Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro

Tempi di crisi

Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.

Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016

Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.

Creare ponti

Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.

Milva Capoia
08/07/2016

Valmiki

Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016

Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.

Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.

Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.

Gianluca Iazzolino
08/08/2016

Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016

Di migranti e di Ius soli

Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.

Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?

Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).

Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?

Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016

Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.

Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).

Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.

Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.

Moschee negate

Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?

Bruno Cellini
07/07/2016

Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:

Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,

Alessandro Ferrari
12/07/2016




A mani nude

 

Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.
Un cantiere sul fiume Yamuna a Kalindi Kunj, periferia sud-est di Nuova Delhi. Lo Yamuna e’ considerato uno dei fiumi piu’ inquinati al mondo.

I Valmiki, fuori casta, sembrano avere il destino segnato. Vuotare le latrine private. Qualcuno cerca di opporsi e liberarli da una vita tra le più degradanti. Ma la tradizione è più forte della legge. E della religione. Reportage dall’India.

Fino al matrimonio, Meena non era mai stata del tutto cosciente di essere una Dalit, ovvero un’intoccabile. Per l’esattezza, una Valmiki, cioè membro di un gruppo di fuoricasta che occupa i gradini più bassi nell’intricata gerarchia sociale induista. Lo erano i suoi genitori, ma lei si era sempre presa cura dei fratelli minori e non li aveva mai seguiti nei loro giri mattutini.

Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto
Uno scorcio della stazione di Old Delhi, usata da molti come tornilet a cielo aperto

Una volta diventata madre, ha cercato lavoro, ma ha scoperto che non c’erano possibilità per una Valmiki come lei, se non pulire latrine. Per 15 anni, ogni giorno, ha così percorso le strade di Ramnagar, un sobborgo alla periferia Est di Nuova Delhi, reggendo sulla testa una cesta di vimini traboccante di escrementi umani. Lavorava per dieci famiglie della zona e cominciava il suo giro all’alba. Le facevano trovare la porta posteriore aperta. Lei si dirigeva in silenzio verso la latrina di casa e raccoglieva le feci aiutandosi con una scopetta o, a volte, a mani nude. Poi si spostava in un’altra casa. A fine mattina, svuotava il contenuto della cesta in una fogna aperta.

In cambio, ogni famiglia le versava 20 rupie al giorno (meno di 50 centesimi di euro, ndr), ma non sempre. A volte pagavano in ritardo, altre non pagavano affatto. Ma tutti le lanciavano i soldi a distanza.

La prima volta

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Il primo giorno lo ricorda bene. Il tanfo proveniente dalla sua stessa pelle le ha aggredito le narici, lei ha provato a reprimere i conati di vomito, ma invano. Le vertigini l’hanno sopraffatta, e il contenuto della cesta le si è riversato addosso. I passanti le giravano al largo, guardandola furtivamente e procedendo oltre. Trattenendo il respiro fin quasi a soffocare ha raggiunto una pompa d’acqua nel cortile di una casa. Alle prime gocce spillate, è sbucata la padrona, che le ha urlato contro. «Quella donna apparteneva alla casta dei Brahmini, e quella era l’acqua con cui lavavano il tempio», ricorda oggi Meena. «Una come me l’avrebbe contaminata».

Come lei, secondo un rapporto del 2014 di Human Rights Watch, esistono tuttora nel paese almeno 300mila famiglie. Donne e uomini che sopravvivono con la pratica della raccolta manuale di rifiuti umani, nota come «manual scavenging». E questo nonostante una legge approvata dal parlamento indiano nel settembre 2013 l’abbia messa al bando, e una sentenza della Corte suprema del marzo 2014 abbia richiamato gli stati indiani a far rispettare la legge e ad avviare programmi di «riabilitazione» per i raccoglitori manuali.

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Secondo Bezwada Wilson, fondatore e leader di Safai Karmachari Andolan (Ska), un’organizzazione che si batte per l’eradicazione della pratica della raccolta manuale, le leggi non bastano. «L’India si muove sempre in due opposte direzioni: il rispetto della Costitutione e la nostra cultura. E quest’ultima ruota attorno al sistema delle caste, che permea tutta la società indiana».

