Finale a più voci – Speciale BRASILE

Voi siete dentro la nostra casa. Siete dentro il cuore del nostro popolo, che è la terra che tutti state calpestando. Questa è terra nostra. Quando voi siete arrivati qui, questa terra era già nostra…
Per questo esigiamo la demarcazione dei nostri territori, il rispetto per le nostre culture, condizioni per la sopravvivenza, educazione, salute… e punizioni dei responsabili delle aggressioni ai popoli indigeni.
Siamo in lutto. Fino a quando? Non vi vergognate di questa memoria che sta nella nostra anima e nel nostro cuore? La racconteremo di nuovo per la giustizia, la terra e la libertà.
Matalawê, indio pataxó
(messa di commemorazione dei 500 anni)

Il grande errore è pensare che il Brasile abbia avuto inizio con la venuta dei portoghesi. Pare che la storia del Brasile sia cominciata nel 1500 e che, prima, ci sia solo preistoria. Purtroppo la storia ufficiale è quella dei vincitori e non dei vinti.
Dal punto di vista della mia fede, lo Spirito del Signore aveva già seminato i valori del vangelo, anche se in forma implicita, nella storia dei popoli indigeni, nelle loro sofferenze e tradizioni religiose. Quando sono arrivati i missionari, con la mentalità di quell’epoca e l’assenza dell’antropologia culturale, che ancora non era nata, essi pensarono di essere di fronte al demonio e distrussero tutto. Ma ora siamo in condizione di dire che in quei valori era già presente lo Spirito del Signore…
mons. Franco Masserdotti
vescovo di Balsas e presidente del Cimi

Nonostante gli aspetti positivi del passato, sono rimasti segni negativi, frutto anche di errori dei cristiani. Senza incolpare i nostri antenati, sentiamo la necessità di chiedere perdono per ciò che è andato contro il vangelo e ha ferito gravemente la dignità umana e molti nostri fratelli e sorelle.
Agli indios furono tolte le terre, la vita e persino la ragione di vivere. Ai neri fu negata la libertà e ostacolata la conservazione della loro cultura e della loro memoria e fino ad oggi non è stata restituita loro la condizione di piena cittadinanza.
Inoltre la situazione di estrema povertà del popolo. Essa ha radici nella storia di esclusione della società brasiliana. La popolazione povera, insieme a indios e neri, è creditrice di un immenso debito sociale, accumulato durante i secoli della formazione del nostro popolo.
Cnbb
(documento dei vescovi brasiliani)

C i sono diversi modi di vedere il fenomeno storico della conquista. Alcuni lo vedono dalle caravelle e per essi tutto è gloria… La prospettiva che io difendo consiste nel vedere il processo dalla spiaggia, integrandolo con quello che è il risultato di questo scontro di civilizzazione, che è culminato in un sincretismo, in una mescolanza di razze e religioni.
Siamo il figlio «non voluto» dell’Europa. Volevano arrivare alle Indie e ci hanno trovato sulla loro strada, accidentalmente. E forse per questo siamo i più ribelli. Siamo una mescolanza di indigeni, neri, asiatici, europei, ma ci sentiamo brasiliani e latinoamericani, non europei.
Leonardo Boff
teologo della liberazione

Indipendentemente dalle ragioni che portarono i portoghesi ad approdare in Brasile e iniziare la colonizzazione-dominazione, il fatto è che abbiamo ricevuto con essi la buona novella di Gesù Cristo.
Da loro ereditiamo un tesoro più grande di quello che portarono via di qui: ereditiamo la fede, il vangelo, l’eucaristia, la salvezza, Nostra Signora. Ed è per questo motivo che dobbiamo celebrare i 500 anni della scoperta, che sono anche 500 anni di evangelizzazione.
mons. José Edson Santana
vescovo di Eunápolis

Non è possibile tracciare il profilo storico del Brasile, senza considerare la presenza della chiesa cattolica. Chi più aiutò a civilizzare le popolazioni indigene che il lavoro missionario? Chi più ha fatto per l’istruzione del popolo che la chiesa? Chi più si è adoperato per la moralizzazione della famiglia, per la pace e la concordia dei cittadini che la stessa chiesa? Come non ricordare la chiesa come colei che ha difeso la dignità umana e i valori culturali dei popoli indigeni presenti in epoca coloniale e la sua tenace opposizione alla schiavitù? Quello che sono oggi i brasiliani lo devono alla generosa dedizione di numerosi cristiani che si sono consacrati alla causa della fede, a volte anche a costo della vita.
card. Angelo Sodano
segretario di stato del Vaticano

L a sfida è la disuguaglianza sociale. Il Brasile ha un’unità territoriale, ma non una condizione di uguaglianza. Nascondere e negare i conflitti interessa ai dominatori, non ai dominati. I conflitti rivelano che c’è insoddisfazione sociale, lotta reale o potenziale e possibilità di mutamento. A chi si avvantaggia del potere non interessa il cambiamento. Il giusto criterio per giudicare i governi e i tempi della storia dovrebbe essere: hanno essi contribuito o meno a superare le disuguaglianze nel paese?
In questi 500 anni il nostro popolo povero ha conquistato il diritto di gridare che ha fame, ma non ha ancora conquistato il diritto di mangiare.
Luis Inacio Lula da Silva
tre volte candidato alla presidenza della repubblica

aa.vv.




E per il santo minacce ed improperi – Speciale BRASILE

La religiosità popolare non è superstizione, ignoranza
o fanatismo.
È manifestare la fede attraverso il vissuto personale e quotidiano.
Nel corso dei secoli si è cercato di emarginarla,
a vantaggio di un cattolicesimo più formale, dove sacro e profano rimangono distinti. Poi, grazie al Concilio Vaticano II, i pregiudizi sono venuti meno…

La tematica della religiosità popolare è avvincente. La gente comune si pone davanti al problema di Dio in modo spontaneo ed emotivo. E vuole affrontare in forma diretta e semplice i grandi interrogativi che da sempre interessano l’umanità: il senso della vita, il perché della sofferenza, come vincerla, che cosa ci attende dopo la morte.
Prima di addentrarci nel tema, dobbiamo, in primo luogo, liberarci da preconcetti e pregiudizi che, già in partenza, riducono la religiosità popolare a fenomeno impregnato di superstizione e ignoranza. Le valutazioni aprioristiche hanno sempre condizionato le riflessioni su questo argomento.
La religiosità popolare aiuta a creare e conservare l’identità individuale e collettiva, divenendo anche una risorsa di evangelizzazione originaria e tipica. In molti casi, essa ha funzionato come reazione e pretesto contro l’oppressione politica e culturale dominante. Altre volte, ha reagito a situazioni di appiattimento religioso. Certamente la religiosità popolare è stato ed è un fenomeno che alterna segni di speranza per una vita in un mondo felice ad altri caratterizzati da anacronismo e alienazione.
Per capire la fede vissuta dal popolo, è necessario ripercorrere alcune fasi storiche che seguono l’evangelizzazione dell’America Latina e capire come la religione cattolica si è diffusa nel continente.

IL CATTOLICESIMO
DELLA GENTE

È un cattolicesimo formatosi tra gli immigrati portoghesi, durante la colonizzazione del Brasile.
Esso ha avuto una presenza significativa nelle zone rurali, dato che le città ancora non esistevano. La popolazione era formata da contadini che emigravano dall’Europa verso le terre nuove: portoghesi poveri, ma anche piccoli proprietari ed ex-galeotti ai quali veniva offerta la libertà di andare a popolare le nuove colonie; più tardi, si aggiunsero indios, strappati alle loro tribù, ed ex-schiavi.
Questa mescolanza di razze ed esperienze ha dato origine a un cattolicesimo tradizionale popolare, basato su elementi specifici che non passavano attraverso un catechismo programmatico e didattico, ma su una fede vissuta e mnemonica.
Possiamo presentare alcuni elementi diventati punti base della religiosità popolare: il santo, l’oratorio, la cappella e il santuario.

IL SANTO,
L’AMICO DELLA VITA

Il santo è uno degli elementi fondamentali del cattolicesimo popolare. Tutto gira intorno a lui. È oggetto della devozione personale; è motivo di raduno del piccolo nucleo familiare (oratorio); è l’occasione per la festa patronale nei piccoli centri (cappella); è meta di pellegrinaggi per grandi moltitudini (santuario).
La vita di ogni persona ha come centro e riferimento la devozione specifica e prorompente per il santo del cuore, che comprende aspetti personali e collettivi.
Ogni fedele si relaziona per tutta la vita con il santo. Conversa con lui, gli chiede protezione, lo ringrazia per le grazie ricevute. Ma è, perfino, contemplato il momento dell’arrabbiatura: quando il santo indugia o ritarda la grazia per la quale è stato sollecitato, il devoto può passare alle minacce, girando l’immagine di spalle, oppure declassandolo nella gerarchia dei santi, riempiendolo anche di improperi.
Il santo lo si interpella attraverso l’immagine, ma non si identifica con essa. L’immagine riassume sempre un potere sacrale e per questo, dopo che è stata benedetta, non la si compra, né si vende e tanto meno la si può gettare via come qualsiasi oggetto logoro, ma solo la si può scambiare con altri oggetti affini. È segno di grande rispetto riporre l’immagine rovinata dal tempo all’entrata della cappella, affinché sia responsabilità del sacerdote determinae la… «rottamazione».

L’ORATORIO FAMILIARE

L’oratorio è un piccolo altare dove viene appoggiata l’immagine del santo. Esso occupa un posto di particolare importanza, normalmente all’entrata della casa ed è centro della devozione familiare.
Attoo all’altarino, la famiglia si riunisce per pregare o per altre devozioni, tradizioni e abitudini. Particolare enfasi viene dedicata alla recita del rosario, condotto dal capo famiglia, con le litanie e varie giaculatorie. Quasi tutte le preghiere sono registrate nella memoria delle persone, anche perché un tempo pochissimi sapevano leggere o possedevano libri appropriati.
La casa è il luogo della tranquillità e della pace e tra le mura domestiche regna la protezione del santo.

DALLE CASE ALLE STRADE

La strada porta con sé un carattere profano e presenta situazioni di grandi pericoli. Il santo, racchiuso in una nicchia speciale, domina gli incroci o sorveglia le vie principali. È una presenza rassicurante per tutti i devoti, anche per coloro che vivono più lontani dal culto ufficiale. Le persone, che vi passano davanti prima di andare al lavoro, alzano gli occhi e incrociano lo sguardo benevolo del patrono, chiedendo protezione. Al ritorno lo ringraziano per i pericoli scampati, offrendo fiori o rami decorativi. Tutta la vita pubblica quotidiana è permeata dalla figura del santo e accompagna i fedeli in tutte le loro relazioni.
A volte, vicino al santo sono raffigurate le anime del purgatorio (a ricordo dei defunti che hanno subito una morte violenta per omicidi o incidenti) o anime di persone non battezzate. Secondo il detto popolare, queste sono «anime inquiete».
La figura del santo garantisce serenità ai passanti, esorcizzando il luogo dalle dicerie popolari che incutono disagio. La giaculatoria è sempre il lasciapassare più sicuro.
Ci sono, infine, degli oratori ambulanti. Si tratta di nicchie portatili che i vari eremiti portano con sé girovagando nei vari quartieri e contrade. Ci sono pure persone che hanno fatto voto al santo di divulgare la devozione e si affidano a questo girovagare per ottenere la grazia richiesta. Il popolo, attraverso questi incontri casuali, si mette in contatto con il santo, specialmente attraverso l’elemosina, che serve per edificare altri luoghi di devozione. Il tutto sempre accompagnato dalla preghiera interiore.

LA CAPPELLA

Quando si costituisce un nucleo di case o una piccola comunità paesana nasce pure l’esigenza di uno spazio sacro: è la cappella.
È quasi sempre costruita con un lavoro d’insieme, poiché tutti i membri della comunità sono tenuti a dedicarvi del lavoro e fare donazioni. È il luogo della devozione comune, dove il popolo fa le proprie preghiere, organizza le novene, decora la cappella e le adiacenze. Nella cappella si aspetta il missionario per celebrare la messa e distribuire i sacramenti. È in essa che si trova l’immagine del patrono con più poteri divini.
Il momento più significativo arriva con la festa annuale. I preparativi cominciano molto prima, con novene e devozioni. Circolano liste di offerte secondo le possibilità di ognuno. Tutti diventano persone che al santo sanno chiedere, ma sanno anche dare. La festa rappresenta la rottura con la monotonia della quotidianità e si entra con euforia in un nuovo tempo; anche il mangiare, il bere e perfino ballare aumentano la familiarità del gruppo e fanno sentire con più forza la protezione del divino.
È un cattolicesimo poco clericale e l’organizzazione della festa è lasciata nelle mani delle confrateite laiche, elette dalla comunità di appartenenza. Normalmente e, soprattutto nel tempo coloniale, la presenza del missionario era sporadica («pastorale di visita»). Eredità che si può constatare ancora nelle comunità rurali dell’interno, dove uomini (ma soprattutto donne) cornordinano preghiere, organizzano feste patronali. La presenza del sacerdote era richiesta solo per la celebrazione della messa.

I SANTUARI

Per le devozioni di massa, esistono i centri per grandi incontri: sono i santuari. In essi si trova l’immagine più importante del santo che esige il pellegrinaggio annuale da parte dei fedeli.
Attraverso questi pellegrinaggi, molte volte compiuti a piedi, tantissima gente prima sconosciuta, a poco a poco si trasforma in compagni di cammino con una meta comune: andare a conoscere il santo. Ritrovarsi nel santuario significa dimenticare tutta la sofferenza e i sacrifici sopportati per raggiungerlo. Tutte le tristezze e i problemi sono allontanati. Arrivare in quel luogo segna la speranza per una vita che ricomincia e si rinnova.
La forza del santuario è dovuta al lavoro dei laici, riuniti in confrateite. Essi non si sentono meri assistenti del luogo sacro, ma veri promotori della fede, assumendo la responsabilità del santuario, delle feste paesane, delle preghiere tradizionali: una vera mescolanza di sacro e profano.
Le confrateite di laici, iniziate nei tempi del «patronato», sono la colonna portante nell’area religiosa. Ancora oggi, con dovute trasformazioni, sono presenti ed efficaci nelle «Comunità ecclesiali di base».

L’ETICA PERSONALE
E SOCIALE

Tra il devoto e il santo vige un’etica di comportamento. È composta da precetti e leggi che regolano lo scambio di benefici ed aiuti reciproci. In quest’ottica, esiste anche (come abbiamo spiegato) la possibilità di «rivolta», quando il santo non rispetta le promesse fatte, dopo che il fedele ha fatto vari sacrifici per ottenere le grazie richieste.
Questo cattolicesimo ha un’etica anche per regolare le relazioni sociali. Nella sua concezione di ordine, esso cerca di riprodurre, in terra, l’ordine celeste. Se in cielo i protettori sono i santi, in terra il povero cerca protezione nei grandi e potenti.
La protezione dei ricchi è data in cambio della sottomissione e obbedienza da parte dei poveri. Si constata, pertanto, che il cattolicesimo popolare tradizionale non offre un modello di società egualitaria. Secondo questa mentalità, Dio ha creato gli uomini in forma differente, ricchi e poveri. Però il ricco e il potente hanno l’obbligo di proteggere il povero e di aiutare il debole, proprio come fanno i santi dal cielo.
Lo studioso Pedro de Oliveira afferma: «Questo modello di ordine sociale, in cui i santi controllano le forze naturali e dove Dio è Signore di tutto (come un buono e grande fazendeiro), è un modello pre-capitalista. Sulla terra, i deboli si appoggiano e ricorrono al più forte e gli sono riconoscenti per la protezione che guadagnano. Questo modello mantiene l’ordine sociale com’è, sancendo la dominazione dei grandi proprietari sulla massa contadina».

