L’apoteosi del mercato e i naufraghi dello sviluppo

Le logiche dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia colpiscono
soprattutto il continente africano. L’Africa sopravvive grazie ad una società
veacolare (dell’«uomo della strada») e alla solidarietà neoclanica (di nuovi gruppi
legati alla tradizione). Ma che faranno i «naufraghi» degli altri continenti?
Mentre l’economia di mercato autocelebra il proprio trionfo esclusivo, le disfunzioni del sistema mondiale (disoccupazione, esclusione, povertà materiale, miseria morale) sono sempre più insopportabili. Fino alla prevedibile «grande implosione».
A meno che…

Ci sono due Afriche. L’«Africa ufficiale» è quella dell’economia mondializzata, dello stato-nazione, dei massacri, delle guerre civili (cosiddette «tribali»), delle carestie… È l’Africa che ci viene mostrata dalla televisione.
L’Africa ufficiale ha fallito completamente. Il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa sub-sahariana (cioè l’Africa nera) rappresenta meno del 2 per cento del Pil mondiale, vale a dire meno del Pil del Belgio, meno delle proprietà delle 15 persone più ricche del mondo. Niente insomma. Tuttavia questo niente fa vivere circa 600 milioni di abitanti. E ciò grazie a un espediente, l’espediente di quella che io chiamo «l’altra Africa», quella del mondo dell’informale, della società veacolare che vive grazie alle relazioni.
C’è, dunque, un’altra Africa molto vivace. Certo, con molti problemi, ma anche con una incredibile gioia di vivere, con i sorrisi dei bambini, con la bellezza delle donne, con la dignità dei vecchi. L’Africa degli spiriti, della solidarietà, che si incontra poco nei centri delle metropoli e molto nei villaggi e nei sobborghi.
D’altra parte, alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo nel quale vivono, tentano, raggruppandosi, di mettere in opera qualcos’altro: lavorare, consumare, produrre altrimenti, dentro imprese diverse, riappropriandosi anche della moneta per usarla diversamente, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e della esclusione massiccia dei perdenti.
Questa alternativa volontaristica rappresenta l’«altra economia».
LE SCELTE DEI «NAUFRAGHI DELLO SVILUPPO»
L’economia mondiale, nata con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, ecc.), ha escluso dalle campagne milioni e milioni di persone, distruggendo il loro modo di vita tradizionale e sopprimendo i loro mezzi di sussistenza. Queste persone sono state costrette ad ammucchiarsi nelle baraccopoli delle periferie del Terzo Mondo. Sono i «naufraghi dello sviluppo».
Condannati, nella logica dominante, a scomparire, essi non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo e non commisurato al paradigma dello sviluppo. Si tratta di vedere, con occhio diverso, il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si è in una economia. Si è in un’altra società.
L’aspetto economico dell’esistenza è dissolto, incorporato nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di «società veacolare» è più appropriato, per parlare di questa realtà, di quello di economia informale.
Tuttavia la società veacolare non è un paradiso ritrovato. Si tratta di piccole imprese o di artigiani che lavorano per la clientela popolare: fabbri che lavorano con materiale di recupero, falegnami e sarti di quartiere. E ancora: meccanici con garage all’aperto, intrecciatrici che lavorano per strada, trasportatori su camion traballanti e variopinti che vanno per grazia di Dio, procacciatori di clienti per «pullman rapidi», piccoli commercianti ambulanti che vendono alle donne di casa senza frigorifero tre cucchiai di concentrato di pomodoro, due dadi Maggi, olio senza confezione o sacchetti di latte in polvere o di Nescafé.
La società veacolare è, prima di tutto, l’insieme dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono (o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno s’iscrivono nelle reti. I «collegati» (reliés) formano dei «grappoli» (grappes). In fondo, queste strategie, fondate su un gioco sottile di «cassetti» (tiroirs) sociali ed economici, sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma adattate ad una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
La società veacolare (l’oikonomia neo-clanica) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali. Anche gli artigiani della economia popolare sono forse meno professionali di quanto non pensino o non diano a vedere. Sono spesso anch’essi pluriattivi e molto dipendenti dalla loro rete sociale. Tutti sono nel doposviluppo.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravvivenza reinventando il legame sociale e facendolo funzionare. Esclusi dalle forme canoniche della modeità, dalla cittadinanza dello stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
I tratti più significativi sono la pluriattività e gli espedienti della sopravvivenza, e lo «spirito del dono».
LA PLURIATTIVITÀ
Nelle reti neoclaniche, dove le attività ufficiali sono piuttosto rare, la pluriattività richiama soprattutto la molteplicità degli espedienti e dei lavori messi in opera per cavarsela. Si ha a che fare con un’assenza di professionalità, il che non vuol dire assenza di competenza. Anche quando esiste (per via dell’appartenenza a una casta e dell’acquisizione di un apprendistato specializzato), la professione è più esibita come un alibi e una facciata che rivelatrice dell’esercizio vero e proprio di un mestiere.
A Grand Yoff, in Senegal, i falegnami sono molto poco falegnami o almeno altrettanto avicoltori o mercanti di pomodori. Organizzare i falegnami in associazione per aiutarli ad accedere a migliori condizioni di acquisto o a migliori locali, come ha fatto una Ong, è un errore. Un simile procedimento presuppone che esista un gruppo professionale «falegnami», saldato da interessi comuni. Ora, un tale gruppo non esiste. Accanto a uno o due artigiani che formano una vera piccola impresa, c’è una folla di piccoli falegnami di facciata. Questi ultimi effettuano prestazioni occasionali, ma passano gran parte del loro tempo a fare tutt’altro che il lavoro di falegnameria.
È lo stesso per la maggior parte dei mestieri esercitati in queste zone di grandi precarietà di reddito e d’insediamento. Ciascuno esercita più attività nello stesso tempo, diversifica le proprie competenze e le modifica nel tempo. Hanno inventato la flessibilità ante litteram… All’altro estremo, i non professionisti moltiplicano gli espedienti da cui traggono le loro risorse. A Douala, in Camerun, nelle inchieste sull’occupazione, molti giovani non salariati dichiarano come mestiere: débrouillards (scaltri, che sanno cavarsela…).
LA STORIA DI N’DAYE, DONNA TUTTOFARE
N’daye Sokhna, madre di famiglia a Grand Yoff, è rappresentativa di questa categoria. Migliaia di donne vivono nelle periferie di Dakar e probabilmente quasi tutte in modo simile. N’daye ha un marito ferraiolo per il cemento armato (che non lavora da vari anni) e 7 figli, la maggior parte dei quali vanno a scuola. Essa ha un chiosco, una sorta di garitta in metallo, posta sulla strada di fronte a casa sua, dove vende, tra mattina e sera, da 25 a 35 chilogrammi di pane.
Occasionalmente vende roba usata e incenso che confeziona lei stessa; prepara la zuppa; acquista pesci e fa il tonno alla maionese per la clientela del vicinato. In stagione, N’daye vende i mandarini che le spedisce il cognato o anche l’altra sposa del marito rimasta nel villaggio, della quale dice: «Essa fa come me, anche lei si arrangia…». Ancora, fa merletti che piazza presso le sue «collegate» della rete; alleva pulcini e pensa di contrarre un prestito per impiantare un allevamento di galline sulla terrazza: progetta di avee un centinaio. Di tanto in tanto, sostituisce un’amica per un mese o due come impiegata nel centro ortopedico vicino. Affitta tre camere, ma le entrate sono irregolari e i locatari insolventi si trasformano spesso in oneri supplementari perché mangiano in famiglia.
Essa partecipa a varie «tontine» (circolo di credito rotativo), una a 10 franchi al giorno per comperare giubbotti ai bambini, una a 100 franchi per acquistare tessuti e giornielli. Quella dei tessuti è una tontina organizzata da un’amica ed essa è responsabile di quella dei giornielli. È responsabile, inoltre, di un’altra tontina di venti persone a 1.000 franchi al mese. Dà poi 100 franchi al giorno per un pezzo di tessuto a un venditore ambulante toucouleur. Se un giorno non ha denaro, non dà niente.
Il venditore, dal canto suo, vive dunque della differenza, e passa le sue giornate a fare il giro dei clienti.
Questa vita di espedienti in cui si mescolano produzione di beni e servizi, commercio, scambio di doni di denaro e soprattutto di parole, è quella della maggior parte delle famiglie di Grand Yoff, e, con qualche piccola variante, della maggioranza dei naufraghi dell’Africa.
La mia inchiesta era stata fatta nel 1993, nel ’95 e nel ’96. Alla fine, N’daye Sokhna ha realizzato il suo sogno. È diventata una donna d’affari. Grazie al credito della cornoperativa delle donne e ai consigli della Ong, ha montato con le sue amiche una piccola impresa originale e decentralizzata di produzione e vendita di sciroppo di succo di bissap (hibiscus o acetosella di Guinea o ancora carcadé), succo di tamarindo e succo di zenzero. La marca è depositata per il gruppo, la confezione e l’etichettatura sono normalizzate, è assicurato un controllo tecnico per l’insieme. E… funziona! Quanto al vecchio marito, felice di questa relativa prosperità familiare, egli assicura la vendita in assenza della padrona…
In queste condizioni, i programmi di appoggio al «settore informale», basati sulla professionalizzazione, nonostante le migliori intenzioni, hanno effetti piuttosto negativi. L’essenziale della società veacolare non entra nel quadro dell’intervento. Questo non tocca pertanto i più bisognosi e favorisce invece coloro che, entrati in una logica professionale, sono già ai margini della società informale.
LO SPIRITO DEL DONO
Al di là della plurittività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai «grappoli» di «collegati» della società veacolare è l’importanza del tempo, della energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega una attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno o al gioco… «La festa, osserva Eric de Rosny, un padre gesuita un po’ stregone (Nganga) che vive a Douala, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione. Tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi».
I compiti esecutivi sono effettuati, alla lettera, nel tempo perso. Se c’è urgenza per finire una ordinazione, si può sempre lavorare di notte o farsi aiutare da un collega non occupato. Tutte le entrate sono investite immediatamente all’interno della rete, si tratti di derrate o di denaro. Questo sia perché «è dovuto», sia perché così facendo si anticipa la necessità di prendere prestiti e perché si vuole far profittare anche i parenti. Ciascuno è cosciente del fatto che un beneficio non è mai perduto.
L’atteggiamento generale è il senso di dovere molto ai «collegati» piuttosto che quello di essere un creditore che ci rimette sempre. Se il dono funziona bene, come ha finemente osservato Jacques Godbout, ciascuno degli attori ritiene di aver ricevuto più di quel che ha dato, mentre se il sistema funziona male ciascuno pensa di aver ricevuto di meno.
Le persone di Grand Yoff parlano esse stesse di «cassetti» per disegnare questi investimenti relazionali. Questi cassetti detenuti dai «collegati» sono indifferentemente economici e sociali. Simmetricamente, in caso di bisogno (e il bisogno è qui quasi endemico), si mobiliterà il «grappolo», si attingerà a diversi cassetti. Spesso, si attingerà a un cassetto per investire in un altro. Questa situazione di creditore-debitore è comune a tutti.
A Grand Yoff, le donne utilizzano quotidianamente un proverbio locale molto immaginifico e rivelatore: «Noi seppelliamo una iena per disseppellie un’altra». Una conseguenza supplementare di questo funzionamento è che le operazioni d’investimento sono quasi sempre filtrate dal gruppo. Il debitore al quale si richiede il proprio denaro per fare un colpo, rifiuterà di restituirlo se giudica l’affare irragionevole…
«Se si investe il proprio denaro presso una persona – spiega un falegname – un giorno glielo si può richiedere». Ma colui al quale lo avete dato può avere delle ragioni per non restituirvelo, semplicemente perché fa anch’egli degli investimenti sociali. In questo caso, solleciterà i cassetti disponibili. Proprio per questo, devo disporre di più cassetti, per potee utilizzare un secondo nel caso in cui il primo non fosse disponibile. Per questo è importante avvertire i collegati in tempo e disporre di cassetti molteplici e vari. Al contrario, quando lo mettete in banca, è come se lo conservaste voi stesso. Cioè quando andate a chiederlo, non ve lo si rifiuta. Quando invece fate investimenti presso parenti o partners, essi possono dire di «no», se giudicano che quel che ne farete non sarà bene per voi. Sono dei «parenti», mentre la banca è un estraneo. Essa non si preoccupa nemmeno del modo in cui vivete e meno ancora di come spenderete il vostro denaro. Non c’è ostacolo all’uso del denaro della banca, poiché basta chiederlo per ottenerlo. Il denaro non è al sicuro in banca.
