La barba di Valeriano

A vederli così paffuti e rubicondi a nessuno salterebbe in mente di pensare che questi bambini siano portatori del virus dell’Aids. E hanno tutti energie da vendere. Bruno, per esempio, si divincola come un’anguilla, mentre padre Valeriano tenta di allacciargli le scarpe; poi gli tira la barba, lo abbraccia, lo bacia e torna a dimenarsi. Giuliano, sdraiato a terra, è intento a colorare fantastici disegni, come il più normale dei bambini della sua età. Francisco, alto quanto un soldo di cacio, scorrazza come un forsennato su una motociclettina di plastica, si ferma per far salire la sua amichetta Teresa e riprende a pedalare.

ANGELI… RIFIUTATI
Ma dietro quelle facce da melograno si nascondono storie di rifiuto e abbandono. Bruno, 5 anni, è stato colpito da meningite in tenera età. Morta la madre, fu usato dal padre per chiedere l’elemosina sulle strade. L’assistente sociale lo tolse al genitore e lo portò a casa Siloé. Dopo qualche giorno arrivò il papà con un’altra figlia, anch’essa affetta dal virus dell’Aids; l’affidò al missionario e scomparve senza lasciare tracce.
Manuel, l’ultimo arrivato, è anche il più piccolo della nidiata: ha appena otto mesi. Quando la zia lo portò a casa Siloé era così denutrito che i medici lo avevano dato per spacciato. A poco a poco ha ripreso forza e cresce come il più normale dei bambini. Un’altra zia ha avviato le pratiche per l’adozione.
Thomson è il più grandicello; ha 12 anni. Non sa chi sia suo padre. La madre, prostituta, lo abbandonò a casa con la nonna e sparì dalla circolazione. Quando fu scoperto che era sieropositivo, la nonna lo affidò a padre Valeriano. «Parlava sempre della mamma – racconta padre Paitoni -. Siamo riusciti a rintracciarla e farlo incontrare con lei. Non ti dico la vergogna che il ragazzo provò nel vedere sua madre in quelle condizioni. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro per aiutarlo ad accettare la mamma così com’è. E ci siamo riusciti. Ogni tanto va a casa e assiste la mamma, gravemente malata di tubercolosi; a volte la rimette in riga, quando non vuole prendere le medicine o cerca di affogare i dispiaceri nell’alcornol».
Il caso più triste è quello di William. Orfano di entrambi i genitori, viveva con una zia che, dovendo andare a lavorare, lo lasciava chiuso in casa, nella favela. Quando fu portato a Siloé, aveva le orecchie rosicchiate dai topi e il corpo pieno di croste, non si reggeva in piedi e non aveva la forza neppure per piangere. Si riprese in poco tempo e cominciò a fare i primi passi. La notte di natale del 1996 fece da Gesù Bambino nel presepio. Poi un’infezione lo colpì alla bocca, quindi l’esofago e l’intestino: in due giorni se ne è andato. «Arrivederci, William! – esclama commosso padre Valeriano -. Un giorno riprenderai a tirarmi la barba per l’eternità».

AMORE E MEDICINE
Casa Siloé è stata inaugurata nel 1995 e lar Suzanne nel 1998. Ma non sono una clinica, un ospedale o un asilo, precisa padre Paitoni: «Vogliamo ricreare il più possibile il clima di famiglia». Con questo spirito vi lavorano 10 persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai bambini, e 120 volontari che, a tuo, svolgono varie mansioni: alcuni aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali; altri s’incaricano di portare i bambini a scuola o all’ospedale; un gruppo li intrattiene nel doposcuola; un altro li fa giocare.
Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno. «Fino a qualche anno fa – spiega padre Valeriano – i medici davano a questi bambini un massimo di 15 anni di vita. Grazie alle più recenti scoperte mediche, durata e qualità della vita sono molto migliorate. Per questo li vedi tutti felici e grassottelli. Anzi, se curati in tempo, al di sotto dei due anni, alcuni di essi hanno la speranza di ritornare “negativi”».
È quanto è capitato a sei bambini curati a Siloé: hanno sconfitto il virus dell’Aids e sono stati reinseriti nelle proprie famiglie o parentele.
Sette bambini sono stati adottati da famiglie della parrocchia e continuano i trattamenti a casa. «È questo soprattutto lo scopo del nostro lavoro – continua padre Valeriano -: reinserire queste creature nella società, un miracolo ben più grande di quello operato dalla medicina».
La maggior parte dei bambini che approdano a Suzanne e Siloé vengono direttamente dall’ospedale. Il primo lavoro di padre Paitoni è rintracciare le famiglie e dei parenti, per convincerli a mantenere i contatti con i figli, evitando loro il trauma di sentirsi rifiutati. Non è facile vincere le loro paure e pregiudizi.
Undici bambini frequentano le scuole elementari presso il collegio delle missionarie della Consolata; altri nove vanno gioalmente in un asilo municipale. «I primi tempi sono stati duri: i genitori degli altri alunni avevano minacciato di ritirare i loro figli dalla scuola, per paura che venissero contagiati. Ora tutto si è appianato. Anzi, perfino le collette domenicali e i contributi della decima si sono moltiplicate» continua padre Valeriano sorridendo.

