe raccolte dalle donne, secondo procedure tramandate da generazioni. I colori sono scuri, il nero e il rosso, che richiama il culto del fuoco. Il motivo ricorrente è il gul, fiore, soggetto araldico di una tribù o famiglia. Cerco di individuare le tracce dei simboli solari, zoroastriani: la ruota della fortuna, le 5 lune, le stelle a 8 punte.
Siamo sulla via della seta e noto che alcuni tappeti, tessuti con prezioso filo, portano i disegni del bozzolo e del baco. I turkmeni hanno da poco abbandonato l’organizzazione tribale nomade, che aveva loro consentito l’indipendenza sino alla fine del 19° secolo. Ciascuna famiglia o tribù aveva un totem, costituito da uccelli, animali e piante, riprodotto sul tappeto, la cosa più importante per un turkmeno.
«Dove è il mio tappeto è la mia casa» si diceva. Ora il significato dei segni è difficile da decodificare, forse oggi neppure le artigiane dei tappeti li conoscono. È un’antica lingua pittografica, un testo storico stilizzato e misterioso. Lascio questo settore affascinante del bazar e seguo i gruppi di donne che fanno la spesa: indossano eleganti costumi in velluto devouré e un copricapo da cui a volte scende sulle spalle un velo colorato, largo come una mantiglia. Alcune sono disposte a vendermi le spille e i giornielli rustici che indossano e le loro borsettine ricamate da piccoli punti brillanti.
Un contrasto forte con questo settore della capitale si trova nei quartieri di tipo sovietico e in quelli nuovissimi voluti dal presidente. Una strana architettura neoclassica, che pare lo sfondo in cartapesta di qualche improbabile film. Poi c’è la strada degli alberghi, nuova, tagliata nella periferia: solo alberghi uno in fila all’altro, di cui due sono italiani.
Gigi non ha perso l’accento emiliano e neppure il gusto della cucina di casa. Quando è approdato ad Ashkabad, dopo aver girato il mondo come imprenditore alberghiero, ha deciso di creare una cosa un po’ speciale. Una struttura modea in una città dove mancavano gli alberghi di stile occidentale, con una bella piscina di 25 metri con trampolino e il tappeto verde tutto intorno. Il tocco esotico lo si trova solo nei negozi interni di artigianato artistico. Certo fa piacere gustare le lasagne e il prosciutto di Parma quando si è lontani da casa.
«Il clima è splendido: caldo secco in estate, che non da fastidio; l’inverno è relativamente mite. I problemi sono altri». Gigi è diplomatico e non vuole sbilanciarsi troppo: qui deve vivere e lavorare. Pare sia ben voluto anche dal presidente.

I l museo è monumentale, nuovissimo e ricco di reperti preziosi, in maggioranza di arte ellenistica, sintesi armoniosa della cultura delle tribù nomadi e di quella greca, portata da Alessandro Magno. Molti oggetti, tra cui i raffinati Ritha, provengono da Nisa, la capitale dei parti, i cui resti si trovano a pochi chilometri. Tutto il paese è cosparso di testimonianze del ricco passato della regione, abitata fin dal neolitico, da sempre attraversata da eserciti e commercianti. Nei primi secoli della nostra era, questa regione consumava la maggior quantità di seta, il prezioso filato che veniva dalla Cina.
A Nisa lavora un gruppo di archeologi italiani, che non riusciamo purtroppo ad incontrare. Alessandra Peruzzetto, dell’Università di Torino, è una giovane, appassionata studiosa torinese che ora sta scavando in un sito in riva al Caspio.
Un volo breve su un vecchio Antonov sovietico ci porta presso Merv, l’oasi di Zoroastro, conosciuta al tempo di Alessandro come Alessandria Margiana. La sua millenaria storia sembra inghiottita dalla sabbia del Karakum, dove muore anche il Murghab, il fiume che scende dai monti afghani.
Sembra impossibile che in questa distesa desolata sorgesse, intorno all’anno 1000, una metropoli di importanza culturale e commerciale dello stesso livello di Baghdad, il Cairo o Damasco. Solo il vasto perimetro di mura di fango, sfatto dal tempo, ci dà l’idea della grandezza che il sito aveva prima che Gengis Khan lo radesse al suolo. Unico edificio superstite, il gigantesco mausoleo selgiuchide del sultano Sanjar che, con la sua maestosa architettura a doppia cupola, anticipò di 300 anni il Brunelleschi.
Nella vicina casetta di mattoni crudi vive l’unico abitante della zona, il custode con la sua famiglia. Beviamo il tè dell’ospitalità seduti sulle stuoie che ricoprono il pavimento, in compagnia della nonna e della moglie che sta allattando l’ultimo nato. Sulle pareti sono appesi i simboli portafortuna, che scacciano gli spiriti del male, tipici della gente del deserto.
L asciamo il paese con un volo per Francoforte. Accanto a me una famiglia di turkmeni di origine russa. Ivan è un ingegnere che parla un perfetto inglese, nato ad Ashkabad: ha studiato in Germania e si occupa di informatica. Gli affari lo riportano talora in patria, dove ancora vivono genitori e nonni.
«Le scuole in questo paese sono molto scadenti, a parte quelle private della capitale, frequentate dai figli dei ricchi e degli stranieri», mi dice. I suoi ragazzi li farà studiare in Germania, dove conta di continuare a vivere.

POCO GAS MOLTA VODKA

Tashkent era un’antica città carovaniera, prima del terremoto. Circondata da mura, le case di mattoni crudi, era attraversata da canali ricchi d’acqua. Dopo la distruzione, fu ricostruita dai sovietici seguendo lo schema tipico dell’urbanistica delle capitali dell’Unione. Grandi viali e parchi ricchi di prati e alberi ombrosi, dove oggi si vedono pascolare pecore e montoni: un’ottima soluzione per affrontare questi tempi duri. Sono passati due anni dalla mia prima visita, ma la situazione economica del paese non è certamente migliorata e vedo che la gente si arrangia come può.

