La mafia delle donne

Talvolta un solo verso poetico può aprirci una nuova visione del mondo, lasciandoci affascinati o perplessi e, persino, sconvolti.
Con una prosa sagace, la scrittrice indiana Anita Desai ci racconta nel romanzo In custodia avventure e disavventure, incontrate da un pavido professore universitario di hindi, per intervistare un famoso e venerato poeta urdu.
Anita Desai, nata nel 1937 a Mussoorie (India) da madre tedesca e padre bengali, è una delle scrittrici indiane più conosciute ed apprezzate a livello mondiale. Ha scritto una decina di romanzi, alcuni libri per bambini e ha ottenuto numerosi riconoscimenti a livello internazionale.
Sposata e madre di quattro figli, la Desai attualmente divide il suo tempo tra Nuova Delhi, dove vive con la famiglia, e gli Stati Uniti; qui dove insegna in un programma di scrittura creativa al Massachusetts Institute of Technology. Dopo aver frequentato le scuole superiori e l’università a Delhi, in ambienti esclusivamente femminili, Anita si sposò e sviluppò la sua passione per la scrittura. «Un anno dopo il baccalaureato – racconta – mi sposai e per la prima volta entrai in un mondo gestito e controllato da uomini. Fu uno shock.
Un’esperienza abbastanza comune per le donne della mia generazione, che affrontammo in modi diversi… Il mio modo è stato la scrittura. Sin da quando mi impadronii dell’alfabeto, fui affascinata nel vedere come le lettere e parole si mettevano in ordine su di una pagina; creavano dei disegni e avevano ragione, logica e maestria; eppure lasciavano all’immaginazione spazi da riempire. Mi accorsi di come anche il caos della vita avrebbe potuto essere messo su carta, per ottenere un senso e significato».

C on poche immagini, pregne di significato, Anita Desai riesce nel romanzo In custodia a chiarirci il «caos», caratterizzato da conflitti e tabù, nelle pratiche religiose dell’India.
La scrittrice ci racconta il suo paese: «Naturalmente l’area intorno alla moschea era considerata “musulmana” e il resto passava per “indù”… Se due fazioni si scontravano, come accadeva di tanto in tanto, balenavano i coltelli, i bastoni calavano e scorreva il sangue. Per un certo tempo la tensione restava alta. I quotidiani in hindi e urdu si colmavano di servizi prudenti e di editoriali insinceri sulla laicità dell’India, mentre la notte apparivano fogli con notizie meno caute, miste a minacce ed accuse. Poi la polvere della città di Mirpore si levava e turbinava, seppellendo di nuovo ogni cosa all’orizzonte; i cittadini tornavano alla lotta quotidiana per respirare. Gli indù uccidevano i maiali nel loro quartiere, mentre i musulmani avevano cominciato a macellare i bufali in luogo delle vacche, avendo compreso che altrimenti sarebbe stato un suicidio. I pochi cristiani mangiavano la carne di entrambi gli animali e frequentavano l’unica chiesetta in mattoni imbiancati, posta in un cimitero ombreggiato da polverosi alberi di nim».

A Mirpore vive e insegna Deven, professore di hindi, ma da sempre innamorato della poesia urdu, nata nel fasto delle corti islamiche dell’India settentrionale. Deven pensa di aver incontrato la più grande occasione della sua vita quando gli propongono di intervistare a Delhi il grande poeta Nur.
Con realismo disincantato la Desai ci racconta i retroscena della vita personale del pavido professore, le amare sorprese della città e dell’ambiente in cui è praticamente tenuto «prigioniero» il famoso vate. Le donne, che a prima vista paiono così remissive e passive, di fatto condizionano pesantemente la vita di uomini, che si credono padroni e indipendenti.
La Desai svela gli intrighi, che avevano già caratterizzato il matrimonio del professore. Infatti scrive: «Deven era un poeta più che un insegnante, quando aveva sposato Sarla (era stato assunto solo come professore incaricato temporaneo e ancora aveva fiducia nei propri versi) e lei, come moglie di un poeta, sembrava troppo prosaica. La scelta, naturalmente, non era stata sua, bensì di sua madre e delle zie, donne astute e prudenti. Sarla era la figlia dell’amica di una zia, viveva nella stessa strada di quella famiglia; l’avevano osservata per anni e l’avevano trovata adatta sotto ogni riguardo: insignificante, spilorcia e congenitamente pessimista… Sarla non alzava mai la voce: innumerevoli generazioni di donne indù alle spalle le sbarravano il passo, impedendole di manifestare aperta ribellione. Deven sapeva che avrebbe urlato e insultato solo una volta al sicuro, preferibilmente in cucina, il suo dominio».
Sarla e le zie di Deven paiono teneri agnellini al confronto delle donne islamiche, che circondano il famoso ma ormai decadente poeta. La prima moglie si ingegna ad estorcere denaro a chiunque desideri intervistare il poeta, mentre la seconda moglie, più giovane almeno in apparenza, ha calpestato la fama del marito per atteggiarsi lei stessa a poetessa. Sbigottito Deven si chiede: «Che cos’era questa calda convivialità femminile, che lo giudicava una figura ridicola e riduceva perfino l’anziana e veneranda persona del poeta Nur a un patetico e logoro cuscino da cui usciva una vecchia imbottitura stantia? Questa donna, questa cosiddetta poetessa, faceva parte di quella a lui ben nota mafia femminile – pensò -, guardandola con palese disgusto… C’era stata un’altra lotta – si domandò nel panico – come fra tigri gelose? Era forse una scena abituale in questa casa di felini feroci? Non avrebbero, insieme, divorato la carne indifesa e tremante del poeta e anche la sua?».

L a Desai dipinge un’India che si dibatte fra tradizione e modeità, in cui la voglia di innovare è mortificata da piccoli atti vandalici, come quelli previsti per la festa del college.
«Un uomo con una scala a pioli tolse dalle plafoniere le lampadine bruciate e ne avvitò di nuove, il lungo volto imbronciato dalla consapevolezza che, entro una settimana, tutte sarebbero state rotte o rubate un’altra volta». Eppure, malgrado le vicissitudini sofferte, Deven si sente «custode dell’anima stessa e dei versi di Nur… mentre la loro melodia gli sussurra all’orecchio:
Il mio corpo è solo un calamo
reciso dalla punta della spada,
arido e vano finché non è intinto
nell’inchiostro del sangue della vita».

Silvana Bottignole




Certosa missionaria

È un centro di spiritualità missionaria. Numerosi giovani (ma anche adulti) lo frequentano per un rapporto profondo con Dio: e riscoprono anche
la frateità con gli uomini. Da quest’anno ha «una marcia» in più, con l’apertura della prima chiesa abbaziale.

La certosa di Pesio
(Cuneo), oasi del sacro dal medioevo ai giorni nostri, ha scritto nel vespro dell’Assunta del 1999 un’altra pagina luminosa della sua plurisecolare storia…
Immersa nel silenzio e nella maestosa natura, la certosa di Pesio continua ad essere un centro di spiritualità: preghiera e meditazione per chi sente il bisogno di tuffarsi nell’infinito; svolge la funzione di guida illuminante nel disorientamento dell’uomo moderno.
La fecondità spirituale della certosa è oggi affidata ai missionari della Consolata: nel loro caratteristico dinamismo, sono gli artefici di tanta ripresa di spiritualità. Fedeli al motto «prima santi, poi missionari» del loro fondatore, beato Giuseppe Allamano, realizzano il connubio tra contemplazione e azione apostolica e continuano, seguiti da tanti giovani, l’entusiastica diffusione della parola del Signore.

In questo clima
è maturato il progetto di riportare alla luce la prima chiesa abbaziale del 1173, abbandonata dai certosini dagli inizi del 1500, sia per la edificazione della chiesa superiore, sia per le tristi vicende storiche di guerre, saccheggi e decadenza abbattutesi nella valle.
Il lungo lavoro di sgombro di materiali e detriti, accumulatisi nel tempo, è stato condotto con tenacia e ha consentito le opere di restauro essenziale, guidate con oculatezza dal superiore, padre Francesco Peyron, secondo le norme della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Piemonte. La certosa, infatti, è anche monumento nazionale.
La chiesa abbaziale è finalmente ritornata idonea alla funzionalità liturgica, nel rigore della sobrietà primitiva: offre il fascino della sua interiore bellezza nella scabra nudità delle mura martoriate, che raccontano, con eloquenza senza fine, la salmodia antica, l’esperienza dei certosini nella giorniosa e totale dedizione dell’uomo a Dio.
La solenne inaugurazione è avvenuta il 15 agosto scorso, con una solenne eucaristia presieduta da padre Gottardo Pasqualetti, superiore dei missionari della Consolata in Italia. Vi hanno partecipato anche i padri responsabili della certosa, i parroci della Valle Pesio, le autorità civili, un gruppo vibrante di giovani e tantissimi fedeli valligiani.
E tutti per esprimere «grazie» alla Vergine Assunta, a cui la certosa è dedicata.

Gli elementi
più significativi del restauro operato sono stati illustrati, con dovizia di particolari tecnici dall’architetto Carlo Faccio, che ha partecipato ai lavori.
Con passione professionale, l’architetto ha sottolineato la non facile ripulitura dei muri, delle finestre, dei portali laterali di accesso; la splendida pavimentazione realizzata con grandi lastre di pietra grigia; l’efficace sistema di illuminazione dal pavimento e per mezzo di lampade a stelo; la solennità dell’altare formato di antiche pietre scolpite, raffiguranti il battesimo del Battista; il geniale coro in pietra lungo tutta la base dell’abside; l’inserimento a parete di un rosone in pietra bianca nella parte centrale dell’abside.
Un tocco di raffinatezza emerge dalle due tavole verticali di materiale trasparente: vi sono incise notizie e date importanti della storia della certosa. Le tavole si collocano nel primo tratto della chiesa. A complemento del disegno iniziale del progetto è sorta una «mini galleria» di reperti archeologici dell’antico complesso abbaziale, allestita sotto il porticato del piccolo chiostro adiacente alla chiesa.
E, dulcis in fundo, dalla nicchia a destra dell’altare, veglia sulla certosa e su coloro che la frequentano la sfavillante icona della Madonna, simbolo e presenza d’infinita tenerezza.

