RUSSIA – Fabbrica di sordomuti

Chiusa agli stranieri e inaccessibile ai russi, la città di Severodvinsk è la Cheobyl del Mar Bianco. L’autore
di questo articolo, che per ovvie ragioni si firma con uno pseudonimo, è riuscito a visitarla e ha scoperto cose mostruose.

Sono le 8 del mattino; il termometro segna 25° sotto lo zero all’aeroporto di Arcangelo, 1.300 km a nord di Mosca e 100 dal Circolo Polare Artico. L’impatto col gelo polare viene attenuato dal sorriso dolce di Sacha, la interprete, che mi aspetta all’uscita del velodromo, reggendo un cartello col mio nome scritto in rosso. L’accompagna Anatolij. Entrambi mi guideranno a Severodvinsk, meta del viaggio.
Chiusa agli stranieri, la città è quasi inaccessibile anche ai russi: fino a pochi anni fa avevano bisogno di un passaporto speciale per accedervi. L’isolamento geografico e politico la rendono misteriosa all’interno del paese e pressoché sconosciuta all’estero. Il permesso per accedere a questa «terra incognita» viene rilasciato occasionalmente agli stranieri dai servizi segreti (Fsb), dopo autentiche acrobazie diplomatiche e raccomandazioni di politici influenti.
CITTÀ GULAG
Costruita per ordine di Stalin nel 1936 a 35 km a ovest di Arcangelo, sulle rive del Mar Bianco, Severodvinsk è battuta dai venti polari 12 mesi all’anno, con temperature invernali di 30-40° sotto lo zero. «In realtà – rassicura Anatolij – a Severodvinsk fa freddo solo due mesi all’anno; gli altri 10 sono freddissimi!».
Negli anni ’30 furono scaricati nella zona circa 60 mila carcerati per costruire la città; nasceva così un campo di lavori forzati (gulag), dove vennero deportate le vittime del terrore staliniano, per essere fucilate o semplicemente lasciate morire di fatica o di freddo. Tra il 1936 e 1953 vi morirono 25 mila persone.
Oggi Severodvinsk conta 210 mila abitanti ed è una città strategica per il sistema di difesa russo: il gulag è sostituito dai cantieri navali Sevmash e Zvezdochka. Dal 1992 la Sevmash è l’unico cantiere della Russia in cui si costruiscono sottomarini nucleari (ufficialmente assembla macchine spazzaneve).
Dai cantieri di Severodvinsk sono usciti i sottomarini classe typhoon, nella denominazione americana, o akula (squalo), secondo quella russa: la più grande e devastante macchina da guerra creata dall’uomo, lungo 175 metri ed equipaggiato di 20 missili intercontinentali con testate nucleari multiple.
DAL NORD UN FANTASMA
Tre anni fa un uomo denutrito e assiderato dal freddo bussò alla porta di una Ong moscovita per chiedere aiuto. Raccontò la sua storia. Arrivava da Severodvinsk, dopo vari giorni di viaggio a piedi e autostop. Aveva lavorato nella fabbrica Sevmash fin dai tempi della guerra fredda, quando lo stipendio governativo per chi lavorava nell’industria bellica in zone disagiate era quattro volte superiore alla media nazionale. Da quando il governo non aveva più soldi per pagare gli operai, tutta Severodvinsk era senza lavoro e senza cibo.
Ma non era questo il motivo del viaggio di quel denutrito. Suo figlio, come molti bambini della città, accusava strane sindromi d’immunodeficienza che portano alla sordità. Il medico ne attribuiva la causa a iniezioni di antibiotici scaduti e non poteva farci nulla.
Sfidando la rete dei servizi segreti e della polizia che controllano la città, l’uomo aveva affrontato un viaggio così rischioso per far conoscere al mondo il problema che aveva colpito suo figlio e trovare i soldi per curare i bambini della città.
Quell’uomo era Anatolij. Ora è con me nell’auto con la quale andiamo a Severodvinsk, perché io capisca (ma non troppo) cosa vi sta succedendo.
NEL VENTRE DELLA BALENA
Alle mie domande Anatolij è evasivo. Continua a insistere che la versione ufficiale è giusta: nessuna relazione tra malattia del figlio e radioattività; questa è sotto controllo. Dice qualcosa che Sacha non traduce e finisce con Fsb (polizia segreta).
Pochi secondi dopo, l’auto si ferma davanti a una sbarra. Dalle folate di blizzard si materializzano due figure in divisa che appoggiano i colbacchi contro i finestrini appannati. Sacha si tormenta il labbro con gli incisivi. Dobbiamo scendere. Uno degli agenti mi porta in disparte nella neve ed esamina con lentezza esasperante il lasciapassare. «Viene da Mosca» spiego nel mio russo stentato. «Moskva daliekò» (Mosca è lontana) risponde l’agente, per sottolineare che oramai siamo nel ventre della balena della macchina militare.
Intirizziti dal freddo e dagli sguardi ancora più gelidi dei poliziotti, risaliamo sulla macchina e raggiungiamo la città. Dalla tundra s’innalza una ciminiera con un debole pennacchio. Anatolij spiega che è la centrale termica che riscalda l’intera città e fornisce acqua calda e gas per cucinare. «Anzi, riscaldava – continua la guida -. All’inizio dell’inverno Mosca ha stanziato, come al solito, i soldi per l’acquisto del gas; ma quest’anno il sindaco è sparito col malloppo, lasciandoci tutti al freddo. Tenuta a regime minimo, la centrale fornisce saltuariamente acqua calda, con gravi problemi per anziani, neonati e ospedali. Per cucinare la gente usa i ferri da stiro».
Mosca si è dimenticata di loro. Non esiste alcun piano di aiuto. Anzi, con la sua pesante burocrazia, il governo centrale ostacola l’invio di aiuti esteri. Recentemente un’organizzazione umanitaria tedesca aveva inviato una costosa e sofisticata apparecchiatura per sordomuti; arrivata alla frontiera, Anatolij si sentì comunicare che la tassa di sdoganamento era superiore al costo del macchinario. Non avendo i soldi necessari per il riscatto, l’apparecchiatura era rimasta nei magazzini della polizia di frontiera.
Anatolij racconta tutto con distacco, come se riguardasse qualcun altro. Il sorriso del suo viso scao, da prigioniero di gulag, diventa radioso quando entriamo in casa, accolti dalla moglie, figli e gatto Simion.
L’appartamento minuscolo è al quarto piano di un alveare prefabbricato, senza ascensore. Un paio di stufette elettriche non riesce a sciogliere il ghiaccio dai vetri. Per cena ci vengono serviti mirtilli, lamponi e funghi, raccolti nella bella stagione e conservati sotto vetro.
Quel poco che possiede questa fiera gente del nord lo divide con l’ospite, obbligandolo a mangiare a sazietà. Sacha commenta con tristezza che questa cena costringerà la famiglia di Anatolij a stringere la cinghia per qualche giorno.
SILENZIO! L’FSB TI ASCOLTA!
Nella luce rarefatta dell’inverno artico, le gru dei cantieri navali e l’interminabile profilo dei capannoni della Sevmash si stagliano sulla baia di Severodvinsk. Non possiamo sostare nei paraggi o fotografare: l’Fsb è sempre presente, anche se non si vede. In Russia i servizi segreti continuano a incutere paura, nonostante la fine della guerra fredda.
Anatolij non è da meno: teme per la sua famiglia e rifiuta di dare spiegazioni convincenti. Sacha, giovane e impulsiva, non tollera tale reticenza e sbotta: «I miei genitori sono entrambi morti di cancro a 40 anni; da sola ho dovuto crescere la mia sorellina. Ho 24 anni. Non vedo l’ora di andarmene da questo posto maledetto. Non è un luogo per vivere, ma solo per morire. Qui ho quattro probabilità in più di ammalarmi di cancro che a Mosca. La radioattività strettamente sotto controllo è una fandonia. Aria, acqua, funghi e mirtilli che hai mangiato a casa di Anatolij sono contaminati. Severodvinsk non è un cantiere, ma un’immensa pattumiera nucleare e noi ci viviamo come topi. Voglio mostrarti qualcosa, a mio rischio e pericolo. Fino a quando queste cose rimarranno nascoste, qui non cambierà mai niente».
La reticenza degli abitanti di Severodvinsk non è cosa da sottovalutare. Tra il ’94 e ’95 Alexandr Nikitin, ex capitano della flotta russa, poi impiegato di un’associazione ecologista norvegese, contribuì alla stesura di un rapporto sulla drammatica situazione della costa del nord. Quando le notizie furono divulgate, Nikitin fu imprigionato, processato e condannato a morte per alto tradimento, anche se l’esecuzione rimane sospesa.
Secondo l’articolo 10 della legge sull’informazione, infatti, «è proibita la pubblicazione di documenti relativi all’ambiente o situazioni straordinarie che possano compromettere la sicurezza delle aree industriali russe».
UNA CHERNOBYL
«AL RALLENTATORE»