Cinque ore di bus attraverso la campagna coltivata a cotone, con una sosta al mercato dei nomadi. Vanno e vengono sui loro muli, e indossano ancora i costumi tradizionali: gli uomini col lungo cappotto di velluto blu e il turbante multicolore, le donne hanno le vesti rosse sopra i larghi calzoni di seta a righe. Alcuni arrivano su vecchissimi sidecar.
Dobbiamo anche attraversare un pezzo di territorio kazako, dove i cavalli pascolano nei prati fioriti di una primavera già calda.
All’arrivo a Samarkanda, trovo ad aspettarmi l’amica Ludmilla. L’abbraccio e mi mancano le parole. Fatico a riconoscere la bella donna, energica e polemica, che solo due anni fa mi aveva accompagnato nella mia prima visita. Ludmilla è stata molto male. È stata operata e il suo fisico porta i segni della sofferenza. Mi si stringe il cuore. Me lo dirà più tardi, spiegandomi che ormai in Uzbekistan i vecchi ospedali, pur numerosi, non funzionano. Mancano attrezzature e farmaci, il paese è allo sfascio. Avevo creduto nella sua speranza di un miglioramento, dopo i primi caotici anni del dopo URSS. Invece la situazione è precipitata. Non c’è lavoro, i prezzi sono alti e la gente non ha neppure i soldi per pagare il gas del riscaldamento. Così il governo lo ha tagliato, con gli invei rigidissimi che ci sono. E questo è un paese produttore di gas e petrolio.
Ludmilla è nata qui, ma i suoi genitori, insegnanti ucraini, furono mandati dal governo dell’URSS in Asia centrale negli anni ’30. Bisognava aiutare le popolazioni locali ad istruirsi e svilupparsi: migliaia di tecnici e insegnanti furono «invitati» a trasferirsi quaggiù. Ludmilla ha un unico figlio, che lavora a Mosca come meccanico. Il viaggio in aereo è troppo caro per fargli visita e ormai sono due anni che non lo vede. Questa lontananza la fa molto soffrire e si sente sola, con un marito che le crea molti problemi.
L’uomo, frustrato per la mancanza di lavoro, si è dato al bere, come molti in questo paese. La vodka qui la vendono in latteria, in bottiglie uguali a quelle dell’acqua minerale, e costa pochissimo. Ludmilla è una donna intelligente e volitiva. Ha studiato l’italiano da sola e lo parla perfettamente. Ha visitato l’Italia per la prima volta quest’anno, per pochi giorni. Ora il sogno di Ludmilla è di poter partire, trasferirsi nel sud della Siberia, presso la città di Omsk. In quella terra sconfinata e poco abitata non c’è la violenza e il crimine di Mosca e di altre città russe. La vita è tranquilla, meno cara e pare non faccia poi così freddo.
C. C.

Claudia Caramanti




CONGO, RD – Con le mani nel fango

Uno è italiano e l’altro congolese.
Entrambi missionari della Consolata,
alle prese con una nuova missione.
In un lembo di terra fuori del mondo.
E in guerra dal 1996.
Dove tutti sono poveri.
E i pigmei anche discriminati.