Questo «filtro» sociale è addirittura sistematico nel caso di certe tontine.
«Questi franchi che abbiamo raccolto – dichiara solennemente un tontinier nel consegnare la somma al fortunato destinatario -, cioè questi miseri soldi (ma che rappresentano tutto il nostro tesoro), noi te li diamo oggi, non perché tu faccia sparire questo denaro, ma perché noi auspichiamo che ogni franco diventi 10 franchi e che ciò possa esserti utile. E ti rinnoviamo tutti i nostri migliori auguri perché tu riesca nel tuo progetto».
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa dalla logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui il legame sociale funziona sulla base dello scambio, ma lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire, così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale nella logica del dono è che il legame sostituisce il bene.
LE LEZIONI DELL’«ALTRA AFRICA»
La mondializzazione non è altro che l’ultima punta della «mercificazione» del mondo.
Bisogna riconoscerlo: l’economia resta misteriosa per la maggior parte delle persone. Tutti i grandi giornali dedicano a questa materia pagine specializzate, che spesso i lettori giudicano «illeggibili» e s’affrettano a sorvolare. La situazione è tanto più paradossale in quanto non è più possibile nel mondo moderno vivere fuori dell’economia. Ciò implica due cose strettamente connesse: da una parte tutti partecipano alla vita economica e, dall’altra, tutti possiedono un minimo di conoscenza di economia.
Nelle società contemporanee, non è più concepibile partecipare all’economia senza un po’ di conoscenza. Noi tutti siamo degli ingranaggi di un’immensa macchina che definisce la nostra collocazione nella società. Lavoro o disoccupazione, livello dei redditi, modalità di consumo: questi aspetti economici della vita hanno occupato uno spazio dominante e qualche volta totalizzante. La persona la si considera, innanzitutto, in base alla sua professione, al suo reddito, ai suoi consumi. E così la vita è stata ridotta sempre di più a dimensioni economiche, ed è inevitabile che ciascuno sia ossessionato dai problemi economici, prima di tutto dal reddito: stipendio, sussidio di disoccupazione o pensione.
Il capo d’azienda, come pure la casalinga, vive con gli occhi sugli indicatori economici; solamente la loro formulazione è differente: tasso d’inflazione o prezzo del burro, prelievi fiscali e sociali o assegni familiari e previdenza sociale, ecc.
Un antico proverbio francese dice che, quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi. Gli uomini del nostro tempo si sono ficcati in testa un martello economico. Noi vediamo ogni problema, ogni attività, ogni evento attraverso il prisma dell’economia. Finché avremo in testa il martello economico, il nostro agitarci sarà vano, sterile e anche dannoso.
Per quanto possa essere sorprendente, le preoccupazioni economiche, come tali, avevano poco spazio nella vita degli uomini prima del Rinascimento o al di fuori dell’Occidente. Ciascuno svolgeva i suoi compiti, molto spesso di natura domestica; il cittadino greco si preoccupava di politica, l’uomo medievale di religione e l’indigeno africano di feste e rituali.
Lo sviluppo dell’economia nell’epoca modea non appare tuttavia strano, perché il progetto della modeità riposa sulla pretesa di costruire la vita sociale sulla sola base della ragione, emancipandosi dalla tradizione e dalla religione. Nella visione ereditata dall’illuminismo, l’economia non è altro che la realizzazione della ragione. Non è sorprendente che lo sviluppo dell’attività economica si presenti come l’affermazione di potenza della razionalità. Quest’ultima si manifesta in maniera congiunta nella tecnica e nell’economia; si tratta di accrescere l’efficienza economizzando al massimo i mezzi per ottenere i massimi risultati seguendo la norma del «sempre più».
Questa razionalità calcolatrice si rende assurda, divenendo fine a se stessa. La scienza economica, dal canto suo, non è altro che una ruminazione vaniloqua e ossessiva del principio di razionalità quantitativa. L’apparente diffusione planetaria della modeità (per mezzo dell’imperialismo, prima militare e politico, poi sempre di più culturale) ha fatto trionfare, di fatto, l’economia come pratica e come immaginario mondiali.
IL TRIONFO DELLE «LEGGI DEL MERCATO»
Dopo il crollo dei paesi dell’Europa dell’Est e il fallimento del progetto socialista, l’economia di mercato ha celebrato un trionfo esclusivo. Questo successo appare come la miglior riuscita dell’economia e degli economisti.
Le sacrosante leggi del mercato si impongono verso e contro tutti, rovesciando la burocrazia più totalitaria, distruggendo insieme le sinistre mostruosità del gulag e le speranze riposte dalle masse dei diseredati nell’utopia più generosa della storia. La società aperta sembra stravincere sui suoi nemici per mettere il punto finale alla storia con l’apoteosi del mercato.
Nondimeno, le promesse dell’economia di pace e prosperità per tutti e per ciascuno appaiono oggi più lontane che mai. Più l’immaginario della grande società del mercato mondiale e pacifico diviene planetario, più la discordia, la miseria e l’esclusione sembrano guadagnare terreno.
Le disfunzioni di ogni genere nel sistema mondiale – disoccupazione, esclusione, disastri ecologici, povertà materiale e più ancora miseria morale – sono e saranno sempre più insopportabili. Nell’attesa della prevedibile «grande implosione», esse favoriscono l’emergere di contro-dogmi: integralismi etnici, fondamentalismi religiosi, più o meno intrecciati con gli strascichi ideologici del passato e con la forza del risentimento. Tuttavia, queste reazioni non possono mettere seriamente in pericolo il dominio del «pensiero unico», poiché non attaccano le sue radici, le radici dell’economicismo e dell’utilitarismo. Solo se si rimette in discussione l’impero del razionale si può forse aprire la via ad un pensiero meno intollerante e che potrebbe definirsi pluralista.
DECOLONIZZARE IL NOSTRO IMMAGINARIO
Che fare di fronte alla mondializzazione, all’onnimercificazione del mondo ed al trionfo planetario del mercato unico? La distanza tra l’ampiezza del problema da risolvere e la modestia dei rimedi individuabili a breve termine, dipende soprattutto dalla pregnanza delle convinzioni che consentono al sistema di reggersi sulle basi del suo immaginario collettivo.
Bisogna cominciare a vedere altrimenti le cose, affinché esse possano diventare altre (e si riescano a concepire soluzioni originali e innovative). In altri termini, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario per trasformare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore.
Si tratta di rimuovere il martello economico dalla testa. Si tratta di mettere al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo. Dovremmo volere una società che non abbia al centro (o come unici) i valori economici, dove l’economia sia rimessa al suo posto, come semplice mezzo e non come fine ultimo, dove si rinunci alla folle corsa verso consumi sempre più alti. Ciò non solo è necessario per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale dei contemporanei.
Quest’altra società (dove si vivrebbe altrimenti) può essere concepita in due modi: può esserci imposta (come nel caso dell’altra Africa), ma può anche essere scelta. In altri termini, si può essere condannati a farla, in modo più o meno inconsapevole, e si può tentare di costruirla consapevolmente.
Questa seconda forma dell’altra società non è completamente separata dalla prima, e questo per due ragioni. In primo luogo, perché l’auto-organizzazione degli esclusi del Sud non è (non è mai) del tutto spontanea. Ci sono anche aspirazioni, progetti, modelli, utopie che informano più o meno le combinazioni della sopravvivenza informale. In secondo luogo, perché gli «alternativi» del Nord non sempre hanno scelta. Si tratta spesso di esclusi, derelitti, disoccupati, cassaintegrati, candidati potenziali alla disoccupazione o, più semplicemente, esclusi per disgusto… Ci sono dunque dei punti di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente.
RISPOSTE LOCALI ALLA SFIDA GLOBALE
Oggi si contano imprese cornoperative autogestite, comunità neo-rurali, associazioni di commercio equo e solidale, banche etiche, settore non profit, Lets e Sels (sistemi di scambio locali), bilanci di giustizia, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto come forme di resistenza e dissidenza nei confronti del processo di affermazione dell’onnimercantizzazione del mondo.
Il caso dei Sels è particolarmente interessante. I sistemi di scambio locale sono associazioni, i cui membri scambiano beni e servizi di ogni natura fuori dal mercato e in base a una «moneta» appositamente creata e valida all’interno del gruppo. I prodotti scambiati vanno dai lavori di riparazione domestica o di automobili a servizi di babysitting, passando per corsi di lingua, massaggi, foitura di ortaggi, prestito di utensili, ecc. Liste regolarmente aggiornate e gestite da un elaboratore centralizzano le offerte e le domande e permettono di conoscere la posizione dei crediti e dei debiti di ognuno. Così, persone escluse dal lavoro (le cui competenze sono state respinte dal sistema di mercato) possono ritrovare forme di attività e di riconoscimento sociale.
Si tratta di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del Sel dell’Ariege: «In qualche modo, noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale». Un Sel stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali estei.
Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Soprattutto, i Sels debbono fare i conti col problema fondamentale dell’economia teorica e pratica: il valore, il rapporto di scambio. È riposta la questione del rapporto di scambio giusto. Come nella società veacolare africana, le «chiacchiere» giocano un ruolo insostituibile. Lo affermano tutti i partecipanti: la parola è essenziale. Con una piccola forzatura, si potrebbe dire che i Sels reinventano la democrazia di base e costituiscono un apprendistato alla cittadinanza. Senza chiasso, gli «informali» dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
NON CHIUDERSI IN TRINCEA
L’esperienza africana della società veacolare può servire da lezione anche per tutti coloro che sono impegnati in imprese alternative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative è quello di raccogliersi dentro la trincea che ha loro permesso di nascere, invece di lavorare al proprio rafforzamento.
L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è (e deve essere) differente dagli ambiti del mercato. È quest’ambiente che bisogna definire, proteggere, mantenere, rafforzare e sviluppare. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la trincea in seno al mercato mondiale, è meglio militare per allargare lo spazio al margine dell’economia globalizzata.
Il confronto violento e il conflitto accanito, così caratteristici della razionalità occidentale, non sono l’universo in cui può o deve muoversi l’organizzazione alternativa. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco ai prodotti «iniqui» o «anti-biologici» non è un obiettivo in sé e per sé.
È più importante assicurarsi il carattere equo del complesso della filiera, dal trasporto fino alla commercializzazione: il che esclude insieme il supermercato ed allarga il tessuto portatore. L’estensione e l’approfondimento del campo delle complicità è il segreto della riuscita e deve essere la prima preoccupazione di questa impresa. I consumatori (consumatori cittadini) – come dicono le associazioni di consumo critico – non sono se non un elemento d’un insieme che dovrebbe collegare Sels, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati in questo itinerario. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
«In sintesi – scrive Tonino Pea nel suo libro Fair trade. La sfida etica al mercato mondiale – si può dire che la sfida per il fair trade consiste non nel far entrare nel circuito della moda i prodotti del Sud del mondo, stravolgendone il patrimonio culturale, ma nel far diventare un “bisogno” la scelta etica del consumatore (…). Ciò significa che è necessario pensare più in termini d’innovazione sociale che di innovazione di prodotto (…). Il cercare di adeguarsi alle cosiddette leggi del mercato capitalistico, di inseguie i capricci, di usae acriticamente gli strumenti – come la pubblicità e il marketing – può dare qualche risultato in termini quantitativi nel breve periodo, ma alla fine risulta perdente».
Si tratta di cornordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, con tutte le iniziative associative per articolare resistenza e dissidenza e per sboccare, alla fine, in una società autonoma.
È così che, all’inverso di Penelope, si ritesse di notte il tessuto sociale che la mondializzazione disfa durante il giorno…

SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA
Siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza. Non dobbiamo dimenticare né privilegiare nessuna di queste tre dimensioni.
Prima di tutto, dobbiamo sopravvivere. È ovvio, senza ciò nessuna resistenza né dissidenza sarebbe possibile. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità. Possiamo accettare dei compromessi nell’azione concreta e quotidiana, ma dobbiamo respingere le compromissioni nel pensiero. Già questa è una forma di resistenza: la resistenza mentale all’impresa del «lavaggio del cervello» da parte dei media e il dominio devastatore del «pensiero unico».
Dunque, dobbiamo resistere. Se pensiamo che siamo imbarcati in una megamacchina che fila a gran velocità senza pilota e, quindi, condannata a fracassarsi contro un muro, resistere significa, allora, tentare di frenare e provare a cambiare la direzione. Come, in verità, nessuno lo sa. Dobbiamo anche pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno. È questa la dissidenza.
Se a breve termine la strategia della sopravvivenza è la più importante, a termine medio è la strategia della resistenza che diviene più importante e, a lungo termine, è quella della dissidenza.

Serge Latouche




COLOMBIA – La pace sotto il tallone del narcotraffico

I colloqui tra il governo di Pastrana e le Farc di Marulanda stentano a trovare sbocchi concreti. Le truppe paramilitari (circa 6 mila uomini, responsabili di 3/4 degli omicidi politici della Colombia) proseguono la loro caccia all’uomo.
I «gringos» (gli Stati Uniti), per imporre la loro «pace», continuano a inviare armi e consulenti militari. Intanto il business (enorme) del narcotraffico condiziona
pesantemente ogni contendente. In questa situazione di confusione e incertezza, la guerra «sucia» (sporca) non si ferma.

