Anno 2000. Avanti tutta?

Abbiamo iniziato il 2000 con speranze e sogni di novità. Scampati, pure,
dai presunti disastri di un «baco» distruttore. Ma i problemi del mondo
sono sempre gli stessi.
Se ne siamo più coscienti,
potremo fare qualcosa di meglio
per non ricadere negli errori eterni.

nuovo

S iamo un gruppo di pre-adolescenti. Pur consci della nostra inesperienza, vogliamo tuttavia dire la nostra all’alba del nuovo millennio.
La riflessione inizia dai «nobili»: dai grandi castelli medievali, dalle torri gremite di guerrieri, dalle muraglie per difendersi dal nemico… che vuole impossessarsi dei loro averi.
In quei tempi esistevano due «vite parallele». La vita nel castello, con i ricchi, i guerrieri da difesa (questa è rimasta invariata fino ai giorni nostri!). Poi c’era la vita fuori delle mura, con gente semplice che si guadagnava il pane lavorando, sudando per quanti abitavano nel palazzo.
Fu così per un lungo periodo. I «nobili» o «grandi» costruivano roccaforti sempre più alte per intimorire il nemico, difendere i beni accumulati e rubati in battaglie. Più il castello era in una posizione proibitiva, più racchiudeva ricchezze…
L’uomo ha sempre camminato su due «trampoli»: l’orgoglio e la paura. Orgoglio: enorme stima di se stesso e dei propri mezzi, fierezza, amor proprio, fino a spingersi al vanto, rompendo spesso l’equilibrio con i simili.
Paura: sentimento che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo; preoccupazione che aumenta sempre di più, specialmente quando si è impreparati ad un evento o quando si possiedono molti averi, di cui si ritiene di non potere fare a meno.
I signori si pavoneggiavano e, per sconfiggere la paura, si facevano costruire castelli sempre più impenetrabili.

C ambiarono gli eventi, ma l’impostazione sociale della vita continuò. Finché, nel secolo XIX, la rivoluzione industriale pose fine al sistema precedente. In Inghilterra la rivoluzione toccò in modo speciale il settore tessile. Gli artigiani, che da secoli avevano filato e tessuto in casa su telai di legno azionati a mano, si trovarono spiazzati: infatti non potevano più concorrere con la nascente industria che si avvaleva di macchine a motore, che producevano più merce e a minore prezzo.
Gli artigiani dovettero abbandonare i telai e cercarono lavoro in fabbrica come salariati. Nacquero due nuove classi sociali: quella imprenditoriale (ricca) e quella operaia (povera).
I rapporti tra le due classi non furono improntati a giustizia. A parte lodevoli eccezioni, la classe operaia venne sfruttata: bisognosa di lavorare per vivere, ma priva di una legislazione che ne tutelasse i diritti, subì, con l’incertezza del salario, estenuanti tui lavorativi di 12-14 ore giornaliere in condizioni durissime. Vi sottostavano anche i bambini, senza alcuna assicurazione sociale.
S’impose il «problema operaio», davanti al quale due furono le posizioni assunte. Nella prima ci si schierò a fianco dei salariati e, con organizzazioni sindacali e leggi, li si sostenne nella rivendicazione dei loro diritti. Le persone, impegnate in vari movimenti, per lo più socialisti e cattolici, riconobbero l’utilità delle due classi sociali (imprenditrice e operaia), ma si batterono sul fronte politico, legislativo e sindacale per conquistare la giustizia sociale.
In Inghilterra ricordiamo il Cartismo, i Trade Unions (attuali sindacati), le figure di Robert Owen (assertore di un socialismo utopico) e del prelato Henry Manning, chiamato dagli operai «il cardinale dei poveri». I frutti delle loro azioni, pazienti e tenaci, si ritrovano ancora oggi nelle buone condizioni di vita che i lavoratori godono: specialmente nel Nord Europa, ove l’azione dei cristiano-sociali fu più tempestiva ed efficace.
Nella seconda posizione, di fronte al «problema operaio» incontriamo Karl Marx. Questi non si lasciò intenerire dalle tristi condizioni dei salariati, che vedeva con i propri occhi a Londra, e neppure si mosse per aiutarli; ma, conformemente alla sua filosofia, additò la soluzione del problema nella soppressione delle stesse classi sociali, da realizzarsi mediante la rivoluzione. Tale rivoluzione, proclamata nel 1848 con la pubblicazione del «Manifesto», esercitò una potente attrattiva sulle masse operaie.
Tuttavia l’interesse per Marx non si sarebbe spinto più avanti, se egli avesse solo teorizzato la rivoluzione. Ma, per Marx, filosofia e rivoluzione formano un’unità inscindibile: è impossibile fare la rivoluzione senza abbracciare la filosofia. Una filosofia che chiedeva ai lavoratori non solo la partecipazione alla rivoluzione, ma anche il rifiuto di Dio e di ogni religione, perché «oppio del popolo».
I due sistemi (socialista-cristiano e marxista-ateo) viaggiavano in parallelo, scrutandosi con un comportamento di «guerra fredda» tra est e ovest. Questo frontismo, come tutti sanno, durò a lungo, fino al crac del 1989, reso emblematico dalla caduta del muro di Berlino. L’est si è frantumato.
M a anche l’ovest è in «crisi». I paesi occidentali sono preoccupati, perché l’oriente asiatico si affaccia sempre di più sul nostro mercato, i paesi arabi avanzano. L’occidente sventola la bandiera del vincitore; si dichiara un sistema positivo ed efficace. In realtà conta molte matasse da sbrogliare.
Anche gli italiani si avvertono sempre di più soli, chiusi in se stessi. Le case sono diventate piccoli castelli, quasi come nei tempi andati, con cancelli elettrici, cinte sempre più alte, citofoni, videocamere e mastini. Si ha paura di tutto e tutti. Sentendosi sempre di più persi, gli interrogativi aumentano e le risposte tardano ad arrivare. Intanto ci si riempie di oggetti… «che ci fanno sentire vivi», offuscando i veri valori. La tecnologia sfoa ogni giorno nuove attrattive, foendo gingilli che ci sembrano indispensabili, ma sono tali solo in forza della pubblicità. L’importante è vendere, creando una buona economia. Ordine tassativo: «costruire» acquirenti il più possibile. Siamo nell’era della comunicazione o della confusione?
Siamo tutti come bambini viziati: appena ci sentiamo vuoti, acquistiamo qualcosa per riempirci, sentendoci momentaneamente «vivi» per poi ritrovarci «morti». Si possiede solo per lo sfizio d’avere, senza chiedersi se sia veramente utile o no.
Nuovo millennio, vecchi bisogni! E le nostre paure aumentano.

N oi ragazzi non vogliamo metterci sul terrazzo e fare solo da spettatori. Né vogliamo soltanto criticare. Vogliamo metterci in discussione: fermarci, respirare e capire quale sia la nuova strada da percorrere. E ben venga chi, più esperto di noi, ci darà una mano.