La solennità dell’Assunta
del 1999, davvero memorabile, ha affiancato alla plurisecolare dedizione all’Assoluto dei monaci, la fede, il coraggio e lo zelo dei missionari della Consolata che operano nella certosa e nel composito mosaico del mondo. Lo fanno per il regno di Dio, secondo il mandato del beato Allamano: «et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (annunzieranno la mia gloria ai popoli).

Anna Bagliano




KENYA – …Affetto cercasi…

Si chiama Familia ya ufariji, cioè famiglia della consolazione: è la casa per i bambini di strada che i missionari della Consolata hanno costruita alla periferia di Nairobi. In un ambiente di serenità e amore,
i ragazzi sono aiutati a riacquistare fiducia in se stessi e nella società a riavere l’affetto di cui sono stati defraudati.

Kamau mostra delle cicatrici sulle gambe: la madre, in un momento di pazzia, lo aveva messo nell’acqua bollente e poi abbandonato nel bosco. Fu raccolto da un vecchio ubriacone, che lo tenne in casa per qualche giorno. Ma poiché il bimbo piangeva per le scottature, cominciò a picchiarlo, poi decise di portarlo all’ospedale. Quando fu guarito, il ragazzo si mise a vivere per le strade di Nairobi, finché fu preso dalla polizia e rinchiuso nel riformatorio di Kabete.
Come Kamau, altri 60 mila bambini di strada, a Nairobi, potrebbero raccontare simili storie di maltrattamenti. Una cinquantina di essi sono accolti nella Familia ya ufariji (famiglia della consolazione), una iniziativa avviata dai missionari della Consolata per accogliere i ragazzi di strada della capitale kenyana.

CORSA A OSTACOLI
L’idea di costruire la Familia ya ufariji nacque nella conferenza regionale del 1994. Durante le discussioni rimbalzava spesso una domanda: «Come missionari della Consolata, cosa possiamo fare, oltre alle tradizionali attività parrocchiali e diocesane, per rispondere alle attuali sfide della società del Kenya, come Aids, bambini di strada, ragazze madri, senzatetto?». Fu deciso di intraprendere un’opera sociale. Dopo un sondaggio in cui furono interpellati tutti i missionari, fu scelto di dar vita a un centro di accoglienza dei bambini di strada.
Lo stesso anno fu comprato un vasto appezzamento di terreno a Kahawa, periferia nord di Nairobi, e creato un comitato per disegnare il progetto e raccogliere i fondi. Ma la gente del posto, già impaurita dalla criminalità cui dovevano far fronte, non voleva ragazzi di strada nella zona; non fu facile convincerla che la loro presenza non avrebbe causato alcun inconveniente.
Più difficile fu superare gli ostacoli burocratici per ottenere l’autorizzazione e soddisfare tutte le pratiche legali. Una volta presentati gli incartamenti agli uffici comunali di Nairobi furono sottratti; una seconda volta smarriti. Finalmente, nel gennaio del 1997, si poté dare il via alle costruzioni. «Dato che questa zona vanta uno dei più alti tassi di criminalità di Nairobi – racconta padre Alessandro Signorelli, direttore del Familia ya ufariji -, cominciai a circondare la proprietà di un alto muro con filo spinato e istallare un potente allarme, per la sicurezza mia e dei ragazzi. Ciò nonostante, una notte i ladri sono riusciti a entrare indisturbati e rubare il ferro già cementato nelle fondamenta».
Ultimata la prima fase del progetto con la costruzione di due dormitori, salone-refettorio, cucina e casa dei padri, passarono altri mesi prima che l’ispettore governativo approvasse la funzionalità degli edifici e le autorità competenti concedessero il permesso di prelevare i ragazzi dal riformatorio. Nel settembre 1998 furono accolti i primi 12 ragazzi; altri scaglioni arrivarono nei mesi successivi, a mano a mano che procedeva la costruzione di altri dormitori.
Oggi sono 50 i bambini accolti nella casa; a settembre di quest’anno ne entreranno altrettanti. «Quando il progetto sarà completato – spiega padre Alessandro – potremo ospitare 120-150 ragazzi. Non intendiamo superare questo numero; ne scapiterebbe la formazione. Inoltre accogliamo solo i più piccoli, tra quattro e sei anni, perché più malleabili, indifesi e bisognosi di affetto».
«Il progetto prevede di prendersi cura solo dei maschi?» domando.
«Per il momento, sì – risponde padre Alessandro -. In futuro si vedrà: se trovassimo una comunità di suore disposte a vivere e lavorare in questa istituzione, potremmo estendere il progetto anche alle bambine».

INFANZIA BRUCIATA
Secondo le statistiche ufficiali, a Nairobi vivono circa 60 mila bambini di strada; la metà di essi non rientrerebbero in questa categoria: sono costretti dai genitori a mendicare per le vie della città; hanno quindi una famiglia cui la sera fanno ritorno per consegnare quanto hanno raccolto.
L’altra metà, invece, ha tagliato ogni legame con la propria famiglia: alcuni sono figli di prostitute; altri sono scappati dai maltrattamenti di genitori violenti e maneschi; altri ancora sono stati abbandonati da parenti poveri e disperati.
In città i ragazzi vivono nelle zone dove sono più sicuri e meno infastiditi; si aggregano in piccole bande per aiutarsi e sentirsi più protetti. Per sopravvivere fanno lavoretti improvvisati; chiedono l’elemosina; cercano nei rifiuti; poi condividono quello che hanno racimolato. Molti di essi si arrangiano ricorrendo a furti e altre attività illegali.
Ogni tanto la polizia fa delle retate, specie se i bambini sconfinano nel centro della città e in luoghi di maggiore affluenza turistica. Nella rete, però, cadono solo i pesci piccoli e inesperti. Portati in caserma, i ragazzi vengono interrogati; alcuni (pochi in verità) raccontano la loro storia e sono riconsegnati ai genitori e parenti; i più tacciono sulla loro provenienza e vengono rinchiusi nel riformatorio, dove sono costretti a una vita inumana. Alcuni riescono a scappare e ritornare sulla strada; gli altri aspettano che qualche organizzazione caritativa li richieda per offrire loro un futuro migliore.
«Tutti i ragazzi che accogliamo ci vengono affidati dal tribunale dei minori, dopo un esame della loro situazione sanitaria e familiare – continua padre Alessandro -. La legge proibisce qualsiasi altro canale non ufficiale, per impedire eventuali commerci di minori».
Quando arrivano alla Familia ya ufariji, i bambini hanno ancora i segni dell’infanzia bruciata: sporcizia e denutrizione, maltrattamenti e malattie, piaghe e scabbia. Soprattutto, sono chiusi e sospettosi di tutto e di tutti. Di fronte a qualsiasi domanda temono che li si voglia interrogare per riportarli al riformatorio o alla famiglia di origine.
In un paio di settimane i bambini si rimettono fisicamente in sesto. Più lungo e laborioso risulta, invece, aiutarli a rimarginare le ferite interiori, a riacquistare il sorriso e la naturale loquacità.

UNA VITA NORMALE
Tra i vari fabbricati non vedo alcun edificio scolastico né chiesa. «I più piccini vanno all’asilo, che si trova appena fuori delle mura – spiega padre Alessandro -. Gli altri camminano un po’ di più per frequentare le varie scuole pubbliche disseminate nella zona. La domenica vanno a messa in parrocchia, distante due o tre chilometri. Il sabato pomeriggio possono mescolarsi con i ragazzi del circondario, che vengono a giocare con loro nella nostra proprietà. Tutto questo li aiuta a liberarsi dal complesso di inferiorità e sentirsi parte della società. Voglio che i nostri ragazzi abbiano una vita il più possibile normale, come quella dei loro coetanei africani».
La normalità «africana» sembra un chiodo fisso di padre Signorelli. «Cerco di ricostruire l’ambiente africano il più possibile, soprattutto nel cibo che, pur abbondante e bilanciato, è conforme alla dieta a cui sono abituati – continua il padre -. Non voglio che crescano viziati, per cui non permetto che i turisti diano loro caramelle o altri regalucci. Nel salone non c’è alcuna televisione, poiché a casa non ce l’anno. La sera preferisco che giochino, perché si conoscano meglio e diventino più amici».
A creare l’amicizia contribuiscono anche la disposizione degli edifici e l’organizzazione in piccoli gruppi: 12 ragazzi per ogni camera. In gruppo e individualmente i ragazzi sono educati a pulire gli ambienti in cui vivono, lavarsi la biancheria, fare qualche lavoretto utile nell’orto… e tutto quello che la tradizione africana si aspetta dai bambini di questa età.
In linea di massima, i ragazzi rimarranno nella Familia ya ufariji fino a quando avranno completato le scuole elementari e qualche anno di quelle secondarie. I più promettenti saranno aiutati a frequentare le scuole secondarie e istituti tecnici che i missionari della Consolata gestiscono nelle varie missioni. Ma non rimarranno oltre i 18 anni; a questa età tutti i giovani africani devono essere responsabili del proprio avvenire.