Figlio di raccoglitori manuali lui stesso, Bezwada ha abbracciato la battaglia contro la discriminazione di casta dopo aver letto «L’abolizione delle caste», un pamphlet scritto da Br Ambedkar nel 1936.

Oltre le caste

Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi
Leela, una manual scavenger, vive a Nand Nagri, periferia nord di New Delhi

Una foto del primo intellettuale dalit indiano campeggia nell’ufficio di Bezwada, a Nuova Delhi, e in case dalit in tutto il paese. Il tema delle caste è stato al centro di una polemica, cruciale per le sorti dell’India, che Ambedkar, sconosciuto all’estero, ebbe con il ben più noto Mahatma Gandhi. Per quest’ultimo le caste erano il collante della società indiana, mentre per il primo cristallizzavano le strutture di potere, legittimando sopraffazioni e abusi.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri che oggi conduce un risciò- taxi. New Delhi.

Negli ultimi decenni, personalità dalit sono emerse nella politica indiana, ma le violenze di casta continuano, e i dati, quelli noti per lo meno, sono raggelanti: secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche sul crimine, tredici Dalit sono assassinati ogni settimana, e almeno quattro donne dalit sono stuprate da membri di caste superiori ogni giorno. «Lo stupro di una donna dalit non è sempre percepito come un crimine», spiega Bezwada. «Per alcuni uomini di casta superiore, stuprare una Dalit è addirittura un modo per purificarla».

Soprattutto nel Nord dell’India, i Dalit sono associati ad attività che hanno a che fare con la materia organica, residuale: tagliano i capelli, trattano i cadaveri, conciano le pelli, puliscono latrine.

La raccolta manuale dei rifiuti umani è l’aspetto più evidente che alimenta l’intoccabilità, attraverso il contatto con liquami impuri che grondano tra i capelli, impregnano gli abiti, scivolano sulla pelle. La questione dei raccoglitori manuali s’intreccia così sia con la condizione dei fuoricasta che con le problematiche dell’igiene.

Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.
Meena, un’ex manual scavenger di Nand Nagri a casa sua. New Delhi.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), circa la metà della popolazione indiana pratica ancora la defecazione all’aperto. Nelle aree rurali e nelle baraccopoli urbane, dove mancano fogne e fosse asettiche, le famiglie usano latrine a secco o le cosiddette wada, aree comunitarie che richiedono una pulizia manuale. Quando nel 2014, Narendra Modi è stato eletto primo ministro, ha annunciato una campagna nazionale per modeizzare la situazione sanitaria indiana. Da allora, le amministrazioni locali hanno messo a disposizione della popolazione dei fondi per l’acquisto di articoli sanitari. Ma sono molte le famiglie in povertà che riscuotono il contributo senza però cambiare le proprie abitudini igieniche, e continuano ad affidarsi ai Valmiki.

Puro e impuro

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Secondo l’antropologo Assa Doron, non è solo una questione di latrine: la dicotomia tra puro e impuro è alle fondamenta dell’induismo. La pratica dei raccoglitori manuali appare difficile da sradicare perché crea, attraverso la degradazione e l’umiliazione dei Valmiki, la base materiale della rigida piramide sociale induista. Ma la religione è solo una delle lenti attraverso cui osservare il fenomeno.

A Durga Kund, un sobborgo di Varanasi, cuore della spiritualità induista, lo conoscono tutti come Safai Basti, il quartiere dei raccoglitori manuali. L’agglomerato di case basse sorge a poca distanza dal tempio principale, celebre per l’intonaco rosso fuoco che si staglia sul cielo dell’Uttar Pradesh, ma è distinto dall’abitato circostante come un’isola in mezzo al mare. Su quasi la metà delle centinaia di abitazioni spicca una croce. Molti dei Valmiki che vivono nella baraccopoli ammettono che, con la conversione al cristianesimo, speravano di sfuggire ai propri obblighi di casta. Come Saroch, oggi 40enne, rimasta orfana quando aveva 14 anni.

Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