Millennium bluff?

Nel mondo sono stati spesi tre milioni di miliardi di lire per sconfiggere il millennium bug. Parola del TG1.
Noi dell’associazione PeaceLink non abbiamo speso una lira e i nostri computer funzionano benissimo. Come mai? Semplice: bastavano pochi ed elementari controlli di routine. Invece è stata regalata agli «esperti» e alle multinazionali dell’informatica una montagna di soldi per risolvere un problemino aritmetico da quinta elementare.
Tuttavia il millennium bug, anche se i mass media non lo diranno, ha le sue vittime invisibili: cento milioni di persone moriranno nei prossimi dieci anni, private delle risorse investite per sconfiggere il millennium bug.
Mentre diciamo queste cose, siamo considerati fuori dal mondo. La lotta ad un improbabile baco viene, ovviamente, prima di quella alla fame in questa «ragionevole società del capitalismo reale». I bambini possono anche morire. Ma i computer non possono sbagliare data!
Detta così, la cosa può creare sconcerto. Facciamo allora qualche calcolo. Le statistiche documentano una mortalità per fame, malattie e povertà variabile da 30 mila a 40 mila vittime al giorno. Cifre che, ovviamente, non devono turbare l’opinione pubblica e che, quindi, la TV dà raramente. Qualcosa trapela quando esce il rapporto dell’Unicef.

R itorniamo ai tre milioni di miliardi che – a detta del TG1 del 2 gennaio 2000 – il mondo ha speso per il «baco».
Informiamoci: potremo sapere che bastano 500 mila lire l’anno per adottare un bambino a distanza. Armiamoci di carta, penna e tabelline: potremo calcolare che, se si fosse speso anche solo la metà dei miliardi destinati al millennium bug, si sarebbero potuti adottare a distanza per dieci anni 300 milioni di bambini poveri, sfamandoli, curandoli, mandandoli a scuola per prepararli al lavoro, aiutandoli a costruirsi un futuro senza dover emigrare.
Nei prossimi dieci anni che fine faranno quei 300 milioni di bambini? Purtroppo non saranno sufficientemente bravi a gestire le 1.500 lire che le statistiche affidano loro quale reddito pro-capite giornaliero; non riusciranno (gli sciuponi!) neppure a pagare il debito estero della loro nazione nel nuovo millennio.
Pertanto, come si è detto, se ne perderanno per strada più di 30 mila al giorno, insieme alle loro mamme e ad altre persone deboli, affamate e malate di lebbra o Aids. E, nel 2010, di quei 300 milioni ben 100 milioni saranno scomparsi dall’anagrafe dei vivi: 100 milioni di desaparecidos che il «capitalismo reale» considera una perdita fisiologica e tollerabile per la civile coscienza dei suoi fans. Costoro avranno sicuramente delle statistiche per documentare che, nel medioevo, la mortalità infantile era in percentuale maggiore.
Quindi, tutto sommato, viviamo in tempi più che mai fortunati.

N el 2010, in soli dieci anni del nuovo millennio, 100 milioni di vittime del capitalismo reale pareggeranno la bilancia con le vittime di 60 anni di comunismo reale.
D’accordo, il capitalismo reale non le uccide. E che bisogno ci sarebbe? Tanto muoiono da sole. Saranno cento milioni in meno, che non peseranno sulle borse di New York o di Tokyo, che non appesantiranno lo stato sociale né nostro né dei paesi poveri e che voleranno in cielo assicurando prosperità al mondo computerizzato.
Eh sì, perché spendere tre milioni di miliardi nel millennium bug crea sviluppo, spendee anche solo la metà per salvare vite umane in un pianeta già così popolato… no! Se per il mercato globale la vita delle persone contasse, le associazioni umanitarie sarebbero quotate in borsa. Invece no.

I l baco ha fatto da paravento al millennium business: nel più grottesco dei modi. L’opinione pubblica si è, alla fine, accorta di essere stata manipolata dai mass media. Ma, quando la consapevolezza si stava diffondendo, è stata iniettata una nuova dose di propaganda. Bill Gates ha detto: «Il baco non è ancora sconfitto, attenti ai prossimi mesi». Sganciate altri soldi, insomma. Se lo dice lui, che è un cervellone, cosa potrà ribattere l’ignaro inesperto?
In realtà Bill ed «esperti» si sono indegnamente arricchiti grazie al millennium bluff.

Giovanni Fumagalli




Segni di speranza – Dopo il vertice di Seattle

D al 30 novembre al 3 dicembre 1999 a Seattle (Usa) ha avuto luogo l’atteso Millennium Round, della Organizzazione mondiale del commercio (Wto). I delegati dei 135 stati membri dovevano trovare un accordo per liberalizzare il commercio, adeguandolo ai processi di globalizzazione.
Tutti sapevano che sarebbe stato arduo ridurre le barriere tariffarie e superare il protezionismo in agricoltura; ma nessuno aveva previsto che la rabbia dei poveri e la rivolta della coscienza morale contro la logica del neoliberismo tecnologico avrebbero contribuito a far fallire l’incontro.
Il primo scontro si è avuto a proposito dello sfruttamento infantile. La «clausola sociale», posta da Clinton (cioè la richiesta di embargo per quei paesi che non eliminano il lavoro minorile), è apparsa sospetta. Come credere alla sincerità dei paesi ricchi, quando affermano di guardare esclusivamente alla difesa dei diritti umani? Chi non sa che, per i ragazzi dei paesi in via di sviluppo, l’alternativa a un misero lavoro non sono lo studio e la formazione, ma la delinquenza o la morte per fame?
Rimane, perciò, il dubbio che i paesi ricchi cercassero un pretesto, sia per mantenere un po’ più elevato il costo del lavoro nei paesi terzi (e neutralizzae la concorrenza), sia per poter continuare a imporre l’embargo contro paesi ostili (come Cuba). Oltre tutto – si è fatto notare – spetta all’Ufficio internazionale del lavoro (e non alla Wto) tutelare le condizioni del lavoro: quindi combattere lo sfruttamento minorile e promuovere forme alternative di apprendistato.
Il secondo scontro tra coscienza morale e logica neoliberista si è verificato in tema di commercio degli alimenti e di sostegno all’agricoltura. I manifestanti, provenienti da ogni parte del mondo e in rappresentanza di svariate organizzazioni ambientaliste, sindacali e del volontariato sociale sono scesi rumorosamente in piazza, per denunciare la mancanza di garanzie effettive di fronte al progressivo estendersi dell’inquinamento ambientale e delle manipolazioni genetiche. Molto forte è stata la contestazione contro i «cibi transgenici» e ogni forma d’intervento tendente a modificare i geni vegetali e animali.