LA STORIA CAMBIA

L’abolizione della schiavitù nel 1888 e la proclamazione della Repubblica nel 1889 costituiscono gli elementi basilari per la trasformazione strutturale del Brasile.
La chiesa cattolica, tradizionalmente legata alla classe signorile, deve ristrutturarsi per rendersi capace di affrontare la nuova situazione emergente del capitalismo agrario. I vescovi si allontanano dal potere del padronato e si legano più strettamente alla Santa Sede, decidendo di seguire la linea pastorale che conforma il cattolicesimo popolare tradizionale sul modello romano.
Lo stato vedeva nella tradizione una resistenza al nascente capitalismo agrario. La chiesa, pur riconoscendo certi valori, vi scorgeva troppa indipendenza; per cui decise di inviare i suoi missionari in forma più massiccia dall’Europa. L’obiettivo era di impiantare un cattolicesimo che rispondesse maggiormente alle regole che si stavano imponendo a partire dal Concilio Vaticano I, dove le varie forme tradizionali popolari erano denigrate per far spazio a catechismi ufficiali.
LA CHIESA POPOLARE
SOTTO STRETTO CONTROLLO

Il cattolicesimo romanizzato dà particolare enfasi ai sacramenti come mezzo di salvezza individuale. Poiché questi sono amministrati dal clero. A poco a poco la vita religiosa passa sotto il monopolio della gerarchia ecclesiale.
Anche il cattolicesimo popolare, decisamente più laicale nelle sue origini, viene incamerato nella struttura parrocchiale. Si rafforza lo spiritualismo attraverso una pietà privata, rivolta maggiormente alla salvezza della «propria» anima.
Le differenze sono tangibili: il cattolicesimo popolare è marcato dalla forza del santo e dell’impegno laicale; il cattolicesimo romano insiste maggiormente sulla obbligatorietà dei sacramenti e sulla presenza del padre cornordinatore.
Il popolare comincia ad essere trattato come fanatismo e frutto dell’ignoranza religiosa. Le nuove relazioni sono basate sull’impersonale nel campo religioso, denigrando tutto quello che si riferisce al popolare, mentre si continua lo sfruttamento nel campo sociale.
Si può ricordare la vicenda di Antonio Conselheiro nel sertão baiano che, con i suoi seguaci, venne represso dall’esercito, con l’appoggio del vescovo di Salvador. Più recentemente, ci sono state le sanzioni contro padre Cicero del Ceará, che sosteneva il cattolicesimo popolare creando movimenti religiosi che la chiesa ufficiale non riusciva a controllare.
Per combattere il cattolicesimo popolare, vennero importate dall’Europa devozioni per nuovi santi, legati alle congregazioni religiose. Queste proponevano una fede e stili di vita religiosa lontani dalla vita del popolo, enfatizzando più gli aspetti celestiali che le caratteristiche umane, reputate troppo banali e limitate per poter percorrere il cammino che conduce al Regno.

L’EVOLUZIONE
DELLA DEVOZIONE

Lo storico padre Oscar Beozzo fa una analisi delle devozioni facendo riferimento a tre fasi: il cattolicesimo popolare, il cattolicesimo romano e il cammino attuale della chiesa.
Si prenda, ad esempio, la devozione alla Madonna. Nella prima fase, è la madre dei dolori, Maria di Nazaret, la donna popolare incinta o con il bambino in braccio, tipico dell’essere mamma. Nel cattolicesimo romano, la Vergine diventa Madonna della gloria, Madonna delle apparizioni con vestiti celestiali, e non ha più in braccio il bambino. Diventa insomma una donna che vive fuori dalla realtà del popolo.
Oggi è ridiventata la madre morena dell’America Latina, compagna di viaggio nella vita di tutti i giorni. Riprende in braccio il suo bambino e lo presenta al mondo diventando la «stella dell’evangelizzazione».
Quanto a Gesù, nella prima fase, è il servo sofferente nella preghiera nell’orto degli olivi; il Gesù della flagellazione, che porta la croce. Nella seconda, diventa il Gesù ieratico del Sacro Cuore con una devozione che lo allontana dalla vita di tutti i giorni. E, oggi, il Gesù della liberazione, che proclama i diritti dell’umanità, spezza le catene del peccato e dell’ingiustizia.
La devozione dei santi passa per lo stesso schema. Al tempo della colonia, si incontrano i santi pellegrini che incarnano le sofferenze del popolo che vive un continuo esodo (come S. Gonçalo, S. Pietro degli zoccoli, Santiago, S. Rocco e tanti altri). Poi si passa ai santi delle congregazioni religiose, lontani dalla realtà e dal modo di vivere la fede in America Latina. Infine, nella fase attuale, si ricordano di più i martiri della fede, coloro che danno la vita per difendere i poveri della terra.
L’elemento fondamentale che differenzia il cattolicesimo popolare da quello romano è questo: il primo cerca di unire, di creare un tutt’uno tra fede e vita; il secondo cerca la dicotomia tra vita normale e vita ecclesiale, distinguendo il divino dall’umano, dividendo lo spirito dal corpo, separando il sacro dal profano. Sono elementi, che i teologi figli latino-americani sottolineano con particolare forza e cercano di far scaturire un nuovo cristianesimo adatto e incarnato nelle realtà, dove si cerca l’unità della vita vissuta in una profonda fede.
LA PRIMAVERA
DEL CONCILIO VATICANO II

Arriva il Concilio Vaticano II. Nascono le Comunità ecclesiali di base. Esse, con il loro nuovo modo di essere chiesa, rappresentano anche una rottura della devozione individuale ai santi patealisti della fase coloniale, ai quali era delegata la soluzione dei problemi personali; diventano pure rottura con la pratica individuale dei sacramenti e la dimensione privata della spiritualità, dove ognuno ha l’alibi della salvezza solitaria, senza tenere troppo in conto l’impegno comunitario.
Attraverso il nuovo modo di essere chiesa c’è, senza dubbio, un ricupero dell’elemento tradizionale cattolico e la partecipazione dei laici come agenti dell’annuncio del vangelo e animatori della comunità cristiana. Si fa strada la forza della coscienza personale per arrivare a un impegno collettivo. Una presa di coscienza e una nuova etica religiosa, dove perfino l’ordine socio-politico è contestato.
I numeri e le statistiche sono ancora lontani per un capovolgimento copeicano. La grande massa appartiene ancora al cattolicesimo che trova più comodo un impegno religioso personale rispetto a quello comunitario.

PARTENDO DAI POVERI
(E DA SANTO DOMINGO)

Molte volte la religiosità popolare è stata messa alla gogna come manifestazione di immaturità, intravvedendovi minacce di eresie e soprattutto di sincretismo, fenomeno con il quale non si è avuto il coraggio di dialogare.
Si riconosce che, a volte, alcune devozioni necessitano di una purificazione; ma si ha la percezione che proprio dal popolo derivano le possibilità più immediate e profonde per inculturare ed incarnare la fede nella vita.
Il punto di partenza di Cristo è sempre la sua «opzione per i poveri, per i piccoli, per gli ultimi del mondo…» (Lc, 18-19).
L’attualità della vita ecclesiale deve fare i conti con le sfide dell’evangelizzazione del nostro tempo. Sfide che debbono percorrere il processo di inculturazione del vangelo. È un cammino che deve includere la religiosità popolare, ma anche recuperare i valori indigeni e africani che sono componenti fondamentali dell’antropologia brasiliana.
Nel 1992, a Santo Domingo, davanti ai vescovi latinoamericani, Giovanni Paolo II parla di una nuova evangelizzazione nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni di fede. È una proposta che richiede immaginazione e creatività, affinché il vangelo possa arrivare a tutti in una forma appropriata e convincente. Nel terzo capitolo il documento sottolinea la necessità per ogni cristiano di conoscere e penetrare gli ambienti socio-culturali, come protagonista della propria storia alla luce del vangelo. La stessa America Latina non deve guardare solo alle proprie necessità, ma deve sempre avere la sensibilità di aprirsi e condividere la propria fede con il resto del mondo.
Ad ogni istante è necessario rifare «l’esperienza di Dio» che continua a rinnovare l’alleanza con il suo popolo attraverso un «cammino» che non rimane prigioniero nel tempio dell’immobilità, ma richiede sempre più di abitare «la tenda del divenire».
Ecco ciò che significa «camminare con gli uomini del nostro tempo».

Orazio Anselmi




Danzando con gli dei – Speciale BRASILE

– Cos’è il candomblé, madre mia?
– È danza e musica, figlia mia!
Così rispose «mãe Teresinha», quando
iniziai la ricerca su questa religione
afro-brasiliana. Per comprenderne
il fascino occorre aggiungere: ricchezza
di colori e simboli, ricerca di armonia, equilibrio e consolazione, memoria storica e impegno di solidarietà.

All’inizio di tutto – racconta la leggenda – non c’era separazione tra l’orum (l’inconoscibile), sede degli orixás (dei), e l’aiê, la terra degli esseri viventi. Uomini e divinità si facevano reciprocamente visita e vivevano insieme felici.
Ma gli esseri umani, fin da allora, non rispettavano niente e nessuno: con arroganza sporcavano l’orum, infischiandosi delle raccomandazioni di Olorum, il dio supremo.
Ma un giorno, vedendo l’orum tanto mal ridotto, il Signore del cielo e della terra si adirò: scagliò il bastone sacro e divise il cielo dalla terra. Così nessun uomo poteva più raggiungere l’orum e gli orixás rimanevano nel proprio mondo. Ma questi si intristivano; avevano nostalgia dei loro incontri con gli esseri viventi. Gli uomini, a loro volta, non riuscivano più a vivere senza la gioia e allegria trasmessa dagli orixás.
Olorum, stanco di tanti lamenti e in fondo stufo della situazione, permise alle divinità di andare ogni tanto in visita alla terra. Gli esseri umani facevano offerte agli orixás, che arrivavano e danzavano, danzavano, danzavano… al suono degli atabaques (tamburi).
E toò, finalmente, armonia e felicità.

RADICI AMARE
Il racconto esprime chiaramente l’essenza del candomblé: esso è un messaggio di felicità; è ricerca degli aspetti più giorniosi della vita. La sua storia, però, non affonda le radici nella gioia, ma nel dolore: in quella tragedia immane di milioni di neri ridotti in schiavitù.
Considerati come popoli selvaggi, privi di cultura, gli africani venivano catturati dai bianchi e, una volta trasportati in Brasile, dovevano essere civilizzati, istruiti e convertiti al cristianesimo con una rapida evangelizzazione. In realtà, gli schiavi furono i principali artefici della costruzione del Brasile, non solo sotto l’aspetto economico. Alcune popolazioni possedevano un elevato grado di civiltà, come alcuni gruppi yoruba (Nigeria e Benin) eccellenti scultori in avorio e metallo.
Creazione tipicamente brasiliana, il candomblé affonda le radici nelle tradizioni africane. Esso si formò nel segreto della senzala, quando schiavi e schiave sfruttavano ogni opportunità per riorganizzare i loro culti.
Coltivato di nascosto, il candomblé ebbe grande sviluppo quando la chiesa cominciò a convogliare le varie etnie africane nelle irmandades, (confrateite). A Salvador, all’inizio del 1800, nacque la confrateita di Nossa Senhora da Boa Morte, formata da africane libere, in maggioranza provenienti da Ketu (Benin).
Il fatto di potersi ritrovare rese più facile agli schiavi liberati di riorganizzare il culto verso gli antenati. Sacerdotesse e sacerdoti con posti di rilievo nei candomblé, entravano nelle irmandades. Esisteva, infatti, un legame molto stretto fra chiesa e candomblé; spesso i preti cattolici venivano chiamati a celebrare la messa nei terreiros (centri di culto). Ancora oggi, presso alcuni candomblé, tale usanza di partecipare alla messa è in vigore come memoria storica.

RICERCA DELLE ORIGINI
Si è soliti etichettare i movimenti religiosi afro-brasiliani come sètte sincretiste, miscuglio di tradizioni religiose africane e cristiane. Ma in una riunione del 1983, le iyalorixá (sacerdotesse) più tradizionali della Bahia presero posizione contro il sincretismo e rivendicarono per il candomblé la dignità di religione. «Iansã (divinitá dei venti e lampi) non è santa Barbara» disse mãe Stella de Oxossi, leader di Axé Opô Afonjá, uno dei gruppi più conservatori. Con questa frase essa voleva dire chiaramente che il candomblé non è una sètta sincretista né dipendente dal cristianesimo.
I culti afro-brasiliani si differenziano pure dalle religioni tradizionali africane, pur avendo in esse la loro base originaria e molti punti di contatto. Nei territori yoruba ogni città aveva un antenato da tutti venerato. In Brasile, a causa dei lunghi secoli passati in schiavitù, gli afro-discendenti hanno scordato il luogo di provenienza. Per questo nei terreiros di candomblé è stata ricostruita una specie di “yorubaland” in miniatura, inserendo nel culto tutte le divinità e figure mitiche che la schiavitù non è riuscita a cancellare dalla memoria.
Nella storia di questa religione, alcune sacerdotesse delle irmandades sono diventate figure quasi mitiche, come quelle che organizzarono un terreiro di candomblé chiamato Ìyá Omi Àse Àirá Intilè. Una delle fondatrici, Iyalussô Danadana, ritoò in Africa e vi morì. La seconda, Iyanassô, fatto un viaggio nel continente d’origine, toò accompagnata da un sacerdote chiamato Bangboxé, diventato figura leggendaria del candomblé di Bahia.
Questo centro religioso ha dato origine ad altri due grandi terreiros di tradizione ketu: Iyá Omi Ase Iyámasse, comunemente conosciuto come Gantornis, il cui leader religioso fu la famosa mãe Menininha, e Axé Opô Afonjá, fondato nel 1910 da mãe Aninha e oggi guidato da mãe Stella de Oxossi, figura carismatica e simbolica per tutti gli afro-americani. Molti neri degli Stati Uniti vengono nel terreiro dell’Axé Opô Afonjá per riavvicinarsi alle proprie radici culturali e religiose.

ARMONIA CON LA NATURA
Oltre ai motivi di carattere religioso, questa comunità è diventata particolarmente famosa per avere ricostruito, col passare degli anni, un villaggio africano con abitazioni per i fedeli e case per gli stessi orixás. All’entrata degli edifici e in vari punti del terreiro crescono giganteschi alberi sacri.
Il candomblé si fonda sul culto della natura: cose, alberi, animali, persone sono sacre. Un’energia vitale, chiamata axé, circola in tutti gli esseri animati e inanimati, collegandoli insieme come una sottile onda. Questa axé può essere immagazzinata e distribuita mediante vari rituali pubblici e privati. Per questo il candomblé, come le religioni africane in generale, è stata dispregiativamente definita animista. Ma non c’è niente di negativo nel percepire la vita delle piante o persone.
Nei testi sacri yoruba, racconti tramandati oralmente, è chiaramente sottolineato che al di sopra di tutti e tutto c’è un essere supremo, chiamato Olorum o Olodumaré. Questi, col suo respiro, ha dato inizio al principio maschile (obatalá) e femminile (odudua); questi due principi hanno dato origine al mondo, alla natura e agli esseri viventi. A fare da tramite fra gli esseri viventi e Olorum sono gli orixás, divinità-energie della natura, di cui i mortali sono figli.

POSSEDUTI DALLA DIVINITÀ

Il candomblé è basato su una sofisticata conoscenza dell’animo umano: la mitologia ne descrive pregi e vizi e, al tempo stesso, spinge l’uomo a rispettare e venerare il sacro e a compiere ogni sforzo per avvicinarsi al divino. Le divinità, infatti, sono sentite vicine nel vivere quotidiano.
Tale vicinanza si manifesta in modo particolare con la «chiamata» di alcune persone da uno degli orixás. Essa può avvenire in molti modi, come sogni e malattie inspiegabili. Tale chiamata viene verificata con una lettura della situazione spirituale, eseguita con le conchiglie di Ifa, divinità della sapienza e divinazione. Ogni mãe-de-santo (sacerdotessa) ha acquisito con l’esperienza una grandissima sensibilità al riguardo e, attraverso la caduta e i disegni formati da tali conchiglie, essa rievoca eventi mitologici e analizza la situazione energetico-spirituale del consultante. In base a tale analisi, inizierà una serie di rituali per avvicinare il fedele al proprio orixá.
La comunione col divino diventa sempre più profonda col passare del tempo. Il fedele offre doni alla divinità e riceve in cambio forza vitale, energia e protezione. Se la divinità lo richiede, si passerà a una vera e propria iniziazione, che prevede un periodo di reclusione e allontanamento dal quotidiano, per entrare in più stretto contatto con l’orixá.
Non si è ancora sottolineato abbastanza come le religioni africane si fondino su un percorso mistico profondo e significativo, che si snoda per tutta la vita. Nel candomblé tale cammino è accompagnato da rituali riservati alle persone della casa e da altri che si svolgono nelle pubbliche assemblee. Così spiega Ceci, sacerdotessa iniziata da 29 anni in uno dei terreiros più tradizionali e famosi di Salvador: «La lunga preparazione delle sacerdotesse per potere ricevere le divinità culmina con la festa pubblica. Tale festa richiede una preparazione immediata di due o tre giorni, nei quali è necessario adempiere una serie di riti per i soli fedeli della casa, per dare forza alla parte spirituale e per preparare materialmente la cerimonia, il cui fulcro è la possessione».