In mano a Piero e Clément

«Siamo pazzi o stupidi? O entrambe le cose insieme?». Ce lo domandiamo (senza risposta), mentre varchiamo la soglia della casetta di Bayenga, scuotendo l’abbondante fango dai piedi. Il vescovo di Wamba e i nostri superiori ci hanno chiesto di «far ripartire la missione»! Ma come?
Bayenga è un grosso villaggio, a 23 chilometri da Wamba, sulla strada Niania-Kisangani, nell’Alto Uele (repubblica democratica del Congo). La collettività è nata artificialmente nel tempo in cui si estraeva oro nelle miniere dei dintorni. La popolazione appartiene a diverse etnie bantu: wabudu, walika, waberu…
Bayenga, nel passato recente, è stato un centro importante, perché sede amministrativa della Forminière, una compagnia belga che estraeva l’oro nei villaggi di Mambati, Bolebole e Bonzunzu. La società ha chiuso i battenti già prima dell’indipendenza del Congo nel 1960.
Oggi le miniere sono sfruttate in modo artigianale da migliaia di persone, specialmente giovani, che vengono da ogni parte con la speranza di far fortuna. Purtroppo i cercatori d’oro e diamanti, nella maggioranza dei casi, si riducono ad una vita di miseria materiale e morale.
Dato il degrado sofferto dal Congo durante il regime-ladro del dittatore Mobutu, anche a Bayenga il collasso è totale: ad esempio, non esistono più strade. Ci si sposta a piedi, in bicicletta o al massimo in moto.
Finora la «parrocchia» di Bayenga si è potuta occupare solo saltuariamente della realtà umana. Tuttavia, poiché tanta gente frequenta la zona e gran parte della produzione agricola è destinata a chi lavora in miniera, come missionari ci sentiamo coinvolti direttamente.
Il territorio della missione, oltre Bayenga, comprende altre 16 cappelle succursali, già costituite. Altre due dovrebbero sorgere presto… fra i cercatori d’oro. Di regola queste cappelle sono seguite da animatori di comunità e volontari. La popolazione vive in abitazioni di fango e paglia, costruite lungo la strada. Si contano, complessivamente, 25 mila abitanti, di cui 3.500 cattolici.
La fondazione della missione risale al 1962. I missionari belgi del Sacro Cuore e le suore comboniane italiane, che vi lavoravano, nel 1964 dovettero abbandonarla a causa della ribellione dei Simba. Furono assassinati un sacerdote e un medico, che gestiva un piccolo ospedale.
Nel 1968 a Bayenga ritoò un altro missionario del Sacro Cuore, che lavorò fino alla morte (1980). Successivamente la comunità cristiana si è mantenuta viva grazie all’opera di un catechista, assistito di tanto in tanto da un missionario che veniva da Wamba.
Oggi Bayenga è in mano ai missionari della Consolata, cioè noi due: padre Piero, italiano di 65 anni, e padre Clément, congolese di 42.
Cercando casa
La parrocchia di Bayenga non ha strutture proprie. Finora si è servita dei locali che la società mineraria belga aveva, a suo tempo, concesso alla diocesi di Wamba perché li custodisse, permettendo così la continuazione dell’ospedale e delle scuole. Attualmente la Forminière è proprietà di un congolese.
La missione è costretta a cercarsi un’altra sistemazione, pur provvisoria. Però la nostra casa (tre stanzette) è ancora della Forminière. Ma prestissimo sloggeremo.
Dunque bisogna edificare la missione dalle fondamenta. È prevista la costruzione di un complesso con chiesa, scuole elementari e secondarie, ospedale, nonché locali per le attività parrocchiali e sociali. Le prime strutture saranno in fango. Il tutto poco a poco e in un mare di guai.
Tra le difficoltà, quella cruciale è senz’altro costituita dalla guerra in corso e dallo stato di incertezza che regna nella nazione. È difficile trovare il materiale da costruzione, come cemento, ferro, ecc. Dovendolo acquistare a Kampala, in Uganda, e trasportarlo con aerei privati, i prezzi diventano esorbitanti.
A Dio piacendo e, soprattutto, allorché il paese raggiungerà un minimo di stabilità, si potrà realizzare il grande sogno. Un sogno, però, che noi iniziamo già ora partendo… dal fango.
In barba alle ricchezze
La povertà è una realtà generalizzata, a dispetto delle ricchezze ingenti del paese. Da anni non arrivano più camion con mercanzie. Queste vengono trasportate in bicicletta da giovani, che vanno a Bunia, Butembo e Kisangani percorrendo oltre 1.000 chilometri in due o tre settimane. E spesso ci rimettono la salute.
Quanto alla scuola, su 6 mila ragazzi, solo un terzo ha la possibilità di ricevere un po’ d’istruzione. Noi missionari non possiamo sostituirci allo stato, ma non dobbiamo nemmeno rimanere a guardare. Pertanto la maggior parte delle scuole è gestita dalla chiesa.
A Bayenga abbiamo appena iniziato una scuola secondaria con 29 studenti del primo anno, con aule in fango naturalmente. Nel territorio della missione ci sono anche tre scuole primarie, complete, con un curriculum di sei anni; altre scuole succursali, specialmente per i primi due anni, sono disseminate in vari villaggi. Ma è pochissimo.
La poche scuole funzionano avvalendosi del contributo dei genitori degli allievi: circa 2.700 lire l’anno. Da tale entrata si ricava lo stipendio degli insegnanti. Questi a loro volta, per sopravvivere, si arrangiano coltivando i campi e, talora, «si fanno aiutare» dagli alunni.
La cronica penuria di mezzi impedisce alla maggioranza di studiare. Le più penalizzate risultano le bambine: devono anche dare la precedenza ai maschi, mentre loro restano in casa ad aiutare la mamma e accudire i fratellli più piccoli.
La missione gestisce pure un piccolo dispensario medico. Per la popolazione è un punto di riferimento importante, perché l’ospedale di Wamba è lontano e l’unico mezzo per arrivarci (per chi può permetterselo) è la bici. Nel dispensario lavorano due infermieri e tre ostetriche. Funziona con l’apporto economico (del tutto insufficiente) dei malati… C’è bisogno di materiale da laboratorio, medicine, letti e di riparare le strutture cadenti.
L’evangelizzazione, in senso stretto, viene portata avanti con la collaborazione essenziale degli animatori di comunità. Sono un centinaio di buoni cristiani, che lavorano come volontari a tempo parziale. La missione li aiuta per le cure mediche e in caso di estrema necessità. Per loro abbiamo programmato incontri di formazione della durata di quattro giorni, per altrettante sessioni annuali.
Ovviamente la missione si fa carico di vitto, alloggio ed altre necessità. Un sacrificio non indifferente, ma necessario per fare crescere la comunità che il Signore ci ha affidato.
ultimi i pigmei
Un’altra realtà importante, che ci ha spinto ad accettare la missione di Bayenga, è la presenza di alcuni accampamenti di pigmei (bambuti). Si calcola che, nel territorio, la popolazione pigmea sia di circa 2 mila persone. Spesso nomadi, i pigmei vivono di caccia e raccolta, in relativa simbiosi con i bantu. Di regola risiedono nella foresta e, dopo il tempo della caccia, ritornano agli accampamenti per scambiare i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli dei bantu.
La convivenza con le etnie bantu non è né semplice né pacifica, perché queste ritengono i bambuti degli esseri inferiori e senza diritti: da alcuni sono considerati una specie intermedia tra la scimmia e l’uomo. Con la possibilità di fare confusione!
Anche nei loro accampamenti i pigmei non sono del tutto liberi, ma spesso vengono considerati «proprietà» di un capo o di un membro della famiglia regnante. Ad esempio: quando un’autorità ha bisogno di qualcosa, non ha che da dire al suo luogotenente: «Manda subito i tuoi pigmei a cercare carne e miele per me!».
Il baratto con i bantu si fa anche con alcornol e droga. Così i bambuti si abbrutiscono sempre di più.
I pigmei, rinomati per le danze, in molte occasioni vengono invitati nei villaggi per rallegrare le feste dei bantu. Questo li tiene occupati per mesi. Nel frattempo continuano a cacciare selvaggina nella foresta, pena la sopravvivenza.
C’è il problema dell’alfabetizzazione. Sono stati fatti dei tentativi per convincere i pigmei a mandare i loro figli a scuola; ma i risultati sono deludenti. Oggi si sta prospettando un «insegnamento speciale» con programmi e tempi adatti. Però le difficoltà sono tante (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2000).
Nel nostro lavoro missionario riteniamo prioritario stabilire rapporti di amicizia con i gruppi minoritari e discriminati e riconoscere la loro cultura. Fra i pigmei, oltre ad insistere affinché mandino a scuola i loro bambini, li assistiamo con cure mediche e li incoraggiamo a coltivare campi «propri», per rompere la dipendenza economica dai bantu.
Si sta pure valutando come introdurre i bambuti nel catecumenato cristiano. Forse ci vorrà un lungo periodo di pre-catecumenato per portarli ad accettare e vivere alcune esigenze fondamentali del vangelo.
Nella missione di Bayenga tutti sono poveri, ma i pigmei sono miseri. Veramente gli ultimi.

PIGMEI PROTAGONISTI

La diocesi di Wamba ha, da sempre, desiderato una vera integrazione dei suoi 35.200 pigmei (dei quali 7.500 bambini), che popolano una buona parte delle sue 18 parrocchie.
Popolo nomade che vive di pesca e caccia, i pigmei sono considerati i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri; eppure, a causa del loro modo di vivere, sono sempre stati lasciati al margine e discriminati.
Di fronte a questa ingiustizia, ci sono stati diversi tentativi di avvicinamento e accoglienza. In modo timido, all’inizio, la diocesi di Wamba aveva sognato di integrarli nell’ambito della società modea; per questo era stata decisa la creazione della prima scuola per pigmei già nell’anno 1959, nella parrocchia di Nduye e, nel 1984, di un centro di formazione per pigmei a Imbau, diretto da padre Pedro (missionario spagnolo) e suor Docita (olandese).
Ma si è dovuto aspettare il 1989 perché l’idea si concretizzasse meglio e diventasse realtà. È nato il «Progetto diocesano pigmei», la cui espressione «visibile» sono state le scuole per pigmei nelle parrocchie di Mungbere, Bangane e Maboma.
Il progetto ha come obiettivo l’integrazione e lo sviluppo totale dei pigmei, rispettando le loro esigenze e abitudini. Per esempio, la scolarizzazione dei ragazzi (e, quindi, il… calendario) deve tener conto della realtà «della foresta»; le lezioni vengono interrotte durante la stagione secca (gennaio-marzo), essendo il periodo favorevole alla ricerca e raccolta di miele selvatico.
La scuola segue una metodologia speciale, rispettosa della cultura pigmea. Le lingue da insegnare, come swahili, lingala e francese, non devono annientare la lingua matea. Il metodo ORA (osservare-riflettere-agire), concepito e strutturato da fratel Antonio Huysman del Camerun, sembra essere il migliore finora adottato.

