Il problema della terra 2 (secondo loro)

A vevo appena terminato di celebrare la messa, nella città di Goiania, proprio nel cuore del Brasile; mi restava solo il tempo contato per prendere la corriera verso S. Paolo. Mi stavo ancora togliendo i paramenti liturgici, quando una signora, dall’aria borghese, mi avvicinò. «Dom Pedro, ho bisogno di parlare con lei!». Le spiegai la mia fretta; tentai anche di combinare un incontro successivo pensando si trattasse di un problema di coscienza.
La signora sbottò: «Sono dell’UDR e ci sono molti altri dentro questa chiesa che sono dell’UDR. Basterebbe che lei parlasse di terra e la chiesa si svuoterebbe…».
«Io credo – le risposi, tentando di mostrarmi paziente e persino sorridente – che lei non dovrebbe essere dell’UDR. E poi, per non parlare di terra, dovremmo svuotare la Bibbia intera. Dalla prima all’ultima pagina la Bibbia non parla che della terra!».
La UDR è una prepotente organizzazione di latifondisti, nemica della Riforma Agraria e di tutti coloro che la propugnano – lavoratori della terra, sindacalisti, una certa Chiesa impegnata con il Popolo. Ha preso la sigla dalla UDR francese, un raggruppamento della destra, ma ha trasformato la R finale da «repubblicana» a «ruralista», un aggettivo cui non attribuisce un valore propriamente bucolico. Oggi in Brasile costituisce l’organismo reazionario più potente e pericoloso.
dom Pedro Casaldaliga
in «Liberazione nella terra degli afflitti» (Emi, 1988)

E rede delle capitanerie, il latifondo massacrò indios, importò schiavi, espulse posseiros e impose, su 600 milioni di ettari, il privilegio della proprietà di pochi sul diritto alla vita di immense moltitudini.
Dio, tuttavia, non dette nessun diritto, non firmò nessun contratto al latifondo. Creò la terra per tutti. Da questa coscienza nacque l’indignazione e, da essa, la reazione.
Scacciati dalla terra, gli agricoltori si rifiutarono di ingrossare il cinturone di favelas che circondava le città. Si riunirono in accampamenti, promossero occupazioni, costituirono insediamenti. Il diavolo vide crescere le sue possibilità. Divenne capataz, corruppe giudici, evase imposte, elesse deputati, strappò sovvenzioni, armò pistoleros, inviò polizie contro i senza-terra, i senza-tetto, i senza-libertà.
Frei Betto

I l colonnello Horàcio era stato esaltato come uno dei fazendeiros più prosperi dell’intera regione, come un uomo dabbene che non solo aveva fatto costruire la cappella di Ferradas, ma aveva già messo mano a fare erigere la chiesa di Tabocas, e come un cittadino ossequente alle leggi.
Come si poteva muovere a un uomo simile l’accusa di un nefando delitto? Tutti sapevano benissimo, invece, ch’egli lo aveva commesso. Era stato per via di un contratto di cacao. Il negro Altino con suo cognato Orlando ed un compare chiamato Zacarias avevano piantato a cacao un terreno di Horàcio, dopo aver stipulato un regolare contratto. (…) Un bel giorno Altino si fece coraggio e andò a parlargliene: «Vossignoria mi perdoni, signor colonnello, ma noialtri vorremmo sapere quando si firma l’atto notarile del terreno».
Horàcio, in sulle prime, se l’ebbe a male: quella era una prova di mancanza di fiducia. Ma dopo le scuse di Altino spiegò d’aver già dato gli ordini affinché il suo legale, l’avvocato Rui, si occupasse della cosa. Pazientassero un altro po’, di lì a poco, li avrebbe fatti chiamare per andare a Ilhéus a concludere l’affare. Passò altro tempo, dalle zolle cominciarono a spuntare le pianticelle di cacao, semplici sterpi ancora, che fra non molto, però, sarebbero diventati alberi. Altino, Orlando e Zacarias li guardavano con amore. Era cacao di loro proprietà, piantato con le loro mani, nella loro terra che avevano dissodato. Crescevano e non avrebbero tardato a produrre frutti gialli come l’oro, danaro contante. Dell’atto notarile non si ricordavano nemmeno più. Soltanto il negro Altino, a volte, ci pensava. Da un pezzo conosceva il colonnello Horàcio, e ne diffidava. Ciò nonostante rimase anche lui esterrefatto il giorno in cui seppero che la fazenda Colibrì era stata venduta al colonnello Ramiro, e che la loro piantagione era compresa nel contratto. Decisero di parlarne al colonnello Horàcio. Orlando rimase a prender cura della piantagione, vi si recarono gli altri due, ma il colonello quel giorno era andato a Tabocas. Ritornarono il giorno dopo, e il colonnello era a Ferradas. Allora Orlando decise che a trovare il colonnello ci sarebbe andato lui. Per lui quel pezzo di terra era tutto al mondo, non se lo sarebbe lasciato portar via. Alla fazenda gli dissero che il padrone era andato a Ilhéus. Egli fe’ cenno di sì col capo, ma senza por tempo in mezzo infilò l’uscio della casa padronale e trovò il colonnello che mangiava in sala da pranzo. Horàcio lo guardò e, con la sua vocetta secca, disse:
«Vuol far colazione con me, Orlando? Senza complimenti…».
«Signor no, grazie».
«Che cosa fai da queste parti. C’è qualche novità?».
«Una gran brutta novità, sissignore. Il colonnello Ramiro è capitato nella piantagione, dice che la piantagione è sua, che l’ha comperata da Lei, colonnello».
«Se lo dice il colonnello Ramiro, dev’esser vero. Non è uno che racconta frottole…».
Orlando rimase a guardare il colonnello che aveva ripreso a mangiare. Ne guardava le grosse mani callose, il volto chiuso. Alla fine parlò.
«Vossignoria glie’ha venduta?».
«Questo è affar mio…».
«Ma non si ricorda che quel tratto di foresta lo ha venduto a noi? Per il danaro del contratto del cacao?».
«Avete l’atto notarile, voialtri?» e Horàcio riprese a mangiare.
Orlando fece girare fra le mani l’ampio cappello di paglia. Aveva piena coscienza della sventura che colpiva lui e i suoi compagni. Sapeva anche che, per le vie legali, non avrebbero potuto lottare col colonnello. Capiva che ormai essi non possedevano più terra, né piantagione, né niente. (…)
Quella medesima sera giunse d’improvviso coi suoi uomini alla piantagione contestata. Circondò la capanna, dicono che uccidesse egli stesso i tre uomini e che dopo, cavato di tasca il coltello da sbucciare la frutta, tagliasse la lingua a Orlando, poi le orecchie, il naso e, alla fine, strappatigli i calzoni, lo castrasse facendo quindi ritorno alla fazenda coi suoi uomini. Quando uno di questi fu arrestato per ubriachezza dalla polizia e lo denunciò, egli scoppiò in una risata. Fu assolto.
I suoi jaguncos dicevano che egli era un uomo in gamba e che mettevano conto di lavorare per un padrone come lui. Non avrebbero mai permesso che nessuno di loro andasse a finire in gattabuia e una volta s’era perfino scomodato a uscir di casa apposta per trae uno fuori dalla prigione di Ferradas. E dopo averlo rimesso in libertà aveva stracciato gli atti del processo sotto il naso del cancelliere del tribunale.
Jorge Amado
in «Terre del finimondo» (Bompiani, 1942)

aa.vv.




Il problema della terra – Speciale BRASILE

In Brasile la terra rappresenta un problema esplosivo. Da una parte, poche famiglie possiedono quasi la metà delle terre coltivabili. Dall’altra, 20 milioni di persone ne sono prive. Il «Movimento dei sem-terra» (Mst), nato per difendere i diritti di questi diseredati, organizza e dirige le occupazioni delle «fazendas» incolte. Le autorità e la polizia sono sempre schierate a fianco dei grandi proprietari e delle loro milizie mercenarie dal grilletto facile. La chiesa, attraverso la combattiva «Commissione pastorale della terra», sta con i senza-terra. Tutti sanno che l’applicazione della riforma agraria porterebbe a immediati risultati, ma…

Non piange Claudimara. È abituata ad essere presa a calci dalla vita. I tre figli ora dormono, apparentemente tranquilli dopo una giornata d’inferno iniziata all’alba.
Suo marito, Aparecido da Silva, faceva il facchino a Curitiba. Poi, spinto dalla speranza di cambiare vita, si è unito al locale gruppo dei sem-terra. Qualche mese fa, assieme ad altre 140 famiglie, Aparecido ha occupato una fazenda incolta. Mesi trascorsi nel timore di un attacco da parte della polizia o dei pistoleros assoldati dai latifondisti. Così, infatti, è stato.
Sono arrivati prima dell’alba, con grida e spari per aria, seminando il terrore per l’accampamento ancora avvolto nel sonno. Erano tanti, poliziotti e sgherri incappucciati. Con le bombe lacrimogene hanno fatto uscire le persone dalle baracche. Poi hanno costretto gli uomini seminudi a sdraiarsi con la faccia a terra. Donne e bambini sono stati fatti sedere sotto il sole.
La baracca degli attrezzi da lavoro (sementi, zappe, picconi, falci) è stata bruciata. Le tende sono state buttate giù.
«Interrogavano gli uomini a forza di calci nella pancia – ricorda Claudimara -. Poi hanno caricato mio marito e una decina di altri sui fuoristrada e li hanno portati via. Non ho idea dove siano finiti».
Le famiglie cacciate con la forza dalla fazenda occupata hanno trovato ospitalità in un insediamento legalizzato. Finché non viene emanato un «decreto di esproprio», ogni accampamento dei sem-terra può essere attaccato.
Claudimara osserva con occhi preoccupati i tre figli. Poi aggiunge: «Speriamo che non abbiano distrutto le nostre cose. Non abbiamo i soldi per comprare nuovi materassi, pentole e piatti».
POLIZIA E «PISTOLEROS»

Storie come quelle di Aparecido e Claudimara sono all’ordine del giorno in quasi tutti gli stati brasiliani, ma soprattutto in Pará, Maranhão, Alagoas, Peambuco, Bahia, Paraná, São Paulo (Pontal do Paranapanema).
Cardoso e l’oligarchia economica brasiliana temono i successi del «Movimento dei sem-terra». Davanti alla sua espansione reagiscono in due modi: accentuando la repressione poliziesca e cercando di caricare di connotazioni politiche il movimento, accusato di voler rovesciare lo stato.
Come non bastasse la polizia ufficiale, contro i senza-terra si accanisce anche la polizia dei fazendeiros. Questi, spalleggiati dalle loro organizzazioni – l’«Associazione nazionale dei produttori rurali» e soprattutto l’«Unione democratica rurale» (Udr) – assoldano infatti milizie private: mercenari incappucciati e dal grilletto facile.
«Il Paraná – si legge in un documento della locale Commissione pastorale della terra – è trasformato in un “laboratorio” del trattamento che il governo vuole riservare ai lavoratori e alle lavoratrici che lottano per la terra in Brasile.
La polizia e le forze armate, buona parte del potere giudiziario e i fazendeiros e i deputati ruralisti si sono uniti tutti per realizzare una strategia di repressione.
La maggioranza delle espulsioni sono state realizzate con ordinanza del giudice, a conferma di un aumento della cosiddetta “violenza legittimata”. Nella maggioranza dei casi il potere giudiziario agisce in accordo con gli interessi dei latifondisti: il senza-terra è un criminale, occupare la terra è illegale e pericoloso.
In ogni caso, l’impunità è la regola per i crimini perpetrati dai fazendeiros e dalla polizia, mentre la giustizia è rapidissima nell’incriminare e arrestare i lavoratori».
In realtà, l’azione dei sem-terra ha una solida base giuridica. Questa è data dalla legge del 1993 che applica gli articoli della Costituzione del 1988. Quest’ultima contempla l’espropriazione per interesse sociale. Purtroppo, l’applicazione della legge è talmente lenta che, senza le invasioni dei sem-terra, ben poca terra sarebbe stata redistribuita.
Per non dire delle speculazioni dei latifondisti che, con la compiacenza dei giudici, esigono indennizzi superiori al valore di mercato per le loro terre incolte.

DOVE STA LO SCANDALO?