RICREARE LA FAMIGLIA
L’unica abitudine africana bandita da padre Signorelli sono i castighi corporali. «Non voglio che i bambini vengano picchiati, come si faceva nel sistema educativo introdotto dagli inglesi – spiega il padre -. Tra l’altro, è proibito dalla legge del Kenya; ma il costume continua ugualmente, talora con atteggiamenti sadici. Se ci sarà bisogno di punizioni, studieremo i provvedimenti da prendere caso per caso. Ma nessuna punizione corporale».
Per formare i ragazzi e mantenere la disciplina, padre Alessandro ha scelto dei collaboratori africani sperimentati: una mamma, una maestra diplomata e un assistente. Una dozzina di persone curano l’andamento esterno della casa: custodi, guardiani, operai. «Lo scopo fondamentale della casa è espresso dal nome: “Famiglia della consolazione” – continua il padre -. Tutti, piccoli e grandi, devono sentirsi membri di questa famiglia e collaborare al suo buon andamento. Anche gli operai e lavoratori: ho spiegato loro che devono sentirsi coinvolti in questo fine, come fratelli maggiori, cercando di conoscere i ragazzi, rispettarli e trattarli come fratelli minori, bisognosi di affetto e attenzione».
Al tempo stesso padre Signorelli cerca di rintracciare la parentela dei ragazzi e restituirli alla famiglia d’origine, aiutando i genitori a far fronte alle eventuali difficoltà. «È il lavoro più difficile – conclude il padre -. Le timidi confessioni, i comportamenti che riflettono i drammi vissuti in famiglia e sulla strada (balbuzie, incontinenza nottua, chiusura e isolamento), mi dicono che questi bambini non vogliono avere più nulla a che fare con l’ambiente da cui sono fuggiti. Eppure sono tanto sensibili. Una sera un bambino si avvicinò e mi cantò una canzoncina: un gesto per esprimere i sentimenti più profondi e, soprattutto, per chiedere affetto e tenerezza.

Benedetto Bellesi




CINA – Mao sconfittto da Mc Donald’s

A 10 anni dalla strage di Tien’anmen, a 50 dalla rivoluzione comunista, il grande paese asiatico sorprende i visitatori occidentali per i progressi e il dinamismo della sua gente.
Pur tra contraddizioni e limiti, i cinesi apprezzano la «nuova via».

Sono ritornata in Cina dopo sette anni. Ho visitato alcune città importanti. Le ho trovate molto cambiate. Ma, soprattutto, è cambiata la gente.

ERA IL BENIAMINO
Beniamino è il nome che aveva scelto per lui l’insegnante d’italiano, perché era il suo studente prediletto.
Non so se credere a tutto ciò che racconta questo troppo sorridente mister Song. Parla a raffica e sa di esagerare: sembra proprio che non riesca a porre freno al fiume di parole, espressioni idiomatiche e proverbi tutti imparati a memoria alle lezioni di italiano. Lo sento eccitato dalle possibilità che gli offre il nuovo lavoro di interprete e guida.
Song non è mai uscito dalla Cina; eppure sa tutto dell’Italia, dell’Europa. La sua era una famiglia di medici a Pechino: anche la sorella e il cognato lo sono. Nato e cresciuto all’interno di un ospedale, dove i genitori lavoravano, al momento della selezione per entrare all’università, è stato indirizzato d’obbligo alla facoltà di lingue.
Ora gongola e non ne fa mistero. Si lascia sfuggire che ha potuto persino comprarsi una seconda casa, a Qindao, la più bella città della Cina. Una città costruita dai tedeschi nello Shandong durante il breve periodo della loro «concessione» in terra cinese.
A PECHINO In bicicletta
Non riconosco più la capitale della Cina. Sapevo che, in anni recenti, il paese era tutto un cantiere, mentre ne avevo un ricordo opprimente: cielo ed edifici grigi, afa, caldo e una folla immensa. Un mare di biciclette, un muro che dovevi sfidare per attraversare le strade, che per incanto, si apriva e richiudeva dietro di te.
Anche oggi i ciclisti non si fermano mai: sanno evitare pedoni e camion, e continuano a pedalare sereni. Molti sono donne, signore coi calzini di nylon, ragazze con guanti e mantellina leggera che protegge dal sole.
Vent’anni fa, drappelli di contadini delle «comuni», in uniforme blu, venivano guidati nei vasti spazi della «città proibita». Vi era stupore e ingenuità nei visi dei cinesi di allora. Visi segnati da fatica, denti guasti che denunciavano malnutrizione. Oggi i sorrisi mostrano dentature forti e sane; i berretti hanno scritte americane; i vestiti sono occidentali.
Ho portato con me l’uniforme blu che mi ero comprata allora, forse l’abito più pratico per il viaggio. Non le fanno più così, con la casacca a kimono, chiusa sul fianco da nodi di stoffa, e i pantaloni arricciati alle caviglie.
Percorro Wandi fujing, una grande strada commerciale che ormai ha poco di orientale. Nelle vie laterali sono spuntati grandi alberghi e edifici lussuosi e si costruisce ancora. È notte, ma i cantieri non si fermano. Un operaio batte il piccone sulla pietra e altri cinque stanno a guardare. Vedo passare bici-carretto, cariche di cucine con tanto di camino. Chiusi i mercati, si torna a casa, macinando decine di chilometri in una metropoli sterminata.
Tra i cantieri e neon, mai spenti, dei centri commerciali, noto qualche brandello delle vecchie case di Pechino, le case dei vicoli. Le riconosci perché sono basse e hanno tetti di coppi grigi. Accanto alla più bella, noto un cancello sormontato dalla croce. Una parete nasconde una delle quattro chiese cattoliche patriottiche di Pechino.
Un tempo queste case avevano il cortile, con un albero che dava frescura. Poi sono venute le fabbriche e ogni cortile aveva una ciminiera. Ne restano ancora tante, che spuntano fra i tetti, incongrue e abbandonate. Le vecchie famiglie avevano dovuto stringersi nelle loro abitazioni con decine di nuovi arrivati.
Ora Pechino ha più di 15 milioni di abitanti; nessuno lo sa con esattezza, tanto meno il governo. Ai contadini è proibito di spostarsi in città, pena una forte tassa da pagare.
Da 50 anni la capitale subisce devastazioni. La città era il luogo più sacro, il centro dell’impero: quindi del mondo per i cinesi. Distrutte le mura, ha conosciuto l’orrore della rivoluzione culturale, che ha risparmiato ben poco dell’«urbanistica divina» e ha inciso ancora di più sulle persone. Oggi, almeno, si costruisce meglio e gli abitanti hanno un migliore tenore di vita.
Agli occidentali spiace che si abbattano i vecchi quartieri, così tipici. Ma come far vivere la gente, senza servizi, nel centro della capitale?
A nord-ovest della «città proibita», un quartiere è stato risparmiato. Qui non sorgeranno grattacieli o case popolari. Le antiche e deliziose case di vicolo, circondate da muri di mattoni grigi e con l’unica apertura chiusa da un portone di legno laccato, sono state ristrutturate e dotate di ogni servizio. Naturalmente vi abitano i ricchi, che sono molti a Pechino.
Hanno riedificato templi e palazzi, rasi al suolo dalla rivoluzione comunista. Un ritorno d’orgoglio, per il glorioso passato, o un cinico calcolo di interesse turistico? Difficile dirlo, come è arduo capire quanto ci sia di fede vera nella frequentazione dei templi buddisti, lamaisti, taoisti, che risorgono in fretta dopo anni di chiusura. «Siamo atei – dichiarano i miei amici -. Tutti i cinesi lo sono».
Ma sono anche tanto superstiziosi.