SPIRITO MISSIONARIO
A parte alcune adozioni a distanza e qualche offerta proveniente dall’Italia, le due case sono sostenute dalla parrocchia Nostra Signora di Fatima. «Arrivai qui – continua il padre – mentre la chiesa brasiliana preparava il V Congresso missionario dell’America Latina (Comla 5). Per tradurre in pratica le sollecitazioni del Congresso, suggerii che la parrocchia rispondesse concretamente a una delle situazioni più “missionarie” del paese: aprire una casa per i bambini sieropositivi. L’idea fu accolta con entusiasmo dal consiglio pastorale, anche se qualcuno era titubante, temendo che la gente non sarebbe più venuta in chiesa o non avrebbe più mandato i figli al catechismo. Superate le prime difficoltà, abbiamo preparato la casa a tempo di record: otto mesi. Ora ne abbiamo due, con una trentina di bambini. È stata una iniziativa che ha rinnovato l’entusiasmo missionario della comunità, e continua ad animare tutte le attività parrocchiali, compresa quella del pagamento della “decima”, raddoppiato senza fare la minima pressione».
E gli aiuti continuano ad arrivare sotto varie forme: denaro, vestiti, cibo, giocattoli… e tempo: la fitta schiera di volontari è la testimonianza più valida della crescita dello spirito missionario nella parrocchia. Inoltre, sette famiglie della parrocchia hanno adottato altrettanti bambini sieropositivi e se ne prendono cura con immenso amore.
«Ho sempre amato i bambini – racconta Sandra Carvahlo -. Con l’apertura della casa Siloé ho avuto voglia di dedicare qualche ora a queste creature come volontaria. Poi anche mio marito e i miei figli hanno cominciato a collaborare, senza immaginare ciò che Dio ci stava preparando. Dopo i primi giorni dell’inaugurazione del lar Suzanne ci siamo affezionati a Lucas e lui a noi. Non siamo più riusciti a separarcene e abbiamo deciso di adottarlo. Oggi è la ragione della nostra vita e la felicità della famiglia».
Padre Valeriano insiste nello spiegare che la sua è un’esperienza prettamente missionaria. Non tanto per convincere me. «L’Aids non è solo una malattia – continua il padre -, ma una situazione sociale che, in una grande città come San Paolo, non possiamo ignorare. Come la difesa dei diritti dell’uomo, la promozione umana e della donna, anche i malati di Aids devono diventare oggetto della nostra attenzione missionaria. È da dieci anni che batto questo chiodo. Ed è entrato finalmente».
ACCANTO AI «POVERI CRISTI»
Una decina di anni fa, quando fu nominato amministratore provinciale, padre Paitoni pose come condizione che gli fosse permesso di soddisfare il suo carisma missionario in qualche attività di sua scelta. E fondò il lar Betania, una casa di accoglienza per adulti colpiti dal virus dell’Aids. Oggi questa sua iniziativa è stata sposata totalmente dai missionari della Consolata come attività specifica dell’istituto, che ne ha assunto tutte le responsabilità legali e finanziarie.
Situato nel territorio della parrocchia di Nostra Signora da Penha, il lar Betania può accogliere una dozzina di persone. Una casa semplice, inserita nel tessuto urbano della periferia della città, ma che si distingue dalle altre abitazioni per il colore dei fiori che adoano l’entrata e le finestre.
«È una goccia nell’oceano dei colpiti da Aids; ma tutte e tre le case costituiscono un’esperienza-pilota – spiega padre Valeriano, senza il minimo accento di orgoglio -. Quando qualcuno vuole aprire una struttura del genere, l’amministrazione locale lo manda prima da noi, per vedere come siamo organizzati».
Semplicità delle strutture e numero limitato delle persone ospitate hanno uno scopo preciso: ricreare l’ambiente di famiglia, sia per gli adulti che per i bambini. Un bisogno fondamentale, soprattutto per gli adulti che, rifiutati da amici e familiari, possono incontrare finalmente altre persone che li accolgono, vogliono loro bene e stanno loro accanto nei momenti più difficili.
Anche il nome ha un significato simbolico. Betania era il villaggio dove Gesù si ritirava volentieri, accolto in casa dagli amici Lazzaro, Marta e Maria. Il luogo in cui Gesù pianse per la morte dell’amico e lo risuscitò. «Per questi “poveri cristi”, portatori del virus dell’Aids o già malati terminali, delusi dalla vita e dalla società, vogliamo ricreare lo stesso clima descritto nel vangelo: l’amicizia di Lazzaro, l’amorosa attenzione di Maria e il solerte servizio di Marta».
Nel lar Betania non avvengono risurrezioni. Eppure continuano i miracoli della vita: frateità e solidarietà, appoggio morale, psicologico e religioso aiutano questi sfortunati a riscoprire la propria dignità e valore, a riconciliarsi con se stessi, ad accogliere la speranza nella risurrezione.
«Ricordo sempre con particolare emozione uno dei primi adulti arrivati a lar Betania – racconta padre Valeriano -. Era un ragazzo di 22 anni. I medici lo avevano dimesso dall’ospedale, perché spirasse nella propria abitazione. Quando l’ambulanza arrivò a casa del giovane, i vicini dissero che mamma e fratelli non abitavano più là: se n’erano andati perché non lo volevano più vedere. Le assistenti sociali telefonarono a varie istituzioni, finché fu accolto nella nostra casa.
Quella notte ero di tuo. Dopo avergli fatto il bagno e messo a letto, mi fermai a chiacchierare con lui. Gli domandai se gli fosse piaciuto il tè. Il giovane mi fissò per alcuni istanti, poi rispose: “Sì, il tè è molto buono; ma è più bello avere te vicino, seduto sul mio letto”. Spirò serenamente il giorno dopo».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi

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