Dai tempi della conquista spagnola e portoghese, il carattere fondamentale della struttura agraria latinoamericana è la concentrazione di grandi estensioni di terre, il latifondo, nelle mani di una ristretta minoranza, mentre la grande maggioranza della popolazione non ha terra o possiede minifondi insufficienti per sopravvivere.
Il Brasile possiede 6 volte più terra coltivabile della Cina. Questa però riesce a nutrire quasi un miliardo e mezzo di persone, mentre il paese latinoamericano, con soltanto un decimo della popolazione cinese, ha oltre 40 milioni di affamati.
Questo paradosso trova una duplice spiegazione. In Brasile, la terra si concentra nelle mani di un pugno di latifondisti (nel 1997 meno dell’1% dei proprietari deteneva il 43% delle terre coltivabili). A questa ingiusta distribuzione si aggiunge un altro dato scandaloso: migliaia di fazendas sono classificate come grandi latifondi improduttivi che occupano il 18% del territorio brasiliano (153 milioni di ettari). Con questi dati il Brasile detiene il primato mondiale della diseguaglianza nella proprietà della terra.
La piena applicazione della riforma agraria significherebbe risolvere molti problemi. «La riforma agraria – afferma la Commissione pastorale della terra nel Manifesto per la terra e la vita (1996) – è la soluzione sociale per il Brasile.
È il mezzo più semplice ed economico per combattere la fame e la miseria, aumentando l’offerta di lavoro e di alimenti ed elevando il potere di acquisto delle popolazioni più povere. Arresta l’esodo rurale e decongestiona i grandi agglomerati urbani. Diminuisce i fattori che generano emarginazione, criminalità e insicurezza nelle città. Migliora le condizioni di salute, educazione, abitazione e previdenza sociale nelle campagne. Rafforza le piccole e medie città e dinamizza tutta la società. La riforma agraria è la soluzione politica. Aprire ai senza-terra l’accesso alla proprietà e all’uso della terra è un imperativo della democrazia».
Inoltre, l’insediamento delle famiglie senza-terra su terreni da coltivare frenerebbe l’espansione della frontiera agricola a danno della foresta e comporterebbe anche l’abbandono del lavoro sottopagato e la possibilità per i bambini di frequentare una scuola.
«Le occupazioni di terra – ha detto mons. Tomás Balduino, presidente della Commissione pastorale della terra – sono state il modo di realizzare la riforma agraria del paese. Penso che neppure il 5% degli insediamenti è stato fatto per mezzo di qualche iniziativa che non sia quella dell’occupazione di terra. Mi piacerebbe che in Brasile ci fosse la riforma agraria senza bisogno di occupazioni. Ma, poiché il governo non realizza la riforma agraria, non possiamo scandalizzarci di queste».
Cardoso continua a favorire i grandi possidenti terrieri, come dimostra il progetto denominato «Banca della terra». Questo vede impegnati governo brasiliano e Banca mondiale nella realizzazione di una riforma agraria di mercato. Il progetto permette ai fazendeiros che vogliono vendere la terra di ricevere un pagamento immediato da parte della Banca mondiale e ai senza terra che vogliono acquistarla di ottenere un credito dalla Banca. In questo modo, si cede il potere decisionale ai latifondisti e si pone fine all’esproprio delle terre improduttive dietro indennizzo ai proprietari, come prevede la Costituzione.
L’obiettivo strategico del progetto, ha spiegato João Pedro Stedile, uno dei più noti leader dei sem terra, è quello di «distruggere l’Mst, perché non si ammette il diritto dei poveri ad organizzarsi. Si può tollerare che si lamentino, ma che si organizzino no, perché l’organizzazione è pericolosa». Della stessa opinione mons. Balduino. «È il tentativo – ha detto il prelato – di svuotare la lotta dei senza terra e di dividerli: il contadino lascia il gruppo ed entra nel mercato, con effetti per lui disastrosi».

MST, UNA SPERANZA
PER 20 MILIONI

Quanti sono i senza-terra brasiliani? I conteggi non sono facili. Le stime parlano di 4 milioni di famiglie.
Poiché ogni famiglia è composta in media di 4/5 persone (ogni donna dà alla luce almeno due figli), questo significa che 16/20 milioni di brasiliani possono essere definiti «sem-terra».
Ma la categoria cresce. L’agricoltura commerciale, orientata quasi esclusivamente all’esportazione (caffè, canna da zucchero, carne bovina), favorisce la concentrazione delle terre e, di conseguenza, l’espulsione di piccoli proprietari, affittuari e mezzadri. Molti vanno ad ingrossare le fila dei sem-terra, altri tentano la sorte migrando verso le città.
L’esodo rurale è un problema grave. Trent’anni fa il 75% dei brasiliani viveva nelle campagne, oggi l’80% vive nelle aree urbane. Le periferie si gonfiano giorno dopo giorno, divenendo sempre più invivibili. «La popolazione povera – scrive Ivo Poletto in Liberazione nella terra degli afflitti -, espropriata ed espulsa dalle campagne, emigra verso le città in cerca di casa, lavoro, salute, scuola. In cerca, cioè, di tutto ciò che non trova all’interno del paese. Ma quando arriva in città non trova né casa né lavoro. Alla fine, si avventura ad occupare qualche terreno incolto – le cosiddette invasioni urbane – su cui costruirsi la propria baracca, generalmente in località assai distanti dal centro e dall’eventuale posto di lavoro».
In 15 anni di esistenza il Movimento dei senza-terra ha saputo diventare la principale organizzazione popolare del Brasile. I risultati che ha ottenuto sono considerevoli: 250 mila famiglie (cioè circa un milione di persone) sono state sistemate in 1.600 insediamenti in 24 stati del paese. Ma il movimento non si limita ad organizzare le invasioni delle terre incolte. «Non è sufficiente – spiega un dirigente nazionale del Mst – occupare la terra e avere il coraggio di affrontare la polizia, è necessaria molta organizzazione per riuscire a raggiungere l’obiettivo».
Per questo il movimento ha dato vita a decine di cornoperative di produttori, che stanno ottenendo importanti risultati. Ma negli insediamenti è permesso anche il lavoro individuale, mantenendo in comune solo l’utilizzo di alcune macchine e usufruendo dei servizi predisposti (assistenza sanitaria, trasporti, scuola).
Nei 1.600 insediamenti dei semterra l’educazione è considerata una priorità. Gli obiettivi sono ambiziosi: eliminare l’analfabetismo, favorire la scolarizzazione dei bambini, diffondere la cultura alternativa. Nelle 1.000 scuole dei sem-terra sono iscritti oltre 100 mila bambini, mentre 17 mila giovani e adulti seguono i corsi di alfabetizzazione. Il progetto educativo dei sem-terra ha ottenuto un tale successo che è stato premiato dall’Unesco.

LA TERRA,
PATRIMONIO FAMILIARE?

«Se il latifondo – si chiede il settimanale Veja (peraltro sempre critico verso i sem-terra) – è un cattivo affare, perché ci sono tante terre improduttive nel paese? La risposta, che potrebbe applicarsi a molti altri problemi brasiliani, è che il Brasile utilizza male le proprie risorse, tra cui la terra. L’agricoltura brasiliana è una delle più inefficienti al mondo, mentre il paese possiede alcune tra le più belle distese di terre coltivabili del pianeta. Inoltre, in molte regioni, la terra viene ancora tutelata in quanto patrimonio familiare. Anche se rappresenta un cattivo investimento, è un bene che si può trasmettere ai propri eredi, che ha il valore più tangibile, che è meno soggetto all’inflazione e all’instabilità provocata dai piani economici».
Peccato che questi privilegi, santificati dall’ideologia capitalista e dall’infallibile dio-mercato, vengano preservati a scapito di milioni di persone. Anche se, a ben guardare, quella dei sem-terra non va considerata una battaglia ideologica. Più semplicemente, essi lottano perché al diritto di proprietà sia anteposto il diritto alla vita.

Paolo Moiola




La barba di Valeriano

A vederli così paffuti e rubicondi a nessuno salterebbe in mente di pensare che questi bambini siano portatori del virus dell’Aids. E hanno tutti energie da vendere. Bruno, per esempio, si divincola come un’anguilla, mentre padre Valeriano tenta di allacciargli le scarpe; poi gli tira la barba, lo abbraccia, lo bacia e torna a dimenarsi. Giuliano, sdraiato a terra, è intento a colorare fantastici disegni, come il più normale dei bambini della sua età. Francisco, alto quanto un soldo di cacio, scorrazza come un forsennato su una motociclettina di plastica, si ferma per far salire la sua amichetta Teresa e riprende a pedalare.

ANGELI… RIFIUTATI
Ma dietro quelle facce da melograno si nascondono storie di rifiuto e abbandono. Bruno, 5 anni, è stato colpito da meningite in tenera età. Morta la madre, fu usato dal padre per chiedere l’elemosina sulle strade. L’assistente sociale lo tolse al genitore e lo portò a casa Siloé. Dopo qualche giorno arrivò il papà con un’altra figlia, anch’essa affetta dal virus dell’Aids; l’affidò al missionario e scomparve senza lasciare tracce.
Manuel, l’ultimo arrivato, è anche il più piccolo della nidiata: ha appena otto mesi. Quando la zia lo portò a casa Siloé era così denutrito che i medici lo avevano dato per spacciato. A poco a poco ha ripreso forza e cresce come il più normale dei bambini. Un’altra zia ha avviato le pratiche per l’adozione.
Thomson è il più grandicello; ha 12 anni. Non sa chi sia suo padre. La madre, prostituta, lo abbandonò a casa con la nonna e sparì dalla circolazione. Quando fu scoperto che era sieropositivo, la nonna lo affidò a padre Valeriano. «Parlava sempre della mamma – racconta padre Paitoni -. Siamo riusciti a rintracciarla e farlo incontrare con lei. Non ti dico la vergogna che il ragazzo provò nel vedere sua madre in quelle condizioni. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro per aiutarlo ad accettare la mamma così com’è. E ci siamo riusciti. Ogni tanto va a casa e assiste la mamma, gravemente malata di tubercolosi; a volte la rimette in riga, quando non vuole prendere le medicine o cerca di affogare i dispiaceri nell’alcornol».
Il caso più triste è quello di William. Orfano di entrambi i genitori, viveva con una zia che, dovendo andare a lavorare, lo lasciava chiuso in casa, nella favela. Quando fu portato a Siloé, aveva le orecchie rosicchiate dai topi e il corpo pieno di croste, non si reggeva in piedi e non aveva la forza neppure per piangere. Si riprese in poco tempo e cominciò a fare i primi passi. La notte di natale del 1996 fece da Gesù Bambino nel presepio. Poi un’infezione lo colpì alla bocca, quindi l’esofago e l’intestino: in due giorni se ne è andato. «Arrivederci, William! – esclama commosso padre Valeriano -. Un giorno riprenderai a tirarmi la barba per l’eternità».

AMORE E MEDICINE
Casa Siloé è stata inaugurata nel 1995 e lar Suzanne nel 1998. Ma non sono una clinica, un ospedale o un asilo, precisa padre Paitoni: «Vogliamo ricreare il più possibile il clima di famiglia». Con questo spirito vi lavorano 10 persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai bambini, e 120 volontari che, a tuo, svolgono varie mansioni: alcuni aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali; altri s’incaricano di portare i bambini a scuola o all’ospedale; un gruppo li intrattiene nel doposcuola; un altro li fa giocare.
Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno. «Fino a qualche anno fa – spiega padre Valeriano – i medici davano a questi bambini un massimo di 15 anni di vita. Grazie alle più recenti scoperte mediche, durata e qualità della vita sono molto migliorate. Per questo li vedi tutti felici e grassottelli. Anzi, se curati in tempo, al di sotto dei due anni, alcuni di essi hanno la speranza di ritornare “negativi”».
È quanto è capitato a sei bambini curati a Siloé: hanno sconfitto il virus dell’Aids e sono stati reinseriti nelle proprie famiglie o parentele.
Sette bambini sono stati adottati da famiglie della parrocchia e continuano i trattamenti a casa. «È questo soprattutto lo scopo del nostro lavoro – continua padre Valeriano -: reinserire queste creature nella società, un miracolo ben più grande di quello operato dalla medicina».
La maggior parte dei bambini che approdano a Suzanne e Siloé vengono direttamente dall’ospedale. Il primo lavoro di padre Paitoni è rintracciare le famiglie e dei parenti, per convincerli a mantenere i contatti con i figli, evitando loro il trauma di sentirsi rifiutati. Non è facile vincere le loro paure e pregiudizi.
Undici bambini frequentano le scuole elementari presso il collegio delle missionarie della Consolata; altri nove vanno gioalmente in un asilo municipale. «I primi tempi sono stati duri: i genitori degli altri alunni avevano minacciato di ritirare i loro figli dalla scuola, per paura che venissero contagiati. Ora tutto si è appianato. Anzi, perfino le collette domenicali e i contributi della decima si sono moltiplicate» continua padre Valeriano sorridendo.