Secondo il rapporto menzionato, Severodvinsk rischia di diventare una delle aree più contaminate della Russia, una Cheobyl «al rallentatore». Mentre nei cantieri Sevmash si costruiscono nuovi sottomarini, la Zvezdochka procede allo smantellamento di quelli vecchi e allo stoccaggio del combustibile nucleare esausto della marina militare. Tre grandi silos all’interno dei cantieri e uno fuori città contengono 12.530 metri cubi di materiale radioattivo solido per un totale di 4.620 tonnellate.
Dall’inizio degli anni ’80 è in funzione un inceneritore, capace di bruciare 40 chili di scorie all’ora. Ma fino al 1991 buona parte delle scorie erano scaricate negli antistanti mari di Kara e Barents (quei «mari puliti» dove i pescherecci della pubblicità prendono i merluzzi più appetitosi); altre erano gettate nella discarica municipale, in barba ai regolamenti sulla sicurezza. È vero, che quando esse venivano scoperte, erano riportate nei contenitori Zvezdochka, ma nessuno saprà mai quanta immondizia nucleare sia sepolta nei dintorni della città. Tale immondizia aumenta ogni anno di 520 metri cubi e i silos sono oramai al collasso della loro capacità ricettiva.
A 12 km dalla città, sulle alture di Mirovna, un bunker sotterraneo (il misterioso «oggetto 379») racchiude 1.840 metri cubi di scorie radioattive. L’acqua piovana che entra e esce attraverso le sue crepe, secondo una verifica fatta nel 1991, contiene da 100 a 10.000 Bq al litro di cesio e 100 Bq di cobalto (Bq = becquerel, unità di misura dell’attività nucleare; corrisponde a una disintegrazione al secondo: ndr).
Durante le riparazioni delle navi e ricarica dei reattori, i cantieri Zvezdochka rilasciano 10.000 metri cubi di gas radioattivo. Una quantità incalcolabile di radiazioni viene riversata sulla costa e l’area circostante da un silos per la raccolta di scorie a elevata attività, aperto in più punti, e dagli innumerevoli fusti sforacchiati sparsi nei capannoni, pronti per essere inabissati in fondo al mare.
Infine cinque contenitori galleggianti, tra cui la vecchia nave cisterna Ossezia, ormai in disarmo, contengono 563 metri cubi di liquidi venefici e disperdono una radioattività di 83,8 giga Bq.
Sacha non esagera.
LA CASA DEL BAMBINO
Sacha affretta il passo e punta come un siluro la porta di una casa bassa, con vetri rotti, addobbati con figurine di cartone. Sullo stipite una scritta sbiadita e contraddittoria: «Dietzky Dom» (casa del bambino).
«Noi la chiamiamo casa dei mostri. Non ho mai avuto il coraggio di entrarci prima d’ora. E capirai perché» spiega Sacha, mentre m’introduce in un ufficio, dove ci accoglie una simpatica signora corpulenta, che si presenta come la direttrice.
Fa freddo. Non c’è riscaldamento. «Questo è un ospedale speciale per bambini – comincia la direttrice -. Dipendiamo dal governo. Ed è già un problema. Sono nove mesi che non riceviamo lo stipendio; le medicine sono quasi finite; non abbiamo più cibo per i bimbi. Però c’è molta solidarietà. Il personale continua a lavorare, perché ama sinceramente questi poverini. Venga! Potrà vedere e fotografare quanto vuole».
Mi viene aperta una porta a vetri smerigliati alla fine di un lungo corridoio buio. La bianca luce artificiale mi abbaglia per un attimo, come l’alba di un nuovo giorno, finché scorgo nei lettini un centinaio di creature che si agitano informi, urlando suoni terribili. Non sembrano bambini. La maledizione nucleare ha tolto loro quegli attributi che li contraddistinguono come figli di una natura buona, che dona mani per giocare, occhi per vedere i colori, gambe per correre a scuola.
Sacha piange in silenzio, con le braccia strette alla vita, mentre la direttrice spiega che sono tutti figli di genitori sani, operai e impiegati dei cantieri Sevmash e Zvezdochka.
Una tragedia per gli abitanti di Severodvinsk. Alcuni bambini nascono deformi; molti diventano presto sordi o si ammalano di cancro; altri rimangono orfani, perché i genitori, nella disperazione di non riuscire a sfamare i propri figli, si suicidano.