N on sono mancati a Seattle gruppi estremisti, che hanno tentato di far degenerare la protesta in forme inaccettabili di violenza e nel rifiuto assoluto e ideologico della globalizzazione, che è ugualmente da rigettare. Tuttavia le ragioni di chi ha manifestato il proprio dissenso in modo civile e democratico restano meritevoli di considerazione. Lo sviluppo è un problema che riguarda tutti e non possono essere solo i ricchi a decidere; né esso si può ridurre in termini solo di mercato o monetari. I paesi meno favoriti vanno piuttosto aiutati a essere i protagonisti del proprio sviluppo.
Il rifiuto dell’orientamento dell’economia generale in senso puramente neoliberista e la reazione della coscienza morale contro la cultura libertaria soggiacente (quali si sono manifestati a Seattle) vanno salutati come un segno di speranza. Di essi si dovrà tener conto per impostare diversamente il prossimo Round.

Questo testo è pubblicato dalle riviste associate alla Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana), di cui Missioni Consolata è membro.

Riviste associate FESMI




Musulmani diventati cristiani

Caro direttore,
faccio alcuni rilievi su un problema che sento vivissimo e su cui ho letto quanto Angela Lano ha scritto in Missioni Consolata: riguarda la conversione all’islam di alcuni cattolici italiani.
È mio vivo desiderio che la fede cristiana si rafforzi anche di fronte all’islam, che è oggi all’assalto non solo in Africa, dove usa mezzi a volte violenti (Somalia, Sudan), ma anche in Europa.
Pertanto, trattando di conversioni all’islam, è necessario usare accortezza, poiché sappiamo che, mentre la verità oggettiva è in Gesù Cristo, soggettivamente le persone possono essere affascinate da altre proposte.
Mi permetto le seguenti due osservazioni.
a) Gli articoli della Lano dimostrano comprensione verso chi è diventato musulmano. L’insieme della presentazione richiederebbe anche una affermazione chiarificatrice sull’oggettiva grandezza di Gesù Cristo, che i convertiti all’islam non hanno purtroppo conosciuto o conosciuto male: è sintomatico che nessuno di loro parli di Gesù Cristo.
Mi auguro che Missioni Consolata presenti l’«unicità di Cristo», altrimenti si lascia nel lettore l’impressione che i convertiti abbiano fatto bene a diventare musulmani.
Le riviste missionarie non hanno solo il dovere di informare, ma anche di presentare Gesù Cristo Salvatore di tutti, compresi i musulmani. Se già tutte le pubblicazioni cristiane dovrebbero avere questo scopo, tanto più una rivista missionaria.
b) La seconda, più che una osservazione, è una proposta. Anche in Italia (e un po’ in tutta l’Europa) ci sono musulmani che sono diventati cattolici o cristiani di altre chiese. Propongo di parlare anche di loro, così come avete fatto per i cattolici diventati musulmani. Sarebbe opportuno parlare pure di quanti fanno tale apostolato tra i musulmani.

Osservazioni assai pertinenti queste di padre Paolo, nostro prezioso corrispondente dal Kenya. L’«unicità di Cristo» va sempre ricordata. Missioni Consolata, nel citato numero speciale sul giubileo, ha titolato: «Davvero come Lui non c’è nessuno».
Abbiamo anche intenzione di parlare dei musulmani convertiti al cristianesimo. Però c’è uno scoglio: se occorre prudenza nel presentare le conversioni dei cristiani all’islam, se ne richiede di più nel processo inverso. Infatti i convertiti a Cristo dall’islam rischiano ritorsioni dai loro precedenti correligionari.

Paolo Tablino




Anche negli USA critiche alla guerra

Egregio direttore,
scrivo per congratularmi con lei e con Paolo Moiola per quanto avete scritto sulla guerra in Serbia-Kosovo. Eccezion fatta per gli anti-imperialisti di professione, le cui opinioni sono in parte predeterminate, pochissimi in Italia hanno avuto il coraggio di riportare con il giusto peso fatti «scomodi» e di dire quel che non era difficile capire. In Europa il panorama non sembra migliore.
Solo in America e Inghilterra si sono levate voci critiche dal mondo politico «rispettabile», sia da destra che da sinistra.
Kissinger, in un articolo del 31/5/1999 su Newsweek, dice che la guerra è stata forzata bloccando le possibili soluzioni pacifiche. L’associazione di studi politico-militari Strategic Studies (della destra repubblicana) accusava il capo della missione Ocse, l’americano Walker, di aver «fabbricato» il massacro di Racak (gennaio 1999). Sulla base di testimonianze di osservatori dell’Ocse, pubblicate anche su Le Figaro e Le Monde, la «fossa comune» sarebbe stata creata mettendo insieme i corpi dei caduti negli scontri tra esercito serbo e Uck. Le foto dei cadaveri di Racak, apparse su tutti i rotocalchi, sono state considerate il «grilletto» della guerra…
Del Kosovo la nostra stampa non parla quasi più: arrivano solo echi della polemica (proveniente dall’America) sul numero delle vittime delle «atrocità serbe». Da centinaia di migliaia si è arrivati a 10 mila, mentre stime attendibili danno un massimo di 2 mila, per lo più comunque uccise dopo l’inizio dei bombardamenti. Non si sa se i rilievi siano più accurati che a Racak.
Intanto, come denuncia il recente rapporto di Amnesty Inteational, la violenza in Kosovo continua e forse peggiora, a danno dei serbi, rom, ma soprattutto degli albanesi moderati. Vittime «indegne», a cui la stampa dedica poco spazio.
Continua anche la sistematica distruzione delle chiese. Ne sono state distrutte un’ottantina, tra di esse anche antiche chiese medievali con i loro preziosi affreschi, incluse nel patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per confronto, la «violenza serba» ha distrutto solo una moschea.

Il signor Boldrighini ricorda altri interventi critici statunitensi contro la guerra in Serbia-Kosovo. Ad esempio, quelli di Kenney, già responsabile nel Dipartimento di stato per la Jugoslavia ai tempi di Bush, di Binder, ex corrispondente del New York Times dai Balcani, di Chomsky, professore e commentatore politico. Anche il candidato presidenziale Pat Buchanan, già uomo di spicco della destra di Reagan, è stato critico sull’intervento armato nei Balcani.

Carlo Boldrighini




Al suono dello Shofar

Spettabile redazione,
sono abbonato a tre riviste missionarie, che leggo per essere cattolico, cioè universale, e che mi consentono di conoscere la politica mondiale, cosa che non trovo nei nostrani ottusi e scandalosi mass media.
Ultimamente le tre riviste sono uscite con un loro «numero speciale»: una si è soffermata su un anniversario del suo istituto, un’altra ha presentato l’Africa e… Missioni Consolata ha parlato del giubileo. Devo dire che Missioni Consolata mi è piaciuta di più. Ho trovato troppo celebrativo il «numero speciale» sull’istituto, mentre quello sull’Africa è molto confuso e ripetitivo: non nomino le due riviste, perché apprezzo anch’esse.
Il numero di Missioni Consolata sul giubileo, oltre che chiaro nell’impostazione, è anche originale, proprio perché «cattolico»; inoltre attualizza il giubileo della bibbia e quello di Gesù affrontando argomenti scabrosi, che qualche italiano vorrebbe rimuovere (vedi pena di morte, emarginazione dei paesi poveri, ecc). Grazie.