MUSICA, CANTO, DANZA
L’unione con la divinità, seppure temporanea, avviene in momenti specifici e ritualmente organizzati tramite il trance. Anche questo fenomeno, tanto maltrattato dalle teorie psicologiche, merita rispetto. Esso è patrimonio dell’umanità: lo si incontra in vari paesi del mondo, dall’Oriente all’Africa, dalla Siberia alla… Puglia. L’antropologo De Martino ha dimostrato che il fenomeno del tarantismo è un rito di possessione, dove la musica e la danza vengono usate con scopi terapeutici, proprio come in Africa e nel candomblé. Il disprezzo verso tale fenomeno è dovuto al fatto che esso è visto come qualcosa d’«insalubre», di difficile comprensione per il mondo occidentale, sempre più lontano dal mondo della percezione sensoriale.
Il candomblé si basa sulla conoscenza di se stessi; conoscenza ottenuta attraverso vere e proprie tecniche con cui raffinare sempre più la percezione del proprio essere, delle capacità e limiti personali. Il contatto con la propria parte interiore e sacra, porta le sacerdotesse all’unione con il divino. I mezzi per arrivare a tale unione sono: musica, canto e danza. Nei suggestivi riti del candomblé le sacerdotesse diventano strumento delle divinità da cui sono state scelte per portare agli esseri umani energia, conforto e felicità.
Le sacerdotesse, la sera della festa, preparate accuratamente nei loro bellissimi vestiti, sintesi dell’incontro forzato fra Africa e Europa, aprono il rito formando la ruota sacra. Spiega ancora mãe Ceci: «Prima della festa pubblica c’è il padê, celebrazione per Exu, il dio messaggero: la sua funzione è importante; senza di lui non è possibile fare niente. Erroneamente questi è stato identificato con il diavolo dei cristiani; ma il concetto di bene e male dei yoruba non si identifica esattamente con quello della teologia cristiana.
Seguono canti e preghiere per gli antenati. Si canta e si danza tre volte in onore di tutte le divinità; infine, col suono di strumenti musicali, si invitano gli orixás a scendere tra i fedeli. E arriva il momento dell’incorporazione: le sacerdotesse indossano gli abiti sacri, ricchi di simboli e allusioni mitologiche. Da questo momento esse impersonano la divinità. Riprendono le danze sacre. Ballando, gli orixás raccontano ai fedeli la storia sacra, la mitologia e la propria funzione nel cosmo, nell’interno del pantheon e nella comunità».

RICERCA DI EQUILIBRIO
La liturgia si snoda attraverso una serie di canti con uno schema più o meno fisso, che le sacerdotesse accompagnano con specifiche gestualità del corpo e coreografie. Per i non iniziati è difficile decifrare e compredere i messaggi espressi con tale linguaggio non-verbale, come pure l’insieme dei riti e la loro ricchezza di simbolismi. Ogni casa di candomblé, infatti, possiede un proprio repertorio di 400-500 arie musicali, coreografie, simboli e colori specifici corrispondenti alle varie divinità.
Inoltre, i messaggi del trascendente espressi dal candomblé non sono affidati alla logica del ragionamento, ma all’arte e alla percezione sensoriale. Già Susan Langer aveva sottolineato: «Solo l’arte riesce a trasmettere i messaggi profondi all’anima umana. Il linguaggio verbale non è sufficiente per trasmettere tutta la gamma di sfumature e valori dei sentimenti umani, come mateità, amore, aggressività, rabbia».
Attraverso i movimenti e fluidità del corpo, le vecchie sagge percepiscono l’armonia delle persone. Il candomblé, infatti, è ricerca di armonia: prima di tutto con se stessi e poi necessariamente con gli altri. «Io sono perché tu sei» dice un detto africano, sottolineando l’importanza del gruppo. Ognuno deve adempiere a una funzione a livello spirituale-individuale e a livello di comunità; come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi cade un sasso: tutto è collegato, dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mãe Beata, da 28 anni leader di un terreiro, spiega: «Il candomblé è carità. Io vi sono entrata perché dovevo; dopo aver raggiunto il mio equilibrio, ho dovuto iniziare ad aiutare gli altri. Noi mãe o pãe-de-santo dobbiamo sempre dare una parola di conforto a tutti quelli che ne hanno bisogno. E non solo i brasiliani, figlia mia, tu lo sai».
Qui a Bahia, infatti, arrivano molti europei; alcuni sono alla ricerca di un contatto con il «mondo magico», con cui risolvere in un batter d’occhio ogni loro problema; altri, però, cercano un contatto più spontaneo con gli altri e con se stessi; vogliono riscoprire il proprio ritmo e equilibrio interiore e quella autenticità che hanno perso nella vita frenetica delle grandi città.
Mãe Stella non si stanca di sottolineare: «Orixá è equilibrio. Tutto inizia da lì. Tutti dobbiamo vivere con dignità e in pace».
Molti pensano che sia facile trovare la base dell’equilibrio interiore; spesso, invece, si richiede un percorso travagliato e difficile. Eppure molte persone, e non solo brasiliane, sono state aiutate a ritrovarlo; o per lo meno hanno ricevuto una spinta in questa direzione. È come se il candomblé riuscisse, attraverso il sacerdozio e l’amore per se stessi e gli altri, a riorganizzare la frammentazione umana e a dare un filo conduttore ai suoi fedeli.

MEMORIA E SOLIDARIETÀ
Il candomblé ha avuto, ed ha ancora, un’importanza fondamentale nella storia degli afro-discendenti: grazie al lavorio solerte delle sacerdotesse, essi hanno recuperato l’identità culturale e la dignità personale che la schiavitù aveva brutalmente distrutto.
«Se non ci si ricorda degli antenati, dei nostri defunti, non sappiamo chi siamo» spiega l’antropologo De Martino. È ciò che hanno fatto, per quanto hanno potuto, queste sacerdotesse: mantenendo viva la memoria degli antenati e i culti africani nelle comunità del candomblé, hanno dato a milioni di persone, distrutte dalla deportazione, la possibilità di ritrovare se stesse a livello spirituale, psicologico e politico. I fedeli delle religioni afro-brasiliane non si sono arresi alla sofferenza e al dolore, ma li hanno superati con la coscienza della propria storia.
Con l’iniziazione al candomblé, i mali del singolo vengono ri-organizzati e ri-orientati a livello spirituale-energetico; la frequenza ai riti rafforza in loro la volontà di trasformarli in punti di partenza per un nuovo passo verso una maturazione personale.
Secondo la filosofia del candomblé la vita è sacra; il nostro corpo è un tempio, a cui viene trasmessa la forza dell’orixá e con cui partecipare alla vita nella vita, cioè dando valore alle cose e alle situazioni quotidiane.
Molta importanza è data ai problemi sociali. È sempre più frequente vedere le comunità organizzarsi intorno ai problemi dell’infanzia carente e bisognosa. Il progetto «Mobilitazione sociale», per esempio, organizzato da una delle figlie dell’Axé Opô Afonjá, pone al centro dell’esperienza religiosa l’impegno personale e la creazione di nuove prospettive a favore dei bambini della comunità e del quartiere. Tale progetto ha soprattutto lo scopo di aiutare i più giovani a riavvicinarsi alle radici africane, animandoli a frequentare la biblioteca e museo del terreiro, organizzando lezioni su cultura e storia afro-brasiliana, corsi di percussione, danza e capoeira (arte marziale d’origine angolana). Tali iniziative stimolano i bambini nell’approfondimendo e riappropriazione della propria cultura e li aiutano nel processo di auto-stima e apertura all’altro.
Non si pensi, infine, che il candomblé sia frequentato solo da afro-discendenti; sono molti tra la borghesia bianca e gli intellettuali coloro che frequentano i terreiros, abbagliati dalla bellezza di riti e alla ricerca di conforto, equilibrio ed energia.

Susanna Barbara




Felicita e ricchezza (ma fuori dal mondo)

Spuntano come funghi, aprendo le loro sedi negli spazi prima occupati da negozi. Hanno nomi lunghi e fantasiosi: «Chiesa internazionale della grazia di Dio», «Chiesa del vangelo quadrangolare», «Chiesa pentecostale del potere di Dio», «Chiesa battista del tabeacolo dello Spirito santo». Promettono felicità e ricchezza, ma soltanto con loro
e, soprattutto, fuori di questo mondo. A San Marco,
un quartiere povero di Salvador Bahia, abbiamo verificato
di persona la diffusione e la forza delle sètte cristiane.

Salvador Bahia – Il bairro São Marcos è conosciuto da tutti, perché ospita il più famoso (e costoso) ospedale dello stato: il São Rafael, diretta emanazione dell’istituto San Raffaele di Milano.
Vedere i solidi e modei edifici del nosocomio fa una qualche impressione, in quanto San Marco è, prima di tutto, una estesa favela di 200 mila abitanti. I numerosi tassisti che sostano vicino all’entrata confermano quanto si poteva immaginare: «L’ospedale gode di un’ottima fama, ma soltanto chi ha soldi può farsi curare qui dentro».
Siamo in compagnia di Fidéle Katsan Fodagni, giovane missionario comboniano del Togo. Per farci conoscere San Marco, Fidéle vuole percorrere a piedi la via che taglia in due il quartiere, partendo proprio dall’ospedale San Raffaele.
Il bairro è cresciuto su una serie di collinette. La strada, l’unica asfaltata, si snoda sulla cima di queste. Per vedere l’estensione e le condizioni della favela (in verità, a Salvador questo termine viene evitato), è sufficiente gettare lo sguardo oltre le case sorte lungo la strada. Agli occhi si presenta allora un ammasso disordinatissimo di casupole unifamiliari abbarbicate a un terreno scosceso e costruite con materiale di recupero.
Toati a camminare sulla via principale, accanto a un negozio notiamo una sorte di garage con la serranda azzurra alzata. È una chiesa, la Igreja pentecostal Deus é justiça. Una lavagna nera appoggiata al muro informa sugli orari delle cerimonie. Ci affacciamo sull’angusto locale. Ci sono una ventina di sedie di plastica bianca, simili a quelle dei bar. Un’anziana donna è intenta a rassettare il tavolo del celebrante, sul quale poggiano un grosso radioregistratore portatile e un vasetto di fiori. Le chiediamo se è possibile scambiare qualche parola con il pastore. Purtroppo, al momento risulta assente.
Proseguiamo allora la nostra passeggiata sulla via centrale del bairro São Marcos. Sopra una cancellata in ferro c’è l’insegna della «Chiesa del vangelo quadrangolare». È chiusa, ma un grande cartello a disegni colorati propaganda servizi e benefici. Proprio attaccata ad essa c’è un altro luogo di culto, la «Chiesa internazionale della grazia di Dio». Le serrande azzurrine sono alzate: questa chiesa è aperta. Il locale è ampio, ma completamente disadorno. Soltanto al centro è posto un tavolino attorno al quale siedono due persone di mezza età, un uomo e una donna. Ci vengono incontro sorridenti. Si presentano come obreiros. Lavorate in qualche fabbrica? «No, no. Siamo operai della Chiesa internazionale», rispondono all’unisono.

Stupiti dell’abbondanza dell’offerta religiosa, chiediamo a Fidéle: «Ma è così facile aprire una chiesa?».
«Non c’è problema – risponde il missionario -. Se una persona si alza al mattino con l’idea di fondare una sètta, lo può fare liberamente. È sufficiente che si procuri un locale». La conferma arriva dopo qualche centinaio di metri.
Quando arriviamo all’incrocio considerato la piazza di San Marco, immediatamente l’attenzione è attratta da un enorme capannone, un tempo forse adibito a supermercato. È sovrastato da una scritta rossa che recita Jesus Cristo é o Senhor e più sotto, in blu, Igreja universal do reino de Deus.
«La Chiesa universale – ci spiega Fidéle – è la sètta cristiana più grande del Brasile. Questa organizzazione ha acquistato, in tutto il paese, supermercati, sale cinematografiche e fabbriche e ne ha fatto i suoi luoghi di raduno».
Macedo, il fondatore, ha costruito un vero impero economico, che ora può disporre anche di un canale televisivo nazionale, la «Rede Record». Chiediamo al nostro accompagnatore da dove provengano tutti questi capitali. «I fedeli sono obbligati a finanziare la chiesa, ma molti sostengono che i soldi raccolti in questo modo non possono spiegare una simile potenza economica. Ci sarebbero anche vie di finanziamento più losche». Cosa predica la Chiesa universale di Macedo? «Naturalmente – risponde con un sorriso padre Fidéle – predica contro la chiesa cattolica. E poi insiste molto sulla figura di Satana».
Perché la gente cade nelle mani di queste organizzazioni? È un problema di mancanza di cultura e spirito critico? «Per me – risponde il missionario – il motivo principale è la povertà, la miseria. Quando delle persone semplici non hanno abbastanza denaro per poter vivere e non vedono soluzioni per l’esistenza, allora affidano le loro speranze all’aldilà. Quindi, seguono qualsiasi persona che prometta un futuro migliore. Ci sono sètte abilissime a fare il lavaggio del cervello».

Sul lato opposto alla «Chiesa universale del regno di Dio» e alla «Chiesa avventista del Settimo giorno», sorge il tempio della Assembleia de Deus. Scorgendo due persone al suo interno, decidiamo di entrare. È una sala lunga e stretta con i banchi disposti su due file, che si guardano. In fondo, a mo’ di altare, trova spazio un grande impianto musicale, circondato da mazzi di fiori freschi. Alle pareti e sul soffitto sono fissati numerosi ventilatori. Sui muri è dipinta la scritta «unidos por Cristo».
Le persone sono due ragazzi, poco più che ventenni. Si chiamano Jadel e Beto. Parlano volentieri: «Siamo disoccupati e allora veniamo qui ad aiutare la nostra chiesa». Fidéle, che veste bermuda e t-shirt e non ha certo l’aspetto di un prete, si presenta come missionario cattolico e chiede di parlare del rispettivo credo. I tre iniziano una discussione che si protrae per mezz’ora, cercando nella bibbia, che si passano di mano in mano, la conferma delle proprie affermazioni.

A San Marco ci sono più chiese che negozi. Nello spazio di tre chilometri abbiamo contato almeno una dozzina di sètte evangeliche: Igreja pentecostal Deus é justiça, Igreja do evangelio quadrangular, Igreja inteacional da graça de Deus, Igreja universal do reino de Deus, Templo adventista do 7.o dia, Assembleia de Deus, Igreja batista da proclamaçáo, Igreja pentecostal Deus é amor, Igreja batista tabeaculo do Espirito santo, Igreja pentecostal poder de Deus. Troppe per non dare credito a chi dice che, dietro questa proliferazione, non ci sia un business fatto sulle spalle della povera gente.
«Io, missionario cattolico – spiega Fidéle -, non avrei problemi ad accettare e a dialogare con le sètte, se queste promuovessero la vita…». Ma cosa vuol dire “promuovere la vita”? «Significa che una religione non deve essere alienante. Significa cercare di liberare la gente dalla povertà e dalla miseria».

Paolo Moiola




I supermercati della religione – Speciale BRASILE

Ogni anno la Chiesa cattolica perde 600 mila fedeli, che aderiscono a movimenti pentecostali. In genere si tratta di persone povere, che tuttavia vuotano il loro modestissimo portafoglio alla nuova «chiesa», che non fa politica. E si inchina al padrone vincente e conservatore.

Il turista inesperto o il missionario impreparato, che per la prima volta mette piede in Brasile, resta sconcertato dalla molteplicità dei movimenti religiosi in cui si imbatte.
Alcuni provengono dall’Europa, come lo Spiritismo kardeciano; altri dall’Asia, come il Seicho-no-ie, la Perfetta Libertà e gli Hare Krishna; altri dal Nordamerica, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i vari movimenti pentecostali e la Chiesa dell’unificazione, nata in Corea e approdata negli Stati Uniti col suo fondatore Moon.
Vi sono movimenti religiosi alternativi di carattere autoctono, cioè nati in Brasile, come le Chiese cattoliche apostoliche brasiliane, Santo Daime, União Espiritualista Seta Branca, Vale do Amanhecer. Esiste il mondo dei culti afrobrasiliani (candomblé, xangò, jurema, casa de Minas, macumba, quimbanda, umbanda): raccolgono un numero enorme di persone e affondano le radici in Africa.
Nel 1930 le statistiche affermavano che il 95% dei brasiliani era cattolico. Oggi, secondo il Calendario Atlante De Agostini 2000, i cattolici si sono ridotti al 70%.
Il presente articolo affronta solo il movimento più macroscopico, che cresce in tutti i paesi dell’America Latina con una forza d’urto impressionante: è il mondo dei pentecostali. Si calcola che sottragga ogni anno al cattolicesimo brasiliano circa 600 mila membri.