Il permesso dell’Fsb è scaduto da diverse ore. All’aeroporto, Sacha e Anatolij mi salutano appoggiando la testa contro la mia. È l’usanza dei nenets, le etnie nomadi di origine mongola, che abitano nella parte orientale della regione e vivono da secoli in armonia con la natura, prima che arrivassero la guerra fredda e i sottomarini nucleari.

E. Knight




La politica del “pombe”


Il 14 ottobre 1999 scompariva
una delle figure più significative dell’Africa. I detrattori
gli rinfacciano insuccessi e contraddizioni.
Eppure Julius Nyerere passerà alla storia come statista esemplare per coerenza morale e incrollabile fede in un futuro migliore per tutti gli africani

«Non siamo qui per ingannare la nostra gente, ma per dichiarare al paese ciò in cui crediamo». Con queste parole, rivolte al parlamento tanzaniano alla vigilia dell’indipendenza (1961), Julius Nyerere, capo del governo di transizione, indicava lo spirito con cui bisognava scrivere la nuova Costituzione e poi governare.
Con tale spirito di servizio ha guidato il paese all’indipendenza senza spargimento di sangue, ha amalgamato 130 etnie in un’unica nazione, ha garantito 30 anni di stabilità politica e di pace. E questo a differenza di quasi tutti i paesi dell’Africa.
Insuccessi economici e contraddizioni politiche non ne sminuiscono il prestigio. Per rettitudine e coerenza morale la sua figura si eleva al di sopra di quasi tutti i leaders dei paesi africani usciti dal colonialismo.
LA PERSONA
Era nato nel 1922 a Butiama, sulle sponde orientali del lago Vittoria, nella minuscola etnia zanaki. «Figlio di un capo – riderà un giorno di sé – indossai per la prima volta un vestito a dodici anni, quando mi portarono a scuola».
Recuperò in fretta gli anni perduti; si diplomò all’università di Makerere (Uganda) e, primo tanzaniano a studiare in una università britannica, si laureò a Edimburgo.
Fu a lungo insegnante di scuola secondaria nella missione cattolica di Pugu, dove affinò la sua dote più caratteristica: l’arte di comunicare con la gente con chiarezza e convinzione. Per tutta la vita vorrà essere chiamato mwalimu (maestro), definendosi tale per scelta, politico per caso.
A spingerlo nell’impegno politico furono i valori acquisiti con l’esperienza personale, la visione delle condizioni della sua gente, la profonda fede religiosa, le letture eclettiche fatte durante gli studi universitari.
Lavoratore instancabile, semplice e senza esigenze, Nyerere godeva di incontrare la gente; parlatore convinto ed efficace, la elettrizzava per ore con una loquela ricca d’immagini appropriate, proverbi e battute.
Il suo costante sorriso esprimeva affabilità, disponibilità e rispetto verso ogni persona che incontrava. Durante i festeggiamenti del saba saba (7 luglio, anniversario della fondazione del Tanu -Tanganyika African National Union), svoltisi a Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima in una scuola governativa: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico da poco indipendente e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare anche lui con le suore.
Cattolico praticante, confessione frequente e comunione spesso quotidiana, Nyerere si è fatto stimare per il rispetto verso ogni credo religioso. Parlando della sua fede, affermava che la scelta era maturata dopo un’attenta ricerca sulle varie religioni, finché si convinse che la chiesa cattolica rispondeva meglio alle sue esigenze spirituali.
Padre di otto figli, il mwalimu non spese mai una parola per assicurare loro alcun privilegio.
Non si riteneva un profeta; eppure si attribuiva una missione da vivere con onestà e passione. La componente cattolica non prevalse mai nella funzione di presidente; ma la forte componente ascetica lo portò, forse, a illudersi di poter chiedere alla sua gente livelli evangelici di dedizione irraggiungibili per la massa.
IL PARTITO UNICO
Accusato di essere antidemocratico, Nyerere affermava che il partito unico era una scelta obbligata: culturalmente impreparato alla democrazia, il paese avrebbe rischiato l’isterismo politico di altri stati africani, diventando facile preda di demagoghi abili nel cavalcare i malumori tribali o religiosi.
Il «serrate le file» del mwalimu trovava nel partito unico i presupposti per la stabilità del governo e l’accelerazione dello sviluppo economico. «Il modello tanzaniano per migliorare la qualità della vita della gente – sottolineava J. Marensin – è anzitutto un progetto politico, teso a creare l’indipendenza e unità del paese, per passare alla soluzione dei problemi a mano a mano che si presentano».
La democrazia vissuta in Tanzania non soddisfa certo i canoni di quelle occidentali, specie in fatto di libertà di stampa e opinione. Il modello di socialismo africano ha imbrigliato la democrazia tanzaniana con morse molto strette, ma l’ha anche tenuta in piedi. L’unione con Zanzibar (1964) non passò al vaglio di alcuna consultazione popolare, tuttavia riuscì a fermare i disordini cruenti provocati dall’odio fra diverse etnie. L’apparato del partito ha inevitabilmente influenzato le consultazioni popolari, ma esse si sono sempre svolte in un clima sereno e festoso.
Una macchia della democrazia tanzaniana furono le leggi sulla «detenzione preventiva», varate dopo un tentato colpo di stato; ma «anche nel periodo di maggior rigore non hanno toccato più di qualche centinaio di persone» (Marensin). Candidato presidente per la terza legislatura, Nyerere accettò con riluttanza, dichiarando che a renderlo perplesso era proprio quella legge antidemocratica, che non poteva ancora permettersi di abrogare.
Nel 1985 rinunciò volontariamente a ricandidarsi alla presidenza e nel 1990 si dimise da capo del partito, per dare spazio a idee ed energie nuove. Un gesto esemplare per il continente africano, dove autoproclamatisi presidenti a vita continuano a mantenere il potere mediante elezioni più o meno democratiche.
UJAMAA: FAMIGLIA ESTESA
Imposta al paese negli anni ’70, l’ujamaa era la traduzione tanzaniana del concetto di «socialismo» nella sua forma più accettabile, codificato nella «Dichiarazione di Arusha» (1967), magna charta del socialismo africano professato da Nyerere e dal partito unico. Alla base di tale scelta ideologica vi erano motivi politici, economici e culturali.
Motivo politico. Primo paese dell’Africa orientale ad avventurarsi sulle sabbie mobili dell’indipendenza, il Tanzania si sentiva accerchiato dal colonialismo portoghese e britannico ancora operante nei paesi limitrofi. In Sudafrica e Rhodesia cresceva l’oppressione dell’apartheid, con la copertura e connivenza del mondo occidentale. Sperare in un appoggio disinteressato dell’occidente era più che improponibile.
Motivo economico. Al momento dell’indipendenza, commercio e industrie del paese erano monopolio di asiatici, poco più di 100 mila, europei e un’esigua e ininfluente frangia africana. Per i militanti del Tanu la scelta socialista sembrava l’unica via per rompere tale accerchiamento economico.
Motivo culturale. Oltre che dalle letture sul capitalismo moderato e socialismo a sfondo cristiano, tale motivazione nasceva dalla personalità stessa di Nyerere. «Gli erano naturali l’etica aristocratica e la scarsa stima del denaro, propria delle etnie guerriere e pastorali da cui proveniva» (Marensin). Per questo trovò nell’ideale socialista la carica profetica che lo spingeva a guidare il paese verso l’indipendenza, l’unità, il progresso e il sistema socio-politico più vicino alla cultura e coinvolgimento comunitario della tradizione africana.
«Il socialismo, come la democrazia, è un atteggiamento dell’animo – scriveva nel suo libro Freedom and Unity -. Nella società socialista il requisito essenziale, perché la gente abbia a cuore il benessere vicendevole, è l’atteggiamento della mente, non la rigida adesione a un modello politico definito. Il fondamento e l’obiettivo del socialismo è l’estensione della famiglia. Il vero socialista africano non guarda a una classe di uomini come fratelli e all’altra come naturali nemici; egli guarda piuttosto a tutti come suoi fratelli, membri di una famiglia estesa».
CAMMINO DIFFICILE