I «MCDONALD’S» DI SHANGHAI
Siamo a New York o a Shanghai? File di palloncini rossi e ombrelli rovesciati sono appesi tra un tetto e l’altro delle case dall’aspetto troppo cinese.
Nel centro di Shanghai, nell’antico quartiere risanato, tutto è lucido, nuovo e ricco. Negozi di lusso si alternano a ristoranti, pagode e palazzi ricostruiti, affollatissimi. Nella frenetica metropoli sono più di 20 i McDonald’s e oltre 50 i Kentucky fried chicken. Shanghai resta comunque affascinante. Girato l’angolo, si scopre la vecchia città, che aspetta moribonda di essere spazzata via. Una città putrescente, fatta di casette a due piani e abbaini roventi strette nei vicoli scuri, dove la mattina passa il carretto a vuotare le latrine. Salveranno le casette più belle, insieme al quartiere inglese e francese con le villette vittoriane. Le altre saranno buttate giù.
Gli anziani, in pigiama, possono ancora sdraiarsi su sedie di bambù e prendere il fresco della sera. Si gioca a domino, si cucina, si vive sui marciapiedi durante l’estate caldissima.
Le luci, dall’altra parte del fiume, traggono in inganno. Sono edifici vuoti: grattacieli costruiti chissà da chi, con chissà quale danaro, per accogliere uffici e alberghi. File di villette, nate come funghi lungo le tangenziali che portano fuori città, sono vuote da anni: troppo care per i poveri e troppo brutte per i ricchi.
Anche i cinesi a volte fanno male i loro calcoli.
L’ESERCITO DI XIAN
Xian è diventata più bella, da quando hanno scoperto il famoso «esercito di terracotta». C’è ancora molto da scoprire, studiare e scavare intorno a quello che era il terminale della via della seta. Sensazionale il museo. Dovremmo imparare dai cinesi: in pochi anni hanno saputo creare dal vuoto di Mao centri di cultura, che sono pure operazioni commerciali. Nei lussuosi negozi che precedono l’ingresso ai musei, dove il visitatore deve comunque passare, si può comprare di tutto. Copie perfette degli oggetti esposti: cavalli, guerrieri, libri e altro.
A Xian conosco Marcello, un ragazzo volitivo e intelligente che ha imparato bene la storia e l’arte del suo paese. Oggi, invece di lavorare, lo vedo sempre al telefonino, una mania dei cinesi come degli italiani. Gli chiedo cosa sta facendo. Gioca sulla borsa di Hong Kong? Telefona alla fidanzata?
Mister Zhou (questo il suo vero nome) si ricompone e mi spiega: «Ho l’occasione di comprare la casa. Devo dare oggi una risposta. Ora ho deciso, prenderò un alloggio all’ultimo piano, il settimo; così pagherò di meno e avrò un appartamento di 70 metri quadrati». Zhou mi spiega che solo nelle case di oltre sette piani viene installato l’ascensore…
Jiang lo conosco nel Guizhou, una regione agricola, tropicale, nel sud. Originario di Wuhan, grigia megalopoli nel cuore industriale della Cina si è trasferito a Guilin, dove è ancora viva l’antica tradizione della pittura paesaggistica su carta di riso e seta. C’è sicuramente lavoro per un tipo sveglio come Jiang, che ha imparato presto l’italiano come tanti giovani «artisti» di questa città.
«LEI» e suo figlio
Lei è il nome di un’energica signora sui 50. La laurea in spagnolo l’ha ottenuta dopo una lunga interruzione degli studi durante la rivoluzione culturale. «Ero al secondo anno d’università -mi dice -. Con i miei compagni, fui mandata in una regione remota a lavorare la terra».
La famiglia di Lei ha origini contadine. I genitori, abbandonata la dura vita dei campi, raggiunsero Shanghai negli anni ’40. Entrambi trovarono lavoro nel più grosso emporio della metropoli, raggiungendo un certo benessere.
Dopo l’esperienza del confino nel regime maoista, Lei riuscì a laurearsi; sposatasi, venne ad abitare a Souzhou, piccola e storica città del delta, famosa per i giardini e le dimore dei mandarini. Il mandarinato è interessante. Il fatto che l’amministrazione di uno sterminato impero fosse affidata ad un’élite di intellettuali, scelti per merito dopo esami difficilissimi, mi affascina.
Lei ha un solo figlio, come vuole la legge per chi vive in città. Il ragazzo ha 25 anni; vive negli USA, a Filadelfia, dove lavora nell’industria elettronica guadagnando 100 mila dollari l’anno. Precoce da bambino: a 4 anni era in prima elementare e a 14 era pronto per l’università. Lei sapeva che le migliori opportunità per il figlio erano in America.
Riuscì a pagare il primo anno di università; poi si rivolse ad un parente, fuggito da anni ad Hong Kong, per un prestito. Dal terzo anno in poi, problemi non ve ne furono: il giovane lavorava e continuava a brillare negli studi. Dopo il dottorato, il lavoro presso una grande azienda.
«Sono stata l’anno scorso a trovare mio figlio – racconta Lei con un sorriso un po’ malinconico -. Filadelfia mi è piaciuta. Ma non saprei adattarmi. Non conosco l’inglese e le comunità cinesi, laggiù, non hanno niente in comune con la nostra cultura. E, poi, sono vecchia».
UN DILEMMA A CANTON
«Fatelo questo bambino, ma fatelo per amore e non per calcolo!».
Sono le ultime parole che rivolgo a Marisa, al controllo dei passaporti nella nuova stazione di Canton, che sembra un aeroporto: tutta marmi, cristalli e insegne luminose. Sento che devo chiamarla e incoraggiare la giovane donna che mi ha aiutato a scoprire la sua città.
Marisa Wu ha 31 anni e parla un italiano perfetto. Sposata e con un figlio, è una delle migliori guide della città. È riuscita a comprarsi un appartamento, ad un prezzo politico, in un vecchio stabile della cornoperativa dell’agenzia di stato. «Abbiamo speso 30 mila yuan (6 milioni di lire). Ora stiamo pensando di avere un secondo figlio; ma, per farlo, dovremmo pagare la multa di 60 mila yuan». Marisa ha un sorriso incerto quando mi confida i suoi dubbi. «Sono preoccupata per il futuro. Chi penserà a noi due, quando saremo vecchi?». La politica del figlio unico, in vigore da molti anni per arginare la crescita demografica, ha messo in crisi un antico sistema di vita, basato sui valori tradizionali. Primo fra tutti, il rispetto per l’anziano.
Questi grassi bambini cinesi della rampante classe media, super viziati e coccolati da nonni e genitori, domani si prenderanno l’onere di accudire gli anziani? Li ho visti sul volo Alitalia da Milano a Pechino, al ritorno da un viaggio in Europa, fare i capricci per lo swatch del duty free.
Se la Cina cambierà ancora con la presente velocità, quando Marisa sarà anziana, dei valori confuciani che hanno retto il suo paese per 2 mila anni rimarrà ben poco.

Claudia Caramanti




Emozioni a valanga

Dalle ragazze cieche di Meru ai bambini orfani di Matiri, con una preghiera a Morijo. Tutto in Kenya.

LA SCALATA DELLE CIECHE

D esideriamo parlare del coraggio con cui alcune ragazze del Kenya si conquistano ogni giorno il proprio futuro. Nella loro «scalata» devono vincere sia l’handicap fisico sia la risposta che ad esso dà una società poco tollerante. In questo sforzo le giovani sono appoggiate da una struttura fondata dalle missionarie della Consolata e poi ceduta ad un ordine locale.
Le ragazze provengono per lo più da contesti agricoli, dove la donna è il motore della famiglia, responsabile del lavoro nei campi e della casa, e dove più radicato è l’attaccamento a questi schemi. L’handicap è la cecità, a volte parziale a volte occorsa dopo la nascita.
La struttura che accoglie le ragazze è l’Irene Centre for the Blind nel Meru, regione con una forte diffusione della cecità e dell’albinismo. Il Centro provvede alle giovani una professione artigianale con lavoro al telaio: è la partenza per una attività sartoriale in proprio, che permette loro di guadagnarsi indipendenza.
Le ragazze lottano contro la scarsa accettazione della loro «diversità» da parte della società locale e si impegnano a costruire una loro identità attraverso strumenti che la cultura tradizionale non offre, di cui è promotore l’Irene Centre. Considerate inadatte ad assolvere compiti femminili (anche se il loro avvicendamento nelle faccende domestiche del Centro conferma il contrario) e, quindi, private di un ruolo all’interno della famiglia, le cieche rappresentano un peso per quest’ultima, che, quando le accetta, stenta però a trovar loro stimoli ed occupazioni. La comunità locale le allontana e non le aiuta a guadagnarsi uno spazio che non sia la strada.
Scarsamente integrate nelle occupazioni familiari e con poche possibilità di partecipare alla vita della comunità che le rifiuta, le ragazze rischiano di rimanere prive di compiti e responsabilità. È come se lo stato tradizionalista, di cui fanno parte, negasse loro la cittadinanza con diritti e doveri.
È necessario che un’altra entità, più progressista, «riconosca» le giovani, attribuendo loro una nuova identità. È la sfida costante che si gioca all’Irene Centre con lo sforzo delle ragazze. Se così non fosse, non si riuscirebbe a creare una sinergia tra formazione e costruzione di professionalità, una nuova identità e indipendenza. Ma lo sforzo delle ragazze è tutt’altro che scontato:
– sono contagiate da dubbi sulla validità del percorso formativo intrapreso e le reali possibilità di successo, quando ancora soffrono per la cecità;
– vivono nell’apprensione di non disporre di sufficienti risorse finanziarie per avviare una attività in proprio, mentre manca l’appoggio familiare;
– temono di non guadagnarsi autonomia, essendo il futuro carico di ostacoli.
In altre parole: sono colte da sconforto. Costruire e immaginare un futuro diverso è per loro veramente difficile, essendo così poco protette, riconosciute e ascoltate in un mondo arcaico!
V orremmo sperare che la nostra presenza all’Irene Centre abbia rincuorato un po’ le ragazze circa l’importanza della loro scelta. Abbiamo partecipato alla vita della comunità (dal laboratorio alla cucina, dal tempo libero alla preghiera, al canto) e condiviso felicità, tristezze, desideri. Chissà che qualcuna non si sia detta: «Se costoro sono giunti fin qui da molto lontano… ci sarà pure un motivo!».
Ci auguriamo che il nostro messaggio si riverberi su queste amiche. Riteniamo importante l’investimento che stanno facendo su se stesse. Ed è indispensabile incoraggiarle e credere, anche da parte nostra, nel «loro progetto per il loro futuro». In cambio abbiamo ricevuto affetto e gioia; ci hanno coinvolto nella loro vita; con il canto ci hanno rigenerati…
Siamo tornati dal Kenya con delle grosse valigie. Al check in di Nairobi nessun addetto aeroportuale le ha viste. Ci siamo stupiti. Eppure non erano mica nascoste. Solo che erano zeppe solo di… emozioni e progetti.
Chiara e Sabrina, Paolo e Luigi