L’Evoluzione
dei pentecostali

Il pentecostalismo giunge in Brasile al principio del 1900 e, precisamente, a Belém come Assembleia de Deus e a São Paulo come Congregação Cristiana no Brasil. Esso però, fino al 1930, si sviluppa lentamente senza creare allarmismo.
Con l’industrializzazione del paese e l’immigrazione intea, il movimento incomincia a mettere radici soprattutto nella fascia più povera della gente: perde il carattere di religione straniera ed assume gli elementi culturali tipici dell’ambiente, rompendo con l’élite e la dicotomia, presente nella religione ufficiale, tra chi «sa» e chi «è ignorante».
Fra i nuovi adepti si nota un fattore costante: il devozionale. Però è avvenuta la seguente trasformazione: il mezzo di comunicazione col divino non è più un santo, ma la bibbia, che nelle mani di analfabeti può diventare una sorta di amuleto e talismano.
Oggi il Brasile conta almeno un centinaio di denominazioni pentecostali. I sociologi della religione le suddividono in due categorie.
n Le chiese pentecostali più antiche, come l’Assemblea di Dio e la Congregazione cristiana in Brasile, che si presentano con una forte identità di gruppo.
n Le chiese neo-pentecostali, come la Chiesa universale del regno di Dio, Deus é Amor, Graça de Deus, che sono piuttosto di tipo clientelare. Tra i membri non vi è una forte coesione. Di regola sorgono sotto l’influenza di un leader carismatico, danno molta importanza alle guarigioni e usano molto i mezzi di comunicazione sociale, come radio e televisione.
Questi gruppi appaiono come uno specchio della società dei consumi del nostro tempo. Alcuni sociologi, anziché considerarli «chiese», li presentano come «agenzie». Secondo la logica commerciale odiea, il «tempio» diviene una specie di supermercato, dove si esibiscono «prodotti religiosi» di vario tipo.

Tre movimenti
significativi

Oggi in Brasile tre sono i movimenti pentecostali significativi, che si caratterizzano per una forte espansione: Assemblea di Dio, Congregazione cristiana in Brasile e Chiesa universale del regno di Dio.
Assemblea di Dio. Gioia e spontaneità sono espresse con canti popolari; si promuovono lunghe adunanze di preghiera con glossolalia (fenomeno già legato ai movimenti messianici: consiste nel parlare lingue sconosciute in stato di trance). Questa «chiesa» propone una morale esigente: proibisce di fumare, bere, cadere nei vizi; stimola a darsi totalmente a Cristo e impegnarsi in una attività religiosa.
Nel luogo di culto non vi è una rigida separazione dei sessi; entrando o uscendo ci si saluta calorosamente e si frateizza. Tutti si impegnano nella costruzione del tempio e nella diffusione del movimento.
La predicazione non è monopolio di una sola persona, ma può essere fatta da chiunque si senta ispirato a prendere la parola.
È ormai notorio che alcuni membri di questa «chiesa» hanno collaborato alla stesura del Documento di Santa Fé (New Mexico – USA), redatto nel maggio 1980 da esperti del Partito repubblicano quale piattaforma elettorale del presidente americano Reagan. Nella proposta n. 3 del capitolo «Sovversione intea» si legge: «La politica estera latinoamericana deve incominciare ad affrontare la teologia della liberazione, per sapere come è utilizzata in America Latina dal clero che aderisce a questa corrente teologica».
La maggior parte dei membri dei movimenti pentecostali, fino a poco fa, era costituita da gente povera. Però negli ultimi anni notiamo una tendenza inversa. Per attirare le persone benestanti non si organizzano culti, ma pranzi e cene.
Nel Mensageiro da Paz, giugno 1986, organo mensile dell’Assemblea di Dio, leggiamo: «I pranzi hanno la forza di attrarre persone danarose che in nessun’altra circostanza hanno avuto modo di ascoltare il vangelo».
Congregazione Cristiana in Brasile. È la prima chiesa pentecostale: sorge nel 1910 nel quartiere «Bras» di São Paulo per opera di un italiano, Luigi Francescon, proveniente dagli Stati Uniti. Nel barrio si parla e si predica unicamente in italiano. Nonostante che Francescon cerchi di attirare i connazionali alla sua chiesa, questi si dimostrano refrattari.
A quell’epoca l’80% degli operai di São Paulo è costituito da stranieri; di questi, il 65% è italiano. Tale classe sociale ha un atteggiamento diametralmente opposto a Francescon, perché proviene da dure lotte sociali in Europa.
A differenza di tutte le altre chiese pentecostali, la Congregazione cristiana in Brasile non è caratterizzata da un forte impegno per il proselitismo; non si serve dei mezzi di comunicazione sociale e sono rarissime le pubblicazioni. Fatto sintomatico: il movimento non ha mai permesso che fosse pubblicata la vita del fondatore, sebbene sia ritenuto santo.
È una «chiesa» che non combatte né il cattolicesimo né lo spiritismo. Al termine del culto, non pratica il rituale di benedizioni di «cura divina», come accade invece in molte comunità pentecostali; né ricorre ad esorcismi per cacciare i demoni.
Si caratterizza per una rigida separazione dei sessi durante la celebrazione del culto ed è completamente estranea ad ogni impegno di carattere sociale.
Chiesa universale del regno di Dio. Nasce nella decade 1970 ad opera del pastore Edir Macedo, che si stacca dalla Casa da Benção e si proclama «vescovo». Essa, come altri movimenti neopentecostali, dà particolare importanza alla radio e televisione; inoltre pubblica un numero impressionante di libri, riviste e giornali. Gestisce in proprio una casa editrice e una televisione di notevoli proporzioni.
Il Vangelo
secondo Macedo

Uno dei tratti fondamentali della Chiesa universale del regno di Dio è il ricorso massiccio agli esorcismi. Il fondatore Macedo è convinto che sia la maniera più efficace per combattere il male. «Nostro compito – afferma Macedo – non è solo predicare che Gesù Cristo salva e battezza nello Spirito Santo, ma innanzitutto e soprattutto che egli libera le persone che sono oppresse dal diavolo e dai suoi angeli».
Nella chiesa pentecostale di Copacabana in Rio de Janeiro, ad esempio, il venerdì è dedicato in modo speciale ai «culti di liberazione». In tale giorno gli incontri sono sette a ore diverse; quello di mezzanotte è il più importante per ottenere la liberazione dal demonio.
Nel suo impegno di «liberazione» Macedo ha trovato i «capri espiatori»: sono i culti afrobrasiliani e lo Spiritismo kardeciano. Nel libro «Dei o demoni?» (nel 1993 era già alla 13ma edizione) si legge: «Se il popolo brasiliano tenesse gli occhi ben aperti e si rendesse conto della magia e stregoneria che vengono propagandate da candomblé, umbanda, quimbanda, dallo spiritismo kardecista e da altri movimenti che stanno distruggendo molte vite e famiglie, certamente saremmo un paese molto più sviluppato».
Tra gli avversari della Chiesa universale del regno di Dio figurano anche i cattolici. Ne è prova il gesto teatrale e provocatorio, compiuto da Von Helder (da non confondersi con il vescovo cattolico dom Helder), nei confronti di una immagine della Vergine Maria, presa a calci durante una trasmissione televisiva.
La «teologia della prosperità» è un altro tema fondamentale della Chiesa universale del regno di Dio. Macedo in «La vita in abbondanza» scrive: «Non avremo mai fede sufficiente nelle promesse di Dio per riuscire a possedere quello che desideriamo, fino a che le nostre labbra parleranno unicamente di sconfitte. Per il cristiano non esiste “non posso” e neppure “questo è difficile”. No, no e no. Tu puoi avere tutte le cose, se ne sei convinto. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4, 13) deve essere la nostra parola d’ordine».
«Prosperità» è l’argomento-chiave nelle riunioni di tutti i lunedì. Sono numerosi i templi in cui si realizza «la catena degli impresari». In simili riunioni si sottolinea con molta enfasi che «la prosperità» è un diritto di ogni cristiano. Per Macedo, essere cristiano significa essere figlio di Dio e coerede di Gesù Cristo. Questi, per eredità, è proprietario di tutte le cose che esistono sulla faccia della terra, essendo il re dell’universo. Ancora: «Dio non vuole che i suoi figli siano poveri e bisognosi». Essi sono «figli ricchi» di un «Padre ricco», perché «l’uomo fu posto sulla terra per condurre una vita nell’abbondanza. Adamo non aveva scarsità di acqua, di alimenti e non aveva bisogno di condurre sua moglie Eva dal medico. Essi godevano della perfezione di Dio, senza che gli mancasse nulla». Il paradiso terrestre in cui vivevano Adamo ed Eva non è perso del tutto. Esso è a disposizione di quanti accettano il «Gesù della Chiesa universale».
Frequentare un suo tempio significa assumere un impegno con Dio, entrare in alleanza con Lui, riprendere il cammino delle origini e ritornare nel seno della «famiglia della prosperità», nella quale vi è «una vita abbondante», garantita da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Secondo Macedo, l’«alleanza con Dio» deve essere intesa in questo senso: per mezzo di essa ciò che ci appartiene (vita, forza e denaro) passa in proprietà di Dio. E ciò che appartiene a Dio (benedizione, pace, prosperità, gioia) diventa proprietà dell’uomo.
Macedo non solo invita a pagare la decima, ma fa un passo avanti: oltre la decima, il fedele deve dare a Dio (cioè alla Chiesa universale del regno di Dio) tutte le cose preziose che possiede.
Nella società capitalista il denaro e le cose materiali sono le più importanti per la persona. Nell’offrire i propri beni a Dio, l’essere umano strappa, in un certo senso, le stesse sue viscere, soprattutto se offre tutto ciò che possiede. Però Macedo avverte: «Dio non vede i valori che una persona gli offre, vede invece quelli che restano nella borsa… È necessario dare anche ciò che non si vorrebbe. Il denaro, messo a frutto in una banca per realizzare un sogno futuro, questo sì che è importante e deve essere dato. Invece quel denaro che viene dato perché è superfluo, non ha valore né per il fedele e né tanto meno per Dio».
Occhio chiesa cattolica!

Un aspetto peculiare, nei movimenti pentecostali di data più antica, è l’attenzione alla persona: accoglienza calorosa di coloro che intervengono nel culto e possibilità di partecipazione come veri attori, sia nell’eseguire i canti sia nel prendere la parola durante la cerimonia.
Questo è un dato positivo e deve far riflettere i cattolici, ai quali la costituzione Lumen Gentium del Vaticano II e il documento di Puebla ricordano che la chiesa deve essere una comunità di comunione e partecipazione. Ciò che maggiormente dovrebbe preoccupare i cattolici non è la crescita dei templi pentecostali, ma l’atteggiamento di quanti vi entrano: lo fanno come se entrassero in un supermercato per acquistare beni di consumo. Preoccupa anche il loro disimpegno in campo sociale e politico.
Le comunità ecclesiali di base, che in Brasile sono una realtà consolante della Chiesa cattolica, hanno il potere di vaccinare i loro membri e di renderli guardinghi verso i metodi manipolatori praticati da numerosi movimenti pentecostali.
Moltissimi pentecostali sono poveri; ma le loro comunità, a differenza della Chiesa cattolica, non hanno mai fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Si ebbe un esempio chiarissimo nel nordest, al tempo delle Leghe contadine, quando parecchi fedeli pentecostali furono imprigionati, ma le loro chiese non si mossero in loro difesa.
In Brasile, nelle ultime elezioni politiche, vari movimenti recenti di indirizzo pentecostale, hanno buttato la maschera e si sono schierati apertamente a favore dell’ala politica conservatrice, il cui impegno non è affatto sulla linea della promozione delle classi povere.
E questo fa paura.

Pietro Canova




Sul fronte della liberazione

Alcuni vescovi sono noti anche al pubblico italiano, come Helder Camara, arcivescovo di Recife e «profeta dei poveri». Morì il 28 agosto1999 nella quasi indifferenza generale.
Il 10 agosto 1996 moriva anche Adriano Hipolito, vescovo di Nova Iguaçù. La sua azione pastorale si distinse per la difesa dei diritti umani, soprattutto durante gli anni della dittatura militare. In quell’epoca dom Adriano venne sequestrato, gli fu incendiata l’automobile e una bomba esplose nella cattedrale.
Significativa fu l’azione pastorale dello statunitense Mathias Schmidt, vescovo di Ruy Barbosa, morto d’infarto nel 1992. Era considerato uno dei più convinti difensori della scelta preferenziale dei poveri. Aveva anche promosso il collegamento tra le Comunità ecclesiali di base e i movimenti popolari dell’America Latina.
Luciano Mendes de Almeida, ex presidente della Conferenza episcopale, strenuo difensore dei bambini abbandonati e degli indios. Il 23 febbraio 1990 subì un incidente stradale «sospetto», che costò la vita a due religiosi. Il vescovo di Mariana proveniva da Belo Horizonte, dove aveva espresso la sua delusione per la decisione del governo di restringere a soli 2 milioni di ettari (contro i 9 fissati dalla magistratura) la superficie del territorio yanomami. Aveva accusato il presidente Saey di cedere alle pressioni di potenti gruppi economici interessati alle terre.
Monsignor Pedro Casaldaliga, spagnolo, è «il poeta della liberazione», insignito anche di premi. Ma l’interessato precisa che la sua persona non è importante; lo è, invece, la vita delle persone a cui viene sistematicamente impedito di vivere con dignità.
Un’altra figura emergente nel post-Concilio è il cardinale PAulo Evaristo As, ex arcivescovo di São Paulo. In una intervista su «Missioni Consolata» nel 1988 dichiarava: «Sono anche cittadino onorario di Pichete, meglio conosciuta come “la città delle vedove”, perché i loro mariti vi muoiono producendo bombe. No, il Brasile non ha bisogno di produrre e commerciare armi! Durante una trasmissione radiofonica il presidente Saey ha negato che il Brasile venda armi all’Iran ed Iraq; ebbene ha mentito. Il paese sta commettendo un atto immorale, fabbricando e vendendo bombe. Come vescovo, faccio una proposta a tutti i paesi: perché la produzione e vendita di armi non vengono sottoposte ad un referendum mondiale? Se fosse il popolo a giudicare, si arriverebbe alla pace mondiale in fretta».

N el campo teologico la produzione è ricca e varia. Ricordiamo fra gli altri:
– i fratelli Leonardo e Clodovis Boff: il primo ha scritto opere famose e controverse, come «Chiesa: carisma e potere»; il secondo si è occupato del problema metodologico della Teologia della liberazione in «Come fare teologia della liberazione»;
– Frei Betto affronta temi di spiritualità e pastorale; in dialogo con il mondo politico latinoamericano, è famoso per il volume «Fidel Castro: la mia fede»;
– José Oscar Beozzo, animatore degli studi storici sulla chiesa e sull’opera di evangelizzazione nel paese;
– Carlos Mesters, un protagonista del nuovo cammino biblico ed ecumenico della comunità cristiana;
– Josè Comblin, Ivone Gebara, Maria Clara Bingermer…

Francesco Beardi




Ascoltare il grido del povero – Speciale BRASILE

Il Concilio ecumenico
Vaticano II ha dato il «là» ad un coro maestoso,
a dispetto di qualche «stecca».
È partendo da questa immagine che accenniamo alla lunga e difficile «caminhada» della
chiesa brasiliana.
La voce più evangelica? Quella dei semplici.

«È questa… un’età in cui la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e di interi popoli poveri, che prendono consapevolezza nuova dei loro diritti… Un’età in cui la povertà di moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza di pochi…». Queste sono parole del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, durante la prima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II. Correva l’anno 1962.
Diversamente da quanto si può pensare, non è un teologo del Sud del mondo a pronunciare quelle espressioni, ma un significativo rappresentante della chiesa del Nord.
E proprio da Roma, centro della cattolicità, iniziamo il percorso della storia contemporanea della chiesa in Brasile. Strano inizio per una riflessione teologica che si farà conoscere per la sua originalità e che, con la Santa Sede, avrà anche seri motivi di incomprensione, se non di aperto scontro.

l’impatto
con i problemi sociali

Il Concilio ecumenico Vaticano II è nuovo nella sostanza e nella forma. Rompe una tradizione secondo la quale, almeno dal secolo XIII, i concili sono la sede privilegiata per affrontare i problemi della decadenza e riforma della chiesa.
Fin dal messaggio di apertura, papa Giovanni XXIII esplicita gli obiettivi speciali del Concilio: apertura al mondo moderno, unione dei cristiani e attenzione ai poveri. È veramente un evento ecumenico, universale, e guadagna nuovi attori: attori, in particolare, nell’America Latina.
Il Vaticano II vuole ridiscutere la risposta ideologica e pratica che la chiesa ha dato alla modeità. Per far questo ha bisogno del contributo di tutti: delle chiese del primo mondo sviluppato, di quelle del secondo mondo (che, all’epoca, vivono l’esperienza del «silenzio imposto»), ma anche di quelle del terzo mondo, che portano al tavolo della discussione i problemi del sottosviluppo. Le questioni sociali approdano a Roma, volenti o meno, grazie ai vescovi del Sud.
L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno già preso piede nell’emisfero nord, mentre in quello sud il cambiamento avverrà più tardi, imposto da regimi populisti e autoritari. È il caso dell’America Latina.
Però anche il contesto socio-ecclesiale latino-americano (che precede il Concilio) è diverso da quello occidentale: mentre, ad esempio, in Europa il cambiamento sociale è avvenuto in modo autonomo, in America Latina si ha una convergenza significativa tra mutamento sociale e rinnovamento ecclesiale.
L’America Latina è nella necessità di cambiare. La «pressione storica» obbliga i vescovi ad occuparsi di povertà e fame, che nella tradizione non sono temi dell’«agenda teologica».
Qui incomincia e prende forza la «novità brasiliana». Una novità che non è frutto di qualche teologo illuminato, ma è un prodotto specifico della realtà locale. Se, infatti, la chiesa europea negli anni ’60 è questionata dal problema «fede-scienza» ed entra in un processo di secolarizzazione, la chiesa brasiliana si confronta con il rapporto «fede-rivoluzione». E l’obiettivo è la liberazione.
In Europa la chiesa è sfidata teologicamente dall’ateismo (prodotto tipico della società modea) e dalla proclamazione della «morte di Dio». In Brasile (e, più in generale, in America Latina) la sfida teologica è rappresentata dal sottosviluppo, causa prima della «morte dell’uomo».

