Tanti sconosciuti

Egregio direttore,
ho molto apprezzato Missioni Consolata di luglio-agosto 2000 sulla storia dell’evangelizzazione.
Tanti santi testimoni (vescovi, sacerdoti e laici) sono poco conosciuti. Vi chiedo, pertanto, di fornire titoli di libri sulla loro vita. Per esempio, ho letto con piacere Il mago dell’occidente di Giuliana Berlinguer, Edizioni Giunti. Chissà quanti altri libri avvincenti esistono, di cui non conosco l’esistenza!

Suggeriamo, fra tanti, i seguenti volumi:
– Benedetto Bellesi, Uomini e donne senza frontiere, Emi, Bologna; – Assunta Tagliaferri, Africa: Dio ha bisogno di testimoni e America Latina fecondata dai martiri, Cum, Verona; – Antonio Nanni, I timonieri, Emi, Bologna.
I libri sono acquistabili da «Missioni Consolata»,
Corso Ferrucci 12 bis
10138 Torino
tel 011/44.76.695.
Buona lettura e complimenti per il suo interesse.

Delfina Gouthier




Quella missionaria travolta…

Cari missionari,
durante l’anno giubilare voglio ricordare una vostra consorella, di cui non ho mai saputo il nome.
Nel 1987, in estate, passavo in pullman per Corso Allamano (TO) ed ero ancora sconvolta dalla recente scomparsa di mio padre. Improvvisamente l’autobus si fermò: una suora, ancor giovane, era morta di schianto travolta da un’auto.
Pensai che quella missionaria era stata uccisa da un «attrezzo» il quale, pur con la sua utilità, spesso diventa il simbolo del consumismo: un consumismo a cui la suora aveva detto NO con la scelta di una vita spesa a servizio dei più poveri.
In quella tragica morte per incidente stradale, così consueta nella società industriale avanzata, la missionaria trovò il suggello definitivo della sua consacrazione, il suo martirio, la conclusione della sua operosa testimonianza.
Quell’episodio ha segnato in modo indelebile la mia memoria…
Lettera firmata
Lusea S. Giovanni (TO)

La lettrice (che ha chiesto l’anonimato) si riferisce a suor Ermenegilda Rossi.

lettera firmata




Per vivere meglio…

Cara redazione,
Missioni Consolata ha ospitato l’articolo «Millennium bluff?» di Alessandro Marescotti, che ripete alla noia un tema caro alle riviste missionarie, e non solo: il tema della ricchezza scandalosa del mondo occidentale, offensiva nei confronti del terzo mondo. C’è un enorme errore alla base della polemica, dovuto ad ignoranza.
Quei tre milioni di miliardi di lire, spesi da alcuni paesi, erano denari di fatturato, andati ad accrescere il prodotto interno lordo. Quindi si tratta di ricchezza e anche di costo (e fatturazione) per quanto la gente ha consumato in telefono, viaggi, medicine, scommesse al lotto, luce elettrica, benzina. Inoltre quei soldi sono serviti per acquistare appartamenti, camicie, sigarette…
Bisogna dire al signor Marescotti (e ad altri benpensanti) che la ricchezza di un paese è la sommatoria di tutti i beni e servizi: vengono prodotti per essere consumati. Sissignori, si produce solo ciò che si consuma. Se si consuma poco, si produce poco: quindi c’è meno ricchezza e più disoccupazione! Non esiste ricchezza (se non transitoria), estranea alla produzione e al consumo!
Si pensi ai paesi non «ricchi», ma neanche poveri: Cile, Libia, Lituania, Ungheria… Chiedete a Marescotti quale aiuto economico viene elargito da questi paesi al terzo mondo rispetto a quanto è inviato da Italia, Germania, Francia, Stati Uniti… Cile, Libia, ecc. (di cui dovremmo seguire l’esempio) consumano di meno, non per scelta, ma per necessità contingente, data la loro economia; però non hanno alcuna risorsa da destinare al terzo mondo per il solo fatto che consumano di meno.
Le doverose elargizioni al terzo mondo, sia dei privati sia degli stati, hanno l’effetto, non traducendosi in consumi interni, di fare lievitare un poco i costi. L’aumento è tanto minore quanto più prospere sono le economie. Questo spiega perché i maggiori contributi, per alleviare la fame nel mondo, vengono dai paesi ricchi.
So che questa lettera non verrà pubblicata, perché si discosta troppo da una certa cultura cattolica. Però, come minimo, fate presente a Marescotti (e amici) queste considerazioni, onde evitare le troppo frequenti e vergognose demonizzazioni del nostro modo di vivere il problema economico.
Talora, invece di ritiri (dedicati ad esortare alla preghiera, al sacrificio, allo spirito di povertà), ritengo più utile qualche riflessione, sapientemente condotta da esperti, sui più elementari concetti inerenti all’economia.

Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, ha scritto che i 3 milioni di miliardi di lire spesi per fronteggiare il temuto «baco del millennio» (1° gennaio 2000) sono stati un bluff: perché i soldi impiegati sono stati spropositati e perché sono finiti ai grandi esperti e alle multinazionali dell’informatica. E ciò in barba ai drammi non solo del sud del mondo, ma anche di casa nostra: si pensi al problema «giovani» nel sud del nostro «stivale».
Se l’unica e giusta economia è quella del consumo (che dilaga in consumismo), come spiegare la forbice tra ricchi e poveri? Il divario cresce sempre più: nel 1820 la distanza tra paesi ricchi e quelli poveri era di 3 a 1, mentre nel 1992 è stata di 72 a 1. L’attuale sistema economico non distribuisce la ricchezza che crea. O distribuisce briciole.
Riteniamo che, alla filosofia del consumo, si debba preferire quella della «sobrietà felice»: per vivere tutti meglio, consumando meglio. Ce lo ricordano pure alcuni docenti universitari, che ci insegnano economia alla «Scuola per l’alternativa».

Eraldo Cerruti




E per penitenza…

C ari lettori di «Missioni Consolata», mi rivolgo a voi, anche se non sono abbonato alla rivista, per augurarvi «buon natale». Scrivo soprattutto per «penitenza».
Sono uno dei due milioni di giovani che hanno celebrato il giubileo a Roma, anche se non sono più un ragazzo, dati i miei 28 anni. Durante la manifestazione ho cantato molto (pur non essendo un Jovanotti), memore di un missionario che diceva: «Tra noi, giovani di 40 anni fa, e voi non noto grandi differenze, eccetto questa: noi cantavamo e voi… ascoltate. Non vi mancano musiche, ma poche sono cantabili: e, non essendo tali, si tramutano in alienazione. Noi invece cantavamo tutti a squarciagola sulle piazze».
Concordo con quel missionario. Tra l’altro, dischi e cassette di musica «solo da ascoltare» coprono affari da miliardi. Personalmente ho rifiutato il walkman e l’auricolare. Abbasso pure il cellulare alla cintura!
Alcuni, da «destra», hanno esaltato «la faccia pulita» dei ragazzi del giubileo e altri, da «sinistra», ne hanno denunciato l’assenza di spirito politico critico. I mass-media hanno peccato di grave superficialità. Come si fa ad omologare due milioni di persone di cultura diversa?
Va detto che non tutti i «papa-boys» inneggiano alla gioia di vivere. Domingo Das Neves, per esempio, ha la morte in cuore.
Domingo, dell’Angola, la notte del 19 agosto ha offerto a tutti la seguente testimonianza: «Ho 25 anni. Durante la guerra civile, che insanguina il mio paese e che non sembra finire più, ho perso i genitori e poi anche il fratello maggiore con il quale vivevo. Ho perdonato chi ha ucciso i miei cari» (Ndr: vedi la foto con il papa).
Qualcuno ha lamentato che, al giubileo dei giovani, sia mancata la voce del terzo mondo. Domingo però erà là, con la sua triplice disgrazia: perché albino (senza difesa immunitaria, nonché discriminato dai neri); perché orfano a causa delle bombe acquistate con diamanti; perché africano (cioè un «esubero» nella politica delle potenze mondiali). Perché pochissimi hanno ascoltato Domingo? Forse perché il suo perdono dà fastidio?
Sono domande cui quasi nessuno risponde.