«Secondo la Dichiarazione di Arusha – afferma Nyerere in Freedom and Socialism – scopo di ogni attività sociale, economica, politica deve essere l’uomo, il cittadino e tutti i cittadini di questa nazione. Produrre ricchezza è cosa buona e dobbiamo sforzarci di accrescerla. Ma non sarà più buona, appena la ricchezza cesserà di essere a servizio dell’uomo».
Strumento privilegiato per attuare questi ideali fu l’istruzione: per vari anni le venne destinato il 12% del bilancio statale. Il Tanzania diventò uno dei paesi africani col più alto livello di alfabetizzazione. Ma quando le scuole furono nazionalizzate, cominciò il degrado di strutture e standard d’insegnamento.
La ricerca di equilibrio fra privato e comunitario fu un problema spesso contraddittorio, come dimostra la storia delle cornoperative private. Incoraggiate fin dalla nascita del Tanu (1954) come strumento di progresso e dichiarate da Nyerere parte integrante della vita nazionale, all’inizio del 1970 Derek Bryceson, ministro dell’agricoltura, le definì strutture di latifondismo e fonti d’ineguaglianza. Abolite nel 1976, furono risuscitate nel 1983, per essere definitivamente smantellate dal processo di nazionalizzazione insieme alle banche, compagnie assicurative e grandi aziende.
Per Nyerere la «cornoperativa» dell’ujamaa restava la pietra angolare della politica di autosufficienza, strumento privilegiato di progresso economico. Negli anni 1967-69, il governo fece uno sforzo impressionante per dotare i villaggi di macchinari agricoli modei, che diventarono presto inutile ferraglia, per mancanza di tecnici e manutenzione. E per assicurare un adeguato guadagno ai contadini, fu creato l’ammasso dei prodotti agricoli di consumo ed esportazione; iniziativa scaduta a strumento fiscale a vantaggio del governo e del partito.
L’ujamaa doveva realizzarsi mediante l’adesione volontaria, nell’intenzione del mwalimu, convinto che si possa obbligare la gente a vivere in uno stesso villaggio, ma non a lavorare assieme. A partire dal 1974, però, il processo di «villaggizzazione», già avviato in alcune regioni, fu esteso forzatamente a tutto il paese.
Tale operazione non mancò di produrre effetti positivi, rendendo accessibili a tutti i servizi primari: acqua, scuola e dispensari. Ma sul momento impose notevoli sacrifici alla popolazione, in maggioranza riluttante alle fattorie collettive. Sotto l’aspetto economico fu un fallimento. La produzione agricola diminuì sensibilmente: molti terreni fertili furono abbandonati, perché troppo lontani dai nuovi insediamenti e quelli vicini richiedevano tempi lunghi prima di diventare produttivi.
La stagnazione economica fu aggravata da persistenti siccità e dalla crisi petrolifera: Nyerere dovette dar ordine di vuotare le banche per comprare le derrate.
Le difficoltà economiche sperimentate dagli anni ’70 in poi, mettono in dubbio la validità della politica economica di Nyerere, ma non sembra ci fossero valide alternative in un paese come il Tanzania, ricco di fauna e bellezze naturali, ma terribilmente avaro di risorse che permettano una rapida crescita economica.
GUERRA CONTRO AMIN
Verso la fine del 1978 il Tanzania fu inaspettatamente invaso dai soldati ugandesi di Idi Amin. La risposta di Nyerere fu immediata. L’esercito tanzaniano, insieme agli esuli ugandesi, cacciarono gli invasori, passarono le frontiere e conquistarono la capitale, Kampala, per liberare il paese dal regime del sanguinario dittatore.
La guerra contro l’Uganda è l’episodio più sconcertante della vita del mwalimu: uomo di pace, fu il primo statista africano dell’era postcoloniale a invadere un paese africano e conquistae la capitale. Più sorprendente fu la reazione internazionale: nonostante l’universale condanna delle atrocità commesse da Amin, il Tanzania fu lasciato solo nella dispendiosa impresa per sloggiare il dittatore. Anzi, molti paesi africani presero subito le distanze da Nyerere, rimproverandolo di violare i principi dell’Organizzazione di unità africana, e le potenze occidentali lo isolarono, considerando la sua avven- tura senza infamia e senza lode.
Eppure Nyerere diede al mondo un’esemplare lezione di affermazione dei diritti umani, come aveva fatto negli anni precedenti, offrendo asilo ai movimenti di liberazione in lotta contro il colonialismo portoghese e schierandosi in prima linea con i paesi contrari ai regimi razzisti del Sudafrica e Rhodesia.
Più che l’immagine di Nyerere, fu il paese a pagare il prezzo della guerra ugandese: il Tanzania ne uscì economicamente dissanguato e dovette chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi). La nazione cominciò a dipendere dagli aiuti stranieri più di ogni altro paese africano.
Tale richiesta fu dibattuta con acrimonia nel paese, poiché minava l’indipendenza autarchica per cui Nyerere si era battuto. Le drastiche misure imposte dall’Fmi (svalutazione monetaria, liberalizzazione dei prezzi e apertura delle frontiere alle importazioni) avrebbero aggravato la situazione dei più poveri, contadini soprattutto, a vantaggio dei soliti faccendieri.
Con la liberalizzazione saltò anche il codice etico del partito, ratificato dalla Dichiarazione di Arusha, che impediva a ministri e dirigenti di partito di approfittare del potere per scopi privati. La corruzione, poco appariscente sotto la presidenza del mwalimu, diventò sempre più rampante a mano a mano che la politica economica si apriva al libero mercato.
TANZANIA OGGI
Il potere d’acquisto del salario minimo rimane inchiodato a 12 dollari, come 20 anni fa. Con un reddito pro capite inferiore a 120 dollari l’anno, il Tanzania è tra i paesi più poveri del mondo. Tuttavia non bisogna dimenticare che buona parte delle esportazioni sfugge alle statistiche ufficiali: nel 1986 il 40% era l’esportazione del caffè e, a suo tempo, l’80% dell’avorio; oggi sono oro, cuoio, pelli a evadere il controllo statale.
Il paese ha accumulato un debito estero di circa 8 miliardi di dollari: cifra imponente per un paese di 30 milioni di abitanti con salari minimi tanto bassi. Tra i progetti controversi, realizzati con tale indebitamento, c’è la nuova capitale, Dodoma, costruita al centro geografico del paese: operazione più di facciata che di reale sviluppo. Eppure i mille chilometri di asfalto e altrettanti di ferrovia verso lo Zambia, a suo tempo contrastati dai paesi occidentali, si sono dimostrati provvidenziali per l’indipendenza dello Zimbabwe e, ancora oggi, indispensabili per il progresso del paese.
Alcuni progetti industriali, purtroppo, non sono mai entrati in funzione; altri non superano il 30% del potenziale produttivo. Colpa della corruzione intea, certamente; ma più colpevoli quei funzionari occidentali che hanno intascato buona parte delle somme destinate allo sviluppo di una nazione così povera.
La liberalizzazione sta trasformando Dar Es Salaam in un paese di cuccagna per addetti alle ambasciate, tecnici stranieri e pochi «fortunati» locali; vi si trova di tutto: fuoristrada, televisori, elettrodomestici, alcornolici e articoli di lusso. Ma per la gente povera non restano neppure le briciole di tanto benessere.
EREDITÀ DEL MWALIMU
Ritirandosi dalla vita politica, Nyerere aveva dichiarato: «Nonostante il fallimento, rimarrò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania». I suoi successori hanno sposato capitalismo e libero mercato; ma i benefici non si vedono.
Nonostante tutto, l’esperienza dell’ujamaa ha consolidato il senso di unità e solidarietà del popolo tanzaniano e rimane l’humus naturale per sperare in un futuro migliore. È il senso «della famiglia estesa» a far sì che un nucleo familiare di otto persone, con un unico stipendio, in una capanna di fango alla periferia di Dar Es Salaam, accolga e curi un parente tisico venuto dall’interno del paese.
Lo stesso spirito comunitario tiene viva la tradizione del pombe ya kulima (birra indigena per la coltivazione) nei villaggi, dove tutti gli abitanti si aiutano a vicenda nel lavoro agricolo e la famiglia proprietaria dei campi prepara il pombe in abbondanza, da consumare fra tutti in un clima di festa.
La solidarietà comunitaria rende naturale la partecipazione di tutti alla gioia o al lutto del singolo. È altrettanto spontaneo, passando accanto al vicino, togliergli la zappa di mano e sostituirlo per un momento nel lavoro.
L’ujamaa è morta… Viva l’ujamaa!