Pensare, volere e agire
cattolicamente

La chiesa brasiliana si interroga sulla «morte dell’uomo». Così facendo si rinnova.
Negli anni ’50 il rinnovamento si attua attraverso il coinvolgimento dei laici. L’Azione cattolica, fondata da Pio XI nel 1922 con l’obiettivo di preparare collaboratori laici della gerarchia all’evangelizzazione del mondo, arriva in Brasile già nel 1935; ma è solo nella decade ’50 che si modifica in Azione cattolica «specializzata». Si costituiscono «rami» giovanili e, per quanto riguarda gli adulti, c’è l’Azione cattolica operaia. Ai lavoratori e agli studenti, riuniti nell’Azione cattolica, la situazione sociale, politica ed ecclesiale del Brasile appare sempre più chiara.
All’inizio c’è l’appello dei vescovi, più preoccupati della loro istituzione che della partecipazione laicale; di fronte al «disordine» della devozione popolare, rispondono con la «romanizzazione» e con un «nuovo ordine» conforme alle nuove esigenze.
La parrocchia, convocando i laici obbedienti al parroco, si propone come il centro propulsore del nuovo ordine. «Dobbiamo essere presenti nelle realtà palpitanti che il mondo suscita. Presenti per realizzare integralmente il nuovo ordine, che è lo stesso ordine perenne della cristianità, riassunto nel programma ideale di Pio XII: pensare, volere, sentire, agire cattolicamente». È quanto si legge nella «Rivista ecclesiastica brasiliana» del 1941.
Ma, alla fine degli anni ’50, i laici nei vari rami di Azione cattolica non si sentono più rappresentati da questa visione e vogliono cambiare il paese reale che gli sta davanti. Anch’essi, insieme ad alcuni teologi e pastori più sensibili, obbligano in qualche maniera l’istituzione ecclesiale a cambiare: dall’«opzione per l’ordine» (nostalgia di un regime di cristianità che non c’è più) all’ «opzione per il progresso», che la modeità sta portando anche in Brasile.
A partire dagli anni ’60, il problema «sviluppo» diventa il tema principale nelle discussioni pastorali. Tema che i latino-americani – come abbiamo accennato – porteranno sul tavolo del Concilio.

In nome del progresso

La nozione di «progresso» appare già nel 1956 nella Dichiarazione dei vescovi del nordest. D’ora in avanti sarà la categoria principale, usata dall’istituzione ecclesiale, per leggere i problemi sociali.
Alla luce anche di importanti encicliche – Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963) e Populorum progressio (1967) -, la chiesa brasiliana, proprio per le caratteristiche sociali in cui vive, rompe i legami con la tradizione rappresentata dai fazendeiros. Finalmente, anche nelle zone rurali più intee, la parrocchia acquista una fisionomia autonoma, indipendente dai «padrini». Questi, però, non si sentono affatto rappresentati dalla «nuova morale» del progresso e dell’industrializzazione che si va espandendo.
L’opzione per il progresso è, nelle intenzioni dell’istituzione ecclesiastica, l’unica capace di spezzare le vecchie relazioni di dipendenza, soprattutto nel mondo rurale. Nello spirito conciliare (con buona pace della oligarchia locale), la chiesa brasiliana intende aderire al mondo moderno che parla di uguaglianza e diritti civili. Il progresso economico appare il treno su cui salire per costruire una società di uguali.
Il progresso non è scelto per motivi economici, bensì per la portata morale che sottornintende. In tale senso, i vescovi (con in testa Helder Camara, grande profeta della chiesa brasiliana negli anni a venire) inizialmente appoggiano il golpe militare del 1964.
I militari sono venuti – parole del segretario della Conferenza episcopale – per «superare l’ostacolo del sottosviluppo e mantenere la pace sociale». L’equivoco sta nel pensare che il mondo moderno, inteso dal regime, sia lo stesso che voglia l’uguaglianza e le pari opportunità. La chiesa, che si è liberata dal liberalismo oligarchico, si allea con lo stato autoritario fino ai primi anni ’70, quando l’alleanza diventa insostenibile.
Intanto la crociata contro il sottosviluppo si fa sempre più accesa. La chiesa vede un pullulare significativo di iniziative, prese dalle singole comunità cristiane, per combattere l’analfabetismo, ma anche per promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori. Si crea l’Azione cattolica rurale, sorge il Movimento di educazione di base, aumentano in modo impressionante le radio locali, impegnate nella coscientizzazione di base. Queste ed altre iniziative si avvalgono del patrocinio della chiesa, quando non ne sono un’emanazione.
Insomma il lavoro pastorale deve portare alla «terra promessa» del progresso, perché là finalmente ci sono diritti uguali per tutti. Solo quando il progresso mostrerà la sua faccia elitista e autoritaria, le comunità ecclesiali di periferia prenderanno il coraggio di denunciae la falsità.

La chiesa all’opposizione

Siamo negli anni ’70. Comincia una pagina di storia esaltante per la chiesa brasiliana, che si «converte».
Mentre si assiste al rafforzamento della dittatura militare (visibile anche nella prigionia di qualche vescovo, la tortura di alcuni sacerdoti e molti agenti di pastorale), la chiesa non può più tacere di fronte alle ingiustizie perpetrate dal governo. Se questo non frena lo sviluppo, non si può accettare – scrivono i vescovi del Maranhão nel 1973 – «come vero sviluppo ciò che non rispetta la persona». La concentrazione di terre in poche mani, favorita dalla politica agraria degli anni ’70, costituisce la ragione principale della critica che la chiesa muove al governo.
Sono le comunità cristiane dell’Amazzonia che prendono la parola di fronte ad una realtà sempre più inaccettabile.
Nel 1971 Pedro Casaldaliga, da poco vescovo di São Felix de Araguaia (Mato Grosso), in «Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e la marginalizzazione sociale», scrive: «Quello che abbiamo visto ci ha reso evidente l’iniquità del latifondo capitalista come prestruttura sociale radicalmente ingiusta e ci ha confermati nella chiara scelta di ripudiarlo». Nell’Acre, nel 1973 la chiesa elabora «Il catechismo della terra» nel quale, basandosi anche sulla legislazione vigente, si foiscono istruzioni per la difesa dei contadini e mezzadri.
L’attacco contro l’ingiustizia non è solo la parola isolata di qualche vescovo di periferia, ma diventa il problema dell’intera Conferenza episcopale. Nel 1976, in «Comunicazione pastorale al popolo di Dio», denuncia che «la cattiva distribuzione della terra in Brasile risale al tempo coloniale. Ma il problema si è accentuato negli ultimi anni come risultato degli incentivi fiscali alle grandi imprese agropecuarie».
È in questo modo che l’opzione evangelica per i poveri, caratteristica dell’azione pastorale della chiesa brasiliana nel post-concilio, diventa scelta politica: la chiesa rompe con lo stato autoritario. Al modello economico introdotto dai militari mancano, secondo i vescovi, i diritti riconosciuti a tutti, in particolare ai poveri. Allora la comunità cristiana fa sua la missione di difenderli e di lottare per la giustizia.
Nel 1980 i vescovi, riuniti in assemblea ordinaria, affermano: «Assumiamo l’impegno di denunciare le situazioni apertamente ingiuste e violente… riaffermiamo l’appoggio a iniziative giuste e alle organizzazioni dei lavoratori… sosteniamo gli sforzi del contadino per un’autentica riforma agraria».
Minacciata dalla repressione militare che investe sempre di più gente di chiesa, l’istituzione ecclesiastica cerca legittimazione non più appoggiandosi allo stato, autoritario e antidemocratico, ma nei poveri, negli esclusi da un progresso che arriva solo per una piccola casta.

Un pullulare
di esperienze

Il cambiamento di «luogo sociale» provoca anche un mutamento nell’organizzazione ecclesiale. Si apre, così, un’altra stagione feconda, non priva di ambiguità e limiti, per la storia della chiesa in Brasile. Secondo i teologi, è una rinascita, un modo nuovo di essere chiesa.
Sorgono le Comunità ecclesiali di base: recano una ventata di freschezza non solo alla chiesa brasiliana, ma anche a quella universale.
Insieme ad esse, si strutturano altre iniziative note come «pastorali sociali»: la Commissione pastorale della terra (Cpt) per la riforma agraria; il Consiglio indigenista missionario (Cimi) in risposta all’annoso problema indigeno; il Movimento nero (Mo) per i discendenti degli schiavi. Si organizza la pastorale operaia, quella della gioventù e dell’ambiente popolare; prende corpo l’impegno per i pescatori, la donna emarginata, ecc.
Si tratta di organismi non confinati nelle strutture ecclesiali, ma, per il lavoro che si prefiggono e il contesto sociale in cui operano, destinati (alcuni più di altri) a recitare un ruolo rilevante nella storia recente del Brasile.
La conquista della democrazia, raggiunta formalmente nel 1986, è avvenuta anche grazie a questi organismi ecclesiali.

tre esperienze
significative

Fra le numerose esperienze, che caratterizzano la chiesa brasiliana del post-Concilio, ne presentiamo tre: il Centro studi biblici, le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione.

Il Centro studi biblici (Cebi)
Il movimento biblico in Brasile (che fa da riferimento anche per la ricerca biblica latino-americana) si propone un nuovo modo di leggere la bibbia.
Dato il particolare contesto socio-politico che caratterizza la società brasiliana nel 1960-70, la parola di Dio viene letta secondo tre angoli: bibbia, realtà, comunità. In tale triangolo l’obiettivo non è interpretare la bibbia, ma, con la bibbia, interpretare la vita.
Questa novità metodologica reca in sé un modo diverso di usare la scienza esegetica. C’è la preoccupazione di cogliere il contesto del testo biblico: prima ancora di studiarlo, si cerca di conoscere i problemi della società in cui è nato quel testo. In tale modo appaiono con facilità le analogie con l’attualità. La bibbia feconda la vita dei suoi lettori e si evita la tentazione del fondamentalismo.
È così che, alla fine degli anni ’70, nasce il Cebi come centro ecumenico: riunisce cattolici e protestanti. Inizia le proprie attività con tre tipi di corsi biblici: di formazione (4 settimane a livello nazionale); di attualizzazione (2 settimane a livello regionale); di base (3-4 giorni a livello locale).
Il Cebi diventa un patrimonio importante dell’intera comunità cristiana, e non solo brasiliana. Lo prova il fatto che, pure in Italia, alcuni gruppi di lettura popolare della bibbia vi fanno riferimento.
Negli anni ’90 la lettura popolare della parola di Dio si rinnova, per rispondere alla sollecitazione di un approfondimento non tanto biblico, quanto delle fonti e della storia in cui vengono a trovarsi oggi i lettori della bibbia. Bisogna – dicono i teologi latino-americani – ritornare a «bere l’acqua del proprio pozzo».
È la riscoperta della dimensione mistica della «parola». Con questo, anche la dimensione ecumenica si fa più matura: leggere la bibbia a servizio della vita aiuta a relativizzare le differenze confessionali e riporta al centro il dialogo ecumenico. Il servizio alla vita (non all’istituzione) esige la conversione di tutti e crea un’unità profonda, senza per questo eliminare le diversità.

Le Comunità ecclesiali di base (Cebs)
Nascono nello spirito conciliare, allorché la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), ancora nel 1966, ne appoggia la formazione e strutturazione come importante proposta pastorale. A partire dal 1974, i vescovi le indicano come una delle priorità. Le stesse Conferenze episcopali latino-americane, a Medellin (1968) e specialmente a Puebla (1979), ne parlano in termini di assunzione istituzionale.
La chiesa cattolica conferisce alle Comunità di base un riconoscimento ufficiale quando, specie nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), ne parla come di «una speranza per la chiesa universale».
Dal 1975 gli incontri interecclesiali delle Cebs, in Brasile, sono – al dire di alcuni teologi – dei concili di base, al punto che la stessa Conferenza episcopale afferma: «le Cebs non sono un movimento, ma una nuova forma di essere chiesa».
Oggi le Comunità ecclesiali di base non sembrano vivere più con la vivacità degli inizi, quando la loro dimensione religiosa e politica era così evidente da essere temuta e citata persino dai rapporti di geopolitica statunitensi. Tuttavia restano un’eredità ecclesiologica da annoverare tra i contributi più originali della chiesa brasiliana contemporanea.

La Teologia della liberazione (Tdl)
È doveroso ricordare la riflessione teologica che ha permesso e matura le esperienze citate. Ci riferiamo alla Teologia della liberazione. È un fenomeno che va al di là della chiesa brasiliana, ma che in essa trova una delle protagoniste della sua ideazione e realizzazione.
Anche la Teologia della liberazione non nasce per caso, ma è frutto di un processo storico. Si possono distinguere tre fasi: la preparazione (1962-68), la formulazione (1968-’75), la sistematizzazione (dal 1976).
La Tdl nasce da «un’indignazione etica di fronte alla povertà e all’emarginazione delle masse»: così il teologo Leonardo Boff. Però fin dall’inizio, essa non si pensa come la teologia politica europea, bensì come un nuovo modo di fare teologia. Il suo problema non è un «oggetto specifico» (fosse anche la povertà), ma un «orizzonte» significativo per il pensiero teologico. Da una teologia, quale funzione critica dell’azione pastorale, si vuole passare ad una teologia quale riflessione critica della realtà sociale.
Il concetto di liberazione serve, meglio di altri, ad indicare il fine del pensare e dell’agire ecclesiale. Vegliando sulla teologia per non farla divenire una semplice branchia delle scienze sociali, la Tdl rinnova la riflessione cristologica ed ecclesiologica.
Presentando la figura di Gesù, soprattutto come liberatore, la cristologia evidenzia il primato dell’essere antropologico, utopico, critico e sociale… Spostando l’interpretazione della chiesa, non più ad intra ma ad extra, l’ecclesiologia che ne deriva si preoccupa dello sviluppo, della giustizia, ecc. Un’ecclesiologia che si confronta con la propria efficacia storica, o meno, e che misura i propri risultati in rapporto al cambiamento della società.
Il che è anche discutibile.

E c’è dell’altro…

La chiesa brasiliana del dopo-Vaticano II è un dono alla chiesa universale; un dono reso più ricco dagli incontri dell’episcopato latino-americano a Medellin (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992).
Ma non è tutto. Se siamo disposti a guardare extra muros ecclesiali, incontreremo altre novità.
C’è un complesso mondo religioso (sciamanismo amazzonico, teologia e ritualità afro, religiosità popolare), che ha ancora molto da dire e offrire alla vita religiosa di tutti. Si tratta di una ricchezza che, spesso, non appare nei documenti ufficiali; eppure è parte significativa della vita spirituale e materiale di tanti brasiliani.
Un campo di ricerca ancora aperto è quello che investe la religiosità popolare: qui si balbetta appena qualche ipotesi. Non si può fare un resoconto della vita cristiana e, più in generale, religiosa del Brasile senza, almeno, ricordare il patrimonio dell’esperienza popolare.
Se esiste una teologia erudita, razionale ed ufficiale, c’è pure un pensiero teologico popolare con un’altra razionalità. Ci riferiamo al complesso mondo religioso dell’uomo e della donna brasiliani. Vi si incontra un pensiero sincretico, che non ubbidisce al «principio di identità» (proprio del filosofare occidentale), ma al «principio di partecipazione». Non esclude il «tuo», perché diverso dal «mio», ma lo incorpora, proprio perché differente.
Questa è una logica non ancora del tutto esplicitata dagli studi accademici: la logica della vita, dell’emotività, del simbolo, della simultaneità; si contrappone alla logica della ragione, della forma, della linearità. La stessa Teologia della liberazione, almeno nella sua versione ufficiale, si muove su una logica distante da quella popolare, pur volendo e avendo in mente il popolo.