D opo l’adunata nella capitale, si è svolto a Rimini il Meeting di Comunione e liberazione, durante il quale alcuni giovani del giubileo hanno inneggiato al papa, come pure a Berlusconi. No, qui non ci sto.
Non si può applaudire, nello stesso tempo, il campione del neoliberismo e chi ne denuncia i guasti che ricadono soprattutto sui poveri.
Cari amici di Missioni Consolata, questa lettera si addice poco agli auguri natalizi. Ma non mi piacciono le parole vuote. Preferisco queste: «Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo». Quel Cristo che ha gradito le 50 lire di una povera vedova e ha rifiutato i 50 miliardi di…
Eros Benvenuto

Eros Benvenuto




Finale a più voci – Speciale BRASILE

Voi siete dentro la nostra casa. Siete dentro il cuore del nostro popolo, che è la terra che tutti state calpestando. Questa è terra nostra. Quando voi siete arrivati qui, questa terra era già nostra…
Per questo esigiamo la demarcazione dei nostri territori, il rispetto per le nostre culture, condizioni per la sopravvivenza, educazione, salute… e punizioni dei responsabili delle aggressioni ai popoli indigeni.
Siamo in lutto. Fino a quando? Non vi vergognate di questa memoria che sta nella nostra anima e nel nostro cuore? La racconteremo di nuovo per la giustizia, la terra e la libertà.
Matalawê, indio pataxó
(messa di commemorazione dei 500 anni)

Il grande errore è pensare che il Brasile abbia avuto inizio con la venuta dei portoghesi. Pare che la storia del Brasile sia cominciata nel 1500 e che, prima, ci sia solo preistoria. Purtroppo la storia ufficiale è quella dei vincitori e non dei vinti.
Dal punto di vista della mia fede, lo Spirito del Signore aveva già seminato i valori del vangelo, anche se in forma implicita, nella storia dei popoli indigeni, nelle loro sofferenze e tradizioni religiose. Quando sono arrivati i missionari, con la mentalità di quell’epoca e l’assenza dell’antropologia culturale, che ancora non era nata, essi pensarono di essere di fronte al demonio e distrussero tutto. Ma ora siamo in condizione di dire che in quei valori era già presente lo Spirito del Signore…
mons. Franco Masserdotti
vescovo di Balsas e presidente del Cimi

Nonostante gli aspetti positivi del passato, sono rimasti segni negativi, frutto anche di errori dei cristiani. Senza incolpare i nostri antenati, sentiamo la necessità di chiedere perdono per ciò che è andato contro il vangelo e ha ferito gravemente la dignità umana e molti nostri fratelli e sorelle.
Agli indios furono tolte le terre, la vita e persino la ragione di vivere. Ai neri fu negata la libertà e ostacolata la conservazione della loro cultura e della loro memoria e fino ad oggi non è stata restituita loro la condizione di piena cittadinanza.
Inoltre la situazione di estrema povertà del popolo. Essa ha radici nella storia di esclusione della società brasiliana. La popolazione povera, insieme a indios e neri, è creditrice di un immenso debito sociale, accumulato durante i secoli della formazione del nostro popolo.
Cnbb
(documento dei vescovi brasiliani)

C i sono diversi modi di vedere il fenomeno storico della conquista. Alcuni lo vedono dalle caravelle e per essi tutto è gloria… La prospettiva che io difendo consiste nel vedere il processo dalla spiaggia, integrandolo con quello che è il risultato di questo scontro di civilizzazione, che è culminato in un sincretismo, in una mescolanza di razze e religioni.
Siamo il figlio «non voluto» dell’Europa. Volevano arrivare alle Indie e ci hanno trovato sulla loro strada, accidentalmente. E forse per questo siamo i più ribelli. Siamo una mescolanza di indigeni, neri, asiatici, europei, ma ci sentiamo brasiliani e latinoamericani, non europei.
Leonardo Boff
teologo della liberazione

Indipendentemente dalle ragioni che portarono i portoghesi ad approdare in Brasile e iniziare la colonizzazione-dominazione, il fatto è che abbiamo ricevuto con essi la buona novella di Gesù Cristo.
Da loro ereditiamo un tesoro più grande di quello che portarono via di qui: ereditiamo la fede, il vangelo, l’eucaristia, la salvezza, Nostra Signora. Ed è per questo motivo che dobbiamo celebrare i 500 anni della scoperta, che sono anche 500 anni di evangelizzazione.
mons. José Edson Santana
vescovo di Eunápolis

Non è possibile tracciare il profilo storico del Brasile, senza considerare la presenza della chiesa cattolica. Chi più aiutò a civilizzare le popolazioni indigene che il lavoro missionario? Chi più ha fatto per l’istruzione del popolo che la chiesa? Chi più si è adoperato per la moralizzazione della famiglia, per la pace e la concordia dei cittadini che la stessa chiesa? Come non ricordare la chiesa come colei che ha difeso la dignità umana e i valori culturali dei popoli indigeni presenti in epoca coloniale e la sua tenace opposizione alla schiavitù? Quello che sono oggi i brasiliani lo devono alla generosa dedizione di numerosi cristiani che si sono consacrati alla causa della fede, a volte anche a costo della vita.
card. Angelo Sodano
segretario di stato del Vaticano

L a sfida è la disuguaglianza sociale. Il Brasile ha un’unità territoriale, ma non una condizione di uguaglianza. Nascondere e negare i conflitti interessa ai dominatori, non ai dominati. I conflitti rivelano che c’è insoddisfazione sociale, lotta reale o potenziale e possibilità di mutamento. A chi si avvantaggia del potere non interessa il cambiamento. Il giusto criterio per giudicare i governi e i tempi della storia dovrebbe essere: hanno essi contribuito o meno a superare le disuguaglianze nel paese?
In questi 500 anni il nostro popolo povero ha conquistato il diritto di gridare che ha fame, ma non ha ancora conquistato il diritto di mangiare.
Luis Inacio Lula da Silva
tre volte candidato alla presidenza della repubblica

aa.vv.




E per il santo minacce ed improperi – Speciale BRASILE

La religiosità popolare non è superstizione, ignoranza
o fanatismo.
È manifestare la fede attraverso il vissuto personale e quotidiano.
Nel corso dei secoli si è cercato di emarginarla,
a vantaggio di un cattolicesimo più formale, dove sacro e profano rimangono distinti. Poi, grazie al Concilio Vaticano II, i pregiudizi sono venuti meno…

La tematica della religiosità popolare è avvincente. La gente comune si pone davanti al problema di Dio in modo spontaneo ed emotivo. E vuole affrontare in forma diretta e semplice i grandi interrogativi che da sempre interessano l’umanità: il senso della vita, il perché della sofferenza, come vincerla, che cosa ci attende dopo la morte.
Prima di addentrarci nel tema, dobbiamo, in primo luogo, liberarci da preconcetti e pregiudizi che, già in partenza, riducono la religiosità popolare a fenomeno impregnato di superstizione e ignoranza. Le valutazioni aprioristiche hanno sempre condizionato le riflessioni su questo argomento.
La religiosità popolare aiuta a creare e conservare l’identità individuale e collettiva, divenendo anche una risorsa di evangelizzazione originaria e tipica. In molti casi, essa ha funzionato come reazione e pretesto contro l’oppressione politica e culturale dominante. Altre volte, ha reagito a situazioni di appiattimento religioso. Certamente la religiosità popolare è stato ed è un fenomeno che alterna segni di speranza per una vita in un mondo felice ad altri caratterizzati da anacronismo e alienazione.
Per capire la fede vissuta dal popolo, è necessario ripercorrere alcune fasi storiche che seguono l’evangelizzazione dell’America Latina e capire come la religione cattolica si è diffusa nel continente.