Bogotà. L’hanno soprannominata «Farclandia», terra delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane). Si estende per 42 mila chilometri quadrati, tanto quanto la Svizzera o due volte El Salvador. Comprende 5 municipi, il più importante (San Vicente del Caguán) nel Caquetá, i rimanenti 4 (La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe) nel Meta.
Juan José Olivarez Roja e Juan Domingo Varela sono missionari della Consolata argentini ed entrambi vivono nel territorio smilitarizzato, denominato «zona di distensione». Di passaggio nella capitale, i due padri parlano della nuova situazione. Quanto José è calmo, riflessivo, diplomatico, tanto Domingo è irruento e sanguigno (ha avuto problemi sia con la guerriglia che con i militari).
UNO STATO PARALLELO
Andrés Pastrana si è battuto per la creazione della «zona di distensione» come gesto concreto di buona volontà per iniziare i dialoghi per una soluzione pacifica del conflitto.
Il presidente ha trattato direttamente con Manuel Marulanda Vélez noto come «Tirofijo», vecchio leader delle Farc. Ma il ritiro dell’esercito colombiano da una zona tanto ampia non ha convinto tutti. Si parla di uno stato parallelo…
«Se tu, come straniero – spiega padre José -, vuoi entrare (con un minimo di sicurezza) nella zona di distensione devi chiedere il permesso alle Farc. A te non sembra che viviamo in uno stato parallelo? Personalmente credo proprio di sì».
«Le Farc hanno subìto una profonda trasformazione. Io non riesco a capire se c’è ancora una colonna vertebrale. Il vecchio Marulanda è tuttora la bandiera, ma ho la sensazione che ci siano fronti e relativi comandanti con idee diverse da quelle del leader. In tutti i casi, secondo me, c’è stata una involuzione ideologica. Contaminata dal narcotraffico, la guerriglia mi pare che lotti soltanto per conquistare il potere».
«Per ora più che un dialogo ci sono stati dei monologhi, con ogni soggetto impegnato ad ascoltare se stesso più che le ragioni della controparte».
«Pastrana – si intromette padre Domingo – ha portato la bandiera della pace più per calcolo politico che per convinzione. Per parte loro, le Farc stanno approfittando della zona di distensione per rinforzarsi militarmente, politicamente ed economicamente».
«Io invece – interviene José – non azzardo previsioni. Ci sono troppe variabili in gioco. E il cammino si sta facendo giorno per giorno».
UNA DIVISA PER FUGGIRE LA MISERIA
In un paese nel quale la filosofia maschilista (il «machismo») è ancora molto diffusa, si dice che nelle Farc le donne siano dal 25 al 35% degli effettivi.
I due missionari confermano il fenomeno. «Non solo le donne sono numerose, ma pare siano le più valorose al momento dell’attacco. Probabilmente aiutate anche dalla marijuana» spiega padre Domingo.
Secondo il settimanale Semana, nelle fila della guerriglia sono sempre di più i ragazzi di 13-14 anni. «È vero – risponde José -. Ma su questo punto occorre fare qualche distinguo. In queste società contadine essere bambini non ha lo stesso significato che in Occidente. Qui i bambini cominciano ad aiutare i genitori già a 5,6,7 anni. Quando arrivano a 13-14 anni sono ormai considerati degli uomini. Con ciò non sostengo che sia giusto o normale, ma è così».
«Il problema più serio – prosegue il missionario – è quello dell’attrazione che la figura del guerrigliero esercita sui ragazzi. Essi vedono che un guerrigliero ha autorità e viene rispettato dalla gente. Molti quindi scelgono di arruolarsi. La loro è una fuga dalla miseria quotidiana».
«COCALEROS» PER FORZA
Come in tutti i paesi latinoamericani, anche in Colombia il problema agricolo ha due aspetti: quello legato al latifondo e quello legato ai prezzi dei prodotti.
Per il primo soltanto delle effettive riforme agrarie potrebbero dare risultati. Il problema dei prezzi dipende invece dalle politiche imposte ai paesi del Sud. Si tratta di politiche neoliberiste che obbligano ad aprire i mercati nazionali a beneficio esclusivo delle grandi multinazionali agroalimentari. Queste possono tollerare le fluttuazioni dei prezzi (mais, caffè, ecc.), cosa che non possono permettersi i piccoli contadini. Il risultato è di spingere i campesinos verso le coltivazioni di canapa indiana (marijuana), papaveri da oppio e, soprattutto, coca, i cui mercati sono più stabili e redditizi.
«L’80 per cento dei contadini della nostra zona vive con i proventi della coca. In genere, sono buone persone, costrette a diventare cocaleros perché non hanno alternativa. La regione è abbandonata dallo stato, che non finanzia alcuna iniziativa economica, né costruisce le infrastrutture. Se un contadino vuole portare al mercato i propri prodotti (mais, yucca, banane, caffè), non ci sono le strade. E anche quando riesce ad arrivare ai mercati, i prezzi di vendita sono troppo bassi».
LA «VACUNA», L’IMPOSTA RIVOLUZIONARIA
Sulla ipotesi che la guerriglia si sia trasformata in narcoguerriglia i pareri sono molto discordanti. Gli statunitensi ne sono sicuri, mentre sono più cauti gli altri analisti. Secondo costoro, la guerriglia non dispone di una rete propria di import-export, né gestisce laboratori di trasformazione o di un sistema di riciclaggio del denaro.
Di certo c’è che, sui territori controllati dalle Farc, vige l’obbligo della vacuna («vaccinazione»), una sorta di imposta rivoluzionaria. «Gli allevatori, i produttori di legname, tutti la debbono pagare -spiega padre Domingo -. La chiesa, almeno fino ad ora, ne è stata esentata, perché ad essa viene riconosciuto un ruolo sociale».
«Ma vedrai – interviene José – che tra poco chiederà denaro anche a noi. Comunque, il grosso delle loro entrate proviene dalla coca. Io ho partecipato a riunioni delle Farc nelle quali i comandanti ordinavano alla comunità di vendere a loro tutta la coca perché avevano un compratore. Insomma, in un modo o nell’altro, la guerriglia ha a che vedere con il narcotraffico».
LE STRAGI DEI PARAMILITARI
Nel 1999 la Colombia è stato il terzo destinatario (dopo Israele ed Egitto) di aiuti militari provenienti da Washington.
«Gli Stati Uniti – spiega José – soffrono molto le conseguenze della diffusione della droga. Aiutando l’esercito colombiano essi sperano di ridurre la produzione di droga e, al tempo stesso, di eliminare la guerriglia».
Da più parti (pur sottovoce) si parla di un possibile intervento diretto delle truppe statunitensi. Per ora gli americani sarebbero stati frenati dal timore di creare un nuovo Vietnam.
«No – interviene padre Domingo -, un’invasione non ci sarà mai. Credo invece che ci saranno sempre più paramilitari. Armare questi ultimi è per gli Stati Uniti il modo più economico e meno pericoloso per intervenire».
Presenti in 350 dei 1.070 comuni colombiani, i paramilitari sono protetti dalle frange più oltranziste delle forze armate. Possono contare su una forza di 5-6 mila uomini, che concentrano la loro attenzione sui simpatizzanti (veri e spesso presunti) della guerriglia.
Negli ultimi anni la Colombia ha visto, in media, 30 mila assassinii l’anno. E la frontiera tra violenza comune e quella di origine politica è sempre più vaga. Tuttavia, viene calcolato che il tasso di omicidi politici si situi tra il 7 e il 10% del totale. Nel 1997, la banca dati del «Centro di ricerca e di educazione popolare» (Cinep, gestito dai gesuiti) e di «Giustizia e pace» indicava che i paramilitari erano di gran lunga i maggiori responsabili di omicidi politici: l’84% contro il 14% per la guerriglia e il 2% per l’esercito.
Sui paramilitari (e parte degli ambienti militari) pesa, inoltre, la responsabilità di aver fatto fallire, 15 anni fa, il primo importante progetto di pace. Il 28 maggio 1984 fu firmato un cessate il fuoco tra il governo di Belisario Betancur e le Farc. Venne fissato un periodo di un anno per permettere al movimento armato di organizzarsi politicamente. Nel novembre 1985 nacque la coalizione di sinistra denominata Union patriotica (Unione patriottica, Up), che partecipò con successo alle elezioni del 1986, guadagnando 350 consiglieri municipali, 23 deputati e 6 senatori. Ma la festa durò poco. Uno dopo l’altro, con una precisione e una metodicità diabolica, furono ammazzati migliaia di membri del partito.
IL PERICOLO MAGGIORE: LA NARCOMENTALITÀ
I gruppi paramilitari sono confederati sotto la sigla di «Autodifese unite della Colombia» (Auc), capeggiate da Carlos Castaño. Sono finanziati da imprenditori e latifondisti e, da qualche anno, anche dai proventi del narcotraffico, che ormai rappresenta la principale fonte di reddito per tutti i contendenti (vedi Cambio, «Las finanzas de los paras», 15 maggio 2000).
«Con il narcotraffico – conclude amaro padre José – la crisi sociale, la perdita di valori si è accentuata. Oggi domina la narcomentalità: prima di tutto il denaro facile, il resto importa poco».
(Fine – Le precedenti 3 puntate sono state pubblicate in marzo, aprile e giugno.)

I DATI (CONTROVERSI)
DELLA NARCOECONOMIA

Chi guadagna veramente dal business della droga?
Certamente non i campesinos colombiani. E perché
dimenticare le gravi responsabilità delle industrie
e delle banche statunitensi?

Secondo statistiche statunitensi, nel biennio 1997-’98 le coltivazioni di coca in Colombia sono aumentate del 28% (contro una riduzione del 26% in Perù e del 17% in Bolivia). Il 75-80% dell’offerta di coca a livello mondiale proviene dalla Colombia. Nel 1998 Bogotà ha esportato prodotti commerciali (come caffè, banane, petrolio, carbone) per 11 miliardi di dollari, mentre le esportazioni illegali di cocaina avrebbero fruttato 16 miliardi di dollari.
Per contro, secondo uno studio recente (L’economia colombiana dopo 25 anni di narcotraffico, Bogotà 1999), è vero che nel paese latinoamericano la produzione annuale di cocaina è aumentata (passando da 300 a 520 tonnellate), ma è anche vero che la gran parte degli utili rimane all’estero. Secondo la ricerca, il denaro della narcoeconomia oggi partecipa alla formazione del Prodotto interno lordo (Pil) della Colombia con una percentuale pari al 2% (dato sottostimato?) contro una del 17% a metà degli anni Ottanta. A parte il balletto delle cifre, nel business della droga ci sono pochi innocenti (e molti ipocriti). È risaputo, ad esempio, che il 90% delle sostanze chimiche utilizzate per la lavorazione della droga provengono dalle industrie statunitensi (si tratta di milioni di litri di prodotti chimici all’anno) e che le industrie di armamenti degli Usa sono i principali fornitori della Colombia. Inoltre, secondo l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse), la metà dei proventi del traffico mondiale di droga (centinaia di milioni di dollari) transita per il sistema finanziario degli Stati Uniti.
Insomma, la guerra alla droga da parte degli Stati Uniti ha molti, troppi lati oscuri, rispetto ai quali sarebbe giusto mostrare qualche attenzione in più. A meno che gli Usa non debbano essere considerati attori super partes, a cui tutto è permesso.
Pa.Mo.

L’ambiguo ruolo degli Stati Uniti

«FARCLANDIA»
DIVENTERÀ UN NUOVO VIETNAM?

Mentre proseguono i colloqui tra governo e Farc
(e, a Cuba, tra governo e Eln), anche i paramilitari si dicono disponibili a trattare.

21 giugno 1998:
arriva Pastrana
Dopo 12 anni ininterrotti di governo del Partito liberale, alla presidenza della Repubblica viene eletto Andrés Pastrana, conservatore ed ex sindaco di Bogotà.

7 novembre 1998:
nasce «Farclandia»
L’esercito colombiano si ritira da 5 municipi: San Vicente del Caguán (Caquetá), La Macarena, Vistahermosa, Mesetas e Uribe (Meta). Una zona di 42.000 chilometri quadrati, grande come la Svizzera o due volte El Salvador. Nasce la zona di despeje, subito soprannominata «Farclandia», ovvero «terra delle Farc».

7 gennaio 1999: Pastrana e Marulanda
A San Vicente del Caguán (Caquetá) si incontrano il presidente Pastrana e Manuel Marulanda detto «Tirofijo», leader delle Farc.