SPIRITO MISSIONARIO
A parte alcune adozioni a distanza e qualche offerta proveniente dall’Italia, le due case sono sostenute dalla parrocchia Nostra Signora di Fatima. «Arrivai qui – continua il padre – mentre la chiesa brasiliana preparava il V Congresso missionario dell’America Latina (Comla 5). Per tradurre in pratica le sollecitazioni del Congresso, suggerii che la parrocchia rispondesse concretamente a una delle situazioni più “missionarie” del paese: aprire una casa per i bambini sieropositivi. L’idea fu accolta con entusiasmo dal consiglio pastorale, anche se qualcuno era titubante, temendo che la gente non sarebbe più venuta in chiesa o non avrebbe più mandato i figli al catechismo. Superate le prime difficoltà, abbiamo preparato la casa a tempo di record: otto mesi. Ora ne abbiamo due, con una trentina di bambini. È stata una iniziativa che ha rinnovato l’entusiasmo missionario della comunità, e continua ad animare tutte le attività parrocchiali, compresa quella del pagamento della “decima”, raddoppiato senza fare la minima pressione».
E gli aiuti continuano ad arrivare sotto varie forme: denaro, vestiti, cibo, giocattoli… e tempo: la fitta schiera di volontari è la testimonianza più valida della crescita dello spirito missionario nella parrocchia. Inoltre, sette famiglie della parrocchia hanno adottato altrettanti bambini sieropositivi e se ne prendono cura con immenso amore.
«Ho sempre amato i bambini – racconta Sandra Carvahlo -. Con l’apertura della casa Siloé ho avuto voglia di dedicare qualche ora a queste creature come volontaria. Poi anche mio marito e i miei figli hanno cominciato a collaborare, senza immaginare ciò che Dio ci stava preparando. Dopo i primi giorni dell’inaugurazione del lar Suzanne ci siamo affezionati a Lucas e lui a noi. Non siamo più riusciti a separarcene e abbiamo deciso di adottarlo. Oggi è la ragione della nostra vita e la felicità della famiglia».
Padre Valeriano insiste nello spiegare che la sua è un’esperienza prettamente missionaria. Non tanto per convincere me. «L’Aids non è solo una malattia – continua il padre -, ma una situazione sociale che, in una grande città come San Paolo, non possiamo ignorare. Come la difesa dei diritti dell’uomo, la promozione umana e della donna, anche i malati di Aids devono diventare oggetto della nostra attenzione missionaria. È da dieci anni che batto questo chiodo. Ed è entrato finalmente».
ACCANTO AI «POVERI CRISTI»
Una decina di anni fa, quando fu nominato amministratore provinciale, padre Paitoni pose come condizione che gli fosse permesso di soddisfare il suo carisma missionario in qualche attività di sua scelta. E fondò il lar Betania, una casa di accoglienza per adulti colpiti dal virus dell’Aids. Oggi questa sua iniziativa è stata sposata totalmente dai missionari della Consolata come attività specifica dell’istituto, che ne ha assunto tutte le responsabilità legali e finanziarie.
Situato nel territorio della parrocchia di Nostra Signora da Penha, il lar Betania può accogliere una dozzina di persone. Una casa semplice, inserita nel tessuto urbano della periferia della città, ma che si distingue dalle altre abitazioni per il colore dei fiori che adoano l’entrata e le finestre.
«È una goccia nell’oceano dei colpiti da Aids; ma tutte e tre le case costituiscono un’esperienza-pilota – spiega padre Valeriano, senza il minimo accento di orgoglio -. Quando qualcuno vuole aprire una struttura del genere, l’amministrazione locale lo manda prima da noi, per vedere come siamo organizzati».
Semplicità delle strutture e numero limitato delle persone ospitate hanno uno scopo preciso: ricreare l’ambiente di famiglia, sia per gli adulti che per i bambini. Un bisogno fondamentale, soprattutto per gli adulti che, rifiutati da amici e familiari, possono incontrare finalmente altre persone che li accolgono, vogliono loro bene e stanno loro accanto nei momenti più difficili.
Anche il nome ha un significato simbolico. Betania era il villaggio dove Gesù si ritirava volentieri, accolto in casa dagli amici Lazzaro, Marta e Maria. Il luogo in cui Gesù pianse per la morte dell’amico e lo risuscitò. «Per questi “poveri cristi”, portatori del virus dell’Aids o già malati terminali, delusi dalla vita e dalla società, vogliamo ricreare lo stesso clima descritto nel vangelo: l’amicizia di Lazzaro, l’amorosa attenzione di Maria e il solerte servizio di Marta».
Nel lar Betania non avvengono risurrezioni. Eppure continuano i miracoli della vita: frateità e solidarietà, appoggio morale, psicologico e religioso aiutano questi sfortunati a riscoprire la propria dignità e valore, a riconciliarsi con se stessi, ad accogliere la speranza nella risurrezione.
«Ricordo sempre con particolare emozione uno dei primi adulti arrivati a lar Betania – racconta padre Valeriano -. Era un ragazzo di 22 anni. I medici lo avevano dimesso dall’ospedale, perché spirasse nella propria abitazione. Quando l’ambulanza arrivò a casa del giovane, i vicini dissero che mamma e fratelli non abitavano più là: se n’erano andati perché non lo volevano più vedere. Le assistenti sociali telefonarono a varie istituzioni, finché fu accolto nella nostra casa.
Quella notte ero di tuo. Dopo avergli fatto il bagno e messo a letto, mi fermai a chiacchierare con lui. Gli domandai se gli fosse piaciuto il tè. Il giovane mi fissò per alcuni istanti, poi rispose: “Sì, il tè è molto buono; ma è più bello avere te vicino, seduto sul mio letto”. Spirò serenamente il giorno dopo».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il boomerang della miseria – Speciale BRASILE

Sono circa 7 milioni e sono tristemente famosi.
Si danno all’alcornol, alla droga, al furto,alla prostituzione. Dunque cattivi. O meglio «colonizzati».
Da chi, come, perché?

Come è sorto il problema

In Brasile, durante l’epoca coloniale, la nascita di un «figlio illegittimo» era un fatto abbastanza comune. Aveva origine da relazioni tra uomini portoghesi e donne indigene o nere.
I «bambini illegittimi», anche se non erano riconosciuti dal genitore, non si trasformavano in un problema sociale, perché l’organizzazione rurale del tempo li accoglieva nelle grandi fazendas. Pur non ricevendo protezioni speciali, essi instauravano ugualmente dei vincoli con i loro protettori, ottenendo così i mezzi di sostentamento e riparo.
Tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, con l’avvento dei cercatori d’oro, l’organizzazione urbana acquistò forza e il problema degli «illegittimi» iniziò ad assumere un’altra connotazione. Nel 1693 il re del Portogallo e del Brasile, Pietro ii (1648-1706), ricordò al governo di Rio de Janeiro che, se gli istituti religiosi di carità non avessero più aiutato i bambini, si sarebbe dovuto imporre una tassa con tale finalità. Ma non si fece nulla.
All’inizio del secolo XVIII il problema (non risolto dagli enti pubblici) incominciò ad essere affrontato da laici cattolici benestanti. In quell’epoca proliferava anche l’abbandono di bambini sulle strade: li chiamavano expostos (esposti). Erano i primi «meninos de rua» (bambini di strada). Nel 1738 ottennero una casa a Rio de Janeiro.
Dal 1726 la situazione degli expostos diventava sempre più grave con bambini e bambine abbandonati in riva al mare (trascinati poi via dalle onde) o lungo strade deserte, dove morivano di fame.
L’abbandono degli expostos era dovuto a mancanza di risorse economiche da parte di genitori poveri e a motivi sociali, come nel caso di «ragazze-madri» appartenenti alle élites. Tali ragazze, perseguitate dalla rigida morale del tempo, risolvevano la questione della «vergogna pubblica» o con il suicidio o con l’abbandono dei figli.
Nel secolo XIX il compito particolare di proteggere e aiutare i bambini di strada passava progressivamente agli ordini religiosi. E questo per quattro ragioni:
1. l’accresciuta presenza di missionari europei, dedicati all’educazione dei poveri;
2. il modello di chiesa marcatamente clericale, che non valorizzava il laico;
3. il crescente disinteresse dei laici, più preoccupati del lavoro scientifico;
4. la crisi della classe signorile, dovuta al progressivo scomparire della schiavitù.
La storia che trascinava i bambini sulla strada era connessa alla pressione economica e sociale dell’epoca coloniale. Nella loro indigenza, furono discriminati anche con il nome di exposto, ingênuo e oggi, più genericamente, menor (minore).
i caratteri «della» strada

Il menor è un adolescente o giovane povero, abbandonato, emarginato: è presente in ogni angolo del Brasile. Fanno parte di tale categoria soprattutto ragazzi neri, indios e ragazzi della foresta, prostitute baby e ragazze-madri.
Generalmente si distinguono due categorie di minori: quelli «in» strada (menor na rua) e quelli «di» strada (menor de rua).
Il menor na rua trascorre la maggior parte del suo tempo girovagando, vendendo svariati oggetti ai semafori, facendo baratti; però conserva ancora vincoli familiari, ossia sa «dove» ritornare a casa, anche se non lo fa tutti i giorni. Il menor de rua, invece, vive sempre in strada, facendone la sua casa. Ha perso ogni rapporto con la famiglia e si organizza in gruppi, scegliendo determinati luoghi pubblici come punti di ritrovo. Si dedica a baratti e a piccoli furti.
Pertanto si intuisce che, dietro alla differenza tra «na rua» e «de rua», nel secondo caso esiste un maggiore degrado nel processo sociale.
Più specificatamente i «meninos de rua» presentano le seguenti caratteristiche:
– come posto di «lavoro», scelgono luoghi di grande movimento, perché dove maggiore è il flusso di persone, maggiore è la possibilità di guadagnare con baratti e furti;
– dormono poco e in orari diversi;
– non pensano al futuro né prossimo né remoto, come se per loro il futuro non dovesse arrivare mai; vivono alla giornata;
– si organizzano in gruppi e camminano in bande;
– gli elementi estranei al gruppo rappresentano una minaccia: quindi usano codici di riconoscimento per proteggersi;
– sviluppano un linguaggio tipico, molte volte incomprensibile al primo contatto;
– sanno di essere ritenuti dei potenziali delinquenti;
– lasciano la famiglia perché obbligati dalla miseria e violenza che vi hanno subìto;
– provengono da famiglie povere o miserabili, spesso immigrate dalla campagna verso i centri cittadini;
– pur essendo abbandonati a se stessi, possono legarsi a qualche istituzione;
– molti non sanno il proprio nome: hanno solo nomignoli o soprannomi e disconoscono o dimenticano la loro origine;
– presentano un deficit intellettivo o motorio; molti sono analfabeti o con una bassa scolarizzazione;
– non danno valore alle proprietà altrui, perché non hanno sviluppato il senso di proprietà personale;
– indossano anche più vestiti, sovrapponendoli, perché non hanno un luogo dove riporre le loro cose;
– hanno difficoltà a coinvolgersi affettivamente per paura di essere abbandonati; sono emotivamente instabili;
– rappresentano un esempio di «selezione della specie», perché solo i più forti sopravvivono e, anche così, con una salute precaria;
– moltissimi sono tossicodipendenti da colla.