IL CATTOLICESIMO
DELLA GENTE

È un cattolicesimo formatosi tra gli immigrati portoghesi, durante la colonizzazione del Brasile.
Esso ha avuto una presenza significativa nelle zone rurali, dato che le città ancora non esistevano. La popolazione era formata da contadini che emigravano dall’Europa verso le terre nuove: portoghesi poveri, ma anche piccoli proprietari ed ex-galeotti ai quali veniva offerta la libertà di andare a popolare le nuove colonie; più tardi, si aggiunsero indios, strappati alle loro tribù, ed ex-schiavi.
Questa mescolanza di razze ed esperienze ha dato origine a un cattolicesimo tradizionale popolare, basato su elementi specifici che non passavano attraverso un catechismo programmatico e didattico, ma su una fede vissuta e mnemonica.
Possiamo presentare alcuni elementi diventati punti base della religiosità popolare: il santo, l’oratorio, la cappella e il santuario.

IL SANTO,
L’AMICO DELLA VITA

Il santo è uno degli elementi fondamentali del cattolicesimo popolare. Tutto gira intorno a lui. È oggetto della devozione personale; è motivo di raduno del piccolo nucleo familiare (oratorio); è l’occasione per la festa patronale nei piccoli centri (cappella); è meta di pellegrinaggi per grandi moltitudini (santuario).
La vita di ogni persona ha come centro e riferimento la devozione specifica e prorompente per il santo del cuore, che comprende aspetti personali e collettivi.
Ogni fedele si relaziona per tutta la vita con il santo. Conversa con lui, gli chiede protezione, lo ringrazia per le grazie ricevute. Ma è, perfino, contemplato il momento dell’arrabbiatura: quando il santo indugia o ritarda la grazia per la quale è stato sollecitato, il devoto può passare alle minacce, girando l’immagine di spalle, oppure declassandolo nella gerarchia dei santi, riempiendolo anche di improperi.
Il santo lo si interpella attraverso l’immagine, ma non si identifica con essa. L’immagine riassume sempre un potere sacrale e per questo, dopo che è stata benedetta, non la si compra, né si vende e tanto meno la si può gettare via come qualsiasi oggetto logoro, ma solo la si può scambiare con altri oggetti affini. È segno di grande rispetto riporre l’immagine rovinata dal tempo all’entrata della cappella, affinché sia responsabilità del sacerdote determinae la… «rottamazione».

L’ORATORIO FAMILIARE

L’oratorio è un piccolo altare dove viene appoggiata l’immagine del santo. Esso occupa un posto di particolare importanza, normalmente all’entrata della casa ed è centro della devozione familiare.
Attoo all’altarino, la famiglia si riunisce per pregare o per altre devozioni, tradizioni e abitudini. Particolare enfasi viene dedicata alla recita del rosario, condotto dal capo famiglia, con le litanie e varie giaculatorie. Quasi tutte le preghiere sono registrate nella memoria delle persone, anche perché un tempo pochissimi sapevano leggere o possedevano libri appropriati.
La casa è il luogo della tranquillità e della pace e tra le mura domestiche regna la protezione del santo.

DALLE CASE ALLE STRADE

La strada porta con sé un carattere profano e presenta situazioni di grandi pericoli. Il santo, racchiuso in una nicchia speciale, domina gli incroci o sorveglia le vie principali. È una presenza rassicurante per tutti i devoti, anche per coloro che vivono più lontani dal culto ufficiale. Le persone, che vi passano davanti prima di andare al lavoro, alzano gli occhi e incrociano lo sguardo benevolo del patrono, chiedendo protezione. Al ritorno lo ringraziano per i pericoli scampati, offrendo fiori o rami decorativi. Tutta la vita pubblica quotidiana è permeata dalla figura del santo e accompagna i fedeli in tutte le loro relazioni.
A volte, vicino al santo sono raffigurate le anime del purgatorio (a ricordo dei defunti che hanno subito una morte violenta per omicidi o incidenti) o anime di persone non battezzate. Secondo il detto popolare, queste sono «anime inquiete».
La figura del santo garantisce serenità ai passanti, esorcizzando il luogo dalle dicerie popolari che incutono disagio. La giaculatoria è sempre il lasciapassare più sicuro.
Ci sono, infine, degli oratori ambulanti. Si tratta di nicchie portatili che i vari eremiti portano con sé girovagando nei vari quartieri e contrade. Ci sono pure persone che hanno fatto voto al santo di divulgare la devozione e si affidano a questo girovagare per ottenere la grazia richiesta. Il popolo, attraverso questi incontri casuali, si mette in contatto con il santo, specialmente attraverso l’elemosina, che serve per edificare altri luoghi di devozione. Il tutto sempre accompagnato dalla preghiera interiore.

LA CAPPELLA

Quando si costituisce un nucleo di case o una piccola comunità paesana nasce pure l’esigenza di uno spazio sacro: è la cappella.
È quasi sempre costruita con un lavoro d’insieme, poiché tutti i membri della comunità sono tenuti a dedicarvi del lavoro e fare donazioni. È il luogo della devozione comune, dove il popolo fa le proprie preghiere, organizza le novene, decora la cappella e le adiacenze. Nella cappella si aspetta il missionario per celebrare la messa e distribuire i sacramenti. È in essa che si trova l’immagine del patrono con più poteri divini.
Il momento più significativo arriva con la festa annuale. I preparativi cominciano molto prima, con novene e devozioni. Circolano liste di offerte secondo le possibilità di ognuno. Tutti diventano persone che al santo sanno chiedere, ma sanno anche dare. La festa rappresenta la rottura con la monotonia della quotidianità e si entra con euforia in un nuovo tempo; anche il mangiare, il bere e perfino ballare aumentano la familiarità del gruppo e fanno sentire con più forza la protezione del divino.
È un cattolicesimo poco clericale e l’organizzazione della festa è lasciata nelle mani delle confrateite laiche, elette dalla comunità di appartenenza. Normalmente e, soprattutto nel tempo coloniale, la presenza del missionario era sporadica («pastorale di visita»). Eredità che si può constatare ancora nelle comunità rurali dell’interno, dove uomini (ma soprattutto donne) cornordinano preghiere, organizzano feste patronali. La presenza del sacerdote era richiesta solo per la celebrazione della messa.

I SANTUARI

Per le devozioni di massa, esistono i centri per grandi incontri: sono i santuari. In essi si trova l’immagine più importante del santo che esige il pellegrinaggio annuale da parte dei fedeli.
Attraverso questi pellegrinaggi, molte volte compiuti a piedi, tantissima gente prima sconosciuta, a poco a poco si trasforma in compagni di cammino con una meta comune: andare a conoscere il santo. Ritrovarsi nel santuario significa dimenticare tutta la sofferenza e i sacrifici sopportati per raggiungerlo. Tutte le tristezze e i problemi sono allontanati. Arrivare in quel luogo segna la speranza per una vita che ricomincia e si rinnova.
La forza del santuario è dovuta al lavoro dei laici, riuniti in confrateite. Essi non si sentono meri assistenti del luogo sacro, ma veri promotori della fede, assumendo la responsabilità del santuario, delle feste paesane, delle preghiere tradizionali: una vera mescolanza di sacro e profano.
Le confrateite di laici, iniziate nei tempi del «patronato», sono la colonna portante nell’area religiosa. Ancora oggi, con dovute trasformazioni, sono presenti ed efficaci nelle «Comunità ecclesiali di base».