Giulio Belotti




COSTA D’AVORIO – Un pozzo per tutti

Sono poco più di tre anni che i missionari
della Consolata sono arrivati in Costa d’Avorio.
Ma qui si è voluto cominciare in uno stile
un po’ diverso:
fatto di povertà,
vicinanza alla gente, condivisione totale.
Grazie anche
alle idee chiare di padre Armando, il pioniere…

È vero: non si può conoscere un paese in soli 10 giorni di permanenza! Anche il mio (Canada) non lo conosco perfettamente, pur essendoci nato da oltre 50 anni. Tuttavia, in poco più di una settimana, si colgono tantissime impressioni e a tutti si possono domandare parecchie informazioni. Ecco, allora, qualche impressione del mio viaggio.
Ma, prima di tutto, dove si trova la Costa d’Avorio? Naturalmente in Africa Occidentale, cioè la parte ovest del continente nero che si protende verso le Americhe e che, a sud del Sahara, va dal Senegal al Cameroun. Con una costa di 550 chilometri, il paese tocca l’Oceano Atlantico, che qui prende il nome di golfo di Guinea. E non è ancora una regione desertica, pur essendo vicino al Mali e al Burkina Faso.
Lungo l’oceano, c’è una zona forestale dove abbondano le grandi piantagioni di hevea (per la gomma), palme (per produrre olio), cacao (per fare cioccolato) e cotone; poi, più si sale verso nord, la vegetazione si impoverisce, senza mai diventare però un deserto.
La Costa d’Avorio è tra i massimi produttori mondiali di caffè, cacao e olio di palma. L’85% della popolazione vive di agricoltura. Il quarto delle entrate viene dall’industria (soprattutto alimentare), dal legno e prodotti tessili. Un tempo era ricca di elefanti: da cui il nome dato al paese. Il reddito per abitante supera i 1.600 dollari l’anno, ma gran parte delle risorse finiscono nelle tasche di compagnie estere.
Il paese ha accolto e accoglie ancora una grande popolazione straniera, soprattutto provenienti dal Burkina. I quasi 15 milioni di abitanti si suddividono in più di 100 etnie differenti, la metà dei quali ha meno di 20 anni.
I portoghesi vi erano sbarcati lungo la costa nel 1469, cioè 23 anni prima della scoperta dell’America e, solo un secolo più tardi, il traffico degli schiavi era diventato in questi luoghi particolarmente intenso. Non dimentichiamo che la vicina Liberia è un paese fondato da schiavi neri, rientrati dagli Stati Uniti dopo essere stati liberati.
È la Francia che ereditò questo paese come colonia nel 1893. La Costa d’Avorio divenne indipendente nel 1958, grazie soprattutto all’azione del suo primo presidente, Felix Houphouet Boigny.
E la chiesa? Alcune missioni cattoliche erano già state installate nel 17° secolo, ma senza futuro. È solo con la colonizzazione francese che la vera evangelizzazione poté prendere il via. Attualmente i cattolici sono circa il 15% della popolazione, distribuiti in 14 diocesi.
gli inizi
Padre Armando Olaya, di origine colombiana, è il pioniere dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. Vi è arrivato il 22 dicembre 1996 e, tre mesi più tardi, si installava nella parrocchia di San Pedro con due altri missionari: i padri Manolo Grau e Andrés Garcia, spagnoli. Quasi subito il vescovo lo nominava parroco della cattedrale.
I missionari non arrivano tutti con un piano ben preciso del loro futuro lavoro; ma non è stato così per Armando. A questo l’avevano preparato le sue origini sudamericane (con la teologia della liberazione), ma anche la sua specializzazione in scienze bibliche a Roma e il suo lavoro, di qualche anno, presso gli indios colombiani.
Ciò che ha profondamente ispirato il giovane missionario è lo stesso programma che Gesù si era dato in uno dei suoi primi discorsi. A Nazaret, in giorno di sabato, Gesù aveva preso la bibbia, leggendo un passaggio del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, poiché mi ha consacrato con l’unzione, per annunziare ai poveri la buona novella. Mi ha mandato a proclamare la liberazione ai prigionieri e ai ciechi la vista; mandare gli oppressi in libertà e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 16-19).
Armando si è sentito inviato ai poveri e, per lui, il cuore dell’evangelizzazione è l’annuncio della buona notizia di Gesù ai poveri, trovati nelle bindovilles di Bardot.
Ma, per padre Armando, essere missionario non è solo proclamare il vangelo ai poveri, bensì accettare di essere anch’egli evangelizzato da loro. Questi sono il modello perfetto di vita evangelica. Certo i poveri non sono santi, ma è in loro che noi ritroviamo il volto più vero di Gesù, perché lui stesso ci ha insegnato: «Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me».
Un altro missionario mi ha raccontato la reazione di padre Armando il giorno in cui gli avevano rubato la macchina, in piena bidonville. Per lui il ladro non poteva essere un povero, perché una simile «ingordigia» dei beni non è concepibile nel cuore di un vero povero!
una comunità fratea
Molti missionari si sentono inviati ai poveri e lavorano molto per loro: per sollevarli dalla miseria, portare un po’ di consolazione e speranza… Padre Armando non ha voluto però adottare questa strategia missionaria e costantemente ripete: «Noi non siamo qui per i poveri, ma siamo qui con i poveri».
E quando dice «con i poveri», vuol semplicemente dire «come i poveri». Non è colui che sa di fronte agli ignoranti, ma desidera camminare con loro verso la verità; non è chi ha sempre tutte le soluzioni per la gente, ma vuole avanzare insieme verso migliori condizioni di vita; non è nemmeno il benefattore dei miseri che non possiedono nulla, ma con loro vuol lavorare perché tutte e tutti abbiano una vita migliore.