Srgio Macchi




Palle di vetro

B eppe aveva sette anni quando, nel 1950, vide per la prima volta San Pietro. In quell’anno santo il papà ritoò da Roma con una strabiliante palla di vetro, che racchiudeva la celebre basilica. La mamma sistemò il ricordo del giubileo sul comò. Beppe non solo mirava quella palla, ma la prendeva in mano scuotendola: così facendo, il cielo sulla piazza si animava di minuscole falde di neve, che poi si posavano lentamente sul cupolone. Finché il soprammobile gli scivolò… per frantumarsi sul pavimento.
«Mamma, ho rotto San Pietro!», singhiozzava disperato Beppino. «Ma va’ là! San Pietro non è mica una palla di vetro!» replicò la mamma.
A questo episodio della propria infanzia pensò Beppe, l’altro giorno, ascoltando il suo parroco. Erano in pellegrinaggio verso Roma. «Non abusate con i ricordini – diceva il don -. Un rosario va bene. Il resto è inutile quanto costoso. Non cadiamo nel consumismo religioso. Siamo in quaresima».

D i fronte al giubileo in corso, Vittorio Messori ha denunciato troppe porte sante, messe solenni, messaggi, benedizioni, esortazioni, processioni, concerti, «miele buonista di monsignori» (cfr. Corriere della Sera, 27 dicembre 1999). Talora non sono liturgie, ma «paraliturgie» nel senso peggiore del termine. O megashow.
Tutto magnificato dalla tivù.
Inoltre imperversano «le palle di vetro», la paccottiglia. Sono in vendita persino due fucili: una doppietta e un soprapposto, della Casa Beretta (Brescia), con l’incisione «P. Beretta Giubileo» (cfr. Armi e Tiro, dicembre 1999).
«Siamo in quaresima» diceva il parroco di Beppe. Dunque: «tempo forte» per la sobrietà, la coerenza, l’impegno. Nelle chiese risuonano testi biblici che non ammettono scantonamenti. E non bastano i digiuni materiali, perché non servono «sacrifici di tori», dietro i quali si nascondono calcoli economici.
È vero che digiunate – dice il profeta Isaia -. Ma, nello stesso tempo, fate grossi affari e maltrattate i lavoratori. Litigate, urlate, fate a pugni. «Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere tutti i pesi che opprimono gli uomini, rendere la libertà agli oppressi» (Is 58, 6).
Ma qualcuno risponde stizzito: «Evitate il
facile moralismo e le colpevolizzazioni
sommarie!».
Intanto ogni giorno 19 mila bambini muoiono per denutrizione, mentre in Europa si spendono 18 mila miliardi all’anno in gelati. Bill Gates, Robson Walton e il sultano del Brunei continuano ad ammassare ricchezze pari al reddito complessivo di 42 paesi poveri.
Per non parlare della corruzione politica.
Ma questo non è un macigno insormontabile. Potrebbe essere una fragile… palla di vetro. Dipende dai nostri «sì» o «no».
Anche al supermercato.
La redazione

la redazione




Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




KENYA – Tra passato e futuro

Squarci di vita di un’importante tribù.
È vivo il desiderio di far convivere tradizione e modeità.
In questo contesto si innesta l’opera della chiesa, pastorale e di promozione umana.
Anche con l’aiuto di generosi… piemontesi.