L’ETICA PERSONALE
E SOCIALE

Tra il devoto e il santo vige un’etica di comportamento. È composta da precetti e leggi che regolano lo scambio di benefici ed aiuti reciproci. In quest’ottica, esiste anche (come abbiamo spiegato) la possibilità di «rivolta», quando il santo non rispetta le promesse fatte, dopo che il fedele ha fatto vari sacrifici per ottenere le grazie richieste.
Questo cattolicesimo ha un’etica anche per regolare le relazioni sociali. Nella sua concezione di ordine, esso cerca di riprodurre, in terra, l’ordine celeste. Se in cielo i protettori sono i santi, in terra il povero cerca protezione nei grandi e potenti.
La protezione dei ricchi è data in cambio della sottomissione e obbedienza da parte dei poveri. Si constata, pertanto, che il cattolicesimo popolare tradizionale non offre un modello di società egualitaria. Secondo questa mentalità, Dio ha creato gli uomini in forma differente, ricchi e poveri. Però il ricco e il potente hanno l’obbligo di proteggere il povero e di aiutare il debole, proprio come fanno i santi dal cielo.
Lo studioso Pedro de Oliveira afferma: «Questo modello di ordine sociale, in cui i santi controllano le forze naturali e dove Dio è Signore di tutto (come un buono e grande fazendeiro), è un modello pre-capitalista. Sulla terra, i deboli si appoggiano e ricorrono al più forte e gli sono riconoscenti per la protezione che guadagnano. Questo modello mantiene l’ordine sociale com’è, sancendo la dominazione dei grandi proprietari sulla massa contadina».

LA STORIA CAMBIA

L’abolizione della schiavitù nel 1888 e la proclamazione della Repubblica nel 1889 costituiscono gli elementi basilari per la trasformazione strutturale del Brasile.
La chiesa cattolica, tradizionalmente legata alla classe signorile, deve ristrutturarsi per rendersi capace di affrontare la nuova situazione emergente del capitalismo agrario. I vescovi si allontanano dal potere del padronato e si legano più strettamente alla Santa Sede, decidendo di seguire la linea pastorale che conforma il cattolicesimo popolare tradizionale sul modello romano.
Lo stato vedeva nella tradizione una resistenza al nascente capitalismo agrario. La chiesa, pur riconoscendo certi valori, vi scorgeva troppa indipendenza; per cui decise di inviare i suoi missionari in forma più massiccia dall’Europa. L’obiettivo era di impiantare un cattolicesimo che rispondesse maggiormente alle regole che si stavano imponendo a partire dal Concilio Vaticano I, dove le varie forme tradizionali popolari erano denigrate per far spazio a catechismi ufficiali.
LA CHIESA POPOLARE
SOTTO STRETTO CONTROLLO

Il cattolicesimo romanizzato dà particolare enfasi ai sacramenti come mezzo di salvezza individuale. Poiché questi sono amministrati dal clero. A poco a poco la vita religiosa passa sotto il monopolio della gerarchia ecclesiale.
Anche il cattolicesimo popolare, decisamente più laicale nelle sue origini, viene incamerato nella struttura parrocchiale. Si rafforza lo spiritualismo attraverso una pietà privata, rivolta maggiormente alla salvezza della «propria» anima.
Le differenze sono tangibili: il cattolicesimo popolare è marcato dalla forza del santo e dell’impegno laicale; il cattolicesimo romano insiste maggiormente sulla obbligatorietà dei sacramenti e sulla presenza del padre cornordinatore.
Il popolare comincia ad essere trattato come fanatismo e frutto dell’ignoranza religiosa. Le nuove relazioni sono basate sull’impersonale nel campo religioso, denigrando tutto quello che si riferisce al popolare, mentre si continua lo sfruttamento nel campo sociale.
Si può ricordare la vicenda di Antonio Conselheiro nel sertão baiano che, con i suoi seguaci, venne represso dall’esercito, con l’appoggio del vescovo di Salvador. Più recentemente, ci sono state le sanzioni contro padre Cicero del Ceará, che sosteneva il cattolicesimo popolare creando movimenti religiosi che la chiesa ufficiale non riusciva a controllare.
Per combattere il cattolicesimo popolare, vennero importate dall’Europa devozioni per nuovi santi, legati alle congregazioni religiose. Queste proponevano una fede e stili di vita religiosa lontani dalla vita del popolo, enfatizzando più gli aspetti celestiali che le caratteristiche umane, reputate troppo banali e limitate per poter percorrere il cammino che conduce al Regno.

L’EVOLUZIONE
DELLA DEVOZIONE

Lo storico padre Oscar Beozzo fa una analisi delle devozioni facendo riferimento a tre fasi: il cattolicesimo popolare, il cattolicesimo romano e il cammino attuale della chiesa.
Si prenda, ad esempio, la devozione alla Madonna. Nella prima fase, è la madre dei dolori, Maria di Nazaret, la donna popolare incinta o con il bambino in braccio, tipico dell’essere mamma. Nel cattolicesimo romano, la Vergine diventa Madonna della gloria, Madonna delle apparizioni con vestiti celestiali, e non ha più in braccio il bambino. Diventa insomma una donna che vive fuori dalla realtà del popolo.
Oggi è ridiventata la madre morena dell’America Latina, compagna di viaggio nella vita di tutti i giorni. Riprende in braccio il suo bambino e lo presenta al mondo diventando la «stella dell’evangelizzazione».
Quanto a Gesù, nella prima fase, è il servo sofferente nella preghiera nell’orto degli olivi; il Gesù della flagellazione, che porta la croce. Nella seconda, diventa il Gesù ieratico del Sacro Cuore con una devozione che lo allontana dalla vita di tutti i giorni. E, oggi, il Gesù della liberazione, che proclama i diritti dell’umanità, spezza le catene del peccato e dell’ingiustizia.
La devozione dei santi passa per lo stesso schema. Al tempo della colonia, si incontrano i santi pellegrini che incarnano le sofferenze del popolo che vive un continuo esodo (come S. Gonçalo, S. Pietro degli zoccoli, Santiago, S. Rocco e tanti altri). Poi si passa ai santi delle congregazioni religiose, lontani dalla realtà e dal modo di vivere la fede in America Latina. Infine, nella fase attuale, si ricordano di più i martiri della fede, coloro che danno la vita per difendere i poveri della terra.
L’elemento fondamentale che differenzia il cattolicesimo popolare da quello romano è questo: il primo cerca di unire, di creare un tutt’uno tra fede e vita; il secondo cerca la dicotomia tra vita normale e vita ecclesiale, distinguendo il divino dall’umano, dividendo lo spirito dal corpo, separando il sacro dal profano. Sono elementi, che i teologi figli latino-americani sottolineano con particolare forza e cercano di far scaturire un nuovo cristianesimo adatto e incarnato nelle realtà, dove si cerca l’unità della vita vissuta in una profonda fede.
LA PRIMAVERA
DEL CONCILIO VATICANO II

Arriva il Concilio Vaticano II. Nascono le Comunità ecclesiali di base. Esse, con il loro nuovo modo di essere chiesa, rappresentano anche una rottura della devozione individuale ai santi patealisti della fase coloniale, ai quali era delegata la soluzione dei problemi personali; diventano pure rottura con la pratica individuale dei sacramenti e la dimensione privata della spiritualità, dove ognuno ha l’alibi della salvezza solitaria, senza tenere troppo in conto l’impegno comunitario.
Attraverso il nuovo modo di essere chiesa c’è, senza dubbio, un ricupero dell’elemento tradizionale cattolico e la partecipazione dei laici come agenti dell’annuncio del vangelo e animatori della comunità cristiana. Si fa strada la forza della coscienza personale per arrivare a un impegno collettivo. Una presa di coscienza e una nuova etica religiosa, dove perfino l’ordine socio-politico è contestato.
I numeri e le statistiche sono ancora lontani per un capovolgimento copeicano. La grande massa appartiene ancora al cattolicesimo che trova più comodo un impegno religioso personale rispetto a quello comunitario.