Durante una riunione con i leaders della comunità, l’ho inteso dire: «Quello che noi vogliamo qui, nella parrocchia di San Pedro, non è una comunità ricca, ma una comunità fratea».
E per lui non sono parole vuote: con i suoi compagni si è installato nel cuore della bidonville, in una modestissima casetta di legno, senza elettricità, né acqua corrente. Vive in mezzo ai suoi poveri che, per sopravvivere, devono sgobbare tutte le ore; di conseguenza, attorno alla «canonica», c’è confusione fino alle ore piccole del mattino.
Perfino un missionario di origine africana ha confessato di avere dei problemi a risiedere a Bardot, proprio a causa di questo continuo rumore. E, la maggior parte delle volte, Armando preferisce spostarsi nel quartiere a piedi, come tutti.
Quando si osservano le nostre chiese europee e nordamericane, si ha l’impressione che non siano ricche solo di grandi edifici, ma anche di centinaia di istituzioni che hanno contribuito alla vita delle nazioni. Eppure i fedeli diminuiscono e un senso di scoraggiamento pervade un po’ tutti.
Padre Armando, come molti giovani e molti giovani missionari, non vuole correre questo rischio: non si fida di tutto ciò che sa di istituzione, mezzi sofisticati, grandi strutture… Quando si vive con i poveri bisogna accettare la provvisorietà, essere disposti a cambiare i propri piani di azione, rassegnarsi a tanti imprevisti.
Armando esita molto a costruire case di mattoni; per lui la vera chiesa non è fatta di pietre o cemento, nemmeno di organizzazione o movimenti, ma è l’assemblea dei discepoli del vangelo, di coloro che vivono come Gesù di Nazaret.
un pozzo per conoscersi
Un bell’esempio della sua strategia è certamente il pozzo che ha fatto scavare nel cortile, accanto alla chiesa. Non conosco altri missionari che abbiano fatto la stessa cosa; in genere coprono il pozzo e portano l’acqua corrente in casa. Armando non ha fatto così.
Il pozzo è in un cortile aperto a tutti e «il parroco» invita vicini e vicine a venire per attingere acqua. Non è forse una buona occasione per conoscerli? Per conoscersi gli uni gli altri e intavolare così un discorso di salvezza, come lo stesso Gesù ha fatto con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe?
Ma c’è un prezzo: il cortile della casa è continuamente pieno di gente, dal mattino alla sera. E per i missionari la privacy è semplicemente un sogno. Ma anche questo vuol dire stare con i poveri.

Jean Parè




Fede e Cristiani

Nel ricordare la settimana di preghiera
per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio),
ci soffermiamo sulla Dichiarazione congiunta
dei cattolici e luterani
circa la dottrina della giustificazione per la fede.

ll 31 ottobre 1999 una rappresentanza della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale firmarono ad Augusta (Germania) la «Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione per la fede».
La città di Augusta ricorda il 1530, quando Filippo Melantone con l’approvazione di Lutero presentò all’imperatore Carlo V la cosiddetta Professio Augustana, come tentativo di pacificazione tra luterani e cattolici. Andò però a vuoto.
Il quarto articolo di Professio riguardava la «giustificazione», cioè: «Gli uomini non possono essere giustificati davanti a Dio mediante le proprie forze, i propri meriti e le proprie opere, ma lo sono a causa di Cristo mediante la fede».
Quando il 31 ottobre scorso giornali e televisioni diedero l’annuncio che cattolici e luterani avevano risolto con una firma su un documento comune il contenzioso sulla giustificazione, pare che ben pochi ne abbiano avvertito l’importanza. Giustificazione? Che è mai?
«Si sono tolti – avrà pensato qualcuno – un sassolino dalla scarpa, un moscerino dall’occhio, un brufolino dal volto!». Ma non è così.
Anche se la parola «giustificazione» ai più non dice nulla o quasi nulla, indica l’architrave del cristianesimo. Per i luterani è fondamentale, e lo deve essere anche per i cattolici come «espressione globale della salvezza, dono gratuito di Dio».
P urtroppo c’è da dire che le due parole «giustizia» e «giustificazione», usate dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, assunsero un significato ambiguo, legato alla terribile idea di condanna, mentre Dio non vuole la condanna, ma che tutti gli uomini si salvino (1 Tim. 2, 4-6).
Lutero, commentando il versetto della Lettera ai Romani 3, 20, scriveva: «Una scimmia può imitare bene le opere degli uomini, ma non per questo è un uomo. Che se diventasse uomo, senza dubbio ciò non avverrebbe per virtù di queste opere, ma per altra virtù, quella di Dio». Così è per l’uomo peccatore: se riaggiusta il suo rapporto con Dio, ciò avviene come «puro dono di Dio»; poi seguiranno le opere buone, «ma non sono queste a riabilitarlo».
La firma del 31 ottobre non costituisce una novità, perché già da parecchi anni l’accordo era stato di fatto raggiunto. Il 9 febbraio 1972, con il «Rapporto di Malta», cattolici e luterani riconoscevano che, se in passato c’erano stati sulla «giustificazione conflitti teologici particolarmente aspri», «attualmente si è raggiunto un consenso di vasta portata»: la giustificazione viene intesa dalle due parti come «una realtà che abbraccia l’uomo peccatore».
Che al riguardo esista ormai un «ampio consenso» è stato riconfermato il 23 febbraio 1980, in occasione del 450° anniversario della Confessio Augustana. La stessa espressione «ampio consenso» ritorna in documenti congiunti del 1981, 1983 e 1984. Giovanni Paolo II nel 1980 giunse persino a dire che la Confessio Augustana «rifletteva un pieno accordo sulle verità fondamentali e centrali».