È SCONVOLGENTE CHE…

P er anni ho sognato l’Africa. Quest’anno i miei piedi hanno toccato il suolo del Kenya. Toata in Italia, ho ascoltato alcuni ragazzi che parlavano dell’Africa un po’ romanticamente: «Tutto è bello, i missionari non ti hanno fatto mancare nulla, la gente è meravigliosa e sembra che persino i coccodrilli siano buoni».
Per me non è stato così. In Africa c’è fame e i coccodrilli… Per raggiungere un qualsiasi luogo, si deve camminare ore a piedi sotto il sole; e non solo una volta, come è stato per me, ma per tutta la vita. Eppure si sa ridere e ballare.
È sconvolgente che qualcuno rischi di morire per una ferita, perché l’ospedale più vicino è a due ore di buche. È sconvolgente trovarsi davanti una «mami» all’undicesimo figlio in grembo. È sconvolgente la fierezza della gente, nel suo modo di camminare o guardarti, soprattutto se non ti conosce. A volte è anche un po’ timorosa.
Non ho incontrato folle di persone che ti corrono incontro a braccia aperte dicendo: «Fa’ come se fossi a casa tua» (esclusi i missionari: padre Orazio Mazzucchi e Rita Drago, a Materi, sono stati accoglientissimi). Ho incontrato persone difficili da conquistare, ma anche oneste da diventare amiche quando si è condiviso qualcosa, e non prima. Ho visto individui gentili, nella speranza che dall’Italia mandassi loro dei soldi per aiutarli a studiare. Se potessi lo farei, ma lavoro per studiare anch’io.
P erò, quando me ne sono andata, avevo voglia di piangere salutando Peter, che non smetteva di abbracciarmi. Peter è un infermiere del dispensario, che ho aiutato durante gli screening dei bambini; parla un inglese tanto osceno che ho impiegato una settimana per capire foreign body (corpo estraneo).
Porto nel cuore gli infermieri con i quali si andava a «fare le cliniche»: cioè visitare i villaggi dove le mamme portano i bambini perché siano pesati e vaccinati. Ho in cuore Murugi e Kariungi, orfani di mamma alla missione… Ho imparato a cambiare i pannolini e addormentare (impresa non facile) un pupo stanco. Nel cuore c’è pure Beard, il cuoco, che la mattina insegnava a me e a Francesca, mia cara compagna, delle frasi in kimeru, la lingua degli ameru. Vivono anche nel Tharaka: una zona povera, perché manca la possibilità di utilizzare l’acqua dei fiumi.
Non aver acqua a qualsiasi ora, lavarsi con quella fredda in bacinelle… forse non è molto faticoso se ci si adatta. Ma se questo dura una vita?
È duro per la prima volta nella vita sentirsi «il diverso», che i bambini guardano incuriositi, e non solo essi. La nostra pelle è ruvida; stupiscono le vene visibili e bluastre dei polsi e i nei. Incredibile è la curiosità della gente: se potesse, ti si infila in tasca per vedere cosa c’è.
È sconvolgente osservare la gente che non fa nulla e, soprattutto, capire che fare qualcosa o non far nulla cambia poco le cose; sconvolge vederla seduta ad aspettare e aspettare, senza lamentarsi. Sconvolgono le donne che partoriscono senza urlare. Sconvolgente è la colazione all’Hilton Hotel: costa un quinto dello stipendio di un infermiere.
Ma è importante adattarsi alle abitudini locali, perché hanno valore anche le cose che sembrano un gioco: contrattare quando si fa la spesa, per esempio, vuol dire rispettare la persona (pagare una cosa tre volte il suo valore significa, più che farsi beffare, ostentazione).
Alcuni dicono di avere sentito in Africa la presenza di Dio in modo più forte. Però Dio è presente in Kenya come in Italia: lo trova chi vuole incontrarlo, non importa il dove. Forse in Africa è un po’ più facile fare silenzio, quel silenzio indispensabile per ascoltare e tanto facile da smarrire tra tivù e discoteche.
L’Africa mi ha insegnato l’apertura. È l’unico modo per capire e accettare gli altri e forse anche se stessi e Dio.
L’Africa è colore: il rosso mattone della terra polverosa che ti rimane ovunque; l’azzurro del cielo che sembra di giorno più grande e di notte disordinato per le stelle irriconoscibili; il bianco delle nuvole; il rosso e giallo dei frutti e fiori. È sapore: mille gusti diversi, prima strani e poi squisiti (mango, papaia, passion fruits, margarina, chai, cioè il tè col latte). È suono: processioni nottue di circoncisori, canti, tamburi, passi di ballo, parlare sussurrato e veloce, voci di bambini.
L’Africa è odore: così forte all’inizio che dà fastidio. È nell’aria, sulle persone, sui vestiti, su di te. L’odore intenso diventa poi un compagno, un amico di cui senti la mancanza… A casa mia c’è una stuoia su cui ho riposto gli oggetti portati dal Kenya. Di tanto in tanto afferro una borsa: infilo il naso per risentirne l’odore.
Erika Cravero

FAME E SETE

N el mese trascorso a Morijo abbiamo avuto fame e sete: non di lasagne al foo o di un bicchiere di pinot, ma di amore, silenzio, gioia, solidarietà, fratellanza.
Ora i nostri sensi sono diventati più acuti. Il cuore ricerca purezza. La mente si prefigge solidarietà. E la nostra persona ne esce cresciuta, ma anche perplessa su «chi» siamo e il «perché» della vita. Siamo un granellino di polvere, ma anche un fiore dall’infinita fragranza.
A Morijo abbiamo visto, ascoltato, parlato e compreso di più il Signore.
Colui dove il niente è tutto,
la semplicità è ricchezza,
il silenzio è parola;
Colui che risiede la nostra anima.

AA.VV




L’Africa di Mariana e Upendo

A che serve il mercato?
Perché la bimba se n’è andata? La fiala…

In Tanzania ho trascorso poco più di un mese: due settimane con i missionari della Consolata a Makambako, a nordest del Lago Malawi, e tre settimane a Mtwango, a 15 chilometri da Makambako.

Makambako, 13 settembre 1999
«A padre Giuseppe Inverardi, che partiva definitivamente da Makambako per Iringa, ho affidato mie notizie da comunicare in Italia via fax. Il missionario ci mancherà: è avvenuto tutto troppo in fretta. Buono, gentile, disponibile, colto, lungimirante, soprattutto umile. La sua partenza ha lasciato esterrefatto anche il vicario del vescovo di Njombe che, informato del nuovo incarico di superiore dei missionari in Tanzania, ha scosso la testa. Come dire: non ci voleva proprio per la diocesi.
I missionari sono così: seminano per lasciare il raccolto ad altri. Di loro c’è veramente bisogno in Africa.

17 settembre 1999
Questa mattina sono andato in un villaggio, per visitare la madre malata di un benestante. Non c’era. Incongruenze: fuori ce ne stavano mille altri!
Alla missione ho sgranato un po’ di mais; quindi un giro al mercato fra la gente che non può permettersi di comprare. Allora che ci sta a fare il mercato? Forse è solo per pochi. I tanzaniani mangiano una volta al giorno. Un po’ di ugali, la polenta bianca locale, con qualche erba. Spesso per indigenza si salta anche questo unico povero pasto.

Mtwango, 21 settembre 1999
Alle 10 viene a prendermi padre Tarcisio, missionario fidei donum di Brescia, da 23 anni in Africa. Ha 52 anni e sprizza energia da tutti i pori. Dopo 25 minuti di macchina, arriviamo alla missione. Non ho il tempo di riporre le valigie. Già mi attendono al dispensario.
Qui opera un «medico», con studi di praticandato in medicina lunghi (si fa per dire) due anni. Dei vari casi che via via succedono mi chiede gentilmente in inglese cosa io ne pensi, o meglio quale sia il mio parere. Incomincia così a prendere appunti e a prescrivere come io suggerisco; non essendoci però energia elettrica (cosa molto frequente da queste parti), non è possibile guardare al microscopio e le diagnosi di malaria vengono interpretate clinicamente.
Padre Tarcisio insiste perché io veda quanto prima Mariana, una bimba di quattro anni accompagnata da una sorellina maggiore. Vengono a piedi scalzi da un villaggio distante circa 20 chilometri… Mariana è in pessime condizioni: grave denutrizione, disidratazione, febbre, tosse. Dimostra un anno di vita. Probabilmente malaria e TBC insieme.
Il problema da risolvere subito è la reidratazione. Nelle esili braccia di Mariana prendo una vena, che si rompe subito. Riprovo, con lo stesso deludente risultato, mentre sister Fausta provvede zelantemente a rasare le regioni temporali per evidenziare altre vene. Anche qui fallimento.
La reidratazione sarà tentata per bocca domani. Però la sorellina riporta Mariana alla capanna del villaggio. È un caso davvero urgente. Ma ora chi la trova?
Alle 14 finisco con i malati del dispensario. Un boccone, e visito quelli che attendono in missione. Saranno una cinquantina di bambini tra i 10-15 anni.
Non mi sono mai sentito così bene. Difficile da spiegare: occorre solo provare. Per carenza di medicinali, arrivo a sottodosare i farmaci, ma qualcosa mi dice che tutto andrà bene.

27 settembre 1999
Upendo (in lingua swahili significa amore) sta morendo. È una donna di 34 anni, madre di cinque figli; il marito è deceduto quattro anni fa per Aids. L’ho vista ieri nel mio giro fra gli ammalati più poveri dei villaggi limitrofi. Non esiste macchina o altro mezzo che non siano i piedi a portarti da loro. Ti inoltri per strade e sentirneri sterrati, che sanno veramente di primitivo.
Questa mattina sono riusciti a portarla al dispensario: è cachettica, ha dolori addominali con vomito, diarrea, febbre, candidiasi orofaringea, disidratazione. È un Aids terminale. Sul suo volto si interpretano ancora lineamenti gentili, ma in quel letto (uno dei quattro disponibili) è un povero cristo in croce. Fleboclisi glucosata, antidiarroici, antiemetici, antimicotici, antidolorifici: è tutto quello che riesco fare con i pochi farmaci disponibili.
Dalle 8.30 alle 15.30 ho visitato ininterrottamente, mentre in serata vengo a sapere da padre Tarcisio che il piccolo dispensario di Mtwango non è mai stato così affollato come in questi giorni di mia presenza… Mangio qualcosa di scotto, un po’ di erbe africane e too da Upendo. Sono scomparsi il dolore e la diarrea, ma il vomito persiste.
Quanto vorrei avere almeno una fiala di plasil da mettere in flebo!

Andrea Valieri




I bambini della pace

Con alcuni studenti veneti e all’Assemblea dei popoli di Perugia, per rivendicare vita e serenità.