PARTENDO DAI POVERI
(E DA SANTO DOMINGO)

Molte volte la religiosità popolare è stata messa alla gogna come manifestazione di immaturità, intravvedendovi minacce di eresie e soprattutto di sincretismo, fenomeno con il quale non si è avuto il coraggio di dialogare.
Si riconosce che, a volte, alcune devozioni necessitano di una purificazione; ma si ha la percezione che proprio dal popolo derivano le possibilità più immediate e profonde per inculturare ed incarnare la fede nella vita.
Il punto di partenza di Cristo è sempre la sua «opzione per i poveri, per i piccoli, per gli ultimi del mondo…» (Lc, 18-19).
L’attualità della vita ecclesiale deve fare i conti con le sfide dell’evangelizzazione del nostro tempo. Sfide che debbono percorrere il processo di inculturazione del vangelo. È un cammino che deve includere la religiosità popolare, ma anche recuperare i valori indigeni e africani che sono componenti fondamentali dell’antropologia brasiliana.
Nel 1992, a Santo Domingo, davanti ai vescovi latinoamericani, Giovanni Paolo II parla di una nuova evangelizzazione nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni di fede. È una proposta che richiede immaginazione e creatività, affinché il vangelo possa arrivare a tutti in una forma appropriata e convincente. Nel terzo capitolo il documento sottolinea la necessità per ogni cristiano di conoscere e penetrare gli ambienti socio-culturali, come protagonista della propria storia alla luce del vangelo. La stessa America Latina non deve guardare solo alle proprie necessità, ma deve sempre avere la sensibilità di aprirsi e condividere la propria fede con il resto del mondo.
Ad ogni istante è necessario rifare «l’esperienza di Dio» che continua a rinnovare l’alleanza con il suo popolo attraverso un «cammino» che non rimane prigioniero nel tempio dell’immobilità, ma richiede sempre più di abitare «la tenda del divenire».
Ecco ciò che significa «camminare con gli uomini del nostro tempo».

Orazio Anselmi




Danzando con gli dei – Speciale BRASILE

– Cos’è il candomblé, madre mia?
– È danza e musica, figlia mia!
Così rispose «mãe Teresinha», quando
iniziai la ricerca su questa religione
afro-brasiliana. Per comprenderne
il fascino occorre aggiungere: ricchezza
di colori e simboli, ricerca di armonia, equilibrio e consolazione, memoria storica e impegno di solidarietà.

All’inizio di tutto – racconta la leggenda – non c’era separazione tra l’orum (l’inconoscibile), sede degli orixás (dei), e l’aiê, la terra degli esseri viventi. Uomini e divinità si facevano reciprocamente visita e vivevano insieme felici.
Ma gli esseri umani, fin da allora, non rispettavano niente e nessuno: con arroganza sporcavano l’orum, infischiandosi delle raccomandazioni di Olorum, il dio supremo.
Ma un giorno, vedendo l’orum tanto mal ridotto, il Signore del cielo e della terra si adirò: scagliò il bastone sacro e divise il cielo dalla terra. Così nessun uomo poteva più raggiungere l’orum e gli orixás rimanevano nel proprio mondo. Ma questi si intristivano; avevano nostalgia dei loro incontri con gli esseri viventi. Gli uomini, a loro volta, non riuscivano più a vivere senza la gioia e allegria trasmessa dagli orixás.
Olorum, stanco di tanti lamenti e in fondo stufo della situazione, permise alle divinità di andare ogni tanto in visita alla terra. Gli esseri umani facevano offerte agli orixás, che arrivavano e danzavano, danzavano, danzavano… al suono degli atabaques (tamburi).
E toò, finalmente, armonia e felicità.

RADICI AMARE
Il racconto esprime chiaramente l’essenza del candomblé: esso è un messaggio di felicità; è ricerca degli aspetti più giorniosi della vita. La sua storia, però, non affonda le radici nella gioia, ma nel dolore: in quella tragedia immane di milioni di neri ridotti in schiavitù.
Considerati come popoli selvaggi, privi di cultura, gli africani venivano catturati dai bianchi e, una volta trasportati in Brasile, dovevano essere civilizzati, istruiti e convertiti al cristianesimo con una rapida evangelizzazione. In realtà, gli schiavi furono i principali artefici della costruzione del Brasile, non solo sotto l’aspetto economico. Alcune popolazioni possedevano un elevato grado di civiltà, come alcuni gruppi yoruba (Nigeria e Benin) eccellenti scultori in avorio e metallo.
Creazione tipicamente brasiliana, il candomblé affonda le radici nelle tradizioni africane. Esso si formò nel segreto della senzala, quando schiavi e schiave sfruttavano ogni opportunità per riorganizzare i loro culti.
Coltivato di nascosto, il candomblé ebbe grande sviluppo quando la chiesa cominciò a convogliare le varie etnie africane nelle irmandades, (confrateite). A Salvador, all’inizio del 1800, nacque la confrateita di Nossa Senhora da Boa Morte, formata da africane libere, in maggioranza provenienti da Ketu (Benin).
Il fatto di potersi ritrovare rese più facile agli schiavi liberati di riorganizzare il culto verso gli antenati. Sacerdotesse e sacerdoti con posti di rilievo nei candomblé, entravano nelle irmandades. Esisteva, infatti, un legame molto stretto fra chiesa e candomblé; spesso i preti cattolici venivano chiamati a celebrare la messa nei terreiros (centri di culto). Ancora oggi, presso alcuni candomblé, tale usanza di partecipare alla messa è in vigore come memoria storica.

RICERCA DELLE ORIGINI
Si è soliti etichettare i movimenti religiosi afro-brasiliani come sètte sincretiste, miscuglio di tradizioni religiose africane e cristiane. Ma in una riunione del 1983, le iyalorixá (sacerdotesse) più tradizionali della Bahia presero posizione contro il sincretismo e rivendicarono per il candomblé la dignità di religione. «Iansã (divinitá dei venti e lampi) non è santa Barbara» disse mãe Stella de Oxossi, leader di Axé Opô Afonjá, uno dei gruppi più conservatori. Con questa frase essa voleva dire chiaramente che il candomblé non è una sètta sincretista né dipendente dal cristianesimo.
I culti afro-brasiliani si differenziano pure dalle religioni tradizionali africane, pur avendo in esse la loro base originaria e molti punti di contatto. Nei territori yoruba ogni città aveva un antenato da tutti venerato. In Brasile, a causa dei lunghi secoli passati in schiavitù, gli afro-discendenti hanno scordato il luogo di provenienza. Per questo nei terreiros di candomblé è stata ricostruita una specie di “yorubaland” in miniatura, inserendo nel culto tutte le divinità e figure mitiche che la schiavitù non è riuscita a cancellare dalla memoria.
Nella storia di questa religione, alcune sacerdotesse delle irmandades sono diventate figure quasi mitiche, come quelle che organizzarono un terreiro di candomblé chiamato Ìyá Omi Àse Àirá Intilè. Una delle fondatrici, Iyalussô Danadana, ritoò in Africa e vi morì. La seconda, Iyanassô, fatto un viaggio nel continente d’origine, toò accompagnata da un sacerdote chiamato Bangboxé, diventato figura leggendaria del candomblé di Bahia.
Questo centro religioso ha dato origine ad altri due grandi terreiros di tradizione ketu: Iyá Omi Ase Iyámasse, comunemente conosciuto come Gantornis, il cui leader religioso fu la famosa mãe Menininha, e Axé Opô Afonjá, fondato nel 1910 da mãe Aninha e oggi guidato da mãe Stella de Oxossi, figura carismatica e simbolica per tutti gli afro-americani. Molti neri degli Stati Uniti vengono nel terreiro dell’Axé Opô Afonjá per riavvicinarsi alle proprie radici culturali e religiose.

