Zimbabwe. Dittatura legalizzata


Il presidente Emmerson Mnangagwa è stato riconfermato senza sorprese. Aveva sostituito Robert Mugabe dopo quarant’anni di «regno». Ma le regole non sono cambiate, anzi, leggi liberticide sono state promulgate, e la «democrazia matura» è sempre più un regime autoritario.

Il 21 novembre 2017, gli abitanti di Harare, la capitale dello Zimbabwe, erano scesi in strada per festeggiare la fine del regno di Robert Mugabe. In un Paese stremato da quasi quarant’anni di dominio dispotico, dove diritti umani, libertà di espressione e democrazia erano stati costantemente violati e l’economia devastata, si facevano strada speranza ed entusiasmo. Il nuovo presidente, Emmerson Mnangagwa, appartenente allo stesso partito del suo predecessore, l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe-Fronte patriottico (Zanu-Pf), nel salire al potere prometteva l’inizio di un nuovo corso, quella che lui chiamava la «seconda Repubblica», dove democrazia e diritti umani sarebbero stati rafforzati e rispettati.

Tuttavia, le speranze e le promesse di uno Zimbabwe più democratico e libero sono rapidamente venute meno. Il predominio violento della Zanu-Pf non è cessato e, nel giro di pochi anni, Mnangagwa ha avviato una stretta sempre più forte nei confronti di libertà e diritti, colpendo in particolare associazionismo, informazione e opposizione politica. Il leader è cambiato, ma il sistema è rimasto lo stesso.

Il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa il 4 settembre 2023. (Photo by Zinyange Auntony / AFP)

Nulla di nuovo dal 2018

L’entusiasmo di non vedere per la prima volta dopo 38 anni il nome di Mugabe sulla scheda elettorale è durato ben poco. Secondo i dati rilasciati dalla Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec), al voto del 2018, Mnangagwa aveva ottenuto il 50,8% dei consensi. Di poco sopra la soglia della maggioranza assoluta necessaria per aggiudicarsi la presidenza al primo turno, tanto da scatenare accuse di brogli da parte dell’allora principale partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, il cui leader, Nelson Chamisa, ufficialmente si era fermato al 44,3%.

Come in passato, non erano mancate intimidazioni e minacce agli abitanti delle aree rurali affinché votassero per la parte «giusta», mentre l’esercito aveva sparato sui manifestanti che chiedevano la pubblicazione tempestiva dei risultati, causando morti e feriti. Il modus operandi della Zanu-Pf e delle forze dell’ordine non era cambiato. Il partito, al potere dall’indipendenza del 1980, ancora una volta non aveva disatteso la sua lunga tradizione di violenza e violazioni dei diritti umani che, soprattutto in prossimità delle elezioni, si intensifica con arresti e detenzioni arbitrari, uccisioni e intimidazioni.

Negli anni, ogni forma di opposizione è stata repressa. A partire dal primo rivale della Zanu-Pf, l’Unione popolare africana dello Zimbabwe, che, dopo essere stata attaccata, nel 1987 era stata costretta a fondersi con il partito al potere. Successivamente, anche se alle elezioni, in apparenza, partecipavano più partiti, la vittoria della Zanu-Pf non era mai in discussione. Attraverso esecuzioni extragiudiziali, torture, pestaggi e rapimenti, documentati da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, ogni forma di opposizione veniva silenziata.

Con la salita al potere di Mnangagwa, nulla è cambiato. Ancora una volta, arresti e detenzioni arbitrari, limitazioni alla diffusione di informazioni, intimidazioni e brogli hanno permesso di reprimere ogni forma di dissenso. Una stretta che si è progressivamente intensificata con l’avvicinarsi delle elezioni del 23 agosto 2023.

Libertà sotto attacco

Libertà di associazione e informazione sono state le prime a essere colpite, nonostante siano tutelate dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli di cui lo Zimbabwe è firmatario.