La scuola non è l’unica preoccupazione del progetto.
C’è anche la pastorale, che ha di mira una vera promozione dei pigmei, considerati alla stessa stregua degli altri gruppi etnici: è chiamata a collaborare in diversi ambiti, come l’agricoltura, il commercio, la salute, ecc. Nessuno ignora quanto i pigmei restino insuperabili in materia di caccia, pesca e uso di alcune medicine naturali. Forte di questi elementi, i pigmei si impongono come partners con cui si deve lavorare in uguaglianza, invece di considerarli esseri inferiori.
Secondo Laurent Badukanayaa, cornordinatore aggiunto del progetto diocesano, il vescovo Janvier Kataka ha rafforzato l’impegno verso i pigmei, inserendolo però nel piano più vasto di un cammino d’insieme, per assicurae la continuità. La pastorale mira all’integrazione dei pigmei e di altre etnie nell’unica chiesa, famiglia di Dio, e nell’unica società congolese di oggi.
L’iniziativa della diocesi di Wamba è lodevole per il fatto che questi nostri fratelli, «primi abitanti del paese», sono sempre rimasti ai margini della società modea, nonostante i mille tentativi fatti per la loro integrazione.
Ora è il loro momento di… entrare in scena e diventare protagonisti!

Piero Manca e Balu Futi




Una missione leggera

Oggi è urgente schierarsi: o nella geografia dei forti o in quella dei deboli, degli inclusi o esclusi, degli utili o inutili. Non si può giocare, nello stesso tempo, con i poveri e con i sistemi che producono povertà.
Il vangelo non lascia scampi: occorre situarsi con «i dannati della terra». Questi, tuttavia, diventano il luogo ermeneutico per interpretare il mondo e la chiesa, per elaborare e vivere la fede, per interrogarsi sui mezzi e collocarsi davanti ai nuovi poteri. Fuori dei poveri non c’è salvezza!
Perché i poveri? Perché li ha scelti il Signore: è la ragione più valida; perché sono la maggioranza: e, stando con loro, si sta con tutti. Questo comporta: essenzialità e coerenza dell’annuncio; una grande libertà dal potere (collateralismi politici, teocrazie, potere dei soldi); la giusta misura dei mezzi (annuncio ai poveri e annuncio povero del vangelo).
L a chiesa dell’America Latina, nel 1979 a Puebla (Messico) ricordava: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale, in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù».
Così, a dieci anni dalla Conferenza di Medellin (Colombia), la chiesa povera:
– denuncia l’ingiusta carenza dei beni di questo mondo e il peccato che ne è la causa;
– predica e vive la povertà come atteggiamento di semplicità spirituale e apertura al Signore;
– s’impegna essa stessa nella povertà materiale. La povertà della chiesa è una costante della storia della salvezza.
N el vangelo di Luca si legge: «Gesù disse ai discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio: né bastone né sacca, né pane né denaro; non abbiate tunica di ricambio… Ed essi, partiti, andavano di villaggio in villaggio, evangelizzando e operando guarigioni dappertutto”» (Lc 9, 3).
Senza creare contrapposizioni inutili o essere paladini del pauperismo, oggi molti sentono la necessità di una missione più «leggera» ed essenziale, più sbilanciata su un patrimonio di grande humanitas, fondata in una soda spiritualità, ricca di Parola e animata dal grande desiderio di incarnazione, piuttosto che affogata da ingenti mezzi, strutture, burocrazie.
Per esperienza, so che non è facile mantenere un sano equilibrio. Allora ogni tanto bisogna avere il coraggio di fermarsi per una serena autocritica.
Eesto Viscardi

Eesto Viscardi




Non solo un campo da gioco

Trecento mini atleti

La «maratonina di minibasket» è un’iniziativa che ha coinvolto 22 squadre di bambini dai 10 agli 11 anni. Hanno dato vita a 11 incontri di pallacanestro durante l’intera giornata del 3 dicembre 2000, dalle ore 10 alle 21, senza sosta: una maratona dunque. I giovani atleti appartengono alle più importanti società cestistiche di Torino e provincia e sono stati i protagonisti assoluti della manifestazione.
Le partite si sono susseguite a ritmo serrato: ad ogni ora nuovi giocatori calcavano il «parquet» degli impianti del C.U.S. Torino, la società organizzatrice. Il risultato di ogni partita incrementava il «punteggio complessivo» di due schieramenti, nei quali rientravano le singole squadre, in maglia bianca o blu: infatti le varie società, messe da parte le proprie divise, indossavano solo le maglie della manifestazione. In campo regnava tanta amicizia, ma anche un pizzico di agonismo, per una giornata di un buon minibasket.
Nella parte centrale del pomeriggio l’«All Star Game», ossia la partita delle «stelle», con i migliori giocatori di ogni squadra, ha attirato un massiccio afflusso di pubblico. È stato un grande momento di aggregazione.
I mini atleti intervenuti sono stati circa 300 e gli spettatori molti di più, nonostante il blocco della circolazione automobilistica che ha minacciato la riuscita della manifestazione.
Con 8 mila lire
L’obiettivo della «maratonina» è stato: «regalare un campo» ai ragazzi di Suguta Marmar, in Kenya. «Missione compiuta», grazie alla generosità di tutti i partecipanti, grandi e piccoli: grandi come i genitori, che hanno riempito la cassetta delle offerte, e piccoli come i bambini, che hanno versato 8 mila lire a testa per partecipare. La quota di partecipazione ha avuto un aspetto educativo importante: infatti si è trattato di denaro «risparmiato e donato» dai ragazzi stessi, e non semplicemente attinto dal portafoglio di papà.
Ma, oltre ai soldi, ci sono state le magliette regalate ai bambini, gli impianti sportivi utilizzati gratuitamente e tanto, tantissimo tempo di sensibilizzazione. Per non parlare del lavoro.