ARMONIA CON LA NATURA
Oltre ai motivi di carattere religioso, questa comunità è diventata particolarmente famosa per avere ricostruito, col passare degli anni, un villaggio africano con abitazioni per i fedeli e case per gli stessi orixás. All’entrata degli edifici e in vari punti del terreiro crescono giganteschi alberi sacri.
Il candomblé si fonda sul culto della natura: cose, alberi, animali, persone sono sacre. Un’energia vitale, chiamata axé, circola in tutti gli esseri animati e inanimati, collegandoli insieme come una sottile onda. Questa axé può essere immagazzinata e distribuita mediante vari rituali pubblici e privati. Per questo il candomblé, come le religioni africane in generale, è stata dispregiativamente definita animista. Ma non c’è niente di negativo nel percepire la vita delle piante o persone.
Nei testi sacri yoruba, racconti tramandati oralmente, è chiaramente sottolineato che al di sopra di tutti e tutto c’è un essere supremo, chiamato Olorum o Olodumaré. Questi, col suo respiro, ha dato inizio al principio maschile (obatalá) e femminile (odudua); questi due principi hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. A fare da tramite fra gli esseri viventi e Olorum sono gli orixás, divinità-energie della natura, di cui i mortali sono figli.

POSSEDUTI DALLA DIVINITÀ

Il candomblé è basato su una sofisticata conoscenza dell’animo umano: la mitologia ne descrive pregi e vizi e, al tempo stesso, spinge l’uomo a rispettare e venerare il sacro e a compiere ogni sforzo per avvicinarsi al divino. Le divinità, infatti, sono sentite vicine nel vivere quotidiano.
Tale vicinanza si manifesta in modo particolare con la «chiamata» di alcune persone da uno degli orixás. Essa può avvenire in molti modi, come sogni e malattie inspiegabili. Tale chiamata viene verificata con una lettura della situazione spirituale, eseguita con le conchiglie di Ifa, divinità della sapienza e divinazione. Ogni mãe-de-santo (sacerdotessa) ha acquisito con l’esperienza una grandissima sensibilità al riguardo e, attraverso la caduta e i disegni formati da tali conchiglie, essa rievoca eventi mitologici e analizza la situazione energetico-spirituale del consultante. In base a tale analisi, inizierà una serie di rituali per avvicinare il fedele al proprio orixá.
La comunione col divino diventa sempre più profonda col passare del tempo. Il fedele offre doni alla divinità e riceve in cambio forza vitale, energia e protezione. Se la divinità lo richiede, si passerà a una vera e propria iniziazione, che prevede un periodo di reclusione e allontanamento dal quotidiano, per entrare in più stretto contatto con l’orixá.
Non si è ancora sottolineato abbastanza come le religioni africane si fondino su un percorso mistico profondo e significativo, che si snoda per tutta la vita. Nel candomblé tale cammino è accompagnato da rituali riservati alle persone della casa e da altri che si svolgono nelle pubbliche assemblee. Così spiega Ceci, sacerdotessa iniziata da 29 anni in uno dei terreiros più tradizionali e famosi di Salvador: «La lunga preparazione delle sacerdotesse per potere ricevere le divinità culmina con la festa pubblica. Tale festa richiede una preparazione immediata di due o tre giorni, nei quali è necessario adempiere una serie di riti per i soli fedeli della casa, per dare forza alla parte spirituale e per preparare materialmente la cerimonia, il cui fulcro è la possessione».

MUSICA, CANTO, DANZA
L’unione con la divinità, seppure temporanea, avviene in momenti specifici e ritualmente organizzati tramite il trance. Anche questo fenomeno, tanto maltrattato dalle teorie psicologiche, merita rispetto. Esso è patrimonio dell’umanità: lo si incontra in vari paesi del mondo, dall’Oriente all’Africa, dalla Siberia alla… Puglia. L’antropologo De Martino ha dimostrato che il fenomeno del tarantismo è un rito di possessione, dove la musica e la danza vengono usate con scopi terapeutici, proprio come in Africa e nel candomblé. Il disprezzo verso tale fenomeno è dovuto al fatto che esso è visto come qualcosa d’«insalubre», di difficile comprensione per il mondo occidentale, sempre più lontano dal mondo della percezione sensoriale.
Il candomblé si basa sulla conoscenza di se stessi; conoscenza ottenuta attraverso vere e proprie tecniche con cui raffinare sempre più la percezione del proprio essere, delle capacità e limiti personali. Il contatto con la propria parte interiore e sacra, porta le sacerdotesse all’unione con il divino. I mezzi per arrivare a tale unione sono: musica, canto e danza. Nei suggestivi riti del candomblé le sacerdotesse diventano strumento delle divinità da cui sono state scelte per portare agli esseri umani energia, conforto e felicità.
Le sacerdotesse, la sera della festa, preparate accuratamente nei loro bellissimi vestiti, sintesi dell’incontro forzato fra Africa e Europa, aprono il rito formando la ruota sacra. Spiega ancora mãe Ceci: «Prima della festa pubblica c’è il padê, celebrazione per Exu, il dio messaggero: la sua funzione è importante; senza di lui non è possibile fare niente. Erroneamente questi è stato identificato con il diavolo dei cristiani; ma il concetto di bene e male dei yoruba non si identifica esattamente con quello della teologia cristiana.
Seguono canti e preghiere per gli antenati. Si canta e si danza tre volte in onore di tutte le divinità; infine, col suono di strumenti musicali, si invitano gli orixás a scendere tra i fedeli. E arriva il momento dell’incorporazione: le sacerdotesse indossano gli abiti sacri, ricchi di simboli e allusioni mitologiche. Da questo momento esse impersonano la divinità. Riprendono le danze sacre. Ballando, gli orixás raccontano ai fedeli la storia sacra, la mitologia e la propria funzione nel cosmo, nell’interno del pantheon e nella comunità».