23 settembre 1999: gli aiuti di Washington
Il presidente Pastrana rientra da Washington con in tasca la promessa di ricevere 1,6 miliardi di dollari in tre anni per affrontare il narcotraffico. In realtà, gli aiuti servono soprattutto per sconfiggere la guerriglia.

24 ottobre 1999:
«No mas» (Basta)
È la giornata della manifestazione nazionale per la pace. Scendono in piazza milioni di colombiani per chiedere la pace.

febbraio 2000: e se l’Europa…
Una delegazione colombiana (composta da membri del governo, rappresentanti del settore privato, dal commissario per la pace Victor G. Ricardo e dal comandante Raul Reyes, numero 2 delle Farc) compie un giro di studio e conoscenza per le capitali europee, Vaticano compreso. La speranza è di trovare nuovi interlocutori che riducano l’influenza nordamericana in Colombia.

1 marzo 2000: Carlos Castaño in Tv
Carlos Castaño, leader delle «Autodifese unite della Colombia» (Auc), per la prima volta mostra il proprio volto in un’intervista televisiva e si dice disponibile a trattare con le Farc e l’Eln.

28-29 maggio 2000:
la conferenza delle Farc
Nella foresta le Farc organizzano un convegno internazionale sulla droga.

30 luglio 2000: referendum
Il governo di Pastrana chiama i colombiani a votare per una radicale riforma parlamentare.
Pa.Mo.

A RISCHIO DELLA VITA
Come in ogni parte del mondo, ci sono magistrati che servono la giustizia
e altri che servono il potere.
In Colombia, chi rientra nella prima categoria non è sicuro di arrivare alla pensione.
Per questo, una Ong tedesca…

«Sono molti i membri del sistema giudiziario colombiano che chiedono aiuto e, a volte, i tempi per attivarsi sono veramente ristrettissimi: 24 ore per fare le valigie o per ritrovarsi con una pallottola in testa o una bomba sotto l’auto. L’ultimo caso è quello di una giudice che ha sospeso un gruppo di generali per evidenti implicazioni in casi di violenza e paramilitarismo. La donna è stata immediatamente accusata di connivenza con la guerriglia. Hanno dovuto nasconderla a Bogotà e, in poche ore, farla uscire dal paese cercandole asilo politico all’estero».
Stella lavora con un’organizzazione non governativa di Bogotà che offre aiuto ai giudici e alle famiglie di giudici vittime della violenza. L’Ong si chiama «Fondo tedesco di solidarietà» (Fondo aleman de solidaridad, Fasol) ed opera dal 1989.
In principio l’associazione era soprattutto assistenzialista (accompagnamento delle vedove, reinserimento delle famiglie, ecc). Poi sono stati attivati altri programmi: recupero psicologico delle persone, borse di studio per gli orfani, credito per aprire imprese familiari. Infine, ci sono i programmi di emergenza per i giudici minacciati che debbono abbandonare il paese. Attualmente Fasol sta seguendo circa 250 famiglie.
«Tante, vero? – interviene Stella -. In Colombia, il potere giudiziario non può essere libero e autonomo. Anche perché tutti i contendenti applicano la pratica sporca delle “infiltrazioni”: militari infiltrati nelle organizzazioni civili, paramilitari infiltrati nella guerriglia, guerriglieri infiltrati nell’esercito. A questo gioco non si sottrae la magistratura. Ecco perché per un magistrato è così pericoloso servire la giustizia».
Nel direttivo dell’associazione sono presenti membri laici e clericali. Tra tutti, va segnalato il «Centro di ricerca ed educazione popolare» (Centro de investigacion y educacion popular, Cinep), una meritoria associazione fondata dai gesuiti, la cui attività è da sempre nel mirino delle forze armate e dei gruppi paramilitari.
Per parte sua, Stella è arrivata a Fasol dopo altre esperienze «forti». Prima 10 anni di lavoro tra i gamines (il corrispettivo colombiano dei meniños de rua del Brasile), poi la perdita violenta di due fratelli (uno assassinato, l’altro «scomparso») e il trasferimento a Riobamba, in Ecuador, a lavorare con i missionari della Consolata.
Per chi non conosce la gravità della situazione colombiana, è sufficiente ascoltare le parole della volontaria di Fasol: «Ho un’amica – racconta Stella – che vive nella regione di Antiochia, dove è consuetudine formare famiglie molto numerose. In casa sua sono 18 fratelli. Ebbene, dei 9 che hanno studiato diritto 6 sono stati assassinati».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




CONGO – E sul muro una scatola vuota

Nei «Balcani dell’Africa» gli eserciti si fronteggiano,
soprattutto per accaparrarsi legname e caffè,
oro e diamanti. Difficile raggiungere
il paese ai «non addetti ai lavori»:
non fa eccezione la città di Isiro,
sotto il tiro degli ugandesi. Altrove sono
i rwandesi che non scherzano.
Da mesi è in ballo l’invio di 5.337
«caschi blu» delle Nazioni Unite,
per garantire il «cessate il fuoco».
Ma è solo un «ballo».
I missionari con la gente.