Regalare un campo

L’idea di costruire un campo di pallacanestro non è degli organizzatori. Nasce direttamente da padre Isaia, il parroco kenyano di Suguta Marmar. L’esigenza è quella di fornire ai suoi ragazzi un passatempo, di strapparli dall’ozio e (probabilmente) dalla criminalità, di educarli all’impegno e al rispetto delle regole attraverso lo sport. Questo è stato l’«anello» che ha unito il prete africano agli istruttori e allenatori torinesi, che credono già nel valore della solidarietà e la vivono, anche se in altri contesti. In questo caso si sono affidati anche al valore educativo dello sport.
Ma «regalare un campo» a bambini africani è anche un modo concreto per ricordare a tantissimi coetanei italiani che «fare dello sport» non è di tutti, e che praticarlo in strutture adeguate (come quella che ha ospitato la manifestazione) lo è ancora di meno.
Allora tutto diventa uno stimolo in più per toccare sul vivo i ragazzi, che praticano il basket con passione e impegno. Un’occasione per regalare ciò che più ci sta a cuore.

Se il Kenya aiuta l’Italia

È stato un altro grande obiettivo della «maratonina». E cioè: non solo raccogliere soldi, ma anche e soprattutto raccontare (forse per la prima volta) una realtà diversa, un mondo lontano e povero, povero non per caso. Ancora: rendere familiare il nome «Suguta Marmar» attraverso i volti dei suoi bambini (anche se visti solo in foto), che vivono nel bisogno. In una parola: sensibilizzare.
Far sì, per esempio, che il bambino italiano noti con stupore che i suoi coetanei kenyani sono scalzi e si chieda: «E come fanno a giocare a basket?».
Sarebbe molto se i nostri bambini aiutassero quelli kenyani. Ma sarebbe ancora di più se il Kenya «aiutasse» l’Italia.

La mia esperienza
È stata quella di aver conosciuto, attraverso i missionari della Consolata, padre Isaia in Kenya, di aver riso con i bambini di Suguta Marmar, di averli anche fotografati, «portati» a Torino, fatti incontrare con tanti compagni piemontesi.
È stata un’avventura, una scoperta. La scoperta di quanto la nostra gente sia ancora disposta a dare e di quanto «lontano» si vada… se uno ci prova: «lontano» secondo il mio punto di vista, chiaramente.
Ho provato la gioia di vedere qualcuno lavorare duramente per sostenere la «mia causa», per aiutare qualcuno che non conosceva. Ho avuto la sorpresa di vedere cose, complicate burocraticamente, comporsi a poco a poco, con fatica ed entusiasmo. E sono diventato euforico allorché «Suguta Marmar» è apparso (certamente per la prima volta) anche su La Stampa. Così, d’ora in poi, quello sperduto villaggio di samburu sarà meno sconosciuto.
Ma se c’è la gioia di aver fatto qualcosa, coinvolgendo tante persone, c’è pure la consapevolezza che moltissimo è in «lista d’attesa».

Sandro Busso




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

OFFERTE «PRO MISSIONI»
Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi




ETIOPIA – Missionari del “permesso”

Ma dove sta la differenza?

I missionari che lavorano in Etiopia devono confrontarsi con numerose sfide e l’evangelizzazione incontra molte difficoltà. Queste vengono, prima di tutto, da parte dello stato, molto esigente nel concedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I missionari non sono accettati come tali, ma debbono fornire un diploma di specializzazione nel campo della salute pubblica, educazione o sviluppo e giustificare la loro competenza e servizio, presentando un rapporto ogni anno.
A questa non lieve difficoltà, si può aggiungere anche la sfida di vivere insieme ai musulmani e, naturalmente, alla chiesa locale «ortodossa». Questa è molto potente nel paese. Legata ad Alessandria d’Egitto, ha conservato per parecchio tempo la denominazione di «chiesa copta». Ben radicata nella cultura locale, perfettamente strutturata fin nelle minime istituzioni, ha avuto la fortuna di veicolare senza problemi la fede cristiana nel corso dei secoli. La bellezza delle sue chiese, l’indimenticabile splendore delle sue icone (sempre circondate da candele accese), il colore vivo degli abiti liturgici, i canti in lingua ghez (un po’ come il latino di un tempo nella chiesa cattolica), l’atmosfera mistica che regna nei monasteri… colpiscono immediatamente lo spirito del visitatore.
Sul sagrato della basilica della Ss. Trinità, ad Addis Abeba, dove veniva a pregare l’imperatore Hailè Selassié, un monaco sorridente mi accoglie e benedice con la croce che tiene nella mano sinistra. La croce ricorda la sofferenza e la morte del nostro Salvatore e bisogna abbracciarla tutte le volte che ci si avvicina ad un santuario, dove Dio è presente.
Si rimane sorpresi nel vedere la folla, seduta davanti alle chiese e che prega all’aperto. L’impressione di essere impuri e peccatori (molto sviluppata in Etiopia) proibisce ai fedeli di penetrare dove si trova il Santo e comunicare con lui.
Mi interrogo sull’impatto reale di questa chiesa nella società di oggi. La preghiera: sì, questa è indispensabile alla vita; ma la giustizia, la salute, la lotta contro la miseria, la formazione continua che permette di ampliare gli orizzonti… non sono cose altrettanto necessarie? È bene restare ancorati alle tradizioni del passato, ma il dialogo con il mondo di oggi non ha la stessa importanza? La chiesa è sale della terra, luce del mondo. Essa dovrebbe avere la potenza del lievito, la capacità di trasformare una società arroccata nell’arcaismo.

Ho vissuto il mio viaggio in Etiopia come una ricerca, un’inchiesta sul senso del lavoro missionario svolto e sono giunto alla conclusione che questo paese rimane un terreno privilegiato per i missionari della Consolata. La «consolazione» di questo popolo si impone e l’evangelizzatore crede che debba passare attraverso Gesù Cristo.
Fare conoscere Gesù, proporre i suoi valori e le sue parole nello spirito delle beatitudini, predicare la frateità universale sotto l’egida di un solo Dio Padre: questo è mettere in evidenza da dove viene la forza principale per trasformare una società. Là dove ristagnano immobilismo e tradizionalismo, ingiustizia e povertà, sottosviluppo e segregazione razziale, il missionario inietta un seme di rinnovamento, di vita e risurrezione. Là dove il dialogo tra persone di differenti culture e religioni non riesce a instaurarsi, il missionario (talvolta profeta solitario) rimane colui che ne predica l’urgenza, per costruire una comunità fratea, dove i diritti di tutti sono rispettati.
C’è di più. In Etiopia il lavoro quotidiano del missionario è direttamente orientato verso il benessere della popolazione più povera. Allora si comprende, senza troppe spiegazioni, il senso di opere come l’ospedale di Gambo, il dispensario di Modjo, la scuola superiore di Meki, il centro per handicappati di Gighessa, la scuola per non vedenti di Shashemane, il centro per la cura della lebbra.
Ciò che si dimentica troppo facilmente è che questo lavoro, compiuto con sforzo e competenza, viene fatto per amore di Gesù. E questa è la grande differenza, che ci qualifica rispetto agli altri «operatori sociali».
Un dialogo
difficile