D ire «Piemonte» significa evocare le montagne, richiamare alla mente il mormorio di mille ruscelli, sorgenti, fontane ancora ricche d’acqua fresca e cristallina, elemento indispensabile per la nascita di una vegetazione brillante e rigogliosa.
Dire «Africa» significa, invece, quasi sempre evocare immagini di deserto, aridità, sete. E non è un caso, allora, che la generosità di alcuni piemontesi abbia fatto sì che uno dei beni più preziosi per gli esseri viventi potesse giungere in un pezzo d’Africa povero e assetato.
I piemontesi in questione sono il cuneese fratel Mario Beardi, missionario della Consolata (che ha costruito 10 pozzi), e un benefattore che desidera restare anonimo e ha fornito all’intraprendente missionario i mezzi economici per realizzare il suo obiettivo.
UNA MISSIONE E TANTI POZZI
La terra africana di cui stiamo parlando è Chiga: una missione «giovane» (appena 10 anni di vita), che fa parte dell’archidiocesi di Kisumu, città sulle sponde del lago Vittoria, la terza del Kenya in popolazione, commercio e industria.
Chiga è una delle quattro parrocchie legate alla cattedrale di Santa Teresa e si estende su un’area lunga 22 km e larga 15, con una popolazione di circa 80 mila persone, distribuite su una superficie di 330 kmq. La missione comprende 26 villaggi, ciascuno dei quali ha la scuola elementare (spesso molto povera), una chiesetta di frasche, paglia, fango e un «centro di salute», dove un infermiere governativo arriva ogni tanto a distribuire medicinali.
Delle 26 scuole, 16 sono sponsorizzate dall’archidiocesi e offrono il loro servizio a circa 8 mila alunni, suddivisi negli otto anni dell’obbligo. Ma ogni scolaro deve pagare una retta; per cui soltanto il 70% di loro può permettersi di frequentare la scuola. Vi sono anche quattro scuole superiori, che danno la possibilità di completare gli studi e ottenere il diploma di licenza con cui accedere all’università.
Tutti i villaggi fanno capo alla parrocchia di Santa Maria, sede dei missionari. Qui, in questi ultimi tre anni, sono sorte importanti opere che toccano tutti i settori della vita sociale e che non avrebbero potuto vedere la luce se l’impegno di fratel Mario, nella costruzione di pozzi, non avesse permesso di far vivere oltre i limiti della pura sopravvivenza una terra difficile e singolare.
Singolare, perché la zona che circonda il lago Vittoria riceve acqua (e a volte anche in abbondanza); ma il terreno impermeabile non è in grado di accoglierla. Ecco quindi che, a mesi di grande siccità, si alternano periodi di vere e proprie inondazioni.
Vita, dunque, non facile quella dei luo, il popolo in mezzo al quale è sorta la missione di Chiga. Questa popolazione si è insediata da secoli sulle sponde orientali del lago Vittoria: vanta tradizioni di grande interesse, come la sacralità del matrimonio, il rispetto per l’anziano… valori che la nostra società modea, forse, si è affrettata a dimenticare (vedi inserto). Proprio qui sta il pericolo: che l’esasperata modeizzazione porti anche i luo a perdere la propria identità, adottando atteggiamenti e usi che non sono i loro.
Ma l’arcivescovo di Kisumu, Zacchaeus Okoth, è stato lungimirante: dopo aver esortato, nel 1992, i missionari della Consolata ad assumere la responsabilità della parrocchia, ha accolto con entusiasmo la loro proposta: nel 1995 ha sostituito il parroco, l’italiano Luigi Bruno, con un luo, Matthew Ouma, attualmente coadiuvato da un viceparroco, pure luo, John Wao Onyango.
Nessuno meglio di padre Matthew è in grado di coniugare gli aspetti positivi del mondo moderno con la preziosa tradizione del suo popolo. Ed è proprio questo che sta facendo, impegnandosi ad aiutare la sua gente a non dimenticare il significativo cerimoniale nella celebrazione dei matrimoni, cerimoniale che invece i luo (purtroppo attratti dall’aspetto omologato del matrimonio all’europea) tendono a trascurare.
Padre Matthew li guida con discrezione e intelligenza, cercando di evidenziare il lato negativo di un comportamento troppo lontano dalle loro tradizioni e troppo vicino al consumismo, capace di spazzare via decenni di consuetudini e valori.
Anche presso i luo il denaro e la concezione di una posizione sociale, che si conquista più con l’apparenza che con la sostanza, cominciano a mietere molte vittime: la prova più evidente la si riscontra in occasione del funerale, quando la famiglia del defunto arriva a indebitarsi pesantemente pur di offrire ai partecipanti un banchetto tanto indimenticabile quanto costosissimo.
I due sacerdoti sono costantemente impegnati su questo fronte, che ritengono di loro stretta competenza; mentre un gran numero di iniziative le lasciano invece ai vari comitati parrocchiali: liturgico, pastorale, pubblica istruzione, consiglio dei giovani, comunità di base…
I parrocchiani, giovani e vecchi, sono coinvolti e tutti sono fieri di appartenere a un gruppo nel quale, attraverso riunioni settimanali o quindicinali, organizzano le più svariate attività. Vi sono poi 76 piccole comunità di base che funzionano con tanto di presidente, consiglio e segretario: si radunano ogni settimana per pregare e preparare i sacramenti. Questi gruppi funzionano indipendentemente dalla presenza del parroco, che (al massimo) può essere invitato a esprimere la sua opinione.
Se i fedeli non fossero responsabilizzati e non si gestissero autonomamente, sarebbe troppo arduo il compito di padre Matthew. Questi già spende gran parte delle sue energie per cornordinare il tutto e visitare settimanalmente i centri disseminati sul vasto territorio parrocchiale.
FANTASIA DI OPERE
Sono proprio questi centri ad avere beneficiato della capacità tecnica di fratel Mario Beardi. Il missionario è riuscito, in ciascuno di essi, a scavare un pozzo e installare una pompa a mano; oppure, dove c’è energia elettrica, una pompa che spinge l’acqua in una cisterna da cui la gente può attingere.
A noi (abituati ad aprire il rubinetto d’acqua) può sembrare poca cosa; ma, per la gente di Chiga, si tratta di un bene preziosissimo: anche se non è sufficiente per tutti gli usi, soprattutto agricoli, l’acqua del pozzo almeno disseta e allontana le malattie.
L’acqua piovana non è mai potabile, poiché ristagna nelle crepe che si sono aperte durante il periodo di siccità e forma pericolose pozzanghere che richiamano zanzare, portatrici di malaria. I primi ad essee colpiti sono bambini e anziani, ma tutta la popolazione è a rischio per colera o dissenteria, malattie spesso mortali.
La costruzione dei pozzi è la dimostrazione di come sia indispensabile, prima di avviare un processo di evangelizzazione, offrire alla gente la possibilità di sopravvivere dignitosamente. Solo così la missione diventa un centro di promozione dello sviluppo, dove la popolazione, nonostante malattie, carestie o epidemie, cresce e trova nella comunità cristiana un punto di riferimento; non solo per ricevere assistenza spirituale, ma anche per essere soggetto di sviluppo umano e progresso sociale.
Il pozzo non è certamente l’unica «trovata». C’è anche l’«Istituto tecnico magistrale della Consolata» (Cttc), con candidati scelti tra gli studenti che terminano l’ottavo anno della scuola d’obbligo. Qui fratel Mario Beardi esplica tutte le sue capacità: oltre a dirigere la scuola, sovrintende ai vari corsi di falegnameria, meccanica, elettricità e sartoria, aperti a ragazzi e ragazze, tenuti unicamente da maestri locali. Inutile sottolineare la grande importanza del Cttc, che ha il delicato compito di permettere ai giovani di mantenere la loro identità, attraverso la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro.
Non lontano dall’Istituto tecnico, sorge la «Piccola Casa», dove sono raccolti bambini poliomielitici. È un’opera caritativa che, sostenuta da benefattori italiani, si propone di seguire i bambini più gravi, abbandonati spesso dai genitori, vittime di tabù ed ignoranza dei parenti. Spesso questi bambini si trovano soli, in quanto le malattie e l’Aids li hanno privati dei genitori.
Essendo la percentuale degli orfani molto alta (15%), la parentela non sempre è in grado di assorbirli completamente. Ecco, allora, che per loro si apre la porta della «Casa degli orfani», dove hanno la possibilità di frequentare la scuola, cominciando dall’asilo nido. Questo è dedicato a Luca Delfino, un giovane cuneese, morto tragicamente all’età di 21 anni.
Ancora una volta un forte legame unisce il Piemonte all’Africa, grazie ad una mamma che, invece di chiudersi nel suo dolore, ha voluto offrire a tanti bimbi la possibilità di crescere, come era cresciuto il suo Luca. L’antica conoscenza tra mamma Lucia e fratel Mario è stata l’occasione per far nascere questa importante opera, punto di partenza dello sviluppo sociale di Chiga. L’asilo è guidato dalle suore della Beata Vergine e accoglie bambini di quattro anni, che in un biennio si preparano alla scuola dell’obbligo.
Di grande importanza sociale è pure la «Casa delle vedove», dove sono ospitate alcune donne. Queste, se non avessero un luogo in cui rifugiarsi, sarebbero costrette a sottostare al fratello del marito defunto in condizione di semischiavitù, private della possibilità di decidere autonomamente del loro futuro.
Recentemente è sorto, accanto alla bella e ampia chiesa, il Centro pastorale, ove si radunano catechisti e maestri cattolici. Questo è il «cuore apostolico» della missione: qui si svolgono incontri, seminari e conferenze; qui hanno sede i diversi gruppi caritativi, il catecumenato e l’assistenza agli orfani e alle vedove.
Vi è, infine, il «Centro sociale per la gioventù e lo sviluppo», nel quale i giovani organizzano feste, convegni e iniziative varie. Un’idea «invidiata» da altre parrocchie.