M onica Godoit, 17 anni, vive a Bogotá e con altri coetanei anima il Movimiento de los niños por la paz: un’organizzazione che si sforza di estirpare le radici culturali della violenza che sconvolge la Colombia. Sorto nel 1996, in quattro anni il Movimiento ha mobilitato qualche milione di minori, dai 6 ai 18 anni.
Insieme a Nydia Quiroz, responsabile in Colombia del Programma dell’Unicef «pace e diritti dei bambini», Monica è stata ospite del comune di Nervesa della Battaglia (TV). Ha poi partecipato alla III Assemblea dell’Onu dei popoli, svoltasi a Perugia il 23-25 settembre 1999, e alla marcia per la pace e giustizia «Perugia-Assisi» del 26 settembre.
Nydia e Monica sono state ospiti del nostro comune, anche perché a Nervesa opera padre Angelo Casadei. Questi ha studiato teologia a Bogotá, è stato animatore della campagna «Non di sola coca» e cornordina i «Laici Missioni Consolata» (Milaico).
Negli scorsi anni Milaico ha organizzato alcune esperienze missionarie in Colombia, ponendo i presupposti per un incontro con los niños por la paz.

Monica, dolcissima
nel suo spagnolo, ha incontrato gli studenti delle scuole medie di Nervesa e Giavera, mettendoli bruscamente a confronto con la tragedia quotidiana dei loro coetanei colombiani. Ragazzi che non possono giocare all’aperto per paura di sparatorie e sequestri, arruolati con forza nelle formazioni guerrigliere, straziati da mine, sfollati con le loro famiglie per non creare ostacoli al lucroso traffico della cocaina e degli smeraldi.
I bambini, fino al 1996, non hanno avuto l’opportunità di far sentire la loro voce; oggi, grazie al Movimiento, sono diventati interlocutori del presidente Andrés Pastrana, del segretario dell’Onu Kofi Annan, dei premi Nobel per la pace Rigoberta Menchú e José Ramos Horta. Bambini che, a loro volta, sono candidati al Nobel.
L’arma vincente del Movimiento è la fantasia. Nel 1996 i bambini si sono imposti all’opinione pubblica inventandosi una autentica consultazione elettorale, con la quale oltre 2.700.000 minori hanno impegnato il governo colombiano nell’attuare i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale del fanciullo. Mette i brividi pensare che i diritti più invocati (perché più calpestati) sono quelli alla vita e alla pace.
L’esempio è stato contagioso. Alle elezioni del presidente del 1997 ben 10 milioni di adulti hanno accettato di inserire nell’ua, insieme alla scheda ufficiale, un foglio verde che invocava la pace e lo stop all’uso dei minori nei conflitti. Nel clima di intimidazione che si respira in Colombia, l’opinione pubblica non aveva mai così massicciamente detto no alla violenza.
Negli incontri a scuola e in quello pubblico a Treviso, Monica ha ripetuto che i mali del suo paese sono la paura e l’indifferenza. La paura è dei colombiani, nella stragrande maggioranza stanchi della situazione, eppure incapaci di contrastare chi della violenza ha fatto un business; l’indifferenza è del nord del mondo, che fa troppo poco per aiutarli ad uscire dal vicolo cieco.
L’innocenza dei bambini costringe al confronto con verità scomode. Monica ha paragonato la Colombia ad un dedito machucado, un ditino del piede calpestato. La sofferenza dovrebbe ripercuotersi sul corpo intero, ossia sulla comunità internazionale. Invece, inspiegabilmente, il ditino soffre da solo!

Con Gianni De Lorenzi,
ho accompagnato Monica a Perugia per la III Assemblea dell’Onu dei popoli, incentrata su «Il ruolo della società globale e delle comunità locali per la pace, l’economia di giustizia e la democrazia internazionale».
L’Assemblea ha offerto spunti preziosi di riflessione sul ruolo che anche un piccolo comune può assumere nella cooperazione decentrata. Dall’Afghanistan al Tibet, dal Sahara spagnolo al Nicaragua, dalla Cecenia all’Algeria, oltre 140 rappresentanti (insegnanti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, amministratori, ecc.) hanno presentato uno spaccato desolante del fardello di ingiustizie che il mondo porta con sé. Partecipando al gruppo di lavoro sulla pace, abbiamo trovato conferma alle nostre perplessità sull’intervento della Nato in Kosovo.
Oggi le guerre sono prevalentemente intee agli stati. Guatemala e Rwanda (per citare due casi) insegnano che imporre il «cessate il fuoco» con la forza non basta.
Indispensabile è il processo di pacificazione nazionale, stabilendo la verità su quanto è successo e individuando le responsabilità. È un processo lungo e difficile (che nemmeno il Sudafrica di Mandela ha del tutto completato), che non ha nulla a che fare con i bombardamenti indiscriminati descrittici dal sindaco di Panchevo (Serbia).
Non sono mancati segnali di speranza: ad esempio, vedere il rappresentante di Timor Est e quello dell’Indonesia condividere ogni momento della manifestazione.
Monica ha seguito i lavori dell’Assemblea con grande responsabilità. Con l’orgoglio di un padre, l’ho sentita affermare le sue ragioni davanti al presidente della Camera Luciano Violante e ai delegati inteazionali. Ha ottenuto emendamenti al documento finale, da presentarsi all’Assemblea generale dell’Onu, affinché sia chiaro che i bambini non rappresentano solo il futuro, ma anche il presente. Pertanto rivendicano subito un’esistenza dignitosa.

Nydia Quiroz ha vigilato
su Monica come una mamma, verificando la destinazione delle interviste che la ragazza ha rilasciato, perché «in Colombia chi lavora per la pace diventa un obiettivo militare».
Nydia, psicologa, in passato si è occupata dei bambini coinvolti nei conflitti del Mozambico e Salvador. Passeggiando fra i viottoli di Assisi abbiamo parlato, in stridente contrasto con la pace circostante, dei bambini sconvolti per avere assistito al massacro della propria famiglia, utilizzati come cavie per scoprire i campi minati o costretti ad uccidere per dimostrarsi utili alla guerriglia, e non essere a loro volta uccisi.
Nydia ha illustrato le tecniche di riabilitazione: si impiegano giocattoli e disegni per dar sfogo all’angoscia nelle coscienze dei ragazzi. Ma esistono coetanei che, in mancanza di strutture e personale specializzato, si improvvisano essi stessi terapeuti per confortare i traumatizzati.
Abbiamo scelto per il commiato la sacralità di san Damiano, con la speranza che la pace di «Francesco» possa giungere anche in Colombia.
Monica ha ripetuto la richiesta fatta ai ragazzi di Nervesa e Giavera: «Non lasciate che la Colombia sia dipinta solo in termini di violenza e narcotraffico. Aiutateci a testimoniare che c’è anche tanta gente meravigliosa che vuol vivere in pace».
Buena suerte niña.

Francesco Tartini




Un acquedotto al politecnico

Un missionario geniale e la collaborazione degli africani per soddisfare il bisogno d’acqua.

O ggi una delle sfide più importanti è quella di creare rapporti diversi tra i popoli, per vivere in pace e nello sviluppo. Se il mezzo per raggiungere tale scopo è l’acqua, l’impegno necessita anche dello stupore del bimbo di un villaggio africano. «Oggi finalmente è piovuto! Erano 140 giorni che non vedevo una goccia d’acqua» ha scritto sul quadeetto di scuola la piccola Noaga.

L’acqua è un fattore
di unione e, nello stesso tempo, di divisione tra i popoli. È urgente portarla alla sua funzione primaria: quella della gratuità, dell’incontro, dell’igiene personale e morale. Base della vita, l’acqua è anche strumento di comunicazione: alimenta scambi nella materia e tra le persone.
Esistono popolazioni che pagano la loro emarginazione, la povertà, la mancanza di riconoscimento… per le scarse risorse idriche. La situazione è drammatica: lo confermano le siccità sofferte dalle genti del Sahel, le carestie (causate dalla scomparsa delle piogge stagionali) che decimano le mandrie in Etiopia. I pozzi vuoti, i bacini asciutti, l’assenza prolungata di piogge e la loro limitata o disordinata caduta causano crisi agricole e alimentari, tali da rievocare le carestie bibliche.
Esperti sostengono che nel XXI secolo sarà l’acqua a mobilitare le strategie geopolitiche dei governi, e non più il petrolio. Oggi intanto c’è chi paga con la vita: nel mondo ogni otto secondi un bambino muore per malattie legate all’acqua!
Di fronte a queste provocazioni, è nato in me il desiderio di orientare gli studi al Politecnico di Torino verso una possibile soluzione del problema «acqua». Ho scritto la tesi di laurea in ingegneria dal titolo: «Progetto di cooperazione Tuuru water scheme: studio della diga in terra sul torrente Ura».
La tesi riguarda un acquedotto che prende il nome dalla missione di Tuuru, nella regione del Meru (Kenya), intrapreso dai missionari della Consolata nel 1965. È uno studio tecnico sulle opere di presa dell’acquedotto, con la proposta di un progetto per la costruzione di una diga in terra su un torrente. Prima di scrivere la tesi, ho trascorso due mesi sul posto.

Oltre a rispondere
ai problemi tecnici per la progettazione di un invaso artificiale, la mia tesi testimonia il lavoro che si sta già svolgendo, in particolare nel Meru, contro la povertà e per lo sviluppo. «Kenya, il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»: intitolava il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, presentando i 250 chilometri di acquedotto, realizzati da un missionario della Consolata, fratel Giuseppe Argese, e dalla gente del luogo.
L’opera fu iniziata 35 anni fa, per fronteggiare una prolungata siccità che colpì anche il Centro per bambini poliomielitici di Tuuru. Oggi c’è acqua potabile per centinaia di migliaia di persone della zona, dove mancano torrenti perenni, le falde acquifere sono molto profonde e le attività dipendono dal regime delle piogge. L’approvvigionamento d’acqua è assicurato da «prese» nella circostante foresta equatoriale, a circa 2.000 metri di altitudine, circondata dalla pianura semidesertica.
Però l’intercettazione d’acqua non è sufficiente a soddisfare i crescenti fabbisogni della popolazione. Una soluzione a tale emergenza sarebbe la costruzione di una diga nella valle del torrente Ura. Il relativo invaso artificiale permetterebbe di immagazzinare la notevole quantità di acqua piovana e, quindi, distribuirla nell’arco dell’anno.