Il 2023 si è aperto con l’applicazione del Private voluntary organizations act del 2021 grazie al quale l’esecutivo ha deregistrato 291 Ong, accusate di gestione non trasparente dei finanziamenti e di minare la sicurezza nazionale. Questa mossa – insieme all’emendamento approvato pochi giorni dopo per impedire a questi enti di prendere parte a qualsiasi attività politica – ha permesso al governo di mettere fuori gioco le organizzazioni più critiche, che avrebbero potuto rivestire un ruolo importante nell’educazione al voto dei cittadini e nel monitoraggio delle elezioni.

Sul versante dell’informazione, invece, a causa del Cyber and data protection act (2021), sono cresciuti intimidazioni, arresti e condanne tra i giornalisti, spesso accusati di pubblicare dati e informazioni falsi finalizzati a danneggiare figure legate al governo. Una misura, comunque, non sufficiente a silenziare le voci critiche e rafforzare il predominio dei media statali. Tanto che nella primavera del 2023 il direttore dell’informazione della Zanu-Pf, Tafadzwa Mugawadi, ha minacciato di scollegare le antenne paraboliche di chi guardava stazioni informative straniere. Tra di esse, Al Jazeera – rea di aver appena pubblicato Gold Mafia, un’inchiesta su traffico d’oro, corruzione e riciclaggio di denaro da parte dell’élite politica zimbabweana -, Cnn, Bbc, France 24 ed Euronews.

Poco spazio per l’opposizione

Alle elezioni l’opposizione parte sempre in una condizione di svantaggio. La Zanu-Pf controlla strutture politiche, forze dell’ordine, Zec e mass media. La possibilità dell’opposizione di fare campagna elettorale è costantemente messa in discussione dall’introduzione di provvedimenti apparentemente destinati a tutelare la sicurezza nazionale, ma che in realtà mirano a limitare il più possibile manifestazioni di dissenso.

In vista delle elezioni dello scorso agosto, il nuovo movimento di Chamisa, la Coalizione dei cittadini per il cambiamento (Ccc), è stato attaccato su più livelli. Le sue reali possibilità di fare campagna elettorale e mobilitare gli elettori sono state notevolmente limitate. Con l’applicazione selettiva del Maintenance of peace and order act del 2019 (che impedisce incontri pubblici se non viene avvertita la polizia con una nota scritta), all’opposizione è stato spesso impedito di tenere raduni e mobilitare i suoi sostenitori. Secondo Tendai Biti, parlamentare della Ccc, nella prima metà del 2023 sono stati vietati ben 63 incontri del suo partito.

Quando poi le manifestazioni si tengono, sono spesso interrotte dalle forze dell’ordine che accusano i partecipanti di minare la sicurezza nazionale. In un’escalation di arresti, nel corso del 2023, numerosi sostenitori e membri del partito sono stati fermati con l’accusa di mettere a repentaglio l’ordine pubblico.

Ma non solo. Molte zone rurali sono state dichiarate «no-go areas», località in cui la Ccc non poteva recarsi, impedendole così di fare campagna elettorale in vaste parti del Paese. Un divieto che non si applicava alla Zanu-Pf, libera di intimidire gli elettori. Ugualmente, la Ccc non ha potuto accedere alle liste degli elettori registrati, nonostante la Zec sia obbligata a fornirle a tutti coloro che ne fanno richiesta e pagano la quota stabilita. Anche in questo caso, la Zanu-Pf ha fatto eccezione: le ha ottenute e se ne è servita per mobilitare i votanti e mandare sms intimidatori.

Ma ancora prima di riuscire a fare campagna elettorale, i membri dei partiti di opposizione hanno faticato addirittura a candidarsi. Il rialzo della tassa per partecipare alla corsa presidenziale, passata dai 16mila dollari del 2018 ai 20mila di oggi, ha contribuito a dimezzare le candidature a capo dello Stato, scese da 23 a 11. Allo stesso modo, è cresciuta la quota per concorrere a un seggio parlamentare (da 800 a mille dollari), rendendo difficile per l’opposizione, le cui risorse finanziarie sono minori rispetto alla Zanu-Pf, di competere alla pari.