RICERCA DI EQUILIBRIO
La liturgia si snoda attraverso una serie di canti con uno schema più o meno fisso, che le sacerdotesse accompagnano con specifiche gestualità del corpo e coreografie. Per i non iniziati è difficile decifrare e compredere i messaggi espressi con tale linguaggio non-verbale, come pure l’insieme dei riti e la loro ricchezza di simbolismi. Ogni casa di candomblé, infatti, possiede un proprio repertorio di 400-500 arie musicali, coreografie, simboli e colori specifici corrispondenti alle varie divinità.
Inoltre, i messaggi del trascendente espressi dal candomblé non sono affidati alla logica del ragionamento, ma all’arte e alla percezione sensoriale. Già Susan Langer aveva sottolineato: «Solo l’arte riesce a trasmettere i messaggi profondi all’anima umana. Il linguaggio verbale non è sufficiente per trasmettere tutta la gamma di sfumature e valori dei sentimenti umani, come mateità, amore, aggressività, rabbia».
Attraverso i movimenti e fluidità del corpo, le vecchie sagge percepiscono l’armonia delle persone. Il candomblé, infatti, è ricerca di armonia: prima di tutto con se stessi e poi necessariamente con gli altri. «Io sono perché tu sei» dice un detto africano, sottolineando l’importanza del gruppo. Ognuno deve adempiere a una funzione a livello spirituale-individuale e a livello di comunità; come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi cade un sasso: tutto è collegato, dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mãe Beata, da 28 anni leader di un terreiro, spiega: «Il candomblé è carità. Io vi sono entrata perché dovevo; dopo aver raggiunto il mio equilibrio, ho dovuto iniziare ad aiutare gli altri. Noi mãe o pãe-de-santo dobbiamo sempre dare una parola di conforto a tutti quelli che ne hanno bisogno. E non solo i brasiliani, figlia mia, tu lo sai».
Qui a Bahia, infatti, arrivano molti europei; alcuni sono alla ricerca di un contatto con il «mondo magico», con cui risolvere in un batter d’occhio ogni loro problema; altri, però, cercano un contatto più spontaneo con gli altri e con se stessi; vogliono riscoprire il proprio ritmo e equilibrio interiore e quella autenticità che hanno perso nella vita frenetica delle grandi città.
Mãe Stella non si stanca di sottolineare: «Orixá è equilibrio. Tutto inizia da lì. Tutti dobbiamo vivere con dignità e in pace».
Molti pensano che sia facile trovare la base dell’equilibrio interiore; spesso, invece, si richiede un percorso travagliato e difficile. Eppure molte persone, e non solo brasiliane, sono state aiutate a ritrovarlo; o per lo meno hanno ricevuto una spinta in questa direzione. È come se il candomblé riuscisse, attraverso il sacerdozio e l’amore per se stessi e gli altri, a riorganizzare la frammentazione umana e a dare un filo conduttore ai suoi fedeli.

MEMORIA E SOLIDARIETÀ
Il candomblé ha avuto, ed ha ancora, un’importanza fondamentale nella storia degli afro-discendenti: grazie al lavorio solerte delle sacerdotesse, essi hanno recuperato l’identità culturale e la dignità personale che la schiavitù aveva brutalmente distrutto.
«Se non ci si ricorda degli antenati, dei nostri defunti, non sappiamo chi siamo» spiega l’antropologo De Martino. È ciò che hanno fatto, per quanto hanno potuto, queste sacerdotesse: mantenendo viva la memoria degli antenati e i culti africani nelle comunità del candomblé, hanno dato a milioni di persone, distrutte dalla deportazione, la possibilità di ritrovare se stesse a livello spirituale, psicologico e politico. I fedeli delle religioni afro-brasiliane non si sono arresi alla sofferenza e al dolore, ma li hanno superati con la coscienza della propria storia.
Con l’iniziazione al candomblé, i mali del singolo vengono ri-organizzati e ri-orientati a livello spirituale-energetico; la frequenza ai riti rafforza in loro la volontà di trasformarli in punti di partenza per un nuovo passo verso una maturazione personale.
Secondo la filosofia del candomblé la vita è sacra; il nostro corpo è un tempio, a cui viene trasmessa la forza dell’orixá e con cui partecipare alla vita nella vita, cioè dando valore alle cose e alle situazioni quotidiane.
Molta importanza è data ai problemi sociali. È sempre più frequente vedere le comunità organizzarsi intorno ai problemi dell’infanzia carente e bisognosa. Il progetto «Mobilitazione sociale», per esempio, organizzato da una delle figlie dell’Axé Opô Afonjá, pone al centro dell’esperienza religiosa l’impegno personale e la creazione di nuove prospettive a favore dei bambini della comunità e del quartiere. Tale progetto ha soprattutto lo scopo di aiutare i più giovani a riavvicinarsi alle radici africane, animandoli a frequentare la biblioteca e museo del terreiro, organizzando lezioni su cultura e storia afro-brasiliana, corsi di percussione, danza e capoeira (arte marziale d’origine angolana). Tali iniziative stimolano i bambini nell’approfondimendo e riappropriazione della propria cultura e li aiutano nel processo di auto-stima e apertura all’altro.
Non si pensi, infine, che il candomblé sia frequentato solo da afro-discendenti; sono molti tra la borghesia bianca e gli intellettuali coloro che frequentano i terreiros, abbagliati dalla bellezza di riti e alla ricerca di conforto, equilibrio ed energia.

Susanna Barbara




Felicita e ricchezza (ma fuori dal mondo)

Spuntano come funghi, aprendo le loro sedi negli spazi prima occupati da negozi. Hanno nomi lunghi e fantasiosi: «Chiesa internazionale della grazia di Dio», «Chiesa del vangelo quadrangolare», «Chiesa pentecostale del potere di Dio», «Chiesa battista del tabeacolo dello Spirito santo». Promettono felicità e ricchezza, ma soltanto con loro
e, soprattutto, fuori di questo mondo. A San Marco,
un quartiere povero di Salvador Bahia, abbiamo verificato
di persona la diffusione e la forza delle sètte cristiane.

Salvador Bahia – Il bairro São Marcos è conosciuto da tutti, perché ospita il più famoso (e costoso) ospedale dello stato: il São Rafael, diretta emanazione dell’istituto San Raffaele di Milano.
Vedere i solidi e modei edifici del nosocomio fa una qualche impressione, in quanto San Marco è, prima di tutto, una estesa favela di 200 mila abitanti. I numerosi tassisti che sostano vicino all’entrata confermano quanto si poteva immaginare: «L’ospedale gode di un’ottima fama, ma soltanto chi ha soldi può farsi curare qui dentro».
Siamo in compagnia di Fidéle Katsan Fodagni, giovane missionario comboniano del Togo. Per farci conoscere San Marco, Fidéle vuole percorrere a piedi la via che taglia in due il quartiere, partendo proprio dall’ospedale San Raffaele.
Il bairro è cresciuto su una serie di collinette. La strada, l’unica asfaltata, si snoda sulla cima di queste. Per vedere l’estensione e le condizioni della favela (in verità, a Salvador questo termine viene evitato), è sufficiente gettare lo sguardo oltre le case sorte lungo la strada. Agli occhi si presenta allora un ammasso disordinatissimo di casupole unifamiliari abbarbicate a un terreno scosceso e costruite con materiale di recupero.
Toati a camminare sulla via principale, accanto a un negozio notiamo una sorte di garage con la serranda azzurra alzata. È una chiesa, la Igreja pentecostal Deus é justiça. Una lavagna nera appoggiata al muro informa sugli orari delle cerimonie. Ci affacciamo sull’angusto locale. Ci sono una ventina di sedie di plastica bianca, simili a quelle dei bar. Un’anziana donna è intenta a rassettare il tavolo del celebrante, sul quale poggiano un grosso radioregistratore portatile e un vasetto di fiori. Le chiediamo se è possibile scambiare qualche parola con il pastore. Purtroppo, al momento risulta assente.
Proseguiamo allora la nostra passeggiata sulla via centrale del bairro São Marcos. Sopra una cancellata in ferro c’è l’insegna della «Chiesa del vangelo quadrangolare». È chiusa, ma un grande cartello a disegni colorati propaganda servizi e benefici. Proprio attaccata ad essa c’è un altro luogo di culto, la «Chiesa internazionale della grazia di Dio». Le serrande azzurrine sono alzate: questa chiesa è aperta. Il locale è ampio, ma completamente disadorno. Soltanto al centro è posto un tavolino attorno al quale siedono due persone di mezza età, un uomo e una donna. Ci vengono incontro sorridenti. Si presentano come obreiros. Lavorate in qualche fabbrica? «No, no. Siamo operai della Chiesa internazionale», rispondono all’unisono.