Le giornate iniziano molto presto ad Addis Abeba. Dalla mia camera, ancora mezzo addormentato, sento il grido del muezzin che, dall’alto del minareto della moschea centrale, invita tutti alla preghiera, prima di iniziare il lavoro.
«Bismillahi rahman arrahim» (nel nome di Dio clemente e misericordioso): la preghiera comincia prima della levata del sole. Si direbbe che in Etiopia tutti pregano: nei monasteri ortodossi le vigilie delle feste si prolungano fino a tarda notte; il mattino presto è l’ora dei musulmani, mentre i cattolici preferiscono celebrare Dio nel corso della giornata.
L’islam è molto presente nel paese: il 45% della popolazione professa la sua fede in Allah, dichiarandosi sottomesso alla sua volontà (muslim, musulmano, cioè «sottomesso»). Cinque regole fondamentali sono alla base di una giusta condotta:
– la professione di fede in un Dio unico e la proclamazione di Maometto come suo profeta;
– la preghiera personale, cinque volte al giorno (e pubblica il venerdì), con la faccia rivolta in direzione della Mecca;
– l’elemosina ai poveri e (secondo alcuni) «la guerra santa»;
– il digiuno totale nel mese del Ramadan;
– il pellegrinaggio alla Mecca, una volta almeno in vita.
Il missionario che lavora in tale contesto ha a che fare con grandi sfide: da una parte, ammira la vita di fede radicata nelle persone e la loro incrollabile credenza in un Dio unico; ma, dall’altra, non può non osservare un’assenza totale di dialogo tra musulmani e credenti di altre religioni.
In questo tempo di globalizzazione e modeità, il dialogo diventa una priorità indispensabile. Di fronte alla crescita musulmana, non soltanto in Etiopia ma nel mondo intero, l’esigenza di condividere la fede e di verificare i supporti culturali che la manifestano… si presenta come il cammino più sicuro per un dialogo fruttuoso.

Per comprendere l’islam, bisogna partire da Maometto e dal suo progetto. Egli mirava ad unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona, fino a stabilire un unico impero nella penisola d’Arabia. Egli stesso realizzò l’idea a Medina, dopo la sua fuga dalla Mecca, nel 622: il popolo lo accolse come un profeta di Dio.
La religione e la fede nel Dio unico avevano un posto importante nel progetto di Maometto. In effetti le antiche tradizioni arabe si rifacevano alla discendenza di Abramo e Ismaele e le persone si sentivano sottomesse alla volontà di un Dio, che le aveva create e protette. La circoncisione diventerà il segno visibile per ricordare l’alleanza.
Occorre apprendere dalla storia che l’islam costituisce una entità socio-politica, culturale e religiosa. Il sistema di vita integrato che ne deriva può scivolare verso un fondamentalismo totalitario, incapace di distinguere tra «fede» e «cultura». La moschea ne è un esempio evidente: infatti non viene concepita solo come luogo di preghiera o incontro, ma anche come un’istituzione dove, oltre alla preghiera e ai sermoni dell’imam, si fanno studi, dibattiti politici e processi civili.
Nel mondo musulmano è, dunque, del tutto normale che la radio interrompa la sua programmazione per permettere la lettura del corano e che la televisione faccia lo stesso; che la legge proibisca l’unione tra musulmani e cristiani; che l’allevamento di porci e animali impuri sia interdetto. Si nota pure che le differenze tra il sistema dell’islam e quello occidentale non sono soltanto religiosi, ma culturali. L’uomo è il capo dell’unità familiare, la donna è al secondo rango: il suo ruolo è soprattutto legato alla procreazione e alla sessualità e deve accettare la poligamia come un fatto normale. Non può ereditare che la metà di quello che appartiene all’uomo e, se ripudiata, non ha il diritto agli alimenti. A livello giudiziario, occorre la testimonianza di due donne per controbattere quella di un uomo.
Il rifiuto di questi princìpi e altri comporta l’esclusione dell’individuo dalla società in cui vive. La persona in se stessa non è importante, ma è rilevante la comunità, dove ogni credente si sente legato alle persone che professano la stessa fede.
Per il musulmano tutto è religioso. Ogni aspetto della vita sociale, politica, economica, ogni dettaglio della vita quotidiana è diretto dal corano, che è l’unica vera legge.
Tuttavia le differenze socio-culturali non dovrebbero impedire il dialogo. Il missionario conosce le sfide, ma crede che anche i musulmani abbiano diritto alla libertà religiosa. Così essi hanno certamente il diritto di confessare la loro fede in Allah, ma hanno ugualmente il diritto di incontrare Gesù, il rivelatore del Dio cristiano.
In Etiopia il missionario non ha soltanto una «ricchezza» economica, da condividere con le migliaia di poveri che incontra; ma possiede pure il tesoro di Gesù, che può diventare fonte di felicità anche per l’islam. A quando l’avvenimento di un dialogo libero e fruttuoso?

PURTROPPO ANCORA DIPENDENTI

Padre Aristide Piol intervista
Berhane Jesus Souraphiel, arcivescovo
di Addis Abeba e primate di Etiopia.

Quali sono le attuali relazioni tra il governo e la chiesa in Etiopia?

La chiesa cattolica, come altre istituzioni religiose, è considerata un’organizzazione non governativa e non è accettata come chiesa. Ma, pur senza riconoscimento ufficiale, essa può continuare a lavorare nell’ambito apostolico, anche se la sua situazione rimane precaria.

Quali difficoltà incontrate?

Prima di tutto, la mancanza di personale missionario (preti, religiosi e laici), perché quello etiope non è sufficiente. La penuria deriva dal fatto che è molto difficile fare entrare missionari in Etiopia, se non hanno prima un permesso di lavoro. I permessi vengono accordati soltanto per progetti di lavoro sociale, riguardanti l’educazione o la salute e non per l’apostolato. Sono molto difficili da ottenere.

Nelle attività sociali, potete lavorare liberamente?