Qualcosa in più
sul disagio

Le abitazioni
dei meninos de rua sono molto scadenti, non solo materialmente, ma anche per la qualità della vita. Si può dedurre che tali ragazzi abbiano poche ragioni di affezionarsi alla loro casa. Pertanto sono più esposti alle «cattive» influenze della strada, ai «cattivi» divertimenti e ai «cattivi» compagni.
I frequenti spostamenti
di residenza portano ad instabilità e ad un relativo anonimato, ostacolando la solidarietà e responsabilità verso i vicini di casa. Questo facilita i comportamenti antisociali e anche delinquenziali. Da alcune indagini risulta, per esempio, che un delinquente su tre ha cambiato casa 11 volte o più, contro 1 su 10 degli altri.
I ragazzi di strada conoscono ambienti molto insoliti: rifugi nottui di fortuna, orfanotrofi o istituti analoghi. Tali esperienze esigono frequenti adattamenti a nuove situazioni, nuovi compagni, nuove attività.
Amano molto l’avventura
e preferiscono tutto ciò che è emozionante, non solo nella vita concreta, ma anche nella loro immaginazione e sentono il bisogno di sfogarsi.
Oltre i 9 decimi dei ragazzi di strada (contro meno di un quarto degli altri) ha l’abitudine di salire su camion o mezzi di trasporto in corsa; il 90% (contro il 23%) incomincia a fumare da piccolo; il 29% (contro lo 0,4%) inizia a bere alcornol eccessivamente dai 13 ai 15 anni ed anche prima; il 67% (contro il 10%) ha l’abitudine di infilarsi nei cinema senza biglietto; il 62% (contro il 4%) si abbandona ad atti di vandalismo. In tutte queste attività «emozionanti», praticate nelle zone urbane e disagiate del Brasile, i ragazzi di strada, come gruppo, superano largamente i ragazzi «per bene».
Ancora: il 95% dei meninos de rua (contro i tre quinti degli altri) sosta agli angoli delle strade; il 46% (contro il 27%) gioca su aree fabbricabili, sui lungomare e nei parcheggi ferroviari. Molti sono vittime di gravi incidenti, in gran parte avvenuti per strada: investiti da automezzi, motociclette o cadendo da veicoli in corsa o da tetti, finestre, staccionate, ponti.
Frateizzano con i coetanei
della loro stessa condizione, e quasi la metà è attirata da giovani più grandi di loro. La tendenza fra i ragazzi di strada delinquenti a cercarsi compagni più vecchi può essere associata al desiderio di un sostituto all’«io ideale», da ammirare ed emulare. Però i genitori dei ragazzi delinquenti sono meno benvoluti dai figli e meno accetti, come modelli, rispetto ai padri dei non delinquenti.
Circa i compagni, i ragazzi delinquenti preferiscono le bande, mentre i non delinquenti le evitano quasi del tutto, preferendo pochi amici intimi. Inoltre i primi mostrano una spiccata antipatia per i lavori organizzati o sorvegliati.
Sotto il profilo socio-morale, il 19% dei ragazzi di strada (contro il 2% degli altri) ha esperienze eterosessuali; il 21% (contro l’1%) pratica vari giochi sessuali e il 29% (contro il 3%) si masturba molto.
Infine i meninos de rua sono ritenuti potenziali delinquenti.
Il bambino o la bambina di strada, che «lavori» o no, può essere arrestato in ogni istante, perché considerato delinquente in fieri; quando non se ne trova la famiglia, viene portato al centro di selezione e smistamento dei vari minori.
I meninos sono spesso sottoposti a procedimenti giudiziari arbitrari, a prescindere dal reato commesso. Il tempo per decidere la loro sorte viene sovente molto dilazionato; ciò è funzionale ad una società che, in questo modo, si libera temporaneamente di soggetti scomodi; i tempi lunghi sono dovuti pure all’esigenza di trovare una soluzione realizzabile.
Nello specifico, il comportamento delinquenziale tipico del menino de rua è il furto, mentre quello della menina è la prostituzione.

la responsabilità
dell’ambiente

L’equivalenza «ragazzo di stradadelinquente» è un luogo comune in molti brasiliani. Tuttavia il menino de rua delinquente sembra essere, soprattutto, la risposta-adattamento alle condizioni ambientali già negative in cui i soggetti vengono a trovarsi. Per cui il candidato a «ragazzo di strada» non è un delinquente, ma facilmente lo diventa.
L’ambiente è fondamentale per lo sviluppo della persona, specie nei primi anni di vita. Ciò ricordato, è la «miseria» la maggiore responsabile delle condotte devianti dei minori. È una miseria non solo economica, ma anche intellettuale ed affettiva, frutto dell’incapacità di gestire e comprendere le proprie dimensioni emotive. Una miseria che pare tramandarsi di padre in figlio.
I genitori in un ambiente squallido, aggravato da inferiorità culturale e intellettuale, malattie fisiche e/o mentali, non offrono ai figli garanzia, sapere, criteri morali, ideali religiosi e serenità d’animo, indispensabili per una sana educazione, specialmente nelle zone urbane dove imperversano la lotta per l’esistenza e l’avidità.
Bowlby individua tutto ciò come «il corrispondente psicologico della delinquenza sociale» e chiama «psicopatia da mancanza di affetto» la quasi totale incapacità di instaurare vincoli affettivi, unita all’impossibilità di aver fiducia nel futuro e nell’altro. Inoltre pesa un senso di colpa riguardante il passato.
Due autori, Kempe R. e Kempe C., hanno analizzato in modo specifico le conseguenze delle privazioni e degli abusi sull’infanzia: i ragazzi antisociali e i giovani violenti di oggi rivelano di essere stati, ieri, vittime di maltrattamenti, trascuratezze e negazioni.
Questo non significa che la maggior parte dei bambini, vittime di violenze, ipso facto si scontrerà con la legge; ma dimostra che quanti la infrangono hanno spesso alle spalle una storia triste e, più di altri, sono indotti alla criminalità. Nella loro situazione il passo è breve.
Secondo molti studiosi, alla base delle condotte criminali esiste un’identità precaria e non integrata, che cerca di compensare le esperienze di vuoto e le privazioni con comportamenti devianti; ciò sfocerebbe nella costituzione di un falso «io»… La delinquenza, quale trasgressione della norma, fornirebbe al ragazzo di strada una nuova e fittizia identità.
Nella favela e negli altri mondi del disagio e dell’abbandono non si entra per caso, bensì sospinti da una condizione precisa, dura e brutale, frutto di uno squilibrio socioeconomico e della propria coscienza.
Più chiaramente: l’abbandono di bambini si verifica perché la sete di potere di alcuni individui, egoisti, immaturi e insicuri della presenza divina, non accetta la regola fondamentale «ama il tuo prossimo come te stesso». Tale insegnamento, considerato seriamente, potrebbe facilitare le persone di potere a superare la loro mentalità di «colonizzatori», per iniziare a trattare le persone con rispetto.

il «sonno» dei colonialisti e Dei colonizzati

In Brasile (e non solo in questo paese) imperversano nuovi colonialisti. Costoro, anche se vivono sulla «loro» terra, si comportano in modo insano; proprio come quel viaggiatore nell’oceano in burrasca che, mentre la nave affonda, diceva ad un altro: «La nave non è mica mia. Allora che affondi!».
I nuovi colonialisti «dormono» nella loro coscienza.
Anche i meninos de rua hanno una coscienza precaria: non riescono a risvegliarsi dal «sonno di colonizzati», come gli indios o i neri di un tempo. Un menino «addormentato» concilia pure, senza saperlo, «il sonno del padrone-colonizzatore». L’accomunamento nel sonno di colonizzatori e colonizzati è fonte di tragedie.
Oggigiorno, se non ci sveglia, il binomio colonizzato-colonizzatore sussisterà anche nei nuovi pianeti. L’impegno contro la fame nel mondo potrebbe, ad esempio, svegliare con benefici comuni.
«Però tu sei cieco nella tua paura di scoprire che non esisti isolato. Le maschere dei tuoi ruoli sociali, il tuo teatro, la tua musica, il tuo cinema, i tuoi libri, la tua tivù, i tuoi confini, la tua famiglia, la tua società, i tuoi amici, il tuo cane, le tue chiacchiere, i tuoi soldi, le tue sigarette, la tua scienza, i tuoi vestiti, la tua moda, i tuoi palazzi, i tuoi giochi, i tuoi sport, la tua macchina, le tue conquiste, i tuoi aerei, il tuo giardino zoologico… e tu finisci per distruggere il dono che Dio ti ha fatto…» (Voz Pierre Weil).
E il menor grida: «Giriamo per le piazze e guardiamo in ogni angolo, finendo ogni speranza e sentendo fame, molta fame di cibo, acqua, letto, ciucciotto… medicinali contro i pidocchi, calore, abbracci, affetto. Fame di silenzio, fame di vita…».

Clovis R. Anversa




Scusate se diamo fastidio

Gli immigrati, arrivati da poco nelle città dell’America Latina, di solito abitano con qualche amico o parente fino a che si abituano alle nuove condizioni di vita e trovano qualche modo per guadagnarsi da vivere. A causa dello spazio ridotto, tuttavia, presto divengono ansiosi di trovare un posto tutto per loro. La scelta è limitata: affittare una minuscola stanza in un’abitazione sovraffollata nel centro-città, oppure unirsi al numero crescente di abusivi nelle baraccopoli.
A Rio de Janeiro la prima favela è sorta nel 1920. Oggi vi abita più di un terzo degli abitanti della città…
Le case delle baraccopoli vengono costruite da chi vi risiede e sono quasi sempre illegali, sia perché gli abusivi non possiedono la terra, sia perché non hanno il permesso edilizio. Molti insediamenti iniziano con «l’invasione della terra»: un gruppo di poveri cittadini, che spesso ne comprende alcuni immigrati da poco, invade un pezzo di terra di notte e costruisce frettolosamente delle baracche temporanee. Se riescono a opporsi ai tentativi iniziali delle autorità o dei padroni di farli sloggiare, le case temporanee hanno qualche possibilità di diventare permanenti.
Man mano che il tempo passa e aumentano le prospettive dell’insediamento, i residenti iniziano un lungo processo per migliorare le case. I miglioramenti occupano molto del loro tempo libero e denaro. Quelle che prima erano baracche di cartone e plastica vengono rifatte con assi e lamiere. Col passare degli anni, iniziano ad apparire case in mattone, qualcuno addirittura aggiunge un secondo piano. Alla fine assomigliano a quelle degli altri quartieri, ed entrano a far parte dell’economia cittadina, visto che un numero crescente di case viene venduto o affittato dai loro primi abitanti.

A ll’inizio gli insediamenti abusivi devono affrontare problemi enormi. Spesso il terreno che hanno occupato era libero proprio perché non edificabile. A Rio de Janeiro i poveri si insediano sui lati delle colline, che rischiano di franare ogni volta che piove…
Di solito i problemi più urgenti sono l’acqua e la rete fognaria. A São Paulo più di un terzo delle case nella città, soprattutto nelle baraccopoli di periferia, non ha installazioni fognarie o pozzi neri. La gente utilizza buche all’aperto o latrine senz’acqua, che spesso contaminano i pozzi superficiali, unica fonte d’acqua.
La chiave per migliorare la qualità della vita è l’organizzazione, e gli insediamenti abusivi hanno prodotto alcune delle organizzazioni più valide dell’America Latina. L’elenco delle richieste è lungo: strade, acqua potabile, fogne, elettricità, scuole, raccolta dei rifiuti, ospedali e mezzi di trasporto. Altro tema scottante è la loro illegalità dato che, non avendo alcun titolo di proprietà sulla terra, gli abitanti non si possono sentire sicuri in casa propria. Una volta che l’insediamento è costituito, può crescere rapidamente.
Le autorità possono rispondere all’invasione della terra con violenti tentativi di evacuazione, ma col tempo molti riconoscono che l’insediamento illegale e il costruirsi da soli la casa sono l’unica soluzione alla scarsità di abitazioni…
Una seria riforma del suolo urbano è l’unica alternativa alla coesistenza tutt’altro che facile delle autorità con gli abusivi. Ci sono molti punti in comune tra la crisi rurale della terra e quella delle città. Come per la riforma agraria, una riforma del suolo urbano, se vuole avere successo, richiede molto più di una mera distribuzione di terra. Gli abusivi hanno anche bisogno di poter accedere al credito, che permette loro di acquistare i materiali da costruzione, di infrastrutture, come strade ed elettricità, e di consulenza tecnica per l’edilizia. Proprio come in campagna, i grandi latifondisti urbani si oppongono a ogni tentativo che metta in pericolo il loro potere, e generalmente tali sforzi hanno successo.