«Finalmente!» dico a padre Giano Benedetti. Decollato dall’aeroporto militare di Entebbe, in Uganda, viaggio con altri missionari della Consolata: i padri Enrico Casali, Celestino Marandu e Simon Tshiani. Sono le ore 15. Destinazione Isiro, nella Repubblica democratica del Congo, occupata dall’esercito dell’Uganda.
«Ti è andata molto bene!»
Giungiamo all’aeroporto di Entebbe alle 5.30 con un taxi-minibus, mentre è ancora notte. Svegliati dal rumore del veicolo, due soldati ugandesi sporgono il capo da una tenda per dire: «Aspettate». Ci dividono una rete e un cancello. Il taxi, carico delle nostre valigie, rimane sul posto.
Mezz’ora dopo, un camion supera il cancello, seguito da padre Celestino, che dichiara: «Ci vorrà tempo a caricare l’aereo». Celestino, tanzaniano, conosce l’iter burocratico per giungere ad Isiro.
Un lampo sul cielo nuvoloso, un tuono fragoroso e la pioggia inonda la campagna. «È una benedizione di Dio» commenta il taxista. Quando cessa di piovere, propone: «Perché non facciamo colazione?». C’è una bettola a due chilometri. Il taxista mangia con appetito uno spezzatino di maiale e banane fritte.
Un nuovo tuono… e le cateratte del cielo si riaprono. Piove anche sul nostro tavolo, mentre ci servono il tè. Padre Enrico sorride divertito, pur non essendo un pivello dell’Africa: conta 5 anni di Tanzania e 26 di Zaire-Congo. Ora vi ritorna, dopo un by pass al cuore e altri gravi problemi di salute. La missione è il suo dna, come pure delle sorelle Emma Piera, Aalda e Simplicia, missionarie della Consolata.
«Adesso ritorniamo all’aeroporto, perché dovreste partire» dice il taxista. «Ecco i piloti» continua per strada, additando una Mercedes con due biondoni russi a torso nudo. Attraversano il cancello; però, un quarto d’ora dopo, ritornano sui loro passi. Un’operazione compiuta tre volte… E l’orologio segna le 12.
Alle 13 appare padre Celestino: «In fretta, si va!». Scarichiamo i bagagli. Il sole dardeggia.
Ai piedi di un aereo-cargo Antonov, un soldato mi ordina: «Apra la valigia». Tremo. Sull’asfalto ribollente compaiono tre salami, una bottiglia di grappa e due pezzi di formaggio. Il militare osserva tutto e solleva un sacchetto di plastica.
– Che cos’è questo?
– Sono grani per confezionare corone del rosario.
– Ah!… Partite pure.
Ma siamo nuovamente bloccati, perché il numero dei passeggeri è diverso da quello notificato: cinque, invece di quattro. L’aereo può trasportare fino a 20 tonnellate, che sono state superate da una persona in più. «Uno deve scendere!» intima secco il comandante dell’aeroporto.
Padre Celestino si apparta con il graduato. Sostano 20 minuti sotto il sole furente, gesticolando, talora separandosi per poi riavvicinarsi… E si va! Nell’Antonov non pressurizzato padre Simon, congolese, mi grida all’orecchio: «Ti è andata molto bene! Io ho aspettato due settimane».
In aereo chi si sistema a cavalcioni di una balestra di Land Rover, chi su uno scatolone di pelati, chi su un sacco di zucchero… Noto anche un borsone di zip e bottoni. E, soprattutto, le medicine per l’ospedale della diocesi di Wamba e dei missionari della Consolata.
DOVE LE BICI SONO CAMION
Isiro, il mattino seguente, casa dei missionari della Consolata. Con la barba di cinque giorni, vorrei radermi. Ma in camera non trovo lo specchio.
«Per favore, c’è uno specchio?» chiedo a padre Rinaldo Do, il superiore. «Scusa, ci siamo dimenticati di importarlo…». Allora rivedo l’Antonov con il borsone di zip. «Qui, se perdi un bottone, o stai senza o te lo importi tu stesso… noleggiando un aereo».
Per non parlare di benzina. I missionari talora riescono ad acquistae qualche fusto dai militari ugandesi, per poi «centellinarla».
Anche monsieur Joseph ha comprato due bidoni di carburante e ha aperto «un distributore» in città. È uno sgabello con, sopra, una tanica mezza piena e una bottiglia vuota a lato come «contatore»: si fermano una-due moto per rifoirsi di tre litri. Sul lato opposto funziona un altro «distributore», gestito da un bambino: vende al dettaglio petrolio per illuminazione domestica, misurandolo con una scatoletta da sardine.
Chi si accaparra qualche fusto di carburante può diventare un commerciante a livello nazionale: lo vende ai rifornitori, che percorrono anche 700 chilometri in bicicletta con quattro taniche da 20 litri. È l’unico mezzo di trasporto anche per capre e maiali.
Un litro di benzina costa 3 milioni di nouveaux zaires (moneta locale), l’equivalente di un dollaro Usa. Questo prezzo risale al maggio scorso; un mese prima la benzina valeva 2.500.000 nouveaux zaires. Il che significa che l’inflazione è alle stelle, con sacchi e sacchi di carta-moneta. «Questa cassa – indica Dario Gramuglia, tecnico nell’ospedale di Neisu – è zeppa di grosse banconote, per un valore complessivo di 15 dollari». La cassa misura 56 centimetri di larghezza e lunghezza e 72 di altezza.
Per 3 milioni di nouveaux zaires si vende una gallina e si acquistano tre pacchetti di sigarette o una birra. Sigarette e birra, made in Rwanda, non è necessario importarle. Ma che lusso con salari da 5 dollari al mese!
«dagli atri muscosi…»
«Per pasqua mi piacerebbe essere a Pawa» confida padre Giano, consigliere generale dei missionari della Consolata, che ha lavorato in quella missione tre anni. «È già programmato» risponde padre Rinaldo. Mi accodo anch’io. Un safari di 52 chilometri in Land Rover, su una strada internazionale, della durata di tre ore. «Perché in Congo non esistono più strade, degne di tale nome».
Lasciamo, dunque, Isiro. La città conserva ancora qualche brandello d’asfalto, ma non c’è luce né acqua. Eppure, fino agli anni ’80, era vivace e festosa, con donne elegantissime, musiche e danze. Vi trovavi di tutto: dal whisky al frac per il gala raffinato. Anche se i voli non erano regolari, l’aeroporto era un viavai di commercianti. Ma il nefasto regime di Mobutu, le angherie dei funzionari pubblici, la guerra di Kabila e l’occupazione dell’Uganda… «Che tristezza, l’altro giorno, quell’aeroporto così sporco e polveroso!» conclude padre Giano.
«Dagli atri muscosi» e «dai fori cadenti» di Isiro emerge la banca, chiusa a tempo indeterminato con una catena arrugginita. Anche i missionari vi depositavano il denaro. Ma, invece di riscuotere qualche interesse, si vedevano continuamente assottigliare la somma. Tutto normale secondo il direttore della banca, che non lesinava il sarcasmo: «Dovreste esserci grati, perché custodiamo con cura i vostri capitali».
Sulla facciata del palazzo di giustizia campeggia la scritta dura lex sed lex. E padre Rinaldo commenta: «È stata proprio la mancata applicazione delle leggi a condurre il Congo-Zaire allo sfacelo».
All’uscita da Isiro, uno stop per il controllo da parte dei soldati ugandesi. Solo una formalità, per fortuna. E riprendiamo il safari.
Il territorio vanta notevoli potenzialità agricole: riso, soia, granoturco, arachidi, fagioli, frutta, come pure cotone e caffè. Negli anni ’60 il Congo produceva 60 mila tonnellate di caffè. Oggi la produzione non supera le 2 mila tonnellate. Sul mercato di Isiro il caffè (già decorticato) viene svenduto agli ugandesi a 800 lire al chilo. «È niente. Però, se protesti, non ti danno neppure questo “niente”»: è lo sfogo amaro dell’unico produttore della zona.
«PREGHIAMO PER LA PACE»
«Ferma, ferma!» grida con affanno padre Rinaldo. A 40 metri, tre soldati «esigono» un passaggio. Sono congolesi alle dipendenze di ugandesi. Hanno camminato sotto il sole molte ore e la loro meta è ancora distante.
Padre Rinaldo, dopo essersi presentato come missionario, li intrattiene con qualche domanda.
– Come stanno i vostri camerati?
– Quali? Ugandesi o congolesi?
– Entrambi.
– Il capitano ugandese non ci paga… Però gli ugandesi sono migliori dei rwandesi, che uccidono la gente, ne estraggono il cervello e lo mangiano mescolato ad erbe bollite.
I rwandesi in Congo sono armati fino ai denti. Nel 1999 il Rwanda investì in armi 141 milioni di dollari. E il Fondo monetario internazionale (così severo sugli sprechi nel sud del mondo) approvò un prestito al regime di Kigali di 33 milioni di dollari…
Sto osservando un soldato dall’aspetto giovanissimo.
– Da quanto tempo fai il militare?
– Da due mesi.
– Perché, invece di fare la guerra, non vai a scuola?
– In Congo non ci sono scuole. E poi, se ci fossero, dovrei solo zappare il campo dei maestri.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
La risposta è troppo pronta per essere sincera. Che il ragazzo non abbia più di 12 anni traspare e dal viso e dalla statura. Certamente lo hanno imbeccato: «Ricordati che tu hai 16 anni». Tale infatti è l’età minima per l’arruolamento volontario di minorenni. L’hanno stabilito, il 21 gennaio scorso, le Nazioni Unite con un articolo sottoscritto da 70 nazioni. E ciò per smantellare l’esercito mondiale dei 300 mila bambini-soldato.
Prima di congedarci dal terzetto, padre Rinaldo afferma: «Amici, anche voi soffrite la guerra. Allora preghiamo tutti insieme per la pace».
A due chilometri da Pawa, padre Giano viene riconosciuto da due catechisti: e dire che vi mancava da 17 anni. Deve procedere a piedi, con alle spalle un corteo che l’osanna.
La missione è retta da padre Tarcisio Crestani. Gli consegno «il sacchetto dei grani del rosario», che ha «protetto» grappa e salami.
– Tarcisio, quante corone hai fatto?
– 26 mila in 26 anni di missione.
– Perché non insegni l’arte ad altri?
– Ho tentato varie volte. Ma la gente vuole solo i rosari delle mie mani. Li considera «più benedetti».
Padre Tarcisio è entusiasta del suo lavoro. E precisa: «Ci sono due missioni ad gentes: una dottrinale e una esperienziale. Credo nella prima e cerco di vivere la seconda. Ad gentes: stare con la gente ascoltando e camminando con tutti, magari anche a piedi, specie in tempo di guerra».
Una guerra economica
Ritornato ad Isiro, incontro nuovamente padre Simon Tshiani.
Padre Simon, quale congolese, come giudichi la guerra nel tuo paese?
– È una guerra soprattutto economica. Qui siamo sotto il controllo degli ugandesi: a loro non interessano i nostri problemi politici; essi mirano solo ad impadronirsi del nostro oro.
Ci sono già stati tre «cessate il fuoco». Ma la guerra continua. Perché?
– Tutte le forze in campo dicono di volere la pace, però alle loro condizioni: cioè esigono potere sul Congo, o economico o politico.
E il Congo sarà diviso?
– Questa è la grave minaccia che incombe. Però tutti i congolesi sono nettamente contrari.
In un paese vasto come il Congo, il federalismo può essere la soluzione dei problemi?
– Un governo centrale e unitario, con autonomie regionali, può essere una soluzione. Lo si è detto anche nella Conferenza nazionale, al tempo di Mobutu, per scrivere la nuova costituzione. Poi, nel 1996, le cose sono precipitate con la guerra di Kabila.
Il governo di Kabila è in grado di riprendere in mano il paese e di avere l’appoggio di tutti i congolesi?
– No, perché Kabila non è stato eletto dal popolo e perché è troppo legato alle città di Lubumbashi (con le sue ricchezze) e Kinshasa.
Allora come uscire dall’anarchia?
– Le Nazioni Unite impongano il ritiro delle forze straniere che hanno invaso il paese. Un volta sgombrato il campo, i congolesi devono prendere in mano le sorti del paese rilanciando la Conferenza nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche.
Come missionario della Consolata, ci tengo a dire anche questo: nonostante la guerra, noi continuiamo a lavorare. E «meritiamo» la solidarietà della Caritas italiana, di Missio e di tante persone generose…
Si fa avanti padre Rinaldo e annuncia che venerdì ci sarà l’aereo per il ritorno in Italia.
Ma venerdì non parto e neppure sabato. L’aereo sarebbe arrivato certissimamente domenica, alle ore 7 in punto. Passano le 7, le 8, le 9. A mezzogiorno il simpatico Rinaldo sorride: «Se in cielo comparirà un aereo, partirai». Compare alle ore 18.30.
Mi precipito all’aeroporto, carico la valigia nel piccolo bimotore e siedo. Poi… ritorno nella camera senza specchio di Isiro. «Signori, sono le 19.04! Troppo tardi per il decollo»: sono le parole del comandante.
Troppo tardi per quattro minuti.

Il giorno seguente, in volo verso Roma, ripenso all’aeroporto di Isiro: su una parete spicca una scatola vuota. È un orologio. Ma le lancette si sono arrestate, perché… il tempo si è fermato; poi sono addirittura scomparse, quasi a dire: in Congo il tempo non esiste più.
Intanto, sulla fertile terra rossa di Isiro e dintorni, le donne avanzano con pesanti carichi in testa.