N el 1976 usciva in Italia la traduzione interconfessionale in lingua corrente del Nuovo Testamento. I traduttori della Lettera ai Romani, invece delle due parole usate da Paolo «giustizia» e «giustificazione», introdussero espressioni più chiare: essere giustificati è «Dio che accoglie come suoi quelli che credono»; «è essere nella giusta relazione con Dio, perché Egli nella sua bontà ci ha liberati gratuitamente per mezzo di Cristo»; «è essere totalmente uniti a Lui» (cfr. Rom 3, 17,24,28; 5, 16,18; 6, 5, ecc.).
La firma del 31 ottobre non è una cosa da nulla, anche se rimangono parecchi altri punti da risolvere. È però un ricordare in modo chiaro ai cattolici (in particolare ai missionari, impegnati nella prima evangelizzazione) quale sia il punto centrale del cristianesimo. Questo prima di tutto.

C ome cattolici, quella firma ci ricorda che dobbiamo accettare, senza resistenze, un altro grande avvenimento: la riabilitazione, cioè, di Lutero.
Lutero non è un santo, ma neppure un tizzone di inferno. Le Chiese luterane sono le prime a riconoscere «i limiti personali di Lutero; non approvano i suoi eccessi polemici; sono inorridite degli scritti antigiudaici della sua vecchiaia».
Nonostante ciò, il 6 maggio 1983, in occasione del 500° anniversario della nascita di Lutero (1483), cattolici e luterani dichiararono Martin Lutero «testimone del vangelo», «un maestro della fede e un messaggero di rinnovamento spirituale…, portato dai suoi intensi studi scritturistici alla scoperta della misericordia di Dio».
Lutero morì nel 1546, dicendo: «Siamo tutti

Igino Tubaldo




L’otto per mille e il sud del mondo

Spettabile redazione,
oggi è domenica, ma non ho voglia di andare a messa. Non ho voglia di ascoltare la solita predica, uguale a tutte le altre. La conosco già, non mi serve. Quando uno esce di chiesa, tutto ciò che rimane è la benedizione finale. Un po’ poco. Poco per la parola di Dio che rimane tutt’oggi rivoluzionaria.
Domenica scorsa la parola di Dio si riferiva a violenza ed oppressione, ma il sacerdote non ne ha fatto cenno. Diceva: «Bisogna lasciarsi sedurre da Gesù». Ma che vuol dire? Se, per capire cosa si deve fare per «lasciarsi sedurre da Gesù», uno deve arrangiarsi da solo, allora il prete si legga le letture da solo. O no?
«Violenza ed oppressione» e neanche un pensiero alla guerra, all’Africa martoriata dagli interessi economici dei paesi ricchi e soffocata dal debito estero. «Violenza ed oppressione» e niente sul Fondo monetario internazionale, né sul G-8 o il M.A.I. Nulla sull’aborto né su di noi, chiesa ricca, che ogni giorno abortiamo i figli più poveri e indifesi. Come il ricco epulone nei confronti di Lazzaro, ci accontentiamo che i poveri raccolgano le briciole di questa ricchezza.
L’«otto per mille» ha fruttato alla chiesa modenese 9 miliardi di lire, di cui solo 20 milioni sono andati ai poveri del terzo mondo, ovvero ai missionari diocesani in Brasile.
Mi chiedo: quante chiese, scuole e ospedali i missionari hanno potuto fare con i 20 milioni ricevuti l’anno passato? Non prometteva «opere missionarie» la simpatica pubblicità dei due vecchietti, che fantasticavano di aver fatto chissà quante cose a favore dei poveri con una firma in favore della chiesa cattolica? Fatti contano, solo fatti. «Dai frutti si riconosce l’albero».
Nell’agosto scorso due ragazzi africani sono arrivati morti a Bruxelles, nascosti nel carrello di un aereo. Portavano una lettera di supplica ai potenti d’Europa. Denunciavano la situazione disperata dell’Africa: malattie, guerre, fame e chiedevano aiuto. Chiedevano istruzione, lavoro, salute. Volevano, anche loro, imparare a giocare a calcio e pallacanestro… E hanno dato la loro vita per portare un messaggio che tutti noi conosciamo da sempre. E ignoriamo tutti i giorni.
Fatti contano, solo fatti. Basta raccontare favole! Spendere incenso e parole d’amore col cuore e poi tenere i pugni ben chiusi. Abbiamo il coraggio di dire veramente una parola d’amore: «Un miliardo».
Sì, un miliardo all’anno per il sogno di questi ragazzi. Per qualche campo di calcio in Africa. Per una piscina in Brasile: a San Paolo i ragazzi muoiono nelle riprese di acqua potabile, dove sono andati a fare il bagno abusivamente, perché ogni tanto parte l’aspiratore che distribuisce l’acqua e risucchia anche i ragazzi. Milioni di ragazzi in Brasile (per non parlare dell’Africa) non l’hanno mai vista una piscina. Perché i nostri ragazzi debbono avere tutto e crescono viziati e loro, persone di serie Z, nulla? È vangelo questo?
Le nostre chiese sono belle, è vero; ma le loro belle fondamenta annegano nel sangue di migliaia di persone ignorate, lasciate morire di fame, guerra, ignoranza. E un giorno qualcuno dovrà rendere conto di questi talenti insanguinati e qualcun altro giudicherà meriti e colpe.
Nell’anno giubilare ci sia almeno un segno tangibile di speranza! Che qualcosa nel nuovo millennio possa cambiare! Che quei giovani, anzi, quei piccoli eroi-santi, non siano morti invano!