I visitatori dell’America Latina possono vedere ben poco della vita nelle baraccopoli, dato che gli hotel dei turisti e gli amici o i contatti si trovano di solito nelle zone più benestanti, in quartieri eleganti o nei modei centri cittadini. Il livello di criminalità nelle baraccopoli, sebbene spesso gonfiato, è un altro valido motivo che allontana l’idea di visitare i quartieri più poveri. Nei quartieri del ceto medio le famiglie conducono una vita abbastanza confortevole, aiutate da personale di servizio e dalla possibilità di utilizzare gli elettrodomestici.
Rispetto alla popolazione complessiva, il ceto medio in America Latina è molto più ridotto che in Europa o negli Stati Uniti, e un abisso lo divide dalle masse povere dei quartieri più squallidi…
Lungo la strada principale nel nord di Recife, in Brasile, la processione di baracche di cartone e legno viene nascosta alla vista degli automobilisti. Un tabellone municipale lungo centinaia di metri si scusa per «il disagio causato dalle case provvisorie». Il cartellone può nascondere le case alla vista, ma non il caldo fetore del canale che attraversa l’accampamento. I bambini denutriti nuotano nelle acque inquinate. In certi punti, le sponde del canale sono costituite interamente da rifiuti…

Duncan Green
(testo liberamente tratto da «America Latina oggi»)

Duncan Green




L’immondezzaio di Elena

Strada Manaus-Itacoatiara, chilometro 10. Fino a qualche tempo fa c’era soltanto un immondezzaio. La puzza, acuita dal calore, era percepibile a chilometri di distanza. Gli urubú (avvoltorni) volteggiavano sulla discarica, attratti dalle sostanze organiche in decomposizione. Il personale tecnico del vicino aeroporto era preoccupato, perché i rapaci (che volano altissimi) erano risucchiati dalle turbine delle aeronavi causando danni irreparabili e persino tragici incidenti.
Attoo alla discarica, enorme, si stabilirono alcuni individui: sopravvivevano raccogliendo bottiglie, pezzi di metallo, mobili vecchi, carta stagnola. Quando le autorità locali si resero conto della situazione, circa 2 mila famiglie, provenienti dall’interno dell’Amazzonia, si erano già insediate presso il grande letamaio. Era sorto un paese, battezzato Nuovo Israele.

Tutto è improvvisato.
Non ci sono strade, fognature, acqua, elettricità. La miseria, tipica dell’interno dell’Amazzonia, si è riprodotta anche qui, ma con una differenza: prima era possibile procurarsi pesce, farina di manioca e acqua non inquinata; ora si muore di fame, se nessuno della famiglia trova lavoro. Poiché la maggioranza sa solo pescare e piantare manioca, si possono comprendere i problemi dei… profughi.
«Perché non siete rimasti nell’interno?» domando. «Perché si è lontani da tutto. Non ci sono né medici né medicine. Per non parlare della scuola!».
«Ma, invece di affrontare questa terribile situazione a Manaus, non sarebbe stato meglio restare nei luoghi di origine?». «No. Qui almeno c’è la speranza che le cose migliorino. Là neppure questo. Qui la gente può darci una mano, mentre nell’interno eravamo isolati e soli. Dal luogo dove abitavo io, ci volevano tre giorni di viaggio, in canoa, per giungere al primo centro abitato e trovare qualcosa!».

A Nuovo Israele
le case sono simili più a pollai che ad abitazioni umane: si aggrappano al terreno scosceso come muli testardi. Su pochi pali e alcune assi poggia la casa, ricoperta da foglie di palma e sacchi di plastica o, per i ricchi, da lastre zincate. È necessario avere almeno un bugigattolo, altrimenti si viene cacciati. In seguito si può diventare proprietari di quel palmo di terra.
Vicino alla casa, una fossa per i servizi igienici. Sul fondo del terreno collinoso e ricco di acqua, a causa delle abbondanti piogge, si scavano altri buchi (cacimbas): sono il bagno, la lavanderia per i vestiti e la fonte d’acqua per uso domestico.
È uno spettacolo deprimente vedere donne, bambini e anziani arrampicarsi sui sentirneri, verso le proprie case, carichi di recipienti d’acqua, sbuffando al cocente sole. Ci ho provato anch’io, con una tanica d’acqua in spalla: arrivato in cima, le gambe non mi reggevano più. Loro quei sentirneri li fanno decine di volte a stomaco vuoto!

In questa città da incubo
rivolgo ad un tale l’ingenua domanda se, una volta a casa, avrebbe filtrato o fatto bollire l’acqua. La risposta mi colpisce come una sberla in faccia: «Il povero filtra l’acqua in pancia!». Avrei voluto scomparire all’istante, tanta è stata la vergogna nell’avere offeso, sia pure involontariamente, la sensibilità di un povero.
Avvicinatomi ad una casupola, vi trovo quattro bambini. Una bambina di sette anni si prende cura degli altri tre, più piccoli, mentre i genitori sono a cercare un po’ di cibo. Il giorno prima si erano accontentati di chibé (farina di manioca, rammollita in acqua calda e sale); oggi non hanno neppure una goccia d’acqua da bere.
Eppure questa gente è ancora capace di sorridere. Forse per inerzia. O per fede.

C’è anche una missionaria.
Nera come il carbone, i capelli crespi e brizzolati, suor Elena è chiamata da tutti «angelo nero». Originaria dell’isola di Barbados (Antille), la religiosa vive come la gente occupandosi dei più miseri e abbandonati. Se qualche povero ha bisogno di legalizzare la proprietà o di una visita medica, è sempre lei che si fa in quattro.
Ha costruito una cappella di legno che serve da scuola, centro di assistenza sociale e luogo di culto alla domenica. Nelle rivendicazioni sociali lei è sempre in testa. Per questo è stata arrestata varie volte e anche bastonata dalla polizia. Ma Elena non si ferma, sorretta soprattutto da Colui che ha detto: «Beati i perseguitati per amore della giustizia».
A Nuovo Israele incontro anche un giovanotto. Dice di essere cattolico, però non praticante; prega, ma vive lontano dalla chiesa, perché – dichiara – troppo distante dai poveri. E prosegue: «A Nuovo Israele e in situazioni simili la chiesa deve scendere dal piedestallo e fare molto di più per chi vive nella miseria».
Penso a suor Elena.
p. Paulo Gomes

Paulo Gomes




Le favelas, le antenne sulle baraccopoli – Speciale BRASILE

Pigramente sdraiato su una spiaggia
di Rio de Janeiro, in auto sull’interminabile ponte «Niteroi», tifando nella calca
dello stadio «Maracaná»…
O a passeggio per la trafficata via Rio Branco, intimorito dai grattacieli e abbagliatodai flash pubblicitari…
Poi ti volti e scopri le «favelas». Un’altramegacontraddizione
nel paese «maior do mundo».

Delusione a Rio de Janeiro! Avevo sognato, atterrando sulla metropoli brasiliana, che i morros (colline) che ne vivacizzano il panorama scattassero sull’attenti, che il jumbo mi scodellasse dolcemente sulla baia dell’Atlantico, decantata dai manuali turistici come la più pittoresca del mondo. E il Cristo del Corcovado? Avevo sperato d’incontrae subito l’abbraccio nella luce smagliante del sole. Invece sono catapultato sul cemento ribollente senza troppi complimenti. Foschia, fracasso, afa.
All’aeroporto cerco padre Ivanilson, brasiliano, che non c’è. Diventa un’impresa galleggiare sull’onda travolgente dei viaggiatori frettolosi e dei facchini ossessivi. Una dozzina di taxisti, nell’arco di altrettanti minuti, mi «offre» il carro. È tanta l’insistenza che… Però la mano amica di Ivanilson mi «salva».
Padre Ivanilson guida una sgangherata Volkswagen alla «Rio de Janeiro»: sorpassi da brivido, slalom acrobatici fra le auto in corsa, frenate precipitose sul filo del… paraurti. «Se non fai così non ti muovi!» si scusa l’autista gridandomi all’orecchio.
Di fronte all’occhio intransigente del semaforo rosso, la Volkswagen si arresta e cessa di sferragliare. Allora ci si intende. «Vedi il colle Pão de açucar? Devi salirci. Di lassù gusterai uno spettacolo unico. Una geografia da favola nel paese maior do mundo: colline che si ammirano a vicenda da ogni versante, spiagge dorate sorvolate da decine di alianti…». Padre Ivanilson parla proprio come un libro stampato.
Ma, al verde del semaforo, l’autista ingrana subito la quarta e la poetica descrizione sfuma. Nuovo semaforo: siamo circondati da alcuni ragazzetti, che si aggrappano ai finestrini e ci sollecitano di comprare un infilato di arance, un mazzetto di fiori, un cartoccio di verdura, una gabbietta per uccelli.
– Chi sono?
– Favelados.
non esistono, ma lavorano

Fra le sue «attrattive» Rio de Janeiro ostenta anche le favelas. O baraccopoli. Se ne contano 375 con circa 3 milioni e mezzo di individui. La Rocinha ospita 350 mila baraccati. A Rio tre persone su otto sono favelados.
I primi insediamenti incominciarono nel secolo XVII, allorché alcuni schiavi neri in fuga si rifugiarono sui morros di Rio, costituendo delle vere comunità: è il caso della favela di San Carlos. In seguito vi entrarono altri gruppi, compresi dei delinquenti. Di qui l’idea che le favelas siano spelonche di ladri: il che corrisponde a verità, ma non è «la» verità. Nella favela le persone equivoche sono una minoranza, rispetto ad una maggioranza onesta.
Dal 1950 le favelas sono aumentate a causa del massiccio esodo dalle campagne: molti brasiliani poveri del nordest si sono inurbati, sognando di trovare l’«eldorado» in città. E i morros si sono trasformati in accampamenti di nullatenenti. I braccianti non avevano altra scelta che installarsi in una favela, dove potevano costruirsi una baracca senza pagare il terreno e con il vantaggio di trovarsi a due passi da un lavoro in città.
Un’altra ragione per rifugiarsi nelle baraccopoli erano i bassi stipendi, erosi pure da un’inflazione alle stelle (ha raggiunto persino il 950% annuo). Oggi la moneta real è abbastanza stabile. Ma i lavoratori, dati i salari da fame, sono presto al verde.
Da anni ormai i baraccati di Rio de Janeiro assorbono una grande fetta della manodopera nel settore dei servizi: autisti, meccanici, elettricisti, spazzini e muratori, come pure domestiche, portinaie, camerieri, sarte, impiegati nelle banche, poliziotti. Rappresentano un grosso potenziale economico e politico, ma le baraccopoli non esistono legalmente. Gli stessi residenti «non esistono».
Il governo vi buttò l’occhio solo per decretare la fine di alcune favelas attraverso il trasferimento forzato dei favelados. Ciò avvenne negli anni ’30. Fuori Rio sorsero quartieri di Santa Croce, Mesquita e Città di Dio, che però non offrirono alcuna possibilità di lavoro, scuola, strutture sanitarie. Per accedere a tali servizi (lontani), si esigeva tempo, denaro e resistenza fisica. Inoltre, nei nuovi barrios, con la disoccupazione e l’anonimato, la criminalità toccò indici elevati.
Fu così che molti ritornarono sui morros precedenti, perché «Città di Dio» non era affatto tale e «Santa Croce» era davvero un calvario. E, tuttavia, alcuni restarono trasformando il barrio in favela!

sono davvero Banditi?

Favela della Mangueira. Entro in una «casa monostanza», abitata da una donna con sette bambini, più un altro marmocchio che non è suo, ma non sa dove rifugiarsi. Poi attraverso un ponticello di bastoni sconnessi e scricchiolanti per affacciarmi su un vano dalle pareti «multicolori»: una di fango, una di latta, una di compensato, mentre la quarta parete è… l’ingresso senza porta. Ci vive una ragazza di 17 anni con due figli.
Costeggio un muro, abbastanza alto, di cemento armato. La costruzione fa da disco rosso all’avanzare della favela: al di là del muro è proprietà privata di un grileiro, che affitta il terreno a caro prezzo. È triste rilevare come il povero sfrutti il più povero…
Esuberanti, creativi, innamorati della samba… i baraccati della Mangueira. Gente quasi tutta nera, proveniente dal nordest del Brasile, dove, quattro secoli fa, furono deportati schiavi razziati dall’Africa. Nel 1888 cessò la schiavitù, ma non gli schiavi.
Eccoli oggi ancora alla Mangueira. Un favelado è esplicito: «Da oltre 100 anni siamo liberi solo sulla carta. I nostri bisnonni, pur discriminati dal padrone bianco, lavoravano e mangiavano. Noi lavoriamo e tiriamo cinghia. Se non ci dessimo da fare, avremmo solo la libertà di morire affamati e…».
L’interlocutore interrompe il discorso, attratto da due ragazzi che scappano per scomparire in uno dei mille meandri dell’ambiente. Poco dopo, sulla via, compare la polizia: un’occhiata qua e là, qualche parola… e gli uomini in divisa ritornano sui loro passi.
«I ragazzi fuggiti – riprende il favelado – sono piccoli spacciatori di droga. Fanno un lavoro che scotta; però garantisce sicurezza economica all’intera famiglia. Prima o poi cadranno in trappola; tuttavia preferiscono vivere un giorno da leone che cento da pecora. Per lo stato sono banditi. Per noi sono anche amici, perché finanziano le nostre feste popolari, regalano fiori e caramelle ai bambini…».
Mentre lo stato esige dalla favela «ordine» e «moralità», senza muovere un dito per sanare le piaghe della disoccupazione, dell’analfabetismo e dell’igiene, i «banditi» assicurano almeno un giorno di allegra evasione. Ma fino a quando il gioco vale la candela?

quale soluzione
per le baraccopoli?