È evidente come le richieste che la Zimbabwe election support network (Zesn) avanza dal 2018 siano finora rimaste completamente inascoltate. Le riforme elettorali non hanno mai portato alla creazione di un ambiente libero da violenze, intimidazioni e minacce, dove tutti i partiti possano fare campagna liberamente e la popolazione manifestare il proprio supporto all’una o all’altra parte.

Contro ogni forma di dissenso

Le misure degli ultimi anni hanno non solo colpito l’opposizione politica, ma limitato qualsiasi forma di disaccordo. Le forze dell’ordine non hanno fatto distinzioni nel sedare manifestazioni di studenti, medici o sostenitori dell’opposizione. Il messaggio era sempre lo stesso: qualsiasi forma di dissenso non è ammessa.

I medici zimbabweani scendono frequentemente in strada per chiedere migliori condizioni di lavoro e maggiori salari, venendo dispersi dalle forze dell’ordine. La stessa sorte tocca agli studenti dell’Università che, oltre a manifestare contro l’élite politica, protestano per le crescenti tasse universitarie che stanno rendendo il diritto allo studio ancora più esclusivo in un Paese dove, secondo l’Unicef, quasi la metà dei giovani non ha accesso all’istruzione.

Senza dimenticare i frequenti blocchi di internet che affiancano la dura reazione delle forze dell’ordine durante manifestazioni e proteste. Rendere difficile l’accesso alla rete è infatti uno strumento repressivo adottato per limitare la capacità dei manifestanti di organizzarsi e mobilitarsi.

Non va meglio a esponenti del mondo della cultura critici nei confronti del governo. La scrittrice Tsitsi Dangarembga è stata condannata a sei mesi con condizionale per aver partecipato a proteste contro la difficile situazione economica, mentre il musicista Wallace Chirumiko, dopo aver espresso il proprio malcontento nei confronti della classe politica, è stato minacciato e costretto a cessare la propria attività.

La legge patriottica

Il culmine nell’adozione di strumenti repressivi è stato raggiunto un mese prima del voto con la Criminal law (Codification and reform) amendment bill. Meglio conosciuta come Patriotic bill, la «Legge patriottica» criminalizza chi deliberatamente mina la sovranità e l’interesse nazionale dello Zimbabwe.

Tuttavia, il tono vago della disposizione, denunciato da Amnesty International, ne facilita la manipolazione e applicazione a piacimento da parte del governo. È infatti a discrezione dell’élite politica decidere se, quando e nei confronti di chi applicare condanne che vanno dalla perdita della cittadinanza, all’incarcerazione a vita, fino alla pena di morte. In violazione della Costituzione, che prevede la pena capitale solo in caso di assassinio con circostanze aggravate.

Esprimere il proprio dissenso diventa sempre più complesso e rischioso e, ancora una volta, sono colpite tutte le forme di opposizione: dalla politica, alla società civile, all’informazione. La libertà di espressione è stata ormai completamente messa al bando nel Paese.

Tanto che la portavoce della Ccc, Fadzayi Mahere, subito dopo l’approvazione della legge, ha affermato che Mnangagwa è addirittura peggiore di Mugabe e che ormai lo Zimbabwe si trova sotto piena dittatura. Il fatto che il provvedimento sia stato varato poco prima delle elezioni non è una casualità. Assieme agli strumenti repressivi già introdotti e alla onnipresente violenza elettorale, la Legge patriottica è un altro mezzo con cui la Zanu-Pf può mettere fuori gioco gli sfidanti più pericolosi.

Il paradosso di una «democrazia matura»

È stato in questo clima che lo Zimbabwe si è recato alle urne lo scorso agosto. I risultati comunicati dalla Zec non hanno riservato sorprese. Mnangagwa si è aggiudicato la presidenza per la seconda volta con il 52,6% dei voti, mentre Chamisa si è fermato al 44%. Festeggiando una rielezione scontata, Mnangagwa ha definito lo Zimbabwe una «democrazia matura» e ha detto di essere «orgoglioso che sia una nazione indipendente e sovrana». Tutto ciò nonostante l’opposizione abbia rifiutato il risultato e denunciato diverse irregolarità e brogli.