Lo Spirito soffia dove vuole: anche là dove le illuminazioni teologiche non arrivano, l’organizzazione ecclesiastica è precaria e le conferenze non si fanno.
Alla comunità universale dei credenti, quella brasiliana offre qualcosa di autenticamente evangelico. Se ascoltata (ma non inquadrata), controllata e anche illuminata, la fede dei semplici è un grande contributo per costruire un’alternativa. O soltanto per continuare il cammino verso il Regno.

Marco dal Corso




La croce, con tantissimi poveri cristi – Speciale BRASILE

Dall’alto del Corcovado

Inaugurata nel 1931 come segno
della lotta contro il comunismo,
la mastodontica statua del Redentore,
dall’alto della collina del Corcovado,
domina Rio de Janeiro e l’intero Brasile.
Un simbolo, ma non solo.

Una cosa è certa: la chiesa del Brasile non può passare inosservata, con 119 milioni di abitanti che si dichiarano cattolici.
«La storia del Brasile mostra una chiesa identificata con la vita del popolo. Essa è stata presente in maniera decisiva in ogni momento, ma soprattutto nella vita quotidiana, umile e oscura»: hanno scritto i vescovi del Brasile nel 1972, in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza.
Non è sempre stato così. E tutto è cominciato 500 anni fa.

Lenti e non facili inizi

22 aprile 1500. Una spedizione portoghese, guidata da Pedro Alvares Cabral, sbarca sulle coste di un paese sconosciuto, battezzato «Vera Cruz». Ma la terra ha già i suoi «proprietari»: 5-6 milioni di indios.
Pochi giorni dopo, padre Henrique da Coimbra, francescano, celebra la prima messa e pianta la croce (per ricordare il gesto, il 27 marzo 1999 Giovanni Paolo II benedisse una riproduzione della croce, che percorse l’intero Brasile).
Insieme alla colonizzazione, inizia così l’evangelizzazione, che assume caratteristiche particolari. La più evidente è un «ritardo brasiliano» (sia nell’organizzazione ecclesiastica, sia nell’annuncio missionario), poiché per tutta la prima metà del 1500 il Brasile è una «colonia di riserva» del Portogallo. Non esiste né un chiaro progetto di dominazione, né una sistematica azione dei missionari. Il cristianesimo penetra lentamente attraverso vari cicli.
Il 1551 è importante: il papa nomina il re Giovanni III e i suoi successori «grandi maestri dell’ordine di Cristo», conferendo loro la responsabilità di propagare la fede, nominare i vescovi, raccogliere fondi per la chiesa, sorvegliare i tribunali ecclesiastici. Il 25 febbraio, con la bolla Super specula, Giulio III erige la prima diocesi, São Salvador de Bahia, con il vescovo Pedro Sardinha.
Questi non è all’altezza della situazione e finisce divorato dagli indios nel 1556. Ha avuto pure gravi contrasti con i gesuiti. Costoro hanno metodi missionari un po’ tolleranti; il vescovo, convinto dell’assoluta negatività dei culti locali (nonché della superiorità portoghese), li obbliga a modificare il loro stile.
Cresce intanto lo scontro tra indigeni e coloni, sempre più avidi di terre e di lavoratori per le piantagioni. Gli indios fuggono verso l’interno, aiutati dai gesuiti che, per proteggerli, creano speciali aldeias (villaggi).
Il villaggio è una «repubblica indigena»: ottiene un’autonomia quasi assoluta e giunge ad avere anche oltre 10 mila persone. Separati dai centri portoghesi, i villaggi degli indios mirano a far rispettare la loro libertà, mutae il nomadismo, evitare la presenza «scandalosa» dei colonizzatori, promuovere lo sviluppo globale.
I missionari trovano non poche difficoltà nell’evangelizzare gli indigeni, radicati anche nel cannibalismo. Simpatico è l’incontro tra un gesuita e una vecchia india, prossima a morire. Dopo averla battezzata, il padre le chiede se desidera qualcosa. «Se ti portassi dello zucchero o saporiti frutti di mare, li mangeresti?» le chiese. «Ah! – risponde la convertita – Il mio stomaco rifiuta ogni cibo. C’è solo una cosa che potrei toccare: se avessi la mano di un tenero bimbo tupuya, potrei piluccarne le piccole ossa; ma non c’è nessuno che vada ad uccidee per me!»…
Per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivano anche schiavi importati dall’Africa. Si calcola che, dal 1500 al 1852 (anno in cui finì la tratta), siano stati introdotti in Brasile 3 milioni e mezzo di schiavi. Proprio nelle piantagioni si diffonde il primo cristianesimo.
Il problema degli schiavi non attira la giusta attenzione evangelizzatrice e liberatrice. I gesuiti tentano, ove possibile, di risparmiare le sofferenze agli indios, ma non ai neri, che sono abbandonati a se stessi.
In ogni piantagione c’è una cappella: ma, anziché simbolo di riscatto, diventa segno obbrobrioso dell’ordine imposto dal padrone. È lui che si sceglie il cappellano, cui spetta celebrare i sacramenti e sedare i conflitti. L’unico controllo è la visita sporadica di qualche missionario. In tale occasione cappellano e proprietario ricevono l’ospite con onore, perché si convinca che la fede viene praticata e… tolga subito il disturbo.
gesuiti all’assalto
Nel 1576 la diocesi di São Salvador viene divisa, dando origine alla prelatura di Rio de Janeiro. Solo nel 1745 (quasi due secoli dopo) sorgeranno altre due diocesi: Mariana e São Paulo. Nel 1822, anno dell’indipendenza, il Brasile conta appena un’arcidiocesi, sei diocesi e due prelature, per 4 milioni di abitanti.
Ciò è una conseguenza del «patronato», diritto che la Santa Sede ha concesso al Portogallo nel 1493, grazie al quale lo stato è responsabile dell’evangelizzazione nei territori non europei conquistati. Attraverso la Mesa de Consciencia e Ordens (organismo creato nel 1532), si decide la creazione di parrocchie e diocesi, l’installazione di ordini religiosi, la fondazione di conventi. Alla Santa Sede rimane solo la conferma delle nomine episcopali.
L’azione pastorale ha i suoi protagonisti negli ordini religiosi, sostituiti dal clero secolare alla fine del xviii secolo: primi i francescani, seguiti da gesuiti (1549), benedettini (1582), carmelitani (1584) e cappuccini (1612). La maggioranza è portoghese, ma non mancano spagnoli, francesi e italiani.
Sono specialmente i gesuiti a porre le fondamenta delle grandi città, aprire scuole, costruire chiese, ponti, strade e… versare il proprio sangue, come i fratelli Pierre Correa e Jean de Souza, primi martiri brasiliani.
Tre figli di Sant’Ignazio rimangono memorabili nella storia del Brasile: Manoel de Nobrega (capo-spedizione del primo gruppo arrivato nel paese), José de Anchieta e Antonio de Vieira.
In Brasile il 9 giugno è la giornata nazionale dell’educazione ed è questa la data di morte di Anchieta (1597), definito «il primo umanista dell’America e il primo americano dell’umanità». Più discusso è Vieira (1608-1697), in cui si mescolano abilità politica (fu ambasciatore in vari paesi), passione in difesa degli indios (per cui fu rispedito in patria), visioni profetiche troppo in favore del re Giovanni iv e gaffe di fronte alla schiavitù nera.
La lotta antischiavista dura 200 anni. I gesuiti si scontrano con fazendeiros e cercatori di schiavi; sono sostenuti anche dalla corte portoghese, che però è distante; per cui le sentenze, boicottate dalle autorità locali, non sempre raggiungono lo scopo. Nel 1640 la lettura pubblica della bolla di papa Urbano (che vieta il traffico di schiavi indios) provoca tumulti a Rio de Janeiro, Santos e São Paulo. I gesuiti vengono espulsi da São Paulo.
È l’anticipo della cacciata dall’intero Brasile nel 1759: 428 gesuiti lasceranno parrocchie e collegi, causando un tonfo alla chiesa. Ristagna la vita religiosa, gli indios si vedono privati dei loro apostoli, riprende vigore lo schiavismo. Oltre alle autorità civili, anche il clero secolare e gli altri ordini non sopportano tanto i gesuiti, perché sono molto ricchi, hanno troppi privilegi e possono appellarsi a Roma e Lisbona.
Uno storico afferma che «senza i gesuiti, la storia coloniale non sarebbe nient’altro che una catena di atrocità senza nome» (Joaquim Nabuco). Ma c’è chi li accusa di aver ridotto gli indios «a regime di collegio, tenuto da preti… in cui andavano distrutti ogni spirito vitale, freschezza e spontaneità» (Gilberto Freyre).
Facendo un bilancio, la «prima evangelizzazione» è contrassegnata da ombre e luci. Dopo 250 anni di pastorale, non esiste alcun prete indigeno e il cristianesimo non è assimilato dalla popolazione. Si è invece diffusa una fede devozionale. Meticci e neri elaborano propri sincretismi religiosi, accogliendo elementi del messaggio evangelico, interpretando a loro modo i contenuti ricevuti e trovandovi conforto e speranza. La gente semplice si identifica con il Crocifisso e, guardando «all’uomo dei dolori», trova inesauribili risorse per resistere a violenze e umiliazioni.

una chiesa «impacciata»
Nel 1822 i grandi proprietari inducono Pedro i, principe ereditario del Portogallo, a proclamarsi imperatore del Brasile indipendente. Lisbona lo accetta. La Santa Sede riconosce al nuovo imperatore il diritto di «patronato».
Al sovrano si chiede persino il permesso di ordinare i preti. E dom Pedro comanda: «Giudicando che non si deve, senza necessità, aumentare il numero dei ministri della chiesa e rubare all’impero braccia che lo possano difendere contro i nemici, ordina che non si ammetta per ora alcuna persona agli ordini sacri, senza licenza previa dello stesso augustissimo signore».
È un fatto assai negativo. In Brasile nel 1872 si conta solo un migliaio di preti, concentrati specialmente nelle città della costa; all’interno, un sacerdote dirige anche 20 e più parrocchie, sparse per migliaia e migliaia di chilometri quadrati!
Sotto il regno di Pedro ii, la chiesa ha delle scaramucce con il governo. Una parte del clero si oppone alla monarchia. È il caso di Diego Feijao: partecipa alla rivoluzione liberale del 1824, viene arrestato e deportato. La rivoluzione produce anche il primo sacerdote martire repubblicano: fra’ Joaquim Caneca. Né si può dimenticare l’influenza della massoneria nella «questione religiosa». L’epilogo è il processo, la condanna e la prigionia dei vescovi di Olinda e Pará, rei di aver difeso i diritti e la libertà della chiesa.
Con Pedro II inizia la «seconda evangelizzazione» del Brasile. I vescovi, insoddisfatti della situazione, riformano le comunità secondo uno stile tradizionalista: origine divina di ogni potere, alleanza fra trono e altare, primato dello spirituale sul sociale, lotta contro le forze sataniche (come la massoneria).
Per attuare il progetto, ci si appoggia a congregazioni straniere: ai lazzaristi si affida la formazione dei preti; ruoli importanti hanno anche cappuccini e gesuiti (rientrati nel 1846, dopo l’espulsione). Nel 1860 i francescani evangelizzano gli indios del Rio delle Amazzoni, mentre i cappuccini operano tra le tribù della costa orientale.
Spazio anche per le suore: le figlie della carità, le francescane olandesi, le suore di San Giuseppe…
Gli agenti ecclesiali dedicano attenzione particolare ai fedeli di provenienza europea (poveri immigrati che sostituiscono, nel lavoro, gli schiavi), per proteggerli dai sincretismi religiosi. Così il «nuovo cristianesimo» trova il suo habitat nelle aree di recente immigrazione: le regioni meridionali, le cittadine sorte grazie allo sviluppo economico.
Emerge una fede abbastanza disincarnata: nessun impegno sociale, ma sopportazione e buon esempio; molta devozione personale e accettazione rassegnata del proprio stato quale strumento per la salvezza dell’anima.
ripensamenti…

Nel 1889 cade la monarchia e viene proclamata la «Repubblica degli Stati Uniti del Brasile».
La nuova costituzione garantisce alla chiesa libertà e diritto di proprietà. Tuttavia, per la legge della «separazione», è vietato l’insegnamento della religione nelle scuole, è riconosciuto solo il matrimonio civile e vengono secolarizzati i monasteri. I vescovi protestano. Però alcuni si rendono conto che la «separazione» è una «liberazione» dalla protezione-oppressione dello stato.
Nel 1922 il cattolicesimo ritorna religione di stato. Precedentemente, nel 1916, Sebastião Leme, vescovo di Rio de Janeiro, aveva scritto che il Brasile è «la maggiore nazione cattolica del mondo, un paese essenzialmente cattolico». Però la religione è mal compresa. Occorre pertanto evangelizzare ogni ambiente e «cattolicizzare» le diverse realtà.
Nascono diverse opere: l’università cattolica; il Centro dom Vital come strumento di cristianizzazione dell’intelligentia brasiliana; A Ordem, la rivista del pensiero cattolico; l’Azione cattolica; le pasque collettive; la Lega elettorale cattolica; la lotta per una legislazione contro il divorzio e la stipulazione di relazioni diplomatiche con la Russia…
Alle prese con la crisi economica, il presidente-dittatore Vargas cerca l’appoggio dei vescovi. Questi fanno eleggere laici fidati nell’assemblea costituente, intervenendo nella stesura del codice civile e penale. Lo stato concede privilegi alla chiesa, ottenendo in compenso il silenzio di fronte al regime autoritario.
Ma, dagli anni ’40, la chiesa ripensa se stessa partendo dalla promozione umana, pur non osando dichiarare che è il sistema da ribaltare: però incomincia a denunciare le disumane condizioni dei contadini, appoggia le aperture riformiste, ma si oppone alle leghe contadine di ispirazione marxista.
Si discute di riforma agraria. Il 10 settembre 1950 il vescovo Inocêncio Engelke pubblica una lettera pastorale di vasta eco: «Con noi, senza di noi o contro di noi si farà la riforma agraria».
I vescovi sentono il bisogno di progettare insieme: tanto che già nel 1952 nasce la Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb), più di dieci anni prima del Concilio! Anche la pratica pastorale incomincia a mutare attraverso sperimentazioni innovatrici.
Nel 1948 il movimento di Natal (nordest) avvia una pastorale fondata su équipes di laici volontari, per combattere la miseria della popolazione e con precisi obiettivi: formazione religiosa dei fedeli, alfabetizzazione degli adulti, trasformazione delle strutture socio-economiche. Significativa è l’esperienza di catechesi di Barra di Piaui (affidata a laici) e di Nizia Floresta, dove si affida a suore la responsabilità di alcune comunità.
Dal 1959 ci si interessa ai sindacati rurali e nel 1960 il Fronte nazionale del lavoro inaugura un nuovo sindacato, ispirato da cristiani nel contesto operaio urbano. Nel 1961 nasce il Meb (Movimento di educazione di base) per l’alfabetizzazione e la formazione delle masse contadine: ottiene uno straordinario successo grazie all’uso della pedagogia liberatrice di Paulo Freire.

La miccia è ormai innescata. Siamo alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. È l’evento che avrebbe dato il via ad una rivoluzione nella chiesa del Brasile, con la nascita della comunità di base, la teologia della liberazione, la scelta preferenziale per i poveri.
E questa è tutta una storia nuova.

Giacomo Mazzotti




Brasilia, provincia di Washington Speciale – BRASILE

Se si guarda alle statistiche, il Brasile si colloca tra i primi
10 paesi più industrializzati del mondo. Ma la realtà quotidiana parla di disoccupazione, sottoccupazione, povertà diffusa, violenza crescente. Il presidente Cardoso e il ministro delle finanze
Pedro Malan sono di casa nella sede del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), a Washington. I più critici
(tra cui i vescovi) parlano di ricolonizzazione e sottomissione
del Brasile. Difficile non pensare male quando si vede
il «Banco central» affidato a Arminio Fraga Neto, ex consigliere
di George Soros, ovvero il finanziere statunitense universalmente noto per essere il più grande speculatore del mondo.