L a missione di Chiga ha compiuto passi da gigante. Con il contributo di generosi benefattori, si è avviata verso un futuro meno… grigio.
Ora rimane aperta una sfida: saprà il popolo luo fare tesoro di queste realizzazioni e valorizzarle anche in seguito? Saprà mantenere il senso di responsabilità e comunione anche quando i missionari, terminato il loro compito di «seminatori», se ne andranno?
È questo, per ogni missionario, il compito più difficile: evitare di fare perennemente da stampella, bensì educare all’autogestione responsabile. Solo così i soggetti, pur tra errori e difficoltà, impareranno a camminare con le proprie gambe.
I padri Matthew, John e fratel Mario continuano a seminare, mantenendo quel prezioso legame di fratellanza e solidarietà tra il popolo italiano e quello luo, ben sapendo che il futuro dell’Africa dovrà restare nelle mani degli africani. Lavorando, affinché questi imparino a riconoscere il bene con umiltà, riceverlo con dignità e restituirlo con altrettanta generosità.

Teresa de Martino




Il dio dei desideri – La chiesa in Asia

Il vangelo ha varcato pure i palazzi imperiali di Cambalùc, cioè Pechino.
Non solo, ma ha raggiunto tutti i paesi dell’Asia. Con grandi difficoltà, numerosi errori e scarsi risultati.
La chiesa in Asia riafferma la scelta dell’uomo, soprattutto se povero,affidandosi alla forza e intuizione
dello Spirito, che soffia come, dove e quando vuole.