La seconda guerra

u 1996, ottobre. I soldati dell’Alleanza delle forze democratiche di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi, Uganda, Stati Uniti e vari mercenari, iniziano da Uvira la conquista militare dello Zaire di Mobutu.

u 1997, 17 maggio. Le truppe dell’Alleanza occupano la capitale Kinshasa. Kabila si autoproclama capo dello stato. Lo Zaire diventa Repubblica democratica del Congo. Però sono sospesi i partiti. Il 7 settembre Mobutu muore in Marocco: lascia ai familiari 6 miliardi di dollari. Ha depredato il paese per 32 anni.

u 1998, 27 luglio. Kabila, dopo aver ringraziato Uganda e Rwanda, li invita a lasciare il paese. Ma gli ex alleati dichiarano la seconda guerra in Congo (la prima fu contro Mobutu). Kabila resiste, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia. I paesi stranieri, presenti in Congo, mirano alle risorse agricole e minerarie del paese.

u 1999, luglio. A Lusaka (Zambia) le parti coinvolte nel conflitto in Congo firmano un accordo di pace che prevede: ritiro delle truppe straniere dal paese, rispetto della sua integrità nazionale, instaurazione della democrazia. Il «cessate il fuoco» non regge. Intanto gli Stati Uniti simpatizzano per l’Uganda e il Rwanda (che però si combattono), mentre la Francia ammicca a Kabila. Gruppi di ribelli congolesi fanno sapere che se, il paese verrà diviso (come si dice), sceglieranno la strada della guerriglia.

u 2000, 14 aprile. Ancora un «cessate il fuoco», firmato a Kampala (Uganda) da tutti i contendenti. Però il 5 maggio, alla periferia di Kisangani, soldati rwandesi e ugandesi si danno battaglia. I combattimenti proseguono nelle settimane successive; viene colpita anche la cattedrale: mille morti, migliaia e migliaia di feriti e numerosi abitanti senza tetto in balia della fame e delle epidemie.
Il 17 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu intima l’ennesimo «stop» ai due belligeranti e il ritiro di tutte le forze. Ma l’anarchia politico-militare continua.

>b>Gli attori della tragedia

I n Congo la seconda guerra, scoppiata nell’agosto 1998 e tuttora in corso, ha causato numerose vittime. Le cifre sono assai confuse: si va da un minimo di 100.000 morti ad un massimo di 1.700.000. È uno scontro moderno e primitivo ad un tempo: con elicotteri, armi automatiche e aerei da bombardamento, ma anche con rozzi fucili e machete, mentre i soldati (talora ragazzi) sbucano dalla foresta. È pure un conflitto interafricano e mondiale.

p L’esercito di Kabila
conta 70 mila uomini, ma poco addestrati e mal pagati; però è sostenuto dalle seguenti nazioni:
– Zimbabwe (7-11mila soldati); la ricompensa è l’accesso alle miniere di diamanti;
– Namibia, che (sull’«esempio dello Zimbabwe») ha inviato 2 mila uomini;
– Angola: è con Kabila per debellare i guerriglieri dell’Unita (un tempo protetti da Mobutu), come pure per rendere più operativa la propria compagnia petrolifera «Sonangol-Congo»;
– Sudan: offre a Kabila aerei militari per bombardare i ribelli congolesi nel nord-est; ma il governo di Khartum smentisce.

p Il fronte contro Kabila
è più contradittorio; vi militano:
– tre gruppi di ribelli congolesi (10 mila soldati di Bemba, 10-15 mila di Ilunga e 4 mila di Wamba); Bemba, Ilunga e Wamba sono «signori della guerra»;
– i guerrieri congolesi mayi-mayi: operano nel Kivu e, protetti da un’acqua magica, si ritengono invulnerabili;
– le milizie degli hutu (diverse migliaia): già responsabili di massacri di tutsi in Rwanda nel 1994, oggi hanno in mano le miniere di diamanti di Mbuji Mayi;
– 9 mila soldati ugandesi: affermano di «essere costretti» a difendere le frontiere del loro paese; in realtà sono in Congo per accaparrarsi i suoi beni; appoggiano Wamba e Bemba;
– 10 mila soldati rwandesi: anch’essi «devono» proteggere il loro paese dai fuggiaschi hutu che hanno trovato rifugio in Congo; ai rwandesi si ascrivono saccheggi di chiese e atti di cannibalismo; appoggiano Ilunga.
Lo stato di anarchia in Congo raggiunge l’apice con gli ugandesi e i rwandesi che, mentre combattono Kabila, sono pure ai ferri corti fra loro. Di qui gli scontri a Kisangani, città strategica per lo smercio di preziosi.

I n questo tragico caos, l’8 maggio scorso la Segreteria di stato del Vaticano ha inoltrato alle Nazioni Unite, all’Organizzazione per l’Unità africana, all’Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia… un documento, redatto a Roma da otto vescovi congolesi.
Il documento denuncia l’aggressione di truppe straniere, ritenuta «una nuova colonizzazione vergognosa»; sollecita l’intervento serio ed efficace della comunità internazionale, ma non con la vendita di armi. Al riguardo, sotto accusa sono Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti e Israele.
I vescovi, infine, stigmatizzano il tentativo di imbrigliare la chiesa «nelle ideologie delle diverse fazioni in guerra e di impedire ad alcuni pastori di esercitare il loro ministero». Il riferimento è a monsignor Emanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, al quale i ribelli di Ilunga impediscono di rientrare nella sua diocesi.

Francesco Beardi




La trappola delle monoculture

Signor direttore, dopo la lettura dell’editoriale «Il bacio della vergogna» (Missioni Consolata, maggio 2000), desidero fare un paio di considerazioni.

1. Se è vero che la decisione dell’Unione europea del 15 marzo favorisce le multinazionali e danneggia i paesi produttori di cacao, è altrettanto vero che, prima di tale provvedimento, i produttori erano tutt’altro che agevolati dal mercato e dal comportamento dei consumatori. L’eccessiva dipendenza dal cacao è fonte di debolezza economica per tutti i paesi della fascia tropicale, perché il suo prezzo viene fissato in base ai capricci degli speculatori occidentali, non in base a considerazioni di equità sociale.
Il vero dramma è la scarsissima attenzione per i canali del commercio alternativo. La variazione dei parametri sul tasso di burro di cacao è solo la conseguenza di un sistema di strapotere, che si è potuto consolidare grazie ai tanti «puristi» del cioccolato che oggi protestano, unendo la loro voce a quella degli ecologisti e dei missionari.

2. È riduttivo parlare di rischi per la salute facendo riferimento all’uso di cacao o surrogati ottenuti da piante geneticamente modificate. La prima modifica di cui si dovrebbe parlare è quella dei territori trasformati in enormi piantagioni di cacao.
In Costa d’Avorio, Ghana, Camerun, Nigeria la monocoltura del cacao è stata una delle principali cause della distruzione della foresta pluviale tropicale, la culla della biodiversità. Perfino le aree protette, spesso sotto l’egida dell’Unione europea e dell’Unesco (è il caso del parco nazionale Tai in Costa d’Avorio e del parco Dja in Camerun, dove vivono anche alcune comunità di pigmei baka), sono minacciate da un’agricoltura cacao-caffè-dipendente, che non tiene in alcun conto né delle esigenze dell’ambiente né delle necessità alimentari delle popolazioni locali.
Quanto a padre Giacinto Franzoi, lo apprezzo perché ha il coraggio di affrontare certi temi in chiesa. È vero che il cacao è meglio della coca: ho l’impressione però che limitarsi a questo non sia proprio ciò che ci vuole per aiutare le persone a prendere coscienza dell’importanza delle foreste naturali.
Dal punto di vista ecologico, le monocolture di cacao sono state un vero disastro: se desideriamo davvero riconvertire l’agricoltura insana, diamo alla foresta pluviale almeno un po’ dello spazio che ha perduto, invece di continuare a incoraggiare un consumo che porterà soltanto altri danni all’ambiente e all’uomo.
Tutelando le foreste tuteliamo gli ultimi polmoni verdi del pianeta, tuteliamo la vita e ciò che è essenziale alla vita; invece, tutelando il consumo di cacao vecchia maniera, diciamo sì al superfluo, sì all’ingordigia e prepariamo il terreno ad altre eurotruffe: cacao ad alto rendimento, cacao ad elevato contenuto di teobromina, cacao ad effetto afrodisiaco, ecc.
Francesco Rondina – Fano (PS)

Un editoriale è una provocazione, oltre che una riflessione. I rilievi del signor Francesco Rondina (che sostanzialmente condividiamo) lo confermano. Alle sue considerazioni ne aggiungiamo altrettante.

1. Nel sud del mondo i prodotti delle monocolture sono destinati soprattutto all’esportazione e, quindi, all’acquisto di valuta pregiata. È lo stesso Fondo monetario internazionale che preme sui paesi in via di sviluppo affinché ne adottino il sistema, che dovrebbe consentire loro d’incamerare dollari anche per pagare il debito estero.
Però i risultati sono tutt’altro che certi, perché il prezzo dei prodotti esportati è molto instabile sul mercato mondiale. È noto, per esempio, il dramma del Senegal che, dopo essersi dedicato alla monocoltura dell’arachide, con il crollo del suo prezzo, si è ritrovato montagne di noccioline invendute. Per non parlare della desertificazione del suolo che l’arachide produce.

2. Il cacao dei contadini di padre Giacinto Franzoi è «una» delle coltivazioni alternative della coca, i cui effetti devastanti sono certamente superiori a quelli del cacao, specialmente sotto il profilo umano.
Esistono anche piantagioni di caucciù, nonché l’allevamento di animali terrestri ed acquatici, tipici dell’Amazzonia colombiana. Senza scordare le piante ed erbe medicinali, fra cui spicca l’uncaria tomentosa («unghia di gatto»).