La favela lotta ogni giorno per sopravvivere. Il principale problema è l’insicurezza: la paura dello sfratto, il terrore che il terreno frani e seppellisca tutti. Sono pochissimi i proprietari legalmente riconosciuti del fazzoletto di terra dove vivono, spesso, da generazioni. I favelados nella quasi totalità sono abusivi.
Non mancano i grileiros: individui che, invasa la terra e impadronitisene con documenti falsi, speculano sugli affitti e giungono perfino a farsi pagare una sorta di tassa demaniale. In favela le baracche sono abitazioni clandestine e, di conseguenza, gli affitti sono insindacabili dalla legge. Di più: se i favelados sono fuorilegge, lo sono altresì i fittavoli. Tutto questo perché il mondo della favela è «inesistente» per la legge brasiliana.
C’è una soluzione al problema? È evidente che la questione cesserà solo quando in Brasile si risolverà, con giustizia, il cruciale problema della terra. Ma questo, purtroppo, non è in vista.
Intanto è urgente che le comunità dei favelados e gli organismi governativi si accordino su alcuni punti scottanti: legalizzare la favela, riconoscere agli abitanti la proprietà del terreno, affrontae gli aspetti logistici secondo i suggerimenti dei residenti. Nessuno meglio di loro (che hanno costruito abitazioni con miracoli di ingegneria spicciola) conosce le soluzioni urbanistiche più idonee. Si erigano asili, scuole professionali, centri sanitari e sportivi.
Si devono prevedere piccoli progetti, che il governo appoggerà foendo assistenza tecnica e mezzi finanziari, mentre gli «ex favelados» presteranno il lavoro.
Forse qualcosa sta muovendosi nel verso giusto. Fino agli scorsi anni ’80 dominava l’idea che le baraccopoli fossero un’anomalia, che il progresso avrebbe riassorbito. Ma con l’attuale modello di sviluppo il disagio, anziché diminuire, cresce. Di conseguenza incomincia a cambiare l’atteggiamento dei governi e delle agenzie finanziarie inteazionali.
Invece di espellere, si inizia a vagliare quanto i favelados hanno prodotto, investendo risorse per dotare gli insediamenti spontanei dei servizi essenziali, regolarizzando la proprietà, integrando gradualmente le aree e i loro abitanti nel contesto urbano normale. Questo pure in sintonia con la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla casa, Habitat II, svoltasi a Istanbul nel 1996.
Però la soluzione del problema «baraccopoli» non è dietro l’angolo, perché troppi remano contro. Inclusa la tivù.

R incaso con padre Ivanilson dopo una visita in favela. È il tramonto. Tra poco moltissimi favelados si legheranno al tubo catodico per l’ennesima telenovela. Invidieranno palazzi sfarzosi e abiti firmati, sogneranno avventure e amori impossibili con uomini aitanti e donne procaci. Tutti individui raggianti quanto falsi, opulenti quanto bugiardi. Infatti la telenovela è una gigantesca alienazione, peggiore di quella che si consuma allo stadio Maracaná nella calca di 220 mila tifosi scatenati. È così che in Brasile «la telenovela continua».
Tra le tante antenne televisive che imperano sulle bidonvilles di Rio de Janeiro, São Paulo, Salvador, Manaus… ho adocchiato pure qualche parabolica. C’è da augurarsi che, almeno questa, non serva a propinare un’insulsa soap opera in inglese o italiano.

Francesco Beardi




Se nero significa brutto – Speciale BRASILE

Salvador Bahia – È bella la città di Jorge Amado. Le chiese, i palazzi barocchi, le case dalle tonalità pastello, le piazze linde e ben pavimentate richiamano folle di turisti, muniti di shorts e macchine fotografiche. Ma forte è l’impressione che tutto sia ad uso e consumo del visitatore. Un persona questa che quasi sempre ignora la vastità delle favelas che circondano la città vecchia (nota come «città alta»), quella sulla quale si sono riversati finanziamenti miliardari.
La Salvador non turistica deve fronteggiare problemi giganteschi: disoccupazione, povertà, analfabetismo. Tutto questo genera un forte clima di violenza. Non nasconde i problemi dom Gilio Felicio, dal 1998 vescovo ausiliare di Salvador. Lo incontriamo al «Centro di formazione per leaders» dell’arcidiocesi. Volto sorridente e coinvolgente simpatia, monsignor Felicio è un vescovo dalla pelle nera.

Nello stato di Bahia gli afro-brasiliani rappresentano più del 70 per cento dei 13 milioni di abitanti. E sono di gran lunga i più poveri ed emarginati. «Sulla popolazione nera – spiega mons. Felicio – ricade tutta l’ampia gamma dei problemi brasiliani. Molti di questi hanno una motivazione storica. Infatti, 300 anni di schiavitù e 100 di sottomissione alla cultura del “bianco” hanno lasciato il segno. Perché nella testa dei neri si è sedimentato un pesante senso di inferiorità».
È vero – chiediamo – che molti afro-brasiliani usano una terminologia particolare per nascondere la propria identità? «Purtroppo è proprio così. A volte, si arriva a situazioni assurde, ridicole. Quando un afro-brasiliano fa un buon lavoro, può accadere che lui stesso dica di avere fatto un lavoro… “da bianco”. La negritudine, l’essere neri non è assunto come un valore in sé, come esempio di vero, di bene o di bello. Anzi, è proprio il contrario: nero è brutto».
Lei è ottimista riguardo alla pastorale afro-brasiliana? «Vedo un lungo cammino ancora da percorrere, ma continuo ad essere ottimista. La chiesa cattolica, partendo dal Concilio Vaticano II, ha guardato in modo speciale al concetto del popolo di Dio, cercando di valorizzare le qualità di ogni soggetto. Nel passato la chiesa ha sempre avuto un occhio privilegiato per la misericordia e l’assistenza al povero, ma è stata più restia a considerare l’elemento culturale dei popoli. Giovanni Paolo II, nella conferenza dei vescovi latinoamericani di Santo Domingo, parlando agli indigeni e agli afro-americani, li ha invitati a coltivare e celebrare degnamente la propria identità e cultura. Credo che si stiano facendo grandi passi su questa strada. In Brasile la pastorale cerca di rispondere alle necessità della popolazione afro-brasiliana: essere riconosciuta per la cultura di cui è portatrice ed avere piena cittadinanza nella chiesa».
Nelle favelas di Salvador si tocca con mano un’offerta religiosa molto diversificata. Domandiamo a monsignor Felicio se il sentire dell’afro-brasiliano è quello del candomblé (nel quale confluisce la tradizione religiosa africana), della chiesa cattolica o delle sètte. «Su questa terra – risponde il prelato – c’è stata una confluenza, un incontro di diverse religiosità: quella indigena, quella europea e quella degli afro-discendenti. Questi elementi si sono accavallati, formando una specie di simbiosi religiosa che alcuni chiamano sincretismo, ma che in realtà è qualcosa di unico. Questo crea, non si può negarlo, delle difficoltà. Tuttavia, la chiesa cattolica ha riconosciuto l’importanza di vari aspetti del candomblé. Attraverso il dialogo si sta costruendo una nuova via per l’inculturazione del messaggio cristiano».

Nel 1995 sono stati commemorati i 400 anni del martirio di Zumbì, l’eroe per antonomasia della popolazione afro-brasiliana. La chiesa cattolica ha partecipato alle celebrazioni, riconoscendo l’importanza di questo schiavo nero nella storia del Brasile. «È stato un gesto carico di significati. Però non è stato né l’unico né l’ultimo. Oggi abbiamo gruppi di lavoro e movimenti di sacerdoti, vescovi e diaconi neri. Lo scopo è di studiare la spiritualità afro-brasiliana e valorizzare la presenza e la cultura dei neri in questo grande paese».
Ma quanti sono i vescovi afro-brasiliani nella Conferenza episcopale del Brasile? «Sei su 400 prelati». Non sono molti, monsignore. Il sorriso di dom Gilio Felicio vale più di qualsiasi risposta.
Paolo Moiola

Paolo Moiola




I neri, ancora incatenati – Speciale BRASILE

Il conto è presto fatto: tre secoli
di schiavitùe uno di libertà, fanno
quattrocento anni di sfruttamento. Cosìi neri brasiliani riassumono la loro storia… in attesa di riscatto.

AFRICA ADDIO
All’inizio sono gli indios a essere costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Poi qualche colono importa illegalmente alcuni schiavi neri. Forti e muscolosi, danno risultati eccellenti. Le poche gocce diventano un diluvio.
Nel 1539 è inoltrata a Lisbona la richiesta di schiavi africani. Nel 1550 la tratta dei neri diventa sistematica, con tutti i timbri dell’ufficialità. Nel 1570 inizia l’importazione in massa.
A mano a mano che si sviluppano industria zuccheriera e coltivazione del tabacco, industrie minerarie e piantagioni di caffè, il traffico negriero aumenta di anno in anno con un crescendo vertiginoso. In tre secoli arrivano in Brasile quasi 4 milioni di africani. Nella tabella seguente sono riportate le cifre più attendibili, calcolate per difetto.
Africa-Bahia, viaggio diretto, ma terribile: metà degli schiavi periscono in alto mare. Solo i più giovani e forti sopravvivono alle burrasche della traversata, con poco cibo e acqua rancida. «Ne muoiono troppi sulle navi negriere. Sotto sotto non ci sarà un imbroglio?» si lamentano i sovrani portoghesi; non per compassione, ma perché riscuotano le tasse per ogni nero che sbarca vivo.
I neri sbarcati in Brasile appartengono a due gruppi principali: bantu e sudanesi. Il primo proviene dal Mozambico (angico), Congo e Angola (cabinda, bakongo, benguela). Il secondo è composto da etnie e regni affacciati sul Golfo di Guinea: minas, jeje, ewe, nagô (di lingua youruba, Nigeria), haussá e tapa. Gli ultimi tre gruppi sono islamizzati, per cui sono detti muçulmis o più comunemente malês.
Portati al mercato, gli schiavi sono subito sottoposti al processo di distruzione d’identità e memoria storica: i preti li battezzano per farli cristiani; i compratori li dividono: marito dalla moglie, genitori dai figli; quelli di una stessa cultura sono mescolati in altri gruppi etnici; così non avranno la possibilità di fare combutta e ribellarsi.

A SUON DI FRUSTA
Una certa letteratura brasiliana parla di «schiavitù soave» e «signori buoni». La schiavitù è crudele per natura; se cessa di esserlo, non è perché il padrone diventa migliore, ma perché il servo si rassegna all’annullamento della sua personalità. Di fatto la giornata non ha nulla di «soave» per i neri brasiliani: lavorano dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Toati alla senzala trovano altri lavori da sbrigare. Alle nove vanno a dormire: le porte sono chiuse; chi ha grilli per la testa viene incatenato.
Disobbedienza e impertinenza sono pagate a colpi di chicote (frusta). Legati al pelourinho (palo della gogna), i colpevoli vengono fustigati in pubblico, perché gli altri schiavi imparino la lezione. A volte essi vengono consegnati al calabouço, luogo di tortura istituzionale, dove altri fanno il lavoro sporco: il padrone deve solo stabilire il numero di frustate e avrà la coscienza a posto.
Se il servo alza la mano contro il padrone o un familiare, gli può essere tagliata una o tutte e due le mani, o subire torture ancor più sadiche, secondo le Ordenações Filipinas (1603). Un editto reale del 1741 ordina che lo schiavo fuggitivo sia marchiato con una grande F sulle spalle, impressa con un ferro rovente; di tagliargli un orecchio se recidivo.
Di fatto il signore ha sullo schiavo potere assoluto, compreso quello di vita o di morte. Lo può vendere, torturare o liberare. La legge lo protegge in ogni caso. Agli schiavi, invece, considerati come cose o bestie da soma, non è riconosciuto alcun diritto; neppure quello di fondare una famiglia. La proibizione di separare i coniugi e le madri dai figli minorenni arriverà solo nel 1871, 17 anni prima dell’abolizione della schiavitù.
Naturalmente tutto dipende dal buon cuore del padrone. In generale, però, i signori sono pomposi e ignoranti; spesso più ignoranti di certi schiavi, come i malês: poliglotti e matematici, contabili maliziosi, essi tengono i conti e fanno da precettori ai figli del padrone.