UNO SGUARDO AL PASSATO

La storia della chiesa in Asia è antica quanto la chiesa stessa. Infatti è in terra d’Asia che Gesù donò lo Spirito Santo ai suoi discepoli e li inviò sino ai confini della terra, perché proclamassero il vangelo e riunissero le comunità di credenti. «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21). Seguendo il comando del Signore, gli apostoli predicarono ovunque la Parola.
Da Gerusalemme la chiesa si diffuse ad Antiochia, a Roma e oltre, raggiungendo l’Etiopia a sud, la Russia a nord e l’India a est, dove, secondo la tradizione, san Tommaso apostolo giunse nel 52 d.C.
Straordinario fu lo spirito missionario, nel III e IV secolo, della comunità siriana dell’est, avente come centro Edessa. Le comunità ascetiche della Siria rappresentarono una forza fondamentale dell’evangelizzazione in Asia dal III secolo in poi, e foirono l’energia spirituale della chiesa, specialmente durante i tempi di persecuzione. L’Armenia fu la prima nazione ad abbracciare il cristianesimo: essa si sta ora preparando a celebrare il 1700° anniversario del suo battesimo.
Alla fine del V secolo il messaggio cristiano aveva raggiunto i regni arabi, ma per molte ragioni (incluse le divisioni tra i cristiani) non si radicò fra questi popoli.
Mercanti persiani portarono il vangelo in Cina nel V secolo, e la prima chiesa cristiana fu costruita all’inizio del VII secolo. Durante la dinastia t’ang (618-907 d.C.) la chiesa fiorì per circa due secoli. Il declino della vivace chiesa in Cina, alla fine del primo millennio, è uno dei capitoli più tristi nella storia del popolo di Dio nel continente asiatico.
Nel XII secolo la «buona notizia» fu annunciata ai mongoli, ai turchi e, ancora una volta, ai cinesi. Ma il cristianesimo quasi scomparve per diverse cause: l’insorgere dell’islam, l’isolamento geografico, l’assenza di un adattamento alle culture locali e, soprattutto (forse), la mancanza di preparazione ad incontrare le grandi religioni dell’Asia.
Alla fine del XIV secolo si verificò un drammatico ridimensionamento della chiesa in Asia, eccetto nell’India del sud. La chiesa doveva attendere una nuova era missionaria. Le fatiche apostoliche di san Francesco Saverio, la nascita della congregazione di Propaganda Fide e le direttive ai missionari di rispettare e apprezzare le culture locali produssero, nel XVI e XVII secolo, risultati più positivi.
Nel secolo XIX vi fu un risveglio dell’attività missionaria e varie congregazioni religiose si dedicarono a tale compito. Fu riorganizzata Propaganda Fide; fu posto un maggiore accento sull’edificazione delle chiese locali; attività educative e caritative andarono di pari passo con la predicazione del vangelo. La «buona notizia» continuò così a raggiungere un più vasto numero di persone, specialmente tra i poveri e gli svantaggiati, ma anche tra élites sociali e intellettuali. Furono effettuati nuovi tentativi di inculturazione del vangelo, anche se non si rivelarono sufficienti.
Nonostante una plurisecolare presenza e i numerosi sforzi, la chiesa in Asia era considerata straniera e, spesso, associata alle potenze coloniali.
L’IMPULSO DEL vaticano II
Questa era la situazione alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. Grazie, tuttavia, all’impulso che esso foì, la chiesa maturò una nuova comprensione della propria missione. E si accese una grande speranza.
L’universalità del piano salvifico di Dio, la natura missionaria della chiesa e la conseguente responsabilità di ogni cristiano costituirono il quadro di riferimento di un impegno rinnovato.
Pur tra difficoltà, oggi la chiesa in Asia è inserita fra popoli che dimostrano un intenso desiderio di Dio e sa che tale desiderio può essere pienamente soddisfatto da Gesù Cristo, parola di Dio per tutte le nazioni. I padri del Sinodo per l’Asia hanno auspicato che si focalizzasse questo aspetto e si incoraggiasse la chiesa a proclamare con vigore, in parole e opere, che Gesù Cristo è il salvatore.
Lo spirito di Dio, sempre all’opera nella storia della chiesa in Asia, continua a guidarla. I tanti elementi positivi delle chiese locali rafforzano la speranza di una «nuova primavera di vita cristiana».
Solida ragione di speranza è l’incremento di laici maggiormente formati ed entusiasti, più coscienti della propria vocazione nella comunità ecclesiale. Fra questi va reso omaggio ai catechisti. Inoltre i movimenti apostolici e carismatici sono un dono dello spirito, poiché infondono nuovo vigore nella formazione delle famiglie e della gioventù.
Infine le associazioni ecclesiali, che si impegnano nella promozione della dignità umana e della giustizia, rendono tangibile l’universalità del messaggio evangelico della comune adozione a figli di Dio (Cfr. Rm 8, 15-16).
SETE DI «ACQUA VIVA»
In Asia continua il dialogo d’amore tra Dio e l’uomo, preparato dallo Spirito Santo e realizzatosi nel mistero di Cristo. In questo i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e i laici hanno un ruolo essenziale da svolgere, memori delle parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).
La chiesa è convinta che nel cuore degli uomini, delle culture e religioni dell’Asia vi sia sete di «acqua viva» (Cfr. Gv 4, 10-15), che lo Spirito stesso suscita e che solo Gesù salvatore potrà pienamente saziare.
Guidata dallo Spirito nella missione di servizio e amore, la chiesa può offrire un incontro fra Gesù Cristo e i popoli alla ricerca della pienezza della vita. Solo in tale incontro può essere trovata l’«acqua viva», cioè la conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato, Gesù Cristo.
Nelle complesse realtà dell’Asia, la chiesa sa di dover disceere la chiamata dello Spirito a testimoniare Gesù salvatore in modi nuovi ed efficaci. La piena verità di Gesù e della salvezza, da Lui ottenuta per noi, è sempre un dono e mai il risultato di uno sforzo umano. «Lo Spirito ci attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 16-17).
Perciò la chiesa grida incessantemente: «Vieni, Santo Spirito! Invadi i cuori dei tuoi fedeli e accendi il fuoco del tuo amore!».
Con tale sentimento, i padri del Sinodo hanno individuato le principali sfide missionarie che la chiesa deve affrontare in Asia, mentre varca la soglia del terzo millennio.
L’UOMO SOPRATTUTTO
Gli uomini e le donne, non la ricchezza o la tecnologia, sono gli agenti primari e i destinatari dello sviluppo.
Pertanto il progresso che la chiesa promuove va al di là delle questioni economiche: inizia e termina con l’integrità della persona, creata ad immagine di Dio e dotata di dignità e diritti inalienabili.
Le diverse dichiarazioni inteazionali sui diritti umani e le molte iniziative da esse ispirate sono segno di una crescente attenzione a livello mondiale alla dignità della persona. Spesso, però, tali dichiarazioni sono violate nella pratica. A 50 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, molte persone sono ancora soggette a degradanti forme di sfruttamento e manipolazione, che le riducono a vere schiavitù in balìa dei più potenti, di ideologie, del potere economico, di sistemi oppressivi, della tecnocrazia scientifica o dell’invadenza dei mass media.
I padri del Sinodo sono apparsi ben coscienti della violazione dei diritti umani in tante parti del mondo; in modo particolare in Asia, dove decine di milioni di persone soffrono discriminazione, sfruttamento e povertà. Essi hanno espresso la necessità che tutto il popolo di Dio giunga alla consapevolezza della sfida inevitabile e irrinunciabile, connessa con la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
preferenza per i poveri
Nella ricerca della promozione della dignità umana, la chiesa dimostra un amore preferenziale per i poveri e senza-voce, perché il Signore si è identificato con loro in modo speciale (Cfr. Mt 25, 40). Tale amore non esclude alcuno, ma incarna una priorità di servizio testimoniata dalla tradizione cristiana.
È una caritas che abbraccia folle di affamati, mendicanti, senzatetto, privi di assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto di tali realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al ricco epulone, che fingeva di non conoscere Lazzaro, il mendico fuori della sua porta (Cfr. Lc 16, 19-31).
Ciò è particolarmente vero in Asia, continente con abbondanti risorse e grandi civiltà, ma dove si possono trovare nazioni misere e dove oltre la metà della popolazione soffre privazioni e sfruttamento.
I poveri trovano le migliori ragioni di speranza nel comandamento di amarsi «come Cristo ci ha amati». Ma la chiesa non può non sforzarsi di adempiere, in parole e opere, il comando del Signore nei confronti dei bisognosi.
la globalizzazione
I padri del Sinodo hanno riconosciuto l’importanza della globalizzazione economica nel considerare la promozione umana in Asia.
Pur riconoscendo gli aspetti positivi della globalizzazione, hanno anche rilevato che essa si è risolta a svantaggio dei poveri per l’intrinseca tendenza a spingere le nazioni più deboli ai margini dei rapporti inteazionali di carattere economico e politico. Molti paesi asiatici non sono in grado di inserirsi in una economia globale di mercato.
Forse ancora più significativa è la globalizzazione culturale, oggi possibile con i mezzi di comunicazione: essa sta rapidamente attirando le società asiatiche in una cultura consumistica e materialistica. Ne risulta l’erosione della famiglia tradizionale e dei valori sociali che finora hanno sostenuto popoli e società.
Tutto questo rende evidente che gli aspetti etici e morali della globalizzazione devono essere affrontati dai capi delle nazioni e dalle organizzazioni coinvolte nella promozione umana.
La chiesa insiste sulla necessità di una globalizzazione senza marginalizzazione. I padri del Sinodo hanno invitato tutte le chiese, specialmente quelle dell’occidente, a far sì che la dottrina sociale della chiesa abbia il dovuto impatto nella formulazione delle norme etiche e giuridiche che regolano il mercato mondiale e i mezzi di comunicazione sociale. I leader e professionisti cattolici dovrebbero spronare le istituzioni governative e inteazionali della finanza e del commercio a rispettare tali norme.
L’antico Israele insisteva sull’inscindibile legame tra l’adorazione di Dio e la cura del debole, rappresentato da vedove, stranieri, orfani (Cfr. Es 22, 21-22): le categorie più esposte alla minaccia dell’ingiustizia. Negli ammonimenti dei padri sinodali si odono i profeti biblici: Dio vuole «l’amore e non il sacrificio». E Gesù fece sue tali parole (Cfr. Mt 9, 13).
L’appello del Sinodo per lo sviluppo e la giustizia è nello stesso tempo antico e nuovo: è antico, perché sorge dalle profondità della tradizione cristiana; è nuovo, perché tocca la situazione di moltissime persone oggi.
IL CORO DEI TESTIMONI
I programmi di formazione e le strategie sono fondamentali nella missione. Ma, alla resa dei conti, è il martirio che rivela l’essenza profonda del messaggio cristiano. La parola «martire» significa testimone, e quanti hanno sparso il proprio sangue per Cristo hanno dato la testimonianza estrema all’autentico valore del vangelo.
Nella bolla di indizione del giubileo del 2000, Incaationis mysterium, il papa scrive: «Dal punto di vista psicologico, il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla più violenta delle morti e manifesta la sua bellezza anche nelle più atroci persecuzioni».
L’Asia, lungo i secoli, ha dato alla chiesa e al mondo un grande numero di martiri della fede. Da tanti angoli del continente si innalza il canto: Te martyrum candidatus laudat exercitus (Ti loda la candida schiera dei martiri). È questo il grido giornioso di quanti sono morti per Cristo nei primi secoli, come pure nei tempi recenti: Paolo Miki, Lorenzo Ruiz, Andrea Dung Lac, Andrea Kim Taegôn e tutti i loro compagni.
Come i «testimoni» di ieri, i cristiani d’oggi sono chiamati a proclamare, sempre e ovunque, niente altro che la potenza della croce del Signore.

Francesco Beardi




ETIOPIA – Crescere da rifugiati

Vivere in un campo-profughi è un’esperienza drammatica.
Ma per i bambini, cresciuti nella precarietà, c’è sempre
un modo per divertirsi. Dopo una guerra durata 30 anni,
oggi le relazioni tra Etiopia ed Eritrea sono tornate
molto tese. E i rifugiati rischiano di aumentare.

In Etiopia, la casa procura dei missionari della Consolata si trova a Makanissa, una zona della periferia sud di Addis Abeba. Questa parte della città era stata assegnata, ai tempi del negus Hailé Selassié, agli handicappati e ai lebbrosi. Ora ci vivono anche (e sono dunque nostri vicini di casa) alcune migliaia di rifugiati, provenienti da Asmara (Eritrea).
Sono i profughi della guerra d’indipendenza dell’Eritrea, che durò ben 30 anni (finì nel 1991). Arrivarono qui nel 1992 e fu loro assegnata un’area non abitata alla periferia di Addis Abeba.