L’acquedotto,
dai sopralluoghi effettuati in loco e dai risultati, costituisce un esempio-modello tra i molti progetti di sviluppo. Tre fattori contribuiscono al funzionamento dell’opera e rappresentano le prerogative per l’efficace attuazione della diga sull’Ura:
– la collaborazione tra locali e tecnici stranieri, alcuni dei quali operanti stabilmente sul territorio;
– l’utilizzo di tecnologie semplici e appropriate, nonché il rispetto massimo della natura;
– la presenza di un comitato (costituito da persone del luogo), che assicurerà l’autogestione dell’opera.
L’acquedotto ricorda un dato da non scordare: l’acqua è una risorsa limitata; quindi è da conservare, riciclare e prevenire da contaminazioni dovute a sfruttamenti incontrollati delle falde.
La scelta di non sfruttare le acque sotterranee in zone aride (dati i costi e i problemi di manutenzione dei macchinari), bensì di utilizzare le risorse idriche della foresta, si realizza nel rispetto massimo degli aspetti ecologici anche a lungo termine.
Tra i materiali, si impiega il terreno argilloso locale: quindi l’ambiente, che potrebbe essere alterato con metodi indiscriminati di costruzione, è salvaguardato. Per conservare le risorse idriche e difendere flora e fauna, c’è la sorveglianza da parte del personale dell’acquedotto.

La mia tesi si inserisce
fra gli studi tecnico-progettuali di soluzioni ingegneristiche, con la caratteristica di riguardare una realtà già operante. Ma per il progetto esecutivo della diga sull’Ura e per la natura stessa dell’acquedotto altre indagini sono possibili.
Per una corretta valutazione della diga, all’interno dell’«acquedotto», occorre riferirsi alla nozione di sviluppo, che prevede un livello più alto di benessere. Altri obiettivi significativi sono: la riduzione di fatica per l’approvvigionamento d’acqua, una migliore nutrizione, l’aumento dell’igiene. Sono traguardi che favoriscono qualità di vita, libertà personale, identità culturale, educazione.
Prima dei 250 chilometri di tubazione dell’acquedotto e delle tante fontane nei villaggi, molte donne e bambine camminavano persino una giornata per raggiungere le poche sorgenti d’acqua. Oggi, grazie all’acquedotto, il tragitto dura 10 minuti: il tempo risparmiato consente alle donne di dedicarsi meglio alle faccende domestiche e, soprattutto, permette alle bambine di frequentare la scuola.

Oggigiorno,
con il radicale mutamento dei rapporti tra i popoli, occuparsi del sud del mondo è una scelta quasi obbligata: basti pensare che il sud rappresenta i 2 terzi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri.
Ma il sud non può più essere considerato una realtà a cui «dare» aiuto, bensì un soggetto con il quale «cornoperare». Calati in tale prospettiva, trovare soluzioni per i 2 terzi dell’umanità conduce al miglioramento di vita anche del restante 1 terzo, ossia di tutti noi.
L’acquedotto di fratel Giuseppe e della sua gente nasce da senso di responsabilità collettiva, oltre che da solidarietà evangelica: la diga sull’Ura l’accresce. Questo lavoro missionario è una strada percorribile per eliminare la piaga della povertà e, come è stato affermato al vertice ECOSOC (1999), è anche una via per servire la pace tra i popoli: pace che è «l’altro nome dello sviluppo».
Quando lo studio riguarda un bisogno basilare come l’acqua, la ricerca scientifica diventa anche un «riappropriarsi» dei valori che «sorella acqua» esprime, cioè semplicità, trasparenza, purezza senza infingimenti. Valori incarnati da tanti bimbi, come Noaga, che tuttavia soffrono la mancanza d’acqua.
Acqua che invece c’è, e per tutti.

Daniele Giolitti




Una vicina di casa tutta da scoprire

Superare i pregiudizi.
Ciò che i mass media no dicono.

uando si pensa alla missione, si immaginano sempre luoghi lontani: le foreste dell’America Latina, le savane dell’Africa, i popoli dell’Asia, le isole dell’Oceania. Raramente si pensa alle terre vicine, alla nostra stessa terra.
L’Albania, dove abbiamo vissuto un’esperienza missionaria, dista da casa nostra solo due ore di aereo; è al di là del piccolo Mare Adriatico. La gente ha lo stesso nostro colore della pelle. Sono come noi.
Per essere missionari, non è necessario partire per un angolo dimenticato del mondo; basta sapere incontrare l’uomo dove vive, con le sue giornie e i suoi dolori, e annunciare il motivo della propria presenza.
L’enciclica Redemptoris missio ricorda che la nuova evangelizzazione è un fronte anche in Europa.

Eravamo partiti per l’Albania
senza sapere che cosa ci sarebbe aspettato. Eravamo informati solo su quanto la televisione italiana ci mostra.
Ma ben presto abbiamo scoperto un altro volto dell’Albania: un volto giovane, carico di speranza. Questo deve essere conosciuto, per incoraggiare la gente locale a cambiare, ricostruire. Di questa faccia diversa vogliamo parlare.
Eravamo ospitati nel villaggio di Gijader, presso le Maestre Pie Venerini. Le suore ci avevano invitato ad un’esperienza di condivisione con alcuni giovani albanesi, che stanno costruendo un oratorio soprattutto come «struttura educativa». Impresa non facile, data la situazione viaria dell’Albania.
In tanta parte del paese esistono solo strade sterrate, in pessime condizioni, che non permettono una comunicazione agevole fra i villaggi e allungano notevolmente i tempi degli spostamenti; scarseggiano le linee telefoniche; specialmente manca nella gente la fiducia in quel poco che ha e in quello che è.
La nostra attività si svolgeva nel villaggio di Grash, vicino a Gijader. Era la prima volta che delle persone si dedicavano all’animazione dei bambini e all’incontro sistematico delle famiglie. Di regola è assicurata solo la messa domenicale e qualche sporadico incontro di catechesi.
Ogni pomeriggio, mentre in jeep raggiungevamo il villaggio, già da lontano una folla di bambini ci correva incontro a piedi scalzi: saltavano sul paraurti dell’auto, ci stringevano la mano dal finestrino, volevano una carezza. Poi al lavoro con due grossi gruppi: uno per i bambini e uno per gli adolescenti e giovani. Bastava poco: in cerchio sulla strada (non esistono ambienti dove ritrovarsi) per cantare e giocare; oppure nella chiesa cadente per raccontare la storia di Gesù e fare il catechismo con le sue parabole.
Era la prima volta che i ragazzi avevano a disposizione qualcuno che li aiutasse crescere dove già vivono, senza evadere nel mito dell’«Italia ricca». Si tratta di un atteggiamento mentale che investe il terzo mondo, ma anche l’Europa, dove l’egoismo politico di qualcuno ha distrutto la dignità di intere popolazioni.
A differenza dei sospettosi albanesi emigrati in Italia, qui abbiamo sperimentato accoglienza e apertura. Nei giovani è vivo il desiderio del confronto, per capire come possono cambiare; non hanno modelli a cui ispirarsi, ma desiderano trovarli. Abbiamo incontrato una generazione con la volontà di costruire un’Albania diversa; ma si scontrano con la chiusura degli adulti. Però gli occhi sorridenti di tanti ci hanno dato una grande carica che vogliamo comunicare, anche per sfatare lo stereotipo dell’albanese pigro e cattivo.
La nostra televisione non racconterà mai che dei giovani albanesi, dopo avere ospitato nel proprio villaggio alcuni profughi kosovari assicurando loro il cibo, li hanno riaccompagnati a casa e hanno iniziato insieme a ricostruire i villaggi distrutti. La tivù non si soffermerà su altri giovani che vogliono capire chi manovra il rapimento delle ragazze per destinarle alla prostituzione; né si saprà che, al ritorno delle sventurate a casa, i giovani le difenderanno dalle cattiverie nel villaggio.
I mass media non diranno che alcuni giovani lottano con il capovillaggio per acquistare, con i soldi di una lotteria, un campo da destinarsi a cimitero per una degna sepoltura dei loro parenti. La tivù non farà sapere che le suore hanno aperto una scuola professionale per dare a tanti la possibilità di ritrovare dignità e cultura, annientate negli anni passati dal regime comunista.

Necessario e decisivo
è l’aiuto dei missionari: la catechesi ai giovani è un incoraggiamento per scoprire i propri talenti e sfruttarli.
La chiesa albanese sta rinascendo dopo la morte imposta dal comunismo e incomincia a camminare con le sue gambe. Non è facile, perché è stato tutto cancellato: scomparsi i registri, non si sa chi sia battezzato e chi no. Lo stesso dicasi per gli altri sacramenti. Oggi si insiste sulla preparazione ai sacramenti, che non devono essere dispensati con superficialità.
Durante la nostra presenza abbiamo conosciuto alcuni seminaristi di Scutari. Uno ci ha detto che presto saranno ordinati i «primi» sei diaconi albanesi dalla fine del regime. Era fiero e orgoglioso. E noi pensavamo con tristezza alle diocesi italiane che contano, invece, gli «ultimi» ordinati al sacerdozio.
Per noi «nuova evangelizzazione» significa pure «caricarsi» dall’esempio delle chiese giovani per ritrovare entusiasmo, nonostante le difficoltà; significa condividere con esse le nostre forze, perché insieme è più facile testimoniare l’unità, superando le divisioni che l’egoismo ha creato, e far capire al mondo che cosa significhi «pace».
Nel partire per l’Italia, abbiamo detto ai giovani che avremmo raccontato il bello dell’Albania. Eccoci qui ad adempiere alla promessa, invitando chi legge ad abbandonare i pregiudizi.
Non sottovalutiamo i grandi problemi dell’Albania. Ma… millennio nuovo, speranze nuove anche per la «nostra vicina di casa».