Non proprio. Riceviamo sovente la visita di ispettori, che redigono rapporti tendenziosi a nostro riguardo; in più, noi stessi dobbiamo fornire regolarmente dei rapporti, stendere inventari minuziosi del materiale di scuole, ospedali, dispensari, asili matei. Dobbiamo anche indicare da dove provengono i soldi e come vengono spesi.

Ma perché tutto questo?

L’Etiopia è divisa in nove regioni e distretti, ognuno dei quali governati da autorità locali e ciascuno ha la sua parola da dire. Questa divisione non favorisce l’unità del paese (bisogna sapere che ci sono diverse etnie e che in Etiopia si parlano 82 lingue differenti!). Credo che non ci conoscono abbastanza e non sanno il bene che apportiamo al paese. Bisognerà fare di più per farci conoscere.

Avete la possibilità di organizzare il lavoro apostolico?

Sì, ma nascono altre difficoltà. Dal momento che il personale deve donarsi completamente all’attività sociale, non può concentrarsi unicamente sul lavoro apostolico. Noi dipendiamo, dunque, dalle chiese cattoliche di Europa e America del nord, sia per il personale che per i mezzi materiali. Da soli, non possiamo fare grandi cose.
La chiesa cattolica ha fatto qualcosa per la guerra con l’Eritrea?
La Conferenza episcopale si è associata al nunzio apostolico, mons. Tommasi, e alle altre professioni religiose per esercitare una certa pressione. Ma il governo si aggrappa a filosofie e mentalità differenti e i nostri interventi non sono sempre ascoltati. Abbiamo detto che questa guerra non ha senso, perché Etiopia ed Eritrea sono nazioni sorelle. Infatti hanno la stessa fede cristiana, sono cresciute insieme e hanno quasi le medesime tradizioni, lingue e culture.

Cosa si aspetta la chiesa dalla commissione «Giustizia e pace»?
Abbiamo accolto la commissione con viva speranza. Essa dovrebbe informare l’opinione pubblica mondiale sulle ingiustizie commesse dai governi locali e inteazionali. È necessario fare intervenire i paesi occidentali e l’Onu, perché la libertà di stampa e religione venga garantita, e che i cattolici abbiano le stesse opportunità degli altri cittadini nella pubblica amministrazione. L’annullamento del debito internazionale è un altro obiettivo. Così, come la denuncia delle nazioni che vendono armi ai governi di paesi poveri. «Giustizia e pace» dovrebbe vigilare perché i soldi dati per opere sociali vengano spesi soltanto per queste e non per arricchire le tasche di alcuni dirigenti.

C’è speranza che la chiesa cattolica etiopica divenga autosufficiente?
Per la gerarchia, anche se ci sono vescovi etiopici, abbiamo ancora bisogno di vescovi stranieri. Così per il clero, i missionari e religiosi.

Come sono le relazioni con la chiesa ortodossa copta?
A livello di gerarchia, c’è rispetto e ci invitiamo reciprocamente. Tuttavia, sul piano del lavoro apostolico, constatiamo ostilità e concorrenza. Questo dipende dal fatto che la chiesa ortodossa copta era (oggi non più) «chiesa di stato» e beneficiava di alcuni privilegi.

Come giudicate la crescita dei musulmani in Africa?

Questa avanzata ci preoccupa. Constatiamo che agiscono secondo un piano ben strutturato per raggiungere i loro scopi. Con i soldi del petrolio cercano innanzitutto di ottenere il potere economico, poi quello politico e religioso. Vediamo che portano degli etiopi a lavorare in Arabia Saudita o in altri paesi musulmani; poi fanno loro regalo del corano e li obbligano a vestirsi come i musulmani. Crediamo che si tratti di una minaccia seria.
Aristide Piol

Giuseppe Ronco




Quasi come sul ring

Il dossier «L’alta teologia
e il buon senso» (Missioni Consolata,
gennaio 2001), scritto da un teologo
missionario, ha suscitato disappunto
in un vescovo.
Trattandosi di temi della massima
importanza, abbiamo trasformato in articolo
la «botta» e «risposta» dei due personaggi.

Non sono sfumature

Non posso nascondere il disappunto nel leggere le pagine 30-31, firmate da Igino Tubaldo, della benemerita rivista Missioni Consolata, gennaio 2001.
L’espressione «fuori della Chiesa non c’è salvezza» va, certamente, compresa alla luce della Rivelazione, dove si afferma che Dio vuole tutti salvi e non fa eccezione di persone (cfr. Rom 2, 11).
Numerosi fratelli dell’Ortodossia, della Riforma protestante e fra gli stessi pagani vivono più santamente di me, vescovo della Chiesa cattolica. Dio guarda nel cuore e in un modo che solo Lui conosce, fa giungere a tutti la grazia della salvezza, frutto del sacrificio redentore dell’unico salvatore Gesù Cristo (cfr. Lumen gentium, 16).
È pure vero che, per essere fedele discepolo di Gesù, devo amare, stimare, rispettare e, quando possibile, aiutare chiunque così com’è, senza pretendere che diventi cattolico, lasciando alla misericordia di Dio che gli conceda o no in terra la pienezza della luce, che è Cristo.
E vengo al punto sul quale non mi trovo d’accordo: è il tema della salvezza nella vera Chiesa. Al riguardo, ricordo che il catechismo della Chiesa cattolica riporta, al numero 181, una parte della frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre».
L’interpretazione di Missioni Consolata del «subsistit» (Lumen gentium, 8) contrasta con quanto scritto in «Chiesa: carisma e potere», dove si legge: «Il Concilio (ecumenico) aveva scelto la parola subsistit proprio per chiarire che esiste una sola sussistenza della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo elementa Ecclesiae, che, essendo elementi della stessa Chiesa, tendono e conducono verso la Chiesa cattolica».
Infine l’esempio dei vari ordini francescani (per vedere dove «sussiste» la genuina forma del francescanesimo) mi sembra molto inopportuno, perché qui si tratta solo della regola di san Francesco, vissuta nella sostanza, ma con sfumature diverse dai vari ordini. Invece che nell’Eucaristia ci sia la presenza reale o no, che la Messa sia un vero sacrificio o no, che ci sia il Ministero petrino o no, che ci sia un Magistero autorevole e, in certi casi, infallibile o no, che ci sia il Sacerdozio ministeriale o no, che la Chiesa abbia il potere di rimettere i peccati o no… non sono sfumature!
Si dimentica la fondamentale distinzione fra la sincerità della coscienza retta, onesta ed aperta allo Spirito Santo (che opera ovunque e su ciascuno e che è la norma dell’agire umano – cfr. Dignitatis humanae, 3) e la verità, realtà oggettiva, alla quale l’uomo retto e sincero si adegua allorché ne viene a conoscenza (cfr. Veritatis splendor).
Riconosco e apprezzo il vostro lavoro di missionari, ma ho timore che presentare in questo modo problemi così seri per la fede sia fuorviante, specialmente per le famiglie cui la rivista è diretta e che sono spinte a cadere in quel relativismo e sincretismo deprecati dal dossier.
Antonio Santucci
vescovo di Trivento (CB)