RESISTENZE
Molti neri portati in Brasile sono guerrieri e figli di re: nessun castigo può piegare la loro fierezza. La maggioranza fa finta di sottomettersi; ma poi, lontana dall’occhio del padrone, estrae dalla memoria riti e feticci per riaffermare la propria cultura e gettare il malocchio sugli oppressori.
Le forme di resistenza alla schiavitù sono molte e variegate: dall’assassinio del padrone e suoi attendenti al suicidio individuale e collettivo, al banzo, tragica nostalgia che approda alla morte. Con la propria fine lo schiavo sa di privare il padrone di un importante capitale.
La forma di protesta più frequente, però, è la fuga per rifugiarsi nei quilombos: villaggi fondati nel cuore della foresta per riconquistare la propria libertà. Ne sorgono a migliaia, dappertutto e di ogni dimensioni. Spesso vi confluisce tutta la gamma degli oppressi della società schiavista: indios, meticci, bianchi impoveriti, giovani che fuggono il servizio militare. Nei villaggi più consistenti i neri organizzano tutti gli aspetti della vita: sociale, politica, economica, religiosa e militare, soprattutto per respingere i tentativi di riportarli in cattività.
Il quilombo più famoso è quello di Palmares. Iniziato prima del 1600, tra i monti della Serra Barriga, nell’attuale stato di Alagoas, raggiunge il massimo splendore verso il 1630, quando gli olandesi occupano Peambuco. Palmares si organizza in repubblica confederale di 18 villaggi, presieduta da un capo, chiamato «re», e da un consiglio. Lo sviluppo agricolo permette di vendere il surplus ai bianchi circostanti.
Espulsi gli olandesi (1654), per quasi 70 anni il governo di Peambuco e i signori dello zucchero cercano inutilmente di distruggere Palmares. Nel 1695 il quilombo viene spazzato via da un’armata di 11 mila uomini, il più grande esercito organizzato in periodo coloniale.
Nella resistenza si distingue il capo Zumbi. Nato libero a Palmares, egli rifiuta di barattare la libertà e indipendenza del suo popolo col perdono e terre, offertegli dal governatore di Peambuco e dallo stesso re del Portogallo, a patto che cessi di difendere la causa degli schiavi.
Tradito dai collaboratori, Zumbi è catturato e decapitato a Recife il 20 novembre 1695. Oggi egli è una bandiera per tutti gli emarginati brasiliani, simbolo di lotta per la libertà e la costruzione di una nazione senza padroni e senza schiavi.
Intanto le rivolte dei neri si propagano anche alle città. Le più note scoppiano a Salvador de Bahia: nel 1807, 1809, 1813 si ribellano gli haussás islamizzati; nel 1826-30 si rivoltano i nagôs, che finiscono in un bagno di sangue; nel 1835 ancora gli haussás: sono massacrati tutti, dai bambini appena nati ai vecchi cadenti. Non minore sconcerto suscita la rivolta di Tupá (São Paulo, 1813), dove 600 neri attaccano tutte le proprietà della regione e vengono eliminati senza misericordia.
PADRONI «LIBERATI»

Nel secolo XIX la condizione disumana degli schiavi è denunciata con veemenza in tutto il mondo. Le motivazioni umanitarie si mescolano a quelle di pura convenienza. José Bonifacio de Andrada, «padre dell’indipendenza» del Brasile, dimostra come la schiavitù sia un’assurdità economica e causa di corruzione sociale: «Venti schiavi richiedono 20 zappe, che si possono risparmiare con un solo aratro… Colui che vive del sudore degli schiavi, vive nell’indolenza e l’indolenza porta al vizio».
Sotto le pressioni intee e inteazionali, nel 1850 il Brasile proibisce la tratta degli schiavi (legge Eusebio de Queiroz). Questi vengono importati di contrabbando; ma i prezzi sono proibitivi. Inoltre, nell’economia capitalista, il lavoro salariale è ormai più conveniente della schiavitù, che comporta il mantenimento di africani tristi e ribelli, di «merce» improduttiva come vecchi e bambini.
Ci pensa il governo a «liberare» i padroni dal mantenere tante bocche «inutili»: nel 1871 la «legge del ventre libero» affranca tutti i nati dopo tale data; nel 1885 è la volta degli schiavi sessantenni. Nel 1888, quando la regina Isabella firma la «legge aurea», che abolisce definitivamente la schiavitù, appena il 5,6% della popolazione nera beneficia di tale evento. Ormai di veri schiavi ne sono rimasti pochi: molti sono già affrancati, altri si sono liberati da soli, con la fuga.

RAZZISMO ALLA BRASILIANA
La «legge aurea» introduce il Brasile nel consesso delle nazioni civili; ma non cambia nulla per i neri. A suo tempo José Bonifacio aveva suggerito come procedere all’affrancamento: «Fate dei neri degli uomini liberi e fieri; offrite loro incentivi, proteggeteli, ed essi si riprodurranno e diventeranno cittadini preziosi».
I neo-liberti, invece, restano senza casa, né terra, né famiglia (0,8% di sposati). Per loro non c’è nessuno degli incentivi concessi agli immigrati. Analfabeti al 99%, buttati senza alcuna preparazione nel mondo competitivo del capitalismo, i neri costituiscono da subito un serbatornio di manodopera usa e getta, in balia del mercato del lavoro e della miseria più nera: cessano di essere schiavi e diventano «il problema» del Brasile, da rimuovere al più presto.
La società brasiliana pensa di risolvere «il problema» con lo «sbiancamento» della popolazione, favorendo l’entrata massiccia di immigrati europei dalla pelle più chiara possibile. L’idea è bene illustrata da Roosvelt, presidente Usa, in visita al paese nel 1914: «In Brasile l’ideale principale è la scomparsa del nero, gradualmente assorbito nella razza bianca. L’enorme immigrazione europea tende, decenni dopo decenni, a rendere il sangue nero un elemento insignificante in tutta la nazione».
Qualcuno calcola il tempo necessario per completare tale processo di sbiancamento. Così scrive, e prega, Afrânio Peixoto nel 1923: «Forse impiegheremo 300 anni per mutare l’anima e sbiancare la pelle… per depurare questo immane miscuglio umano. Avremo albumina sufficiente a raffinare tutta codesta scoria? Dio ci assista, se è brasiliano».
La preghiera è rimandata al mittente: i brasiliani di pelle nera aumentano di anno in anno, fino a formare oggi il 70% della popolazione del paese; e non hanno intenzione di sbiancarsi, né di continuare a essere dominati.
Per spezzare le catene dei meccanismi di oppressione e rivendicare i loro diritti, i neri si organizzano: nel 1931 nasce il Fronte brasiliano nero e promuove una forte presa di coscienza economica e politica. Il dittatore Vargas lo sopprime nel 1937.
Negli anni ’70 sorgono altri movimenti di «coscientizzazione» della gente di colore e della società brasiliana in generale: Unione e coscienza nera, Movimento nero unificato, gruppi di agenti pastorali neri… Arriva qualche risultato: i primi deputati neri entrano in parlamento; a scuola, radio, televisione e nei giornali vengono dibattuti i problemi della popolazione di colore.
Matura così una duplice presa di coscienza: la popolazione nera, da una parte, riacquista la memoria del ruolo storico giocato nello sviluppo del paese e rivendica il proprio posto nella situazione presente. Dall’altra parte, i brasiliani nel loro insieme prendono coscienza che, senza i neri, il Brasile non sarebbe il Brasile.
Da decenni si parla di «democrazia razziale»; a cento anni dall’abolizione della schiavitù il paese ha riscritto la costituzione, affermando che «la pratica del razzismo costituisce un crimine imprescrittibile, soggetto alla pena di reclusione»; ma il nero continua a essere discriminato in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e religiosa.
«Il Brasile resta uno dei paesi più razzisti del mondo – afferma José de Souza Martins, docente di sociologia -. È un razzismo diverso da quello nordamericano; non si vede; la gente tace, ma discrimina. I ghetti sono sempre neri. Nelle università pochi neri e tanti bianchi; il rapporto si rovescia nelle prigioni. E quando un nero ce la fa, diventa campione di calcio o re del samba, ripetono quello che dicevano di Pelé: “Ha tanto buonsenso che sembra un bianco”».

Benedetto Bellesi




Missionari e indios di Roraima nella bufera – Speciale BRASILE

La testa sul vassoio
Testimonianza di un vescovo

Sono stato vescovo di Roraima
dal 1975 al 1996, in uno degli stati più «caldi» del Brasile, con scontri tra bianchi e indios. Durante i 20 anni di servizio, politici, giornali e radio locali hanno giocato al tiro a segno contro la chiesa di Roraima, scagliando contro il vescovo e i missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più spudorate.
L’apice della tensione si raggiunse nel 1993. Un sicario, telefonando ad una radio, si offrì di uccidere il vescovo, porre la sua testa su un vassoio e deporla ai piedi del monumento al garimpeiro (cercatore d’oro) di Boa Vista. La telefonata, ripresa da altre radio, fu udita da tutti e causò grande spavento.
Decisi di ricorrere a Brasilia, capitale federale, per presentare il caso al Ministero di giustizia e chiedere aiuto alla Conferenza episcopale (Cnbb). I vescovi promossero un giorno di mobilitazione, il 16 aprile 1993. La manifestazione si svolse a Boa Vista, con la partecipazione del presidente e vicepresidente della Cnbb, di altri vescovi, del Consiglio indigenista missionario (Cimi), della Commissione pastorale per la terra e di alcuni deputati. Il Ministero di giustizia inviò alcuni poliziotti per difendere la casa del vescovo.
Da allora la televisione di Roraima ha ignorato l’azione della chiesa: non più attacchi, ma neppure interviste. Il programma, che tenevo ogni venerdì, fu abolito.
Contro le accuse e discriminazioni la chiesa ha quasi sempre risposto col silenzio e perdono, mentre spiegava con lettere e messaggi il suo comportamento. Però una volta ha denunciato due radio (1993), ma le autorità hanno lasciato di proposito che il caso cadesse in prescrizione.

Potrei sintetizzare i miei 20 anni di episcopato
parafrasando san Paolo: una volta ho rischiato di avere la casa devastata dai garimpeiros; in tre occasioni ho avuto la polizia federale schierata davanti alla casa a protezione della mia vita; la chiesa di Roraima, accusata di ogni misfatto, è stata per due volte (1989-9O) indagata da due commissioni d’inchiesta, senza trovare la minima prova a carico; per tanti anni i missionari e il sottoscritto siamo stati spiati dalla polizia, senza mai trovare la minima illegalità nel nostro comportamento. Poi innumerevoli denunce di essere seminatori di zizzania.
Uno degli ultimi casi capitò nel 1995. Un delegato della polizia federale fu incaricato di indire il processo su un episodio di violenza contro gli indios macuxí; prima ancora di ascoltare le deposizioni delle vittime, il delegato accusò la chiesa di essere l’istigatrice dell’accaduto. La notizia rimbalzò su tutti i mass media nazionali, con le false testimonianze per provare l’accusa. Naturalmente eravamo estranei alla vicenda. E il caso si sgonfiò come una bolla di sapone.
Mentre certi settori della società e del governo
si scagliavano contro la chiesa di Roraima, questa riceveva onorificenze nazionali e inteazionali. Il 9 agosto 1990, a Brasilia, il presidente della camera e deputati di vari partiti elogiarono in assemblea il mio operato… Nel giugno 1994, a Rio de Janeiro, mi fu consegnato il premio «Alceu Amoroso Lima» per il lavoro a favore degli indios. Il 31 dicembre 1994 lo stesso governo di Roraima riconobbe i meriti della chiesa, concedendomi il grado di «grande ufficiale dell’ordine di Forte São Joaquim».
Ebbene, come spiegare il comportamento schizofrenico? Era chiaro che gli attacchi venivano da un ristretto gruppo di politici, detentori del potere, per i quali il bene della nazione s’identificava con i vantaggi personali, testardamente ostinati a negare i diritti della popolazione indigena.
Inoltre una parte dell’élite di Roraima (e del Brasile) conserva ancora una mentalità colonialista. In tempo di elezioni, il governo federale sfrutta tale mentalità, usando gli indios come merce di scambio e ricatto, per ottenere l’appoggio delle classi potenti.
Nel decennio 1975-85 i potenti erano contrari a qualsiasi demarcazione delle terre indigene. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: il diritto degli indios all’identità culturale e al possesso della terra fa parte della nuova costituzione; la demarcazione delle terre, destinate alle varie etnie, è stata fissata sulle mappe catastali, anche se non sono state soddisfatte tutte le aspettative degli interessati. Ma talora si ha la netta sensazione di essere «ritornati indietro».