Roberto ferranti e Sergio Lussignoli




Un mese tra dentiere ed estrazioni

L’esperienza e le riflessioni di una giovane coppia
di odontotecnici, marito e moglie.

Finalmente ci appare la missione su una collinetta. Notiamo subito il piccolo ospedale e la chiesa, la cui facciata guarda a valle una immensa savana. È il 14 agosto. Qui è inverno, ma il sole si fa sentire.
Siamo in 10 sulla Land Rover di padre Giuseppe, che rimorchia la nostra jeep con il radiatore rotto. Fortunatamente, trainati prima da un camion e poi dal missionario, giungiamo a questo Fort Apache della cristianità: Laisamis Mission!

Era buio pesto
quando abbiamo lasciato Timau, la missione dove abbiamo lavorato un mese come odontotecnici-dentisti, assistenti del dottor Romolo Grandi di Torino. Questi è un veterano del volontariato in Africa.
Le fertili terre dei kikuyu, che circondano il Monte Kenya (5.200 metri e nevi perenni sotto l’equatore), sono state trasformate in poche e vaste fattorie, gestite da ricchi stranieri. Le farms offrono vitali posti di lavoro, però sottopagati. Tuttavia chi ha uno stipendio può ritenersi fortunato.
Lasciata Timau, siamo entrati nella savana sempre più arida. A Isiolo termina la strada «asfaltata». È una città di frontiera per il Kenya nordorientale: vi si fanno i rifoimenti, se si prosegue per il nord. È anche l’ultimo posto di polizia. Chi vuole raggiungere Marsabit (300 chilometri di pista) deve viaggiare in convoglio, per ridurre il pericolo di attacchi degli shifta. Qui finisce il Kenya e comincia l’«Africa».
La pista è relativamente facile fino al bivio per il Samburu Park; poi diventa più faticosa. Ci è venuto da ridere pensando ai super-fuoristrada nelle città italiane.
Siamo entrati nella terra dei samburu, turkana, rendille e ol molo, popoli affascinanti come i masai, con pochi contatti con il mondo moderno. Appena sfiorate dal XXI secolo, queste popolazioni vivono secondo le loro antiche tradizioni. Qualcosa sta lentamente cambiando in meglio, grazie al lavoro nei parchi e all’intensa azione missionaria.
Superato Archer’s Post (dove nel 1998 fu ucciso padre Luigi Andeni, missionario della Consolata), abbiamo incrociato zebre e giraffe, gli onnipresenti dik dik e i velocissimi facoceri. È facile incontrare pure il leopardo che caccia.
Una buca… e il radiatore è saltato. Siamo rimasti in panne nel cuore della savana. Panico! Questo però ci ha dato l’opportunità d’incontrare i samburu con le loro file d’asini. Tanti ragazzi sono pastori, armati di lance, ma anche di fucili: indossano i loro caratteristici costumi rossi, sono quasi tutti scalzi e oati di collane e braccialetti colorati.
Poi… è arrivato padre Giuseppe.

Nella missione di Laisamis,
insieme a padre Giuseppe Satriano, c’è pure padre Fabio Zecca, entrambi missionari fidei donum di Benevento. Ci hanno ospitato nella loro casa ordinata e pulita.
A Laisamis mancano acqua, elettricità e telefono; si sopperisce con boniane, che con orgoglio ci hanno fatto da guida. Ci hanno raccontato la lotta con gli «stregoni», che per curare «avvelenano» i malati; quando i pazienti arrivano alla missione, non c’è più nulla da fare. In un letto giaceva una ragazzina agonizzante, già trattata da uno stregone.
Le missionarie ci hanno descritto la battaglia contro il colera, sconfitto grazie all’intervento di «Medici senza frontiere», premio Nobel per la pace, che hanno inviato i medicinali (1.200 curati, di cui solo 7 morti)… Quanto siamo lontani dai circuiti turistici e dai safari con i pulmini!
Il giorno seguente, festa dell’Assunta, abbiamo partecipato ad una messa indimenticabile. Con le suore e padre Giuseppe, eravamo gli unici bianchi; ma non ci sentivamo a disagio, anzi! Era così grande la cordialità che ci siamo persino scordati di scattare foto alle donne: alcune bellissime, dai lineamenti somali. Incuriosiscono le collane di perline colorate, i lobi delle orecchie con piattelli e legnetti appuntiti.
A cena abbiamo descritto la nostra modesta esperienza di volontari e la difficoltà in poco tempo di assistere tanti pazienti (in attesa da un anno) e insegnare alle suore i rudimenti del mestiere. Alla nostra partenza, dovrebbero sostituirci. Non è semplice.

Il dottor Romolo Grandi
ha impiegato anni ad impiantare a Timau uno studio dentistico e un laboratorio odontotecnico funzionali. Le suore di santa Teresa del bambino Gesù, guidate dall’instancabile suor Rita Alba, hanno fatto miracoli per riunire il tutto. Però si lavora solo un mese l’anno!
Ciò nonostante, il dispensario medico di Timau, l’ospedale di Kiirua e l’orfanotrofio di Kibirichia sono punte di diamante nell’assistenza sanitaria: tutte iniziative dei missionari della Consolata (il centro sanitario di Timau, opera di padre Attilio Ravasi, è da pionieri). Avviata l’opera, i missionari consegnano tutto ad altri, per ripartire da zero altrove.
In Italia, prima di giungere a Timau, abbiamo pensato ad una missione di preti e, invece, ci siamo trovati con 13 suore, di cui 11 africane. La loro accoglienza è stata calorosa. Abbiamo apprezzato il loro lavoro «con» e «per» la gente, soprattutto la più povera. Sono capaci di tutto: coltivano l’orto per sfamare i loro 100 bambini dell’asilo; dopo cena fanno maglioncini fino a tarda ora (noi eravamo cotti!) e, soprattutto, offrono assistenza sanitaria. Io, Nino, ho aiutato suor Mary il giorno delle vaccinazioni: ho perso il conto, tanto erano numerosi i bambini.
Timau è un villaggio dove, con il lavoro nelle farms, è arrivato un minimo di benessere. Le costruzioni di legno lungo la strada sono negozi caotici e strapieni. Un mercato occupa permanentemente un crocevia. Non ci sono molte case, ma i villaggi vicini, densamente popolati, sono tanti: si pensi che il sacerdote di Timau celebra la messa in ben 15 chiesette.
La strada asfaltata è affiancata da sentirneri, dove pedoni e biciclette sono abbastanza al sicuro dalle auto e dagli spericolati matatu (scassati Peugeot pick-up, che fungono da minibus, stracolmi di gente e mercanzie). Abbiamo viaggiato da Nanyuki a Timau su un matatu: è un’esperienza indimenticabile. Siamo partiti solo quando l’autista, dopo avere «incastrato» adulti e bambini all’inverosimile, è apparso soddisfatto del pienone (25 persone); ci siamo avviati con l’andatura di un rally.
Tra dentiere ed estrazioni, il mese è volato. L’ultima sera, passata con le sisters davanti al caminetto acceso (siamo a 2.200 metri), gustando l’ennesima torta squisita di suor Helen, ci ha preso la malinconia. Ci rimarranno nel cuore le loro preghiere e i canti tradizionali e nella mente i loro sorrisi.
Andando a dormire abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo: sarà l’altitudine o latitudine… ma è incredibile come il tappeto di stelle sembri vicinissimo.

Il mattino seguente
ci siamo recati al minuscolo aeroporto di Nanyuki: due case di legno fungono da torre di controllo e sala d’attesa. Sulla veranda di quest’ultima alcune sedie di vimini e, su un tavolo, caraffe di tè e caffè. Si respirava aria «coloniale», dovuta anche alla presenza di alcuni snob inglesi, che non si degnavano neanche di rispondere al saluto.
Ci siamo congedati da suor Rita Alba, per raggiungere la costa per quattro giorni di vacanza nell’isoletta di Lamu, popolata quasi esclusivamente da musulmani. Lamu è la più antica città del Kenya. Risale alla fine del XIV secolo e, fino all’inizio del XX, la sua economia era basata sulla tratta degli schiavi. Negli anni ’70 era considerata «la Katmandu dell’Africa» per la difficoltà di arrivarci e il fascino medioevale.
In quei giorni di relaxe abbiamo pensato ai luoghi visitati e alle persone conosciute. Abbiamo letto numerosi libri sull’Africa e alla televisione sono di moda i documentari su questo continente. Ma lavorare qui e condurre una vita non da turista è tutt’altra cosa.
Ci siamo stupiti di quante persone vengano in questo paese per lavorare: dai medici (con cui abbiamo parlato dei nostri problemi di protesi) al laureando di filosofia e al papà geometra, che ha ideato e costruito una stalla.
Abbiamo incontrato pure quattro ragazzi di Collegno (TO), che hanno lavorato da imbianchini e baby sitter all’orfanotrofio di Machaka, e un volontario di Forlì, che ha aiutato il veterano padre Emilio Canova, missionario della Consolata, a costruire una missione nella foresta del Meru.
Tante persone. Un piccolo esercito che si muove per aiutare i missionari. Questi «soldati di Dio» a cui non bisogna far mancare le munizioni.

Nino e Gabry Peynetti