Carità e lacrime

Talora a teologi e direttori di riviste «missionarie» tocca la sorte del pugile sul ring che, colpito da un gancio, cade al tappeto e poi si sente contare: «tradisci la fede…», «produci scompiglio nei fedeli…», «sei eretico…».
Quando nel 1942 (prima del Concilio ecumenico) A.J. Cronin (1896-1981) pubblicò il romanzo Le chiavi del regno, nella Chiesa parecchi storsero il naso. Padre Chisholm era un missionario sui generis: in Cina dialogava con un pastore protestante e, soprattutto, con un medico ateo, che lo raggiunse per curare gli ammalati. A costui, sul letto di morte, il missionario disse: «Nessuno che sia in buona fede può essere perduto. Nessuno!». Perché a Dio non farebbe piacere vedersi davanti un agnostico rispettabile, giudicarlo con una luce amichevole negli occhi e dirgli: «Come vedi sono qui, nonostante quanto ti hanno fatto credere. Entra nel Regno che hai onestamente negato!»?
Ogni docente di teologia lo insegna: la misericordia di Dio può andare al di là dei sacramenti e il regno di Dio ha confini più ampi di quelli della Chiesa.

Se fuori della Chiesa cattolica e nelle religioni non cristiane esistono valori autentici, l’espressione «la Chiesa di Dio è quella cattolica» o «la Chiesa di Dio sussiste in quella cattolica» può essere accettata solo in senso positivo, cioè: la Chiesa di Cristo è quella apostolica e si manifesta nella Chiesa cattolica. Il verbo «è» o «sussiste» non è accettabile nel significato negativo, cioè: i gruppi cristiani, al di fuori del cattolicesimo, non hanno nulla di ecclesiale. Il Concilio ha riconosciuto l’ecclesialità (anche se non perfetta) delle comunità cristiane, non cattoliche. Queste possono essere come pianeti gravitanti attorno allo stesso sole, che è Cristo.
Altro è il problema dei non cristiani. Qui entra il detto «fuori della Chiesa non c’è salvezza» o, in modo più edulcorato, «nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre». Sono assiomi che si possono accettare se, ancora una volta, vengono intesi in senso positivo, cioè: nella Chiesa cattolica c’è salvezza, senza però escludere che, fuori di essa o del cristianesimo, chi è in buona fede o fa quanto è in suo potere possa salvarsi.
Il Concilio riconosce (e con insistenza) che anche nelle religioni non cristiane possono esistere «cose vere e buone», «preziose, religiose e umane», «germi del verbo», «raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (cfr. rispettivamente Lumen gentium, 16; Gaudium et spes, 92; Ad gentes, 11 e 15; Nostra aetate, 2).
Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha commentato: «Poiché nelle grandi tradizioni religiose dell’umanità esistono questi valori, le stesse tradizioni meritano l’attenzione e la stima dei cristiani».
Le religioni non cristiane sono o non sono salvifiche per se stesse, anche se l’individuo che le pratica in buona fede può salvarsi? Il Concilio non ha risposto alla domanda.
Al quesito (poiché la via è aperta) cercano di rispondere i teologi. Oggi quasi tutti proseguono sulla strada del dialogo: Gesù Cristo è l’unica via della salvezza, ma non si possono porre limiti all’azione salvifica di Dio; si chiedono se nel «pluralismo religioso» ci sia un disegno di Dio. Seguendo la linea ascendente «Chiesa – Gesù Cristo – Dio Padre – Regno di Dio – Spirito Santo», affermano che la Chiesa in terra non è il Regno di Dio, poiché ne è solo il «germe e inizio» (Lumen gentium, 5); germi e inizi del Regno si possono riscontrare pure altrove. Sviluppano teorie sulla «presenza inclusiva»; ricordano che lo Spirito soffia dove vuole…
I teologi concludono: alla Chiesa, per spirito ecumenico e missionario, spetta «condurre a compimento» quanto di positivo esiste nelle tradizioni religiose, non solo perché nulla vada perduto, ma sia «purificato, elevato e perfezionato» (Lumen gentium, 17).
Il papa, nell’enciclica missionaria Redemptoris missio, afferma che «la presenza e l’attività dello Spirito sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo»; tale presenza e attività «non toccano solo gli individui, ma la società, la storia, i popoli, le culture, le religioni» (28).
Allora i teologi si chiedono se, nelle altre religioni, ci siano raggi di verità non presenti nella Chiesa e se, di conseguenza, essa debba dimostrarsi incline a ricevere qualcosa. Perché, quale dialogo si può instaurare se una parte è sicura di non aver bisogno di nulla e di nessuno?
Vittorio Morero, sacerdote giornalista e corrispondente di Avvenire, nel suo libro Il catechismo dei non credenti, scrive: «Penso che ci sia anche una delega di Dio alle religioni non cristiane, agli umanesimi laici, alla saggezza del pensiero dell’uomo nella sua evoluzione storica, nella sua creatività artistica e al genio di ogni uomo» (p. 194).
Una rivista «missionaria» deve amare la propria Chiesa, senza cadere nella «melassa religiosa», senza negare il Ministero petrino o la Presenza reale… e sa che queste non sono sfumature. Se ricorre al paragone del francescanesimo, è per farsi capire. Trattandosi poi di una rivista «missionaria», è comprensibile la sua preferenza per una Chiesa «aperta» ai non cristiani.
Nella Chiesa non esistono solo sette sacramenti; prima o accanto a questi, ci sono i «sacramenti naturali» o «pre-sacramenti». Secondo il biblista Stanislas Lyonnet (1902 1981), essi sono la carità, le lacrime, la debolezza («quando sono debole è allora che sono forte» – 2 Co 12, 9). Sono alla portata di tutti.
Come valutiamo le folle di indiani che s’immergono nel Gange? E più ancora: perché non rivolgere al Padre di tutti una preghiera, affinché abbia pietà delle migliaia di persone, vittime di terremoti, anche se non hanno mai sentito parlare di Cristo o della sua Chiesa?

Igino Tubaldo
missionario e teologo

Antonio Santucci e Igino Tubaldo