Francesco Rondina




Le pattumiere nucleari

Egregio direttore, faccio seguito alla mia lettera del 31 marzo per inviarle la risposta pervenutami dalla Commissione europea che, a quanto leggo, sembra sensibile ed interessata alla situazione creatasi nella città di Severodvinsk (Russia) e già all’opera (o lo è stata).
Forse più interventi e segnalazioni, specie se cornordinati, potrebbero spingere l’Unione europea ad interessarsi maggiormente al problema dell’inquinamento, sia a livello politico che tecnico-umanitario.
Piero Lanino – Palermo

L’architetto Lanino è stato colpito dall’articolo titolato «Fabbrica di sordomuti», conseguenza della «pattumiera nucleare» di Severodvinsk (cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000). Allarmato, ne ha inviato copia alla Commissione europea, lanciando un appello affinché sensibilizzi l’opinione pubblica su una ignorata «Cheobyl al rallentatore». Questa è la risposta ricevuta.

E gregio architetto Lanino, il professor Prodi, presidente della Commissione europea, la signora Wallström, commissaria per l’ambiente e la sicurezza nucleare, e il commissario Nielson mi hanno trasmesso la sua lettera dello scorso 5 marzo, di cui la ringraziamo.
L’appello da lei lanciato per sensibilizzare istituzioni e autorità italiane ed europee sulla tragedia della popolazione di Severodvinsk ci commuove, ma purtroppo non ci sorprende. I servizi della Commissione cercano, infatti, da anni di impiegare nel modo più efficace possibile le scarse risorse finanziarie di cui dispongono per intervenire nel settore. Ad esempio, recentemente abbiamo finanziato un progetto volto a migliorare la gestione dei rifiuti radioattivi a Severodvinsk. Il progetto ha anche il compito di indagare sulle conseguenze radiologiche dello scarico di sostanze liquide radioattive nella rete fognaria della regione, avvenuto nel 1990.
Questo progetto non è una iniziativa isolata, ma fa parte delle azioni della Commissione europea nella Russia nordoccidentale, in cui esistono numerose zone potenzialmente altrettanto pericolose come Severodvinsk.
D’altra parte, è necessario contribuire a ridurre le conseguenze radiologiche di cui soffre la popolazione locale, anche per evitare che esse si estendano alla penisola scandinava e colpiscano i cittadini comunitari.
Sono d’accordo con lei: bisogna attirare l’attenzione della comunità internazionale su questa situazione ed altre simili. Al riguardo, i miei servizi effettueranno delle ricerche in collaborazione con i ministeri russi competenti e non mancheranno di rendere pubblici i risultati di tali ricerche.
Le porgo i miei più distinti saluti.
J. Fr. Verstrynge, Deputy Director-General,
Bruxelles, 25/04/2000

aa.vv.




Insultato l’onorevole Colombo

Spettabile redazione,
l’articolo di Angela Lano (Missioni Consolata, giugno 2000) è molto curioso ed è diviso in due parti. Nella prima l’autrice conferma ciò che ho scritto su la Repubblica; nella seconda conclude con espressioni offensive (emozione, disinformazione, ignoranza, superficialità), che sono tanto più gravi perché smentite dalla prima parte dell’articolo.
Sono stupito di un testo così illogico, di un comportamento così incoerente e dal curioso desiderio di trasformare un dissenso in insulto, strano per una rivista missionaria.
Furio Colombo
Roma

«Citare» non è necessariamente «confermare»…
Sia Furio Colombo sia Angela Lano parlano della scuola matea di Via Cecchi (Torino), con una differenza: mentre il primo è in parlamento, la seconda è un’insegnante e opera come giornalista nell’ambito dell’immigrazione islamica.
Per l’onorevole le lezioni di arabo «solo per bambini arabi» ledono la costituzione italiana. Ma l’insegnante precisa che le lezioni sono un’alternativa all’ora di religione cattolica per chi cattolico non è; e ascrive al parlamentare disinformazione.
L’informazione corretta è un dovere, specie per una rivista missionaria,

Furio Colombo




Indulgenza, per favore!

Caro direttore,
mi sono domandato tante volte (e sempre con tristezza) perché il cattolicesimo, nel momento dell’attuale giubileo, abbia rinunciato ad utilizzare il tema delle «indulgenze» per ammorbidire il dissidio, ridurre le distanze che lo separano dal protestantesimo e, invece, sia prevalsa la tesi dell’atteggiamento intransigente e vecchia-maniera: debito di colpa, debito di pena, tesoro della chiesa…
Sono concetti che il messaggio di Gesù spazza via «come il vento orientale che squarcia le navi di Tarsis». Ma tant’è! Così è andata persa l’occasione per abbattere un pezzo di muro… Però qualcosa è successo: proprio dal papa ci è venuto un esempio e un monito formidabile.
Io vorrei mandare un pensiero di affetto e un piccolo contributo al tormento di quell’uomo che, tutto solo, contro ogni dubbio e armato soltanto delle sue convinzioni, ha saputo chiedere perdono e dire «mai più». E sia questo, almeno, il mio modo di togliermi il cappello davanti a lui.
Sergio Briatta
Torino

Le parole, oltre che macigni, possono essere pure carezza, sollievo, consolazione. Ad esempio: «indulgenza» (dal latino indulgeo) significa comprensione, clemenza, propensione al perdono, disponibilità a scusare colpe altrui. Tale indulgenza è in «vendita»?

Sergio Briatta




Non tutto fa brodo!

Egregio direttore,
leggendo su Missioni Consolata di maggio scorso il trafiletto «Qualcosa d’incomprensibile», mi consenta un pizzico di sgomento.
Se per ogni religione c’è «la sua porta d’ingresso al paradiso» su piede pari, che significa allora magistero? Che significa evangelizzare? Ogni via è buona: tutto fa brodo. Mi potrò rivolgere al New Age in buona coscienza?
Mario Rizzonelli
Dro (TN)

La porta del paradiso si apre nella misura in cui il singolo crede e obbedisce al magistero e mistero della bontà-misericordia di Dio. Non tutto «fa brodo». È quanto si desume anche dal citato «romanzo ecumenico» Le chiavi del regno di Joseph Cronin.

Mario Rizzonelli




“Corno d’Africa”: le colpe dei governi

Cari amici,
nella guerra Etiopia-Eritrea muoiono migliaia di persone, mentre tante altre sono in grave pericolo, se non vengono soccorse con urgenza. La gente (che aveva seminato parecchie volte) ha perso i raccolti a causa della siccità. Ma il governo non ha immagazzinato risorse idriche costruendo dighe. Non essendo cresciuta l’erba per gli animali, le bestie diventano ora carcasse e la gente segue la loro stessa sorte.
Ha una bella faccia tosta il primo ministro a dire che non è colpa dei governanti se manca il cibo. Certo, non è colpa loro se non piove. Però, se non si sono dati una mossa per creare in tempo delle scorte, se non hanno razionalizzato l’agricoltura… di chi è la colpa?
Dopo aver ricevuto gratis derrate alimentari da tanti paesi, è responsabilità loro (eccome!) averle vendute per pagare le spese di guerra. Così i servizi di prima necessità sono stati abbandonati con la scusa che, per prima cosa, bisogna difendere la sovranità territoriale. È una colpa il non aver trovato un’intesa per risolvere il conflitto in modo umano, e non così selvaggiamente come hanno fatto. È un delitto usare i giovani per distruggere, ammazzare.
Ora persino gli aiuti di emergenza (che noi missionari dovremmo distribuire alla gente) andranno in parte in mano ai governanti, perché vogliono avee il monopolio. Speriamo nella protesta delle Organizzazioni inteazionali… Però ho poche speranze, perché prima bisognerebbe cambiare certe teste.
Ho visto troppe persone sicure di sé e orgogliose, come il «don Rodrigo della forca». È un’espressione spagnola per dire: c’è chi, con la fune al collo, si vanta di essere un nobile e dichiara di morire da innocente. Eppure è un assassino… Nel «Coo d’Africa» i poveri possono nuotare nella melma, ma i capi diranno sempre che si tratta di «fanghi», buoni per i reumatismi!
Lettera firmata
Addis Abeba (Etiopia)

Denuncia amara quanto giusta. Su questo numero facciamo il punto della «guerra tutta pazza» tra Etiopia ed Eritrea (vedi pagina 47).

Lettera firmata




E’ indispensabile credere nelle religione cattolica?

Signor direttore,
vorrei essere confortato dal parere di un credente: è indispensabile credere nella religione cattolica per essere degno di entrare nel regno dei cieli? Oppure è sufficiente comportarsi in modo da non fare del male ad alcuno, anche senza professare nessuna religione tradizionale?
Ho letto molti vostri servizi da tutto il mondo, nei quali vengono evidenziati genocidi, tragedie, sfruttamento di poveri, donne, minori, ecc.
In generale le vittime appartengono al terzo e quarto mondo, dove vige solo la regola della sopraffazione e dove non si comprende più se i popoli possono ancora essere considerati umani, oppure cose da abusare e gettare, senza che i responsabili provino alcuna emozione.
I responsabili sono soprattutto coloro che, per avere maggiori guadagni, si avvalgono di tanta miseria per maggiormente arricchirsi, pur essendo coscienti che quelle persone perseguitate e sfruttate appartengono alla stessa umanità di cui essi fanno parte e hanno gli stessi bisogni.
Pio Moacchi
Savona

Primo. Oggi l’umanità supera i 6 miliardi di persone, di cui solo 1 miliardo circa si professa cattolico. Ed è assurdo pensare che i restanti 5 miliardi di uomini e donne non possano entrare nel «regno dei cieli», essendo tutti figli dello stesso Padre. Tuttavia, per salvarsi, non basta evitare il male; bisogna compiere il bene. Al riguardo il giudizio finale, descritto dal vangelo di Matteo (25, 31-46), è esplicito.
Secondo. Sete di guadagno, sfruttamento, sopraffazione… non hanno attenuanti. E, se ciò avviene nel cosciente disprezzo dei poveri, è come «impugnare la verità conosciuta», cioè un peccato contro lo Spirito Santo.

Pio Moacchi