Atanagildo de Deus lavora in una fabbrica di San Paolo che produce parti per l’industria automobilistica. Da anni egli vive nella paura di perdere il posto di lavoro, come accaduto a migliaia di altri operai. Nel distretto denominato «Grande San Paolo», il maggior polo industriale ed economico del paese, l’indice ufficiale di disoccupazione è del 18,3%, con 1,6 milioni di lavoratori per la strada.
Nelle settimane successive al crollo del real (13 gennaio 1999), alcune società inteazionali, tra cui Ford, General Motors e Volkswagen, hanno annunciato riduzioni d’attività e licenziamenti. Nel 1999 la Fiat (25.000 dipendenti e il 33,3% della produzione nazionale di automobili) ha prodotto mezzo milione di auto in meno rispetto al 1998.
Tuttavia, la riduzione dei livelli occupazionali nell’industria (e nel terziario) era iniziata ben prima dell’ultima crisi. Le ragioni stanno nelle spinte dirompenti della globalizzazione neoliberista e nel progresso tecnologico.
Elizabeth, moglie di Atanagildo, era impiegata alla Petrobras, la compagnia statale del petrolio. Pur non essendo stata ancora privatizzata, la società ha ridotto il numero dei dipendenti da 68 mila a 41 mila. Anche lei ha perso il posto.
Dopo aver accompagnato i due figli a scuola, Elizabeth si è messa in fila sul marciapiede antistante la filiale della banca Abn-Amro. Deve rinegoziare il prestito (in dollari), sottoscritto un paio di anni fa per l’acquisto dell’automobile.
Mentre attende di entrare, Elizabeth sfoglia il Folha de S.Paulo, il principale quotidiano del paese che non è tenero col presidente. Accanto a lei passano lustrascarpe e venditori di ogni genere d’articolo.
Più di 35 milioni di brasiliani lavorano nella cosiddetta «economia informale». Questa comprende una miriade di attività lavorative non ufficiali (o sommerse): servizi domestici, manodopera edile saltuaria, raccolta di rifiuti (latta, carta, ecc.) nei bidoni della spazzatura, vendita ambulante per le strade o sugli autobus. In ogni caso, si tratta di occupazioni assolutamente precarie.
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo e Elizabeth sono fortunati rispetto alla maggioranza dei brasiliani. Portano ancora a casa uno stipendio, che consente di sopravvivere e pagare il mutuo dell’auto. Non si possono più permettere di visitare gli amici a Salvador Bahia, ma i loro due figli possono frequentare la scuola.

CARDOSO,
UN PRESIDENTE MODELLO?

Feando Henrique Cardoso è passato dalla relativa popolarità del primo mandato presidenziale (quello della stabilizzazione monetaria) all’enorme impopolarità del secondo (caratterizzato dalla recessione). Sia nel primo che nel secondo periodo il presidente brasiliano si è dato un comune denominatore: il rispetto incondizionato delle ricette neoliberiste e, dunque, l’azione benefica del mercato, la libera circolazione dei capitali finanziari, le privatizzazioni.
Oggi il Brasile si presenta con un’unica, enorme frattura sociale. Da una parte, le élites storiche e quelle nuove, divenute ancora più ricche con le privatizzazioni e la speculazione finanziaria. Dall’altra, la grande massa dei brasiliani poveri e impoveriti (quelli provenienti dalla ex classe media). Al riguardo le statistiche non sono univoche, ma tutte indicano i poveri ben oltre la soglia del 50% della popolazione.
A conti fatti, cosa ha fatto il tanto osannato Cardoso? Ha lavorato con grande diligenza ed abnegazione per applicare alla lettera i dettami neoliberali del Fondo monetario internazionale. Ha deregolamentato l’economia, smantellato buona parte dello stato sociale, disarticolato l’industria nazionale, privatizzato quasi tutte le imprese dello stato, aperto indiscriminatamente l’economia brasiliana al mercato mondiale. Tutto ciò ha fatto salire al 20% il tasso di disoccupazione effettivo.
Per cercare di capire come si è arrivati a questa situazione, vale forse la pena di ripercorrere gli eventi economici e politici che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

IL DOMINIO
DELL’ECONOMIA MONETARIA

È l’estate del 1994 quando il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso sale alla ribalta per il varo di un’audace politica monetaria. Il suo «piano real» (dal nome della nuova moneta brasiliana alla quale viene attribuita la parità con il dollaro) è un programma neoliberale, il cui obiettivo è la lotta all’inflazione (che raggiunge il 900% annuo) e la stabilizzazione della moneta. Il piano ha successo sull’inflazione e consente a Cardoso di guadagnarsi la presidenza, ma affossa il paese reale e le classi popolari.
Una delle misure intraprese è infatti l’incremento dei tassi d’interesse, per richiamare i capitali stranieri. Ma ciò comporta conseguenze negative per le imprese brasiliane, impossibilitate a contrarre prestiti e di conseguenza costrette a licenziare personale o a vendere l’attività. Nel contempo, sul mercato interno si affermano i beni importati che scalzano quelli prodotti internamente e fanno lievitare il deficit della bilancia commerciale.
A ciò va aggiunto un altro effetto perverso: l’aumento dei tassi produce automaticamente un aumento del debito pubblico interno.
Nel 1997 Cardoso ottiene le modifiche alla costituzione che gli permettono di essere rieletto. Poi, dà inizio alla sua seconda campagna presidenziale con il consistente sostegno finanziario di banche, imprese e altri grandi organismi verso cui il suo governo si è mostrato tanto generoso. Per non parlare del plateale appoggio dei mezzi di comunicazione. Nonostante queste premesse, il 4 ottobre 1998 Cardoso viene rieletto con un deludente 52% dei suffragi.
Poche settimane dopo la rielezione, esce un comunicato della Conferenza dei vescovi, secondo il quale sarebbe necessario «opporre resistenza alle esigenze imposte al Brasile da organizzazioni inteazionali, più preoccupate della salute delle Borse che della salute del popolo».
Il 13 novembre 1999 queste stesse organizzazioni (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) accordano al Brasile un maxi-prestito di 41 miliardi di dollari.
Gli eventi si susseguono e la realtà supera di gran lunga le previsioni più negative. Il 13 gennaio il real perde il 40% del proprio valore. Il Brasile precipita nella recessione. E nelle avide mani del capitale straniero.
All’inizio di febbraio viene defenestrato il governatore della Banca centrale, Francisco Lopes, nominato da appena due settimane. A presiedere l’istituto di emissione brasiliano viene posto Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros (!), il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

PRIVATIZZAZIONI E RICOLONIZZAZIONE

La ricolonizzazione del Brasile avviene attraverso i capitali esteri attirati nel paese. Inizialmente, sono richiamati dai tassi d’interesse molto elevati; si tratta, dunque, di capitali volatili e speculativi. In seguito, arrivano per acquistare le attività produttive. Tra il 1994 e il 1997, ben 595 grandi imprese passano da mani brasiliane a mani inteazionali.
Poi, all’inizio del 1999, la svalutazione del real completa l’opera, richiamando il capitale straniero che arriva in Brasile per rilevare a prezzi stracciati le imprese in difficoltà o in fallimento.
Inoltre, la svalutazione del real fa crollare il valore contabile delle attività pubbliche, accelerandone la privatizzazione a condizioni particolarmente vantaggiose per gli investitori esteri o una ristrettissima élite di capitalisti brasiliani. In ogni caso, compagnie statali, costruite con lo sforzo collettivo di tutta la società brasiliana, sono svendute a tutto vantaggio dei profitti privati. Così, tanto per citare qualche nome, vengono privatizzate la rete Telebras, la società elettrica di Rio, le autostrade, la telefonia mobile (è arrivata anche l’italiana Tim), le officine ferroviarie, la compagnia mineraria «Vale do Rio Doce» (la più grande del mondo nel comparto del ferro).
«Continuando su questa strada – ci ha detto lo scorso anno Lula, leader del “Partito dei lavoratori” -, ci troveremo a non avere più patrimonio pubblico».
I brasiliani fanno sentire la loro protesta. Ma né la marcia dei centomila (agosto 1999) né la manifestazione del «grido degli esclusi» (settembre 1999) intaccano la sicumera del presidente-sociologo. «Io non ho in testa il calendario delle manifestazioni – commenta Cardoso -. Ogni anno è la stessa cosa: marce, proteste e non so che altro. Questi pensano di scaldare la società e di portarla alla rivoluzione. Sono soltanto degli anacronisti sobillati dall’opposizione di sinistra». Con sarcasmo e disprezzo l’entourage del presidente conia anche un neologismo per etichettare gli avversari: neo-bobos, i «nuovi scemi».
In perfetto accordo con il governo è Paulo Coelho: «La nostra economia funzionava appoggiandosi soltanto sul 25 per cento dei 164 milioni di brasiliani. Da allora, i responsabili politici ed economici fanno di tutto affinché i miei concittadini entrino in quel processo di espansione dei consumi che contribuisce a rendere grande e prospera una nazione. L’emergenza di una classe media farà del nostro paese un Eldorado all’altezza d’Europa e Stati Uniti. Ce ne stiamo occupando e ci riusciremo». L’ottimismo di Coelho è eccessivo e un po’ sospetto. Forse lo scrittore di Rio è troppo abituato ai temi esoterici e fantastici (sviluppati nei suoi libri) per analizzare la realtà.
Come invece fa la teologa Ivone Gebara, che lavora vicino a Recife: «Il Brasile – afferma – è allo stesso tempo primo, terzo e quarto mondo. Abbiamo tutte le condizioni della tecnologia più avanzata e, al tempo stesso, gente affamata, analfabeta e un sistema sanitario e di educazione pubblica tra i peggiori del pianeta. C’è chi chiama il Brasile “Belgindia”, perché ha un primo mondo come il Belgio e il terzo o il quarto mondo come certe zone dell’India».

CATTIVI CONSIGLIERI

La chiesa brasiliana è durissima verso la politica economica del governo Cardoso. «Le misure economiche – si legge in un documento della Conferenza dei vescovi -, per quanto annunciate dal presidente della Repubblica, sono di fatto emanate, sempre più, in consonanza con il Fondo monetario internazionale e con il segretario del Tesoro nordamericano».
Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, ad una domanda sulla situazione del Brasile ha risposto: «Evidentemente il Brasile va male. E va male, fondamentalmente, perché segue alla lettera gli ordini del Fmi e del neoliberismo».
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo, Elizabeth e i loro due figli sono dei brasiliani fortunati.

LA SAMBA DEI NUMERI

prodotto interno lordo: 1.550.000 miliardi di lire, contro i 2.100.000 miliardi dell’Italia (1998)

disoccupazione (ufficiale e reale): 7,7% secondo l’«Istituto brasiliano di geografia e statistica»; i sindacati parlano, invece, di un tasso di disoccupazione attorno al 20%

lavoratori informali: 35 milioni di brasiliani
poveri: 78 milioni di brasiliani vivono in condizioni di povertà (con entrate inferiori a 72 dollari al mese); altri 43 milioni vivono in condizioni di povertà estrema (con entrate inferiori a 35 dollari mensili)

meninos de rua: 7 milioni (ma altri parlano di 10 milioni)

tasso di omicidi: 25 per 100.000, contro il 4 dell’Italia e il 75 della martoriata Colombia

debito esterno: 229 miliardi di dollari nel 1998, contro i 179 del 1996, secondo i dati della Banca centrale

imprese vendute: tra il 1994 e il 1997, 595 grandi imprese sono state trasferite da mani brasiliane a mani straniere

DAL PIANO REAL AD AVANZA BRASIL

luglio 1994: arriva il «piano real»
Il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso vara il cosiddetto «piano real» per fermare l’inflazione. Questo obiettivo viene raggiunto a scapito di altri parametri economici: tassi d’interesse, disoccupazione, deficit pubblico, dipendenza dall’estero.

ottobre 1994: Cardoso presidente
Sull’onda del «piano real», Feando Henrique Cardoso viene eletto presidente del Brasile, sconfiggendo Luis Inacio da Silva detto Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt).

4 ottobre 1998:
Cardoso viene rieletto
Il presidente Cardoso, sostenuto da tutti i principali mezzi di comunicazione, viene rieletto per altri 4 anni. Lula viene sconfitto per la 3 volta consecutiva.

13 novembre 1998:
gli «aiuti» del Fmi
Il «Fondo monetario internazionale» (Fmi) annuncia un aiuto al Brasile per 41,5 miliardi di dollari. L’annuncio contribuisce ad accelerare la fuga di capitali.

13 gennaio 1999: il crollo
Sotto i colpi della speculazione internazionale crolla la borsa di San Paolo. In una settimana il real perde più del 40% del suo valore.

febbraio 1999: la Banca centrale
Il presidente della Banca centrale, Francisco Lopes, in carica da meno di un mese, viene sostituito da Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros, il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

agosto-settembre 1999:
le proteste
Il 26 agosto arrivano a Brasilia circa 100 mila manifestanti per protestare contro la politica economica di Cardoso. Il 7 settembre, anniversario dell’indipendenza, il movimento «Il grido degli esclusi» riunisce migliaia di persone a Aparecida, 130 chilometri da San Paolo, per protestare contro «la degradazione sociale ed economica».

31 agosto 1999: «Avança Brasil»
Cardoso (caricatura a lato) vara un ambizioso programma triennale chiamato «Avanza Brasile». Secondo il governo con esso verranno creati 8,5 milioni di nuovi posti di lavoro con 165 miliardi di dollari di investimenti in 358 progetti. Il programma è diviso in sezioni dedicate ai lavoratori, ai giovani, agli imprenditori.
(si veda: www.abrasil.gov.br.).

2-7 settembre 2000:
referendum sul debito
La Conferenza episcopale, i partiti dell’opposizione e molti movimenti sociali promuovono un referendum popolare sul debito estero del Brasile e sui rapporti con l’Fmi. Il governo si dissocia dall’iniziativa, mentre il ministro Pedro Malan la definisce «una idiozia».

Paolo Moiola




Amazzonia, un crimine infinito – Speciale BRASILE

Cinque milioni di chilometri quadrati,
il più grande serbatornio genetico del mondo emerso, la più importante riserva di acqua dolce e foreste tropicali della terra.
Da decenni la deforestazione e la distruzione della biodiversità dell’Amazzonia
proseguono senza pietà e senza veri
ostacoli. I colpevoli sono facilmente
individuabili. Ma niente e nessuno
sembra riuscire (o volere) fermarli.

È molto difficile, se non impossibile, per chi arriva in Amazzonia farsi subito un’idea chiara delle dinamiche che la caratterizzano e dell’insieme di culture ed etnie che la compongono.
Ancora più difficile è rendersi conto come e da che parte comincino lo sfruttamento e la distruzione dei suoi ecosistemi. E perché, ancora oggi, non si riesca ad arrestare un processo così vergognoso ed assurdo e che, per di più, sta accadendo sotto gli occhi di tutto il mondo.

AVVENTURIERI
E MULTINAZIONALI

La foresta brucia, è saccheggiata, viene abbattuta, sfruttata, ridotta a pascolo perché in uno spazio di 5 milioni di chilometri quadrati può accadere di tutto ed è difficile controllarlo.
La foresta se ne va per un insieme di problemi molto complessi, interdipendenti tra loro, risultato di secoli di storia sbagliata che ne ha fatto una terra di conquista.
L’Amazzonia è un immenso spazio ereditato dalla natura, su cui si muovono i popoli della foresta (vissuti per millenni in equilibrio con l’ambiente) e nuovi contingenti di popolazione extra-amazzonica, spinti dalle classi dominanti, alla ricerca di facili quanto improbabili fortune. Sull’Amazzonia si sono posati gli occhi di tutti: dagli avventurieri alle multinazionali (minerarie o del legame), dalle grandi e piccole imprese ai derelitti (coloni senza terra, cercatori d’oro, tagliaboschi). Tutti con una concezione di sviluppo occidental-capitalistica, poco adatta alla natura del luogo.
In Amazzonia si trova di tutto. Ci si può perdere tra igarapes e foreste, ma ci si può sentire sempre al centro del mondo, un mondo che procede troppo rapidamente rispetto ai suoi ritmi. Vi sono metropoli come Belém e Manaus, in cui la cultura tradizionale si difende a stento tra i centri commerciali ed un traffico sempre più caotico. Ci sono piccoli villaggi che si formano, crescono e scompaiono intorno ad attività produttive più o meno precarie. Si sviluppano centri turistici e di ricerca a livello internazionale; le comunicazioni e la viabilità per terra e per acqua aumentano sempre più.
La ricchezza di questa terra (costituita da giacimenti minerari, petrolio, oro, legname) viene saccheggiata trascurando totalmente le caratteristiche ambientali e delle popolazioni originarie, siano queste indios o caboclos. In base a progetti governativi e tecnocratici, l’Amazzonia è stata svenduta alla Banca mondiale, ai grandi latifondisti, alle compagnie per l’estrazione di legname. L’Amazzonia è stata svenduta al mondo come se lì non vi esistessero individui, come se non ci fosse storia, come se non ci fosse diversità topografica ed ecologica. Per questo, quando si parla dell’Amazzonia, bisogna parlarne con una visione olistica. Bisogna considerae il passato, le genti, la biodiversità fatta di una miriade di ecosistemi la cui natura è ancora in gran parte sconosciuta.
L’Amazzonia è un serbatornio genetico tanto ricco da essere ancora del tutto scoperto. La sua diversità biologica conta circa 80.000 specie differenti di vegetali e 30 milioni di specie animali (in gran maggioranza insetti). Nel Rio Amazonas e nei suoi affluenti vivono più di 2.000 specie di pesci. L’Amazzonia ha il 34% del legno tropicale e il 20% di tutta l’acqua dolce del pianeta.
Purtroppo, migliaia di specie animali e vegetali stanno scomparendo ancor prima di essere studiate. La deforestazione ha raggiunto le dimensioni della Francia, il 13% dell’estensione totale dell’Amazzonia.
Le acque, gli animali e la foresta sono tra loro interdipendenti e la rottura di un equilibrio comporta la rottura di molti altri.