L e tende delle Nazioni Unite, a poco a poco, si sono trasformate in abitazioni stabili. Insomma, la tenda fa da «casa». L’acqua viene distribuita da un serbatornio per due-tre ore al giorno e, ovviamente, c’è sempre una coda di gente per avere questo elemento così prezioso.
Quando l’acqua manca del tutto si rivolgono alla missione. Allora si fa scorrere un tubo di plastica oltre il muro di cinta del seminario e lo si collega alla pompa elettrica e al pozzo. Si chiama anche un guardiano a distribuire l’acqua e mantenere l’ordine.
Sia le famiglie che i bambini parlano correntemente due lingue, il tigrigna (lingua dell’Eritrea e del Tigrai, che i piccoli imparano dalle mamme) e l’amarico imparato dai papà, ex militari dell’esercito di Menghistu.
La condizione di essere tutti rifugiati non elimina certo i problemi «etnici». Al primo campo di Makanissa prevalevano le famiglie di lingua tigrigna, rari gli amara, oromo e sidamo. Un altro campo rifugiati a nord-est di Addis Abeba aveva invece diverse etnie. La vita là non era facile. Ci furono grossi bisticci, tanto che alla fine un numero di rifugiati fu trasferito a Makanissa; si formò così un secondo campo, in pratica la continuazione del primo, ma in condizioni più precarie, con spazio più ristretto, attaccato alla strada, e abitazioni più piccole.
Conoscere i rifugiati è stata per me una nuova esperienza. I bambini rifugiati sono quelli che danno vita al quartiere: giocano, gridano, corrono ai bordi della strada, un po’ come si vede nelle campagna. Fanno giochi tipo «la settimana» o «palla prigioniera», molto simili a quelli che giocavamo noi in Italia. La palla è sempre una vecchia calza o un sacco di plastica legato e riempito di stracci.
Diversi vengono all’oratorio di sabato e domenica. Se non hanno il tesserino di riconoscimento richiesto per entrare (sono state emesse più di mille «cards») o perché l’hanno perso o perché è caduto nell’acqua (!) o non l’hanno mai avuto, cercano di passarselo l’un l’altro da sotto il cancello, tanto il guardiano non vede…

I bambini rifugiati ti invitano sempre a visitare le loro «case». Luàm e Nebiàt, due sorelline di nove e undici anni, sono un po’ speciali a voler condurre tutte le persone importanti alla loro tenda. Sovente senti Luàm raccontare che quell’ospite straniero (che parlava solo poche parole d’inglese) o quell’abba (padre) nuovo arrivato (che non sapeva una parola di amarico) sono stati a visitare la sua capanna. La mamma prepara per gli ospiti il tradizionale caffè e talvolta i pop-co, arrostiti su una piastra di ferro; il combustibile sono rametti e foglie secche raccattati all’intorno.
Un giorno di festa, in cui ero stato invitato per il caffè, mi ero avviato verso casa, e Nebiàt venne ad accompagnarmi. Non è facile trovare la strada in mezzo al campo rifugiati. Il villaggio è diventato una micro-città con strade strettissime dei sentirnerini), che girano e si intersecano in tutte le direzioni in mezzo alle case e casette (le ex tende).
Avevamo appena girato attorno alle prime capanne, che a Nebiàt venne in mente di farmi uno scherzo: «Addio brother, io debbo tornare a casa ad aiutare la mamma». Il significato – lo capii subito – era che io mi sentissi disorientato, e trovandomi in mezzo a quel labirinto di viuzze, avrei dovuto certamente chiederle aiuto per farmi accompagnare all’uscita del campo, che tra l’altro è anche in parte cintato col filo spinato. Io però non mi spaventai: «Va bene, grazie. Io giro a destra, poi ancora a destra attorno alla capanna diroccata, poi seguo il sentirnero che va zigzagando fino alla strada principale, dove non avrò difficoltà a orientarmi. Ciao» (ciao si usa anche in Etiopia). Fra me e me pensai: qui nel campo non ci sono ladri e malintenzionati; forse avrei più paura in certe zone della città…
I bambini rifugiati provano una certa fierezza a fare da guida ad un forengi (straniero) in mezzo al loro complicato villaggio. Unico avvertimento per il visitatore: stare attento a non picchiare la testa contro i pali sporgenti dai tetti, dato che le case sono molto basse.
I bambini del campo-profughi non sono oziosi: in maggioranza frequentano la scuola elementare di Makanissa. C’è chi si industria comprando e vendendo aranci o cipolle ai bordi della strada per pochi centesimi. Ibrahim, Motekù e Samuel fanno i lustrascarpe agli incroci delle vie principali e ai capolinea dei bus. Quello del lustrascarpe è un mestiere molto diffuso tra i bambini di strada di Addis Abeba. Bisogna dire che fanno bene e da competenti il loro lavoro, veloci e con una tecnica tutta particolare. Anche la gente benestante, impiegati e funzionari, si fanno lucidare le scarpe da loro.

Un giorno vedo passare, veloci tra una capanna e l’altra, dei bambini con dei grandi vassoi. Gridano: «Komidore, komidore». Guardo cosa c’è nei vassoi e vedo dei bei «pomidori». Mi pareva che ciò che sentivo gridare avesse un suono familiare!
Parole italiane sono entrate nel loro linguaggio. Infatti vengono da Asmara, città italiana per tanti anni. Esempi: «koporta» per «coperta»; «fornello», «fuo» o «bani» per «pane». Anche alcuni nomi di persona: «Rosa» e «Fiori» (l’equivalente amarico è Abeba. Addis Abeba significa «Nuovo Fiore»).
Questa sera dalla casa regionale ho sentito gridare sulla strada: «Fiori! Fiori!». Sono loro che giocano, e una bambina si chiama appunto «Fiori».

Si vedono tra i rifugiati anche atti di generosità. Bzuayehu vive nel campo e ha il papà con un lavoro fisso. Ma potrebbe la sua famiglia permettersi un esoso affitto per una casa fuori dal campo? Poco migliore poi dell’abitazione presente? Bzuayehu parla poco, è molto intelligente e va bene a scuola. È compagna di Nebiàt. Tra gli scolari del campo è l’unica a portare i libri in uno zainetto moderno, come usano oggi gli studenti più fortunati.
Un giorno vedo Nebiàt tornare da scuola con uno zainetto per i libri. «Dove l’hai trovato?». Mi sembra impossibile che la sua famiglia l’abbia comprato: costa più di 100 birr, un lusso.
«Me l’ha regalato Bzuayehu, suo fratello ne ha portato uno da Dire Dawa». Dire Dawa è una città nell’est dell’Etiopia, dove arrivano dal mare molte mercanzie a prezzi ribassati. «Bzuayehu aveva già uno zainetto. Allora ha dato l’altro a me».

Vincenzo Clerici