A questo punto un chiarimento.
Contrariamente a quanto alcuni vogliono far credere, la demarcazione delle terre non ha affatto lo scopo d’isolare gli indios dalla società bianca e mantenerli nella povertà, ma garantire loro uno spazio geografico e sociale in cui crescere senza traumi e organizzarsi secondo la propria identità culturale.
La chiesa di Roraima ha cercato di aiutare i nativi a progredire in tutti i settori, senza fare tabula rasa dei valori culturali. Inoltre essa è convinta che uno dei meccanismi più importanti per lo sviluppo dei popoli sia il confronto con altre culture e l’assorbimento di nuovi modelli; ma è pure consapevole che, quando un gruppo culturalmente «debole» (come gli indios) viene inserito con violenza in una cultura «forte», il debole viene annichilito.
Proponendo alle comunità indigene di richiedere la demarcazione delle terre e appoggiando le loro aspirazioni, la chiesa non intende creare fratture sociali tra indios e bianchi, ma vuole promuovere una cooperazione rispettosa tra le diverse identità storiche e culturali della popolazione di Roraima. L’errata interpretazione di tali obiettivi spiega in parte l’ostilità incontrata in questi anni. Ma la vera causa è di natura economica e politica.
I risultati provano la validità delle scelte fatte: gli indios hanno riconquistato la fiducia in se stessi e lottano per occupare un posto degno nel contesto sociale di Roraima; i capi indigeni hanno preso coscienza delle proprie responsabilità; le comunità hanno imboccato la strada dell’autosostentamento. I ripetuti interventi per salvare i yanomami sono il fiore all’occhiello dell’azione della chiesa. La testimonianza dei missionari ha reso credibile il messaggio evangelico. Il progetto «una mucca per l’indio» è stato un miracolo, una benedizione.
Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga.
Aldo Mongiano

La sfida del Nano
O di padre Giorgio Dal Ben

L’ansia e la fretta lo consumano.
Ecco perché, più che camminare, trotta. Anche il suo linguaggio è spumeggiante: una raffica di pensieri che rotolano su ogni dove con una logica che logica non è. E l’altro ascolta, ascolta, ascolta. Il ragionamento è una spirale che gira e rigira interminabile. Quando l’«oratore» finalmente si concede una sosta, l’ascoltatore ha capito poco, ma quanto basta. E cioè:
– che la situazione degli indios yanomami, macuxí, wapixana, ingarikó e taurepang è drammatica;
– che demarcar le loro terre è questione di vita o morte;
– che a luta continua: uno scontro tra nani e giganti.
Nano è un po’ anche lui, perché non supera i 160 centimetri di altezza.

Scriviamo di padre Giorgio Dal Ben,
da oltre 30 anni missionario della Consolata nella surriscaldata terra di Roraima. È forse il missionario italiano più europeo, perché è noto non solo nella nostra penisola, ma anche in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio. Quando parla in questi paesi i suoi discorsi sono pure interminabili, avvolgenti.
Ma tutti capiscono che padre Giorgio si impegna fino allo spasimo: perché gli indios non si vergognino più di essere tali e parlino la loro lingua; perché i tuxawa (capi) riprendano il loro ruolo di guide sociali e culturali insieme agli sciamani; perché i bambini vadano a scuola e imparino a scrivere anche in macuxí oltre che in portoghese.
Bisogna soprattutto – martella padre Giorgio – spezzare la dipendenza economica dal bianco e dalla sua cachaça (acquavite). Il progetto «una mucca per l’indio» (che ha affascinato persino Giovanni Paolo II e il cardinale Ersilio Tonini) mira a riconquistare le terre indigene usurpate dai fazendeiros e crea autosostentamento. Così pure i piccoli allevamenti di maiali e polli.
Con uma vaca para o indio, il missionario ha varcato i cancelli del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, imponendo all’attenzione del mondo i problemi indigeni.

Giorgio non è come il biblico Davide,
piccolo e solo davanti al gigante Golia; è un po’ nano, sì, ma un nano «lillipuziano» contro «il mostro Gulliver»: le sue «fiondate», grazie ad una vasta cerchia di collaboratori, piovono da ogni parte sugli sfruttatori degli indios.
Numerosi missionari della Consolata, che a Roraima hanno sposato la causa indigena, vivono nell’occhio del ciclone: minacce da parte dei bianchi e dei loro manutengoli, calunnie e attentati sono stati e sono pane quotidiano. Ma l’aggressività nei confronti di padre Giorgio Dal Ben non ha paragoni. È accusato di ledere la sovranità del Brasile: è a capo di un esercito di 2 mila indios, comanda azioni di guerriglia contro i cercatori d’oro, invade le proprietà altrui, circola armato, si traveste da donna, sfrutta gli indios in miniere d’oro e diamanti, preziosi che poi vengono inviati in Italia. Lo ha scritto la rivista Istoé, maggio 2000.
Ma una «rete lillipuziana», composta da tanti amici, ha subito fatto quadrato attorno al missionario con stima ed affetto. A Roraima la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, il 2 maggio scorso, ha denunciato la rivista Istoé, i giornalisti Pedrosa e Stuckert, il governatore di Roraima Campos, il deputato Feijão e il fazendeiro Bezerra di attaccare padre Giorgio e i popoli indigeni con «affermazioni false e perverse».
«L’aggressione – scrivono padre Lirio Girardi e suor Giuseppina Morelli – vuole impedire la demarcazione della terra indigena di Raposa Serra do Sol, demarcazione in linea con il decreto n. 820, sottoscritto dal ministro della giustizia Calheiros l’11 dicembre 1998… I responsabili dell’attacco non temono di ricorrere a mezzi turpi, fino a minaccia di morte, per aizzare l’opinione pubblica contro gli indios, dividere i loro capi e spaventare i loro alleati».
Non sono mancati pistoleros pronti a sparare. Finora padre Giorgio Dal Ben e i colleghi missionari sono scampati alla morte, spesso fuggendo. Ma i rischi aumentano.
Tuttavia la spada di Damocle pende soprattutto sugli indios. Anzi si è già abbattuta seminando numerose vittime. Incursioni a mano armata nei villaggi indigeni, malattie mortali provocate, incendi criminali, garimpeiros predoni… hanno decimato i popoli indigeni.
Inoltre, nell’arco di alcuni anni, centinaia di migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica sono stati selvaggiamente disboscati, molti fiumi inquinati e intere aree sommerse artificialmente con la costruzione di grandi centrali idroelettriche.
«L’indio perde sempre: nel riconoscimento del proprio territorio, nei progetti agricoli, nell’assistenza sanitaria, nella dotazione di scuole per i nostri bambini e i nostri giovani, che continuano a sperare in una preparazione per il futuro». Lo sostiene Aniceto Cacique, indio xavante del Mato Grosso. Sarà sempre così?
Gli indios di Roraima continuano a gridare: «Noi vogliamo vivere».
Francesco Beardi

finalmente La veritÀ
Sul massacro di padre Giovanni Calleri

«Giovanni Calleri, missionario della Consolata,
nel 1968 fu scelto dal governo brasiliano a dirigere la spedizione di pacificazione di una tribù indigena per la sua esperienza tra gli indios yanomami, ma anche per la sua ricca personalità. Un dirigente governativo, Verìssimo da Silveira, ne rimase conquiso al primo incontro. “Era una figura che impressionava – testimoniò -. Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Le persone che lo incontravano per strada o in una riunione lo definivano uno sportivo o un artista. E vedevano giusto»…
«Nel 1965 padre Calleri partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. Le sue lettere del 1966-67 rivelano un uomo determinato e metodico, che riesce a convivere con gli indios imparandone la lingua e instaurando un buon rapporto. Scrisse: “Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame, e sempre tanta solitudine”»…
«L’organizzazione della missione del Catrimani mise in luce un missionario con una straordinaria sensibilità. I suoi piani grandiosi non sempre furono approvati dai superiori locali. Sarà il superiore generale ad assecondare le iniziative del focoso missionario»…

Sono alcuni capoversi del libro «Massacre».
Ne è autore padre Silvano Sabatini, missionario della Consolata pioniere in Brasile. «Massacre» descrive la spedizione diretta da padre Giovanni Calleri, che aveva lo scopo di pacificare gli indios waimiri-atroari. L’avventura culminerà in un eccidio. Padre Giovanni aveva 34 anni.
«Massacre» non è di facile lettura. Scritto in portoghese, racconta una tragedia nell’impervia foresta amazzonica, intersecata da fiumi grandi e piccoli dai nomi più strani; coinvolge gli indios, che intendono vivere alla loro maniera e si ribellano alla costruzione della strada BR-174; l’autore sembra giocare a nascondino con l’inesperto lettore nell’immensa foresta, andando a zig zag nel tempo e nello spazio.
Di più: la raccolta di documentazione e testimonianze avviene «con le pinze» per gli indios che partecipano all’eccidio (waimiri-atroari e wai wai) e con «i grimaldelli» per i forzieri del potere politico brasiliano, allora in mano ai militari, tutti presi dalla «sicurezza nazionale». Ancora: le testimonianze sono estratte dalle «pozzanghere» della Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva), legata agli Stati Uniti, troppo interessata (come protestante) che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.

L’intento dell’autore è di scoprire mandanti
ed esecutori dell’eccidio a 30 anni di distanza. Procedendo in ordine logico e cronologico, le cose andarono in questo modo. Il massacro della spedizione, costituita da dieci persone (comprese due donne), avvenne nella foresta il 1° novembre 1968 e fu sempre attribuito agli indios. Lo scopo della spedizione risulta chiaro. Al governo interessava pacificare gli indios che si opponevano alla costruzione della strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). I lavori, iniziati nel 1964, terminarono nel 1971.
Pure chiare le ragioni che spingevano il governo brasiliano ad intersecare l’Amazzonia di strade: integrare la vasta regione al paese, valorizzandone le immense ricchezze sulle quali gli Stati Uniti erano interessati (esportazione clandestina di oro e diamanti, vendita di terreni, ecc.). Né mancavano motivi militari, poiché l’Amazzonia a nord confina con sei nazioni in rapporti non sempre pacifici.
Per attuare il programma occorreva, però, fare i conti con gli indios che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.

Chi è padre Calleri?
Perché la scelta di dirigere la spedizione cadde su di lui? «Massacre» risponde bene e con passione a queste domande.
La spedizione venne preparata seriamente e il piano fu presentato al governo che l’approvò. Il piano consisteva nell’adottare una tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima indios non irritati contro i bianchi, per farli mediatori presso gli altri sul piede di guerra, perché vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano, perché indiretto, fu ritenuto da qualcuno troppo lento: per non fermare i lavori, bisognava confrontarsi subito con i ribelli waimiri-atroari, che in quanto ad imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e di morte risultavano enormemente aumentati.
La spedizione dovette essere ricomposta anche nei membri: venne inserito come elemento principale Alvaro Paulo da Silva, espertissimo della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla missione protestante Meva, con residenza in Guaiana, interessata a sua volta a far fallire la spedizione guidata da padre Calleri.
Va detto che l’azione della Meva, diretta dal pastore statunitense Robert Hawkins, nella doppia attività di evangelizzazione e ricerca di miniere, non coinvolge nelle sue brutture le altre chiese protestanti, specie per l’attività criminale dello statunitense Claude Leawitt.

La tesi sostenuta da padre Sabatini
con innumerevoli testimonianze (l’autore si avvale di 300 ore di registrazioni) è che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimiri-atroari e wai wai, istigati però da un manipolo di bianchi, in particolare da Alvaro Paulo (l’unico che sfuggì al massacro) e da Claude Leawitt. I due poi imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Nel 1987 padre Sabatini, dopo una grave malattia, giurò a se stesso di far luce su fatti e persone che la Commissione d’inchiesta sul «caso Calleri» non svolse. Il quadro che ne risulta è fosco. Contro gli indios, prima e dopo il 1968, furono commessi crimini orribili: i waimiri-atroari, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio. Padre Sabatini sostiene, con una denuncia sferzante, che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios.
«Massacre» vuole essere, oltre che una denuncia profetica (e i profeti non scherzano), anche «una risposta al trionfalismo dei 500 anni dalla scoperta del Brasile». Non fu una scoperta, ma un’invasione imbrattata di sangue.
Igino Tubaldo
(traduttore in italiano ad usum privatum di «Massacre»)

Aldo Mongiano