Stupiti dell’abbondanza dell’offerta religiosa, chiediamo a Fidéle: «Ma è così facile aprire una chiesa?».
«Non c’è problema – risponde il missionario -. Se una persona si alza al mattino con l’idea di fondare una sètta, lo può fare liberamente. È sufficiente che si procuri un locale». La conferma arriva dopo qualche centinaio di metri.
Quando arriviamo all’incrocio considerato la piazza di San Marco, immediatamente l’attenzione è attratta da un enorme capannone, un tempo forse adibito a supermercato. È sovrastato da una scritta rossa che recita Jesus Cristo é o Senhor e più sotto, in blu, Igreja universal do reino de Deus.
«La Chiesa universale – ci spiega Fidéle – è la sètta cristiana più grande del Brasile. Questa organizzazione ha acquistato, in tutto il paese, supermercati, sale cinematografiche e fabbriche e ne ha fatto i suoi luoghi di raduno».
Macedo, il fondatore, ha costruito un vero impero economico, che ora può disporre anche di un canale televisivo nazionale, la «Rede Record». Chiediamo al nostro accompagnatore da dove provengano tutti questi capitali. «I fedeli sono obbligati a finanziare la chiesa, ma molti sostengono che i soldi raccolti in questo modo non possono spiegare una simile potenza economica. Ci sarebbero anche vie di finanziamento più losche». Cosa predica la Chiesa universale di Macedo? «Naturalmente – risponde con un sorriso padre Fidéle – predica contro la chiesa cattolica. E poi insiste molto sulla figura di Satana».
Perché la gente cade nelle mani di queste organizzazioni? È un problema di mancanza di cultura e spirito critico? «Per me – risponde il missionario – il motivo principale è la povertà, la miseria. Quando delle persone semplici non hanno abbastanza denaro per poter vivere e non vedono soluzioni per l’esistenza, allora affidano le loro speranze all’aldilà. Quindi, seguono qualsiasi persona che prometta un futuro migliore. Ci sono sètte abilissime a fare il lavaggio del cervello».

Sul lato opposto alla «Chiesa universale del regno di Dio» e alla «Chiesa avventista del Settimo giorno», sorge il tempio della Assembleia de Deus. Scorgendo due persone al suo interno, decidiamo di entrare. È una sala lunga e stretta con i banchi disposti su due file, che si guardano. In fondo, a mo’ di altare, trova spazio un grande impianto musicale, circondato da mazzi di fiori freschi. Alle pareti e sul soffitto sono fissati numerosi ventilatori. Sui muri è dipinta la scritta «unidos por Cristo».
Le persone sono due ragazzi, poco più che ventenni. Si chiamano Jadel e Beto. Parlano volentieri: «Siamo disoccupati e allora veniamo qui ad aiutare la nostra chiesa». Fidéle, che veste bermuda e t-shirt e non ha certo l’aspetto di un prete, si presenta come missionario cattolico e chiede di parlare del rispettivo credo. I tre iniziano una discussione che si protrae per mezz’ora, cercando nella bibbia, che si passano di mano in mano, la conferma delle proprie affermazioni.

A San Marco ci sono più chiese che negozi. Nello spazio di tre chilometri abbiamo contato almeno una dozzina di sètte evangeliche: Igreja pentecostal Deus é justiça, Igreja do evangelio quadrangular, Igreja inteacional da graça de Deus, Igreja universal do reino de Deus, Templo adventista do 7.o dia, Assembleia de Deus, Igreja batista da proclamaçáo, Igreja pentecostal Deus é amor, Igreja batista tabeaculo do Espirito santo, Igreja pentecostal poder de Deus. Troppe per non dare credito a chi dice che, dietro questa proliferazione, non ci sia un business fatto sulle spalle della povera gente.
«Io, missionario cattolico – spiega Fidéle -, non avrei problemi ad accettare e a dialogare con le sètte, se queste promuovessero la vita…». Ma cosa vuol dire “promuovere la vita”? «Significa che una religione non deve essere alienante. Significa cercare di liberare la gente dalla povertà e dalla miseria».

Paolo Moiola




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova




Sul fronte della liberazione

Alcuni vescovi sono noti anche al pubblico italiano, come Helder Camara, arcivescovo di Recife e «profeta dei poveri». Morì il 28 agosto1999 nella quasi indifferenza generale.
Il 10 agosto 1996 moriva anche Adriano Hipolito, vescovo di Nova Iguaçù. La sua azione pastorale si distinse per la difesa dei diritti umani, soprattutto durante gli anni della dittatura militare. In quell’epoca dom Adriano venne sequestrato, gli fu incendiata l’automobile e una bomba esplose nella cattedrale.
Significativa fu l’azione pastorale dello statunitense Mathias Schmidt, vescovo di Ruy Barbosa, morto d’infarto nel 1992. Era considerato uno dei più convinti difensori della scelta preferenziale dei poveri. Aveva anche promosso il collegamento tra le Comunità ecclesiali di base e i movimenti popolari dell’America Latina.
Luciano Mendes de Almeida, ex presidente della Conferenza episcopale, strenuo difensore dei bambini abbandonati e degli indios. Il 23 febbraio 1990 subì un incidente stradale «sospetto», che costò la vita a due religiosi. Il vescovo di Mariana proveniva da Belo Horizonte, dove aveva espresso la sua delusione per la decisione del governo di restringere a soli 2 milioni di ettari (contro i 9 fissati dalla magistratura) la superficie del territorio yanomami. Aveva accusato il presidente Saey di cedere alle pressioni di potenti gruppi economici interessati alle terre.
Monsignor Pedro Casaldaliga, spagnolo, è «il poeta della liberazione», insignito anche di premi. Ma l’interessato precisa che la sua persona non è importante; lo è, invece, la vita delle persone a cui viene sistematicamente impedito di vivere con dignità.
Un’altra figura emergente nel post-Concilio è il cardinale PAulo Evaristo As, ex arcivescovo di São Paulo. In una intervista su «Missioni Consolata» nel 1988 dichiarava: «Sono anche cittadino onorario di Pichete, meglio conosciuta come “la città delle vedove”, perché i loro mariti vi muoiono producendo bombe. No, il Brasile non ha bisogno di produrre e commerciare armi! Durante una trasmissione radiofonica il presidente Saey ha negato che il Brasile venda armi all’Iran ed Iraq; ebbene ha mentito. Il paese sta commettendo un atto immorale, fabbricando e vendendo bombe. Come vescovo, faccio una proposta a tutti i paesi: perché la produzione e vendita di armi non vengono sottoposte ad un referendum mondiale? Se fosse il popolo a giudicare, si arriverebbe alla pace mondiale in fretta».

N el campo teologico la produzione è ricca e varia. Ricordiamo fra gli altri:
– i fratelli Leonardo e Clodovis Boff: il primo ha scritto opere famose e controverse, come «Chiesa: carisma e potere»; il secondo si è occupato del problema metodologico della Teologia della liberazione in «Come fare teologia della liberazione»;
– Frei Betto affronta temi di spiritualità e pastorale; in dialogo con il mondo politico latinoamericano, è famoso per il volume «Fidel Castro: la mia fede»;
– José Oscar Beozzo, animatore degli studi storici sulla chiesa e sull’opera di evangelizzazione nel paese;
– Carlos Mesters, un protagonista del nuovo cammino biblico ed ecumenico della comunità cristiana;
– Josè Comblin, Ivone Gebara, Maria Clara Bingermer…

Francesco Beardi