DALL’EPOPEA DEL CAUCCIÙ
A QUELLA DEL LEGNAME

La complessità dei fenomeni sociali ed economici, responsabili della distruzione dell’Amazzonia, si intreccia con le fasi della sua occupazione durante circa 5 secoli. A cominciare dai portoghesi che tentarono di riprodurre un’economia coloniale fondata sulla manodopera indigena ed africana. Ben presto essi si accorsero della scarsa produttività del suolo e del basso ricavato di monocolture di zucchero e tabacco e s’impose un’economia basata sull’estrazione dei prodotti locali.
Nel secolo scorso, con l’epopea del caucciù, il Brasile divenne il primo produttore mondiale di gomma e Manaus una città di 50.000 abitanti con canoni di vita paragonabili a quelli delle capitali europee. Le acque del Rio delle Amazzoni vennero inteazionalizzate e gli insediamenti umani nel bacino aumentarono. Se le prime radici erano amerindie e portoghesi, durante il ciclo della gomma (alla fine dell’800) si riversarono in Amazzonia enormi quantità di uomini provenienti dai sertões (le aree secche del centro del Brasile) sovrapponendosi alle popolazioni indie ed europee.
Tra gli anni 1964-1984 il governo adottò una politica di prestiti agevolati per stimolare l’occupazione di vaste aree dell’Amazzonia, a quell’epoca considerata terra improduttiva. Centinaia di famiglie si stabilirono nel sud del Pará, in Rondonia, in Acre e cominciarono la distruzione sistematica della foresta. Per legge, la foresta doveva essere mantenuta al 50% per ogni appezzamento e quindi si crearono mosaici di foresta, le cui aree deforestate erano adibite al pascolo o all’agricoltura. Ma, dopo tre o quattro anni, i pascoli diventavano inutilizzabili per l’infertilità del suolo e altri lotti venivano sbancati.
In questa fase vennero costruite le prime transamazzoniche. Per esempio, quando venne edificata Brasilia, per collegare la capitale con Belém alle foci del Rio delle Amazzoni, si aprì una strada di 2.280 chilometri. Questa attraversava estensioni con formazioni aperte, vari tipi di vegetazione ed entrava nella foresta tagliandola direttamente fino al cuore della regione Bragantina, nel nord dello stato del Pará.
I nuovi canali di comunicazione facilitarono l’insediamento di migliaia di coloni provenienti dalle aree povere di tutto il Brasile e l’aumento della popolazione fu vertiginoso. L’afflusso di coloni e la successiva interferenza con l’ambiente furono particolarmente aggressivi.
Per esempio, la colonizzazione dello stato di Rondonia, nel sud-ovest dell’Amazzonia, è considerata una delle più rapide distruzioni condotte su di un’area tropicale di tutti i tempi. Se fino al 1960 la popolazione umana era scarsa e l’economia locale si fondava sull’estrazione della gomma e della castanha (conosciuta come noce brasiliana) dopo l’apertura della BR-364 Marechal Rondon (Cuiabá-Porto Velho) si creò un flusso migratorio che portò nello stato migliaia di persone oriunde di tutto il paese. Sotto il cornordinamento del governo dello stato, dell’INCRA (Instituto Nacional de Colonização e de Reforma Agrária) e del progetto «Polonoroeste», finanziato dalla Banca mondiale, in Rondonia furono attirate migliaia di persone attratte dal suo potenziale economico inesplorato.
Molti di questi immigrati erano contadini del sud che arrivarono con l’intenzione di ottenere una rendita dalla vendita di prodotti agricoli, ma subito scoprirono che la speculazione sulle terre era più lucrosa e cominciarono a venderle per un valore più alto di quanto avrebbero guadagnato in anni di lavoro. Molte terre vennero acquistate da latifondisti e madereiras. Nel 1973 in Rondonia vi erano appena 32 segherie e nel decennio successivo l’attività di estrazione di legname ebbe un incremento dell’800%.
La deforestazione in Rondonia è aumentata negli ultimi decenni in forma esplosiva, a ritmi più veloci della popolazione. In altre parole, aumenta non solo la deforestazione ma anche l’indice di deforestazione.

LE STRADE,
CAVALLO DI TROIA

L’apertura di nuove strade porta ad una rapido degrado del territorio: appena completata l’opera, inizia la deforestazione a ritmo accelerato. Nel giro di 2-4 anni, si creano spazi spianati di 10-40 km, disseminati di tronchi bruciati, su entrambi i lati e per tutta la lunghezza della strada. Dopo la costruzione, la deforestazione si espande a lisca di pesce in relazione al tasso di migrazione e si entra in una specie di circolo vizioso: tante e migliori strade attraggono nuovi emigranti, mentre d’altro lato l’aumento della popolazione giustifica la costruzione di nuove e migliori strade.
Il procedere della distruzione in seguito a processi migratori, favoriti da incentivi fiscali governativi, si può osservare anche in altre località. Per esempio, a Paragominas nel sud del Pará.
Qui gli incentivi statali vennero inizialmente stanziati per l’allevamento. Quando i proventi di quest’attività diminuirono in seguito ad una crisi monetaria, i latifondisti cominciarono lo sfruttamento del legname. Il principale prerequisito divenne allora l’apertura di strade, tanto regionali quanto locali, per permettere la rimozione dei tronchi e il loro trasporto verso le segherie. Paragominas si trasformò nel principale polo del Brasile per l’estrazione del legname.
Giunti a Paragominas, il panorama è oggi avvilente: della foresta rimangono solo pochi frammenti, mentre segherie contornano la città e cumuli di segatura ed altri scarti del legno bruciano dovunque e in continuazione. Dalle sue foreste venivano estratti 2 milioni di metri cubi di legname per anno, sufficienti per riempire 67.000 camion. A Paragominas ogni impresa ha sfruttato in media 242 ettari per anno, cioè l’equivalente a 500 campi di calcio. Questo sfruttamento si rivela ancora più inefficiente sapendo che, per ogni metro cubo estratto, altri due sono distrutti.
L’istituto Imazon di Belém (Pará) calcola che, per ogni ettaro di foresta trasformato in pascolo, si ottiene un guadagno di appena 25 dollari. Con l’estrazione di legname si ottengono valori maggiori: 170 dollari annuali per ettaro. Il problema è che, una volta deforestato, quell’ettaro darà di nuovo denaro solo dopo 70 anni. E infatti negli ultimi anni le riserve di legname di Paragominas si sono esaurite e così la maggior parte delle segherie si sta trasferendo ad Itacoatiara, a 296 km da Manaus in piena foresta, dove una concessione governativa permette di sfruttare per 50 anni un’area pari alle dimensioni di Israele.

CERCATORI D’ORO,
TAGLIALEGNA, COLONI

Altre ondate migratorie verso l’Amazzonia vennero favorite dal sogno di nuovo Eldorado. Dagli anni ’80 in poi con la scoperta dei giacimenti della Serra Poerina, nel territorio degli yanomami, e della Serra Pelada nel sud del Pará, si assiste ad un vertiginoso aumento dell’attività di estrazione dell’oro. Vantaggi fiscali sono offerti alle grandi compagnie, soprattutto multinazionali, e viene incoraggiata l’unione tra piccoli e grandi imprenditori. E così l’Amazzonia viene invasa da imprenditori, padroni di garimpos, intermediari, contrabbandieri, arrivisti arricchiti e politici opportunisti. Nella retroguardia un esercito di 600 mila disperati, alcuni colpiti da fame e disoccupazione, altri cacciati da aree povere e attratti dall’illusione di un facile guadagno. In realtà, soltanto alcune centinaia di individui faranno fortuna.
La distruzione che i cercatori d’oro stanno compiendo potrà essere compensata solo con 200 anni di rimboschimenti. Quest’attività inquina i fiumi con il mercurio e, di conseguenza, acque, foresta, pesci, uomini. Per ogni kg d’oro prodotto si libera nell’ambiente 1,4 kg di mercurio. Spesso le tribù indigene, nelle vicinanze delle miniere d’oro, instaurano rapporti commerciali con i cercatori d’oro, con conseguenze sociali negative.
E dopo i cercatori d’oro, dopo i taglialegna ed i coloni, sono arrivati in Amazzonia gli agenti di sviluppo: grandi industrie estrattive, centrali idroelettriche, mega progetti come il Gran Carajas, nel sud del Pará.
Un’area vastissima, pari a Francia e Italia, che ha visto la creazione di enormi infrastrutture. Vi sono 28 industrie sidero-metallurgiche costruite attorno ad un giacimento di ferro a cielo aperto; l’energia viene prodotta dalla idroelettrica di Tucurui, per la cui costruzione sono stati trasferiti circa 25.000 persone dalle aree che dovevano essere allagate. Il progetto si è avvalso di nuove strade intee di collegamento, in vari punti dello stato, e della costruzione della ferrovia Carajas, lunga 860 km. Ha visto la nascita di nuove città, aeroporti e distretti industriali.
Il progetto ha richiamato grandi contingenti di popolazione provenienti dalle aree povere circostanti, dalle terre espropriate per la costruzione di Tucurui, garimpeiros provenienti dalla riduzione di attività estrattive di Serra Pelada. Insomma, si trattava sempre di una manodopera poco qualificata, che viveva d’espedienti e poteva essere sottopagata.

I GRANDI LATIFONDI:
TRA CAPITALI E CORRUZIONE

Le concessioni di terre pubbliche, la politica di incentivi fiscali e gli stimoli all’impadronimento illegittimo, adottati in Amazzonia nel passato, hanno finito col creare una struttura fondiaria caratterizzata dai grandi latifondi. Questa tendenza alla concentrazione ed all’uso indebito della terra si è accompagnata ad un aumento generalizzato dei conflitti sociali, dovuti all’usurpazione delle terre indigene e dei piccoli contadini.
Le aziende agricole hanno sempre dimostrato una grande avidità. Gli agricoltori hanno sfruttato la terra senza rispettare la legge che vietava l’uso del 50% di foresta, nonché la deforestazione lungo le rive dei fiumi. Non vi è mai stato un efficiente controllo per accertare che gli investimenti fossero applicati in maniera corretta.
L’attività delle imprese per lo sfruttamento delle risorse forestali è dedicata in parte a corrompere le forze di polizia forestale (allo scopo di ottenere falsi permessi) e a frodare le leggi forestali che impongono la riforestazione di parte delle aree disboscate. L’IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos), con la concessione di permessi di deforestazione senza troppi problemi, è uno dei principali accusati. Gli organismi di controllo sono in numero insufficiente, mancano di obiettivi e dispongono di attrezzature e fondi sempre più scarsi. Basti pensare che vi sono solo 82 centri con poco personale per controllare 5 milioni di chilometri quadrati.
Il continuo saccheggio dell’Amazzonia è riconducibile ad un’errata filosofia, che mira a uno sviluppo basato su una «omogeneizzazione civilizzatrice», che tende ad azzerare le diversità, siano queste biologiche o culturali.

CHE FARE DELL’AMAZZONIA?

Uno dei motivi della devastazione è che il Brasile non ha ancora deciso cosa vuol fare dell’Amazzonia. Nell’ultimo mezzo secolo tutti i piani per la regione sono falliti.
Il governo di Feando Henrique Cardoso affermava, già qualche tempo fa, che doveva essere varato un piano che prevedesse un programma nazionale di educazione ambientale, una migliore distribuzione degli organi di protezione ambientale e lo stabilirsi di certi percorsi di sviluppo regionali che tengano in conto l’ecosistema.
Nel 1998 è stato approvato un progetto, in cooperazione con la Banca mondiale ed il WWF, secondo cui il 10% delle foreste potranno essere protette a partire dall’anno 2000. Ma per il momento la deforestazione continua ad un ritmo allarmante e sembra che gli errori del passato non siano serviti.
Basta percorrere circa i 400 chilometri della Rodovia transamazzonica tra Humaita e Apui, nel sud dello stato di Amazonas. Lì, con 25 anni di ritardo rispetto a quanto pianificato dal regime militare nel 1970, c’è l’occupazione più recente della frontiera agricola del paese. Tutti i giorni quattro o cinque famiglie di coloni arrivano dal Paraná e Rio Grande do Sul per aprire nuove aree di lavoro nella foresta.
Ogni famiglia guadagna un appezzamento di 60 ettari dall’INCRA e la prima cosa da fare è appiccare il fuoco o tagliare la foresta. I coloni non ci pensano due volte a bruciare ettari ed ettari di foresta, dato che la terra è l’unico loro mezzo di sostentamento.
Alla fine degli anni ’80, il Brasile era indicato come uno dei paesi con il maggior numero di incendi forestali del mondo. In ragione di questo, il governo brasiliano subì una campagna di pressione molto forte da parte dei paesi stranieri e fu obbligato a proteggere la foresta con nuovi provvedimenti. All’inizio i risultati furono incoraggianti. Fino al 1994 il ritmo degli incendi era diminuito della metà, mentre la deforestazione si era ridotta al 40%. Ma nel 1995 i dati erano di nuovo allarmanti: le riprese satellitari erano chiare; migliaia di punti luminosi indicavano che la maggior foresta tropicale del pianeta era in fiamme.
In aprile, il ministro Josè Saey Filho ha rilasciato un’intervista per annunciare i dati sulla deforestazione in Amazzonia nel 1999 e ha presentato come una vittoria il fatto che i 16.926 chilometri quadrati dell’area abbattuta, significano una riduzione del 2,6% sul totale abbattuto nel 1998. A vederla così sembra una notizia positiva, ma in realtà non lo è, se si osserva che il tasso di deforestazione si è stabilizzato ad un valore molto alto.
L’anno scorso il ministero dell’ambiente ha proibito nuove deforestazioni, limitato le autorizzazioni per il trasporto dei prodotti forestali e si è fatto aiutare dall’esercito per punire le irregolarità. I dati per alcuni sono promettenti se si pensa che la legge sui crimini ambientali, recentemente approvata, permette l’applicazione di multe fino a 50 milioni di reais (equivalenti all’incirca a 500 milioni di lire) agli infrattori.
Ma, come osservano le associazioni ambientaliste, maggiori controlli e multe alte sono di poca portata di fronte all’immensità del problema complessivo, considerando anche gli interessi dei piccoli coltivatori portati a devastare nuove aree semplicemente perché le terre abbandonate perdono la fertilità dopo due o tre anni. Sarebbe invece utile se il governo varasse una reale riforma agraria e finanziasse uno sfruttamento sostenibile della foresta, favorendo nuove tecniche agricole per l’utilizzo delle aree già deforestate.
In Amazzonia, dei quasi 600.000 chilometri quadrati deforestati, ben 180.000 sono già abbandonati e oggi risultano inutilizzati.
E così il crimine continua.

Dati generali (*)
estensione: 5 milioni
di chilometri quadrati
su 9 stati, il 60%
del territorio brasiliano
abitanti: 19 milioni
indios: 170.000 divisi in 210 etnie differenti, esclusi quelli che vivono nei centri urbani (circa 120.000)

La diversità biologica
specie vegetali:
circa 80.000
specie animali: 30 milioni
specie di pesci:
almeno 2.000

I delitti
deforestazione: 600 mila chilometri quadrati
(più dell’estensione della Francia) in meno di 30 anni; oggi il ritmo della deforestazione è di circa 16.000 chilometri quadrati all’anno
inquinamento: ogni anno circa 30.000 garimpeiros rilasciano nelle acque amazzoniche più
di 2 tonnellate di mercurio

I miserevoli profitti
della deforestazione (**)
– ogni ettaro di foresta
trasformato in pascolo:
25 dollari annuali
(per solo 2 o 3 anni)
– ogni ettaro di foresta distrutto per il legname: 170 dollari (una tantum)

(*) si veda Veja, «Amazônia. Um tesouro ameaçado»,
24 dicembre 1997
(**) dati dell’istituto Imazon
di Belém, ParáL’AMAZZONIA E IL SUO OMICIDIO

Cecilia Veracini