Prime tra tutte, le incongruenze nella registrazione degli elettori e nella definizione delle circoscrizioni. Alcuni votanti sono stati cancellati dagli elenchi, altri iscritti in sedi lontane chilometri. Alcuni seggi sono stati duplicati, altri posizionati in aree remote del Paese.

Oltre a tentare di scoraggiare la partecipazione elettorale degli zimbabwani residenti sul posto, ancora una volta, non è stata mantenuta la promessa del 2018 di permettere alla diaspora – circa 5 milioni di persone, il 30% della popolazione – di partecipare alle elezioni dall’estero, sostenendo che non fossero previsti collegi nelle sue aree di residenza. Una chiara dimostrazione dell’assenza di volontà politica di concedere diritto di voto a una frangia di popolazione il cui contributo alla fragile economia del Paese è significativo: secondo la Banca mondiale, nel 2021, le rimesse della diaspora erano pari a 2 miliardi di dollari, il 7% del Pil nazionale.

Non è andata meglio la giornata elettorale. Forti ritardi hanno costretto a mantenere aperti i seggi anche il giorno successivo: in alcuni distretti, tra cui Harare, fortezza dell’opposizione, le schede sono arrivate solo nel pomeriggio. Mentre Netblocks (organizzazione che monitora la libertà di accesso a internet) ha denunciato come la connessione internet fosse sensibilmente peggiorata già il 22 agosto, rendendo difficile sia accedere alle informazioni sia permettere alle notizie di uscire dal Paese.

Violenze e intimidazioni nei confronti dell’opposizione, limiti nell’accesso a un’informazione imparziale e pochi giornalisti – soprattutto stranieri – accreditati a seguire il voto sono tra le problematiche denunciate dalla Zesn – di cui 40 membri sono stati arrestati – e dai pochi osservatori stranieri presenti.

Brogli e frodi sono proseguiti anche dopo la conclusione delle procedure elettorali. A inizio ottobre, Jacob Mudenda, portavoce dell’Assemblea nazionale e membro della Zanu-Pf, ha detto di aver ricevuto una lettera dal segretariato generale della Ccc che comunicava che 15 parlamentari non appartenevano al partito. I seggi erano stati immediatamente dichiarati vacanti, nonostante la Ccc avesse preso le distanze dal comunicato e ricordato di non avere un segretariato generale. Si trattava di una frode per tentare di ridurre il numero di parlamentari dell’opposizione e aumentare quelli della Zanu-Pf.

Crisi economica permanente

L’immagine dello Zimbabwe che emerge dopo il 23 agosto è simile – se non peggiore – a quella del Paese dopo una delle tante tornate elettorali manipolate da Mugabe. Uno scenario confermato da Freedom House (Ong Usa), che, analizzando lo stato della democrazia nel mondo, colloca lo Zimbabwe tra i paesi «non liberi».

Da decenni in una spirale di crisi economica e monetaria, disoccupazione e iperinflazione, il Paese ha accumulato un ingente debito con creditori esteri – nel 2022 pari a 14 miliardi di dollari, secondo la Banca africana di sviluppo – ed è prostrato dalle sanzioni occidentali varate all’epoca di Mugabe a causa delle violazioni dei diritti umani e in vigore ancora oggi.

Di fronte all’assenza di prospettive e alla sempre maggiore restrizione di diritti e libertà, molti giovani fuggono, cercando opportunità migliori negli stati vicini, ma anche in Europa e Stati Uniti. Al contempo, la classe politica corrotta continua a perpetuare il proprio potere, attraverso reti clientelari, senza preoccuparsi delle reali necessità della popolazione. La «seconda Repubblica» promessa da Mnangagwa, non è ancora arrivata.

Aurora Guainazzi




Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018


Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.

Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».

In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».

Le mani sulle istituzioni

«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».

Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.

D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.

Il presidente Robert Mugabe e la sua moglie e first lady Grace Mugabe. / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

La moglie Grace

Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.

Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.

Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.

Protesta ad Harare. / Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Opposizione in catene

L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.

Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.

La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.

Il pastore Evan Mawarire, leader di un movimento di protesta / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

Cristiani divisi

Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.

«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».

La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.

«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».

Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Quel che resta dell’economia

L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.

Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».

Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.

Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.

Enrico Casale