Il signor Guidotti alla lettera, sottoscritta pure da 43 persone, ha aggiunto il seguente post scriptum: «Non ho l’intenzione di creare polemiche o di gridare allo scandalo, ma di aprire un dialogo critico e propositivo su di noi, chiesa, che ancora ci “accontentiamo”, quando avremmo potuto e potremmo fare molto di più. Di più per questo mondo che trema e sanguina. Di più per questi fratelli che si interrogano disorientati, figli di un Dio minore».
È in questo spirito che pubblichiamo la lettera.

Guido Guidotti




Non mollate!

Caro direttore,
sento il bisogno di manifestare il mio plauso alla rivista che dirige: una rivista coraggiosa di solidarietà evangelica e di «tutta» la politica internazionale, specialmente quella che investe i più poveri. A tutta la redazione dico: «Non mollate nonostante le

Luigi Longhi




Burundi come Rwanda?

Spettabile redazione,
qui cerchiamo di procedere «moltiplicando l’attenzione» o, come si dice da queste parti, «tenendo le orecchie al coperto».
Gli ultimi violenti attacchi a Bujumbura da parte dei guerriglieri, le rappresaglie dell’esercito e la continua instabilità (anche sulla strada che dobbiamo percorrere per raggiungere la capitale)… hanno elettrizzato l’ambiente.
Il grosso pericolo sta nelle milizie tutsi (i famigerati sans échec) che si starebbero riarmando per «difendersi». Sono gruppi pericolosissimi, perché pilotati da estremisti e senza il controllo di alcuna autorità. A Gitega ci sono molti «ex», impazienti di riprendere le armi.
Uno scenario possibile (speriamo di sbagliarci) è un’esplosione di violenza simile a quella del Rwanda nel 1994.
Intanto ad Arusha (Tanzania) i colloqui di pace proseguono senza progressi rilevanti. In questi giorni c’è un nuovo giro di consultazioni. Ma non tutti siedono ad Arusha, e gli assenti aumentano la violenza proprio durante «i colloqui di pace», per far sapere che ci sono e sono forti. Voci di incontri diretti e segreti tra questi gruppi e il presidente Buyoya potrebbero essere vere e portare a soluzioni.
Ma il presidente è in bilico e, se salta, saranno grossi guai.

Burundi, Rwanda… Siamo nella regione africana dei Grandi Laghi, forse la più calda del mondo, dove la pace sembra una chimera.
I timori, espressi dalla lettera pubblicata, sono confermati anche dalla lega Iteka, un importante gruppo burundese che si batte per i diritti umani. «Nonostante tre decenni di violenza ciclica, cinque anni di guerra civile e un anno di parole a Arusha – scrive Iteka – il Burundi è ancora sotto la minaccia di forze antagoniste, settarie e fanatiche». In altri termini, tensioni estreme fra tutsi minoritari e hutu maggioritari.
La comunità internazionale ha fatto sapere che non aiuterà il paese fintanto che gli accordi di pace di Arusha non si concluderanno positivamente. Intanto si vive nel terrore del peggio. E non mancano gli eccidi.

Lettera firmata




“Consolata”

Cari missionari,
la mia commozione è grande! Ho ricevuto la grazia dalla Madonna Consolata, che ha esaudito il mio più grande desiderio dopo averla pregata con fede.
Sono una ragazza di 19 anni e scrivo per ringraziare, anche pubblicamente, la Vergine… Tutto mi andava male fino al giorno in cui mi sono rivolta a lei; e lei ha messo le mani su di me. Oggi mi sento anch’io un po’ consolata.
Anche se la situazione resta delicata, continuo a pregare. Aiutatemi pure voi, pregando per me.

Certamente, Alessandra. Preghiamo anche «con» e «per» tante altre persone. È pure «un dovere di riconoscenza» verso tutti quelli che vogliono bene ai missionari.

Alessandra




Strage nella…donazione d’organi

Egregio direttore,
con la legge 91/99, lo stato italiano ha decretato l’esproprio del corpo umano in nome di un solidarismo di facciata, che nasconde ben altri interessi inconfessabili. Mentre sull’aborto ed altre aberrazioni la chiesa ha fatto sentire la sua voce autorevole, così non è stato nei confronti del trapiantismo selvaggio, della falsa morte cerebrale, dell’immane e silenziosa strage. In questo caso, la voce della chiesa è stata flebile, tardiva e spesso compiacente, salvo eccezioni.
Si è costruita un’etica che ha dato ai medici il potere di decidere chi deve morire. Non c’è vera etica se non quella che protegge ad oltranza la persona umana; tutto il resto porta ad una società disumana, totalitaria, che impone la morte dei deboli in nome della vita dei forti.
Con il riscontro diagnostico, a discrezione assoluta del primario ed effettuato anche a cuore battente, si aggira l’ostacolo della manifestazione di volontà contraria alla «donazione».
È di tutta evidenza che, come i donatori di sangue e di midollo osseo sono vivi, così lo sono altri donatori di organi; ma sono dichiarati morti, per sottrarre medici ed operatori sanitari all’incriminazione per omicidio volontario, aggravato dal raggiro ai danni dei familiari del morente.

Nel dicembre scorso Missioni Consolata ha sfiorato il problema della donazione di organi, senza però addentrarsi in questioni giuridiche che non le competono.
Riteniamo illuminante un articolo de La civiltà cattolica, 18 settembre 1999, che riporta anche il pensiero di Pio XII. Nel 1956 papa Pacelli affermava che il prelievo della cornea, per esempio, non offende la pietà dovuta al defunto, ma acquista il significato di carità verso i fratelli. Questo e fatti analoghi hanno nulla a che fare con il «trapiantismo selvaggio», certamente da condannare.

Carlo Barbieri




Consensi da Israele

Caro direttore,
le farà piacere sapere che l’intervista, apparsa su Missioni Consolata di settembre 1999, ha raccolto consensi sia sulla presentazione che sui contenuti. Due diplomatici in Israele hanno voluto esprimere apprezzamento, come pure monsignor Capovilla, antico segretario di papa Giovanni XXIII. È piaciuto anche il riquadro dove si accenna al «solito ignoto».
Qui a Gerusalemme ci si prepara al 2000: incontri, progetti e programmi, nella speranza che non si perda di vista l’essenziale.
Barak e Arafat persistono, tra un arresto e una ripresa, a scommettere sulla reciproca volontà di pace. Sarà difficile, ma non impossibile arrivare a un negoziato tra i due contendenti. Poi sarà la volta della Siria, osso duro, punto nodale e decisivo per la stabilità della regione.

I lettori ricordano certamente l’intervista su Israele con padre Marco, che ha lavorato anche con papa Giovanni. E rammentano pure la vicenda del «solito ignoto», alias Sandro Pertini.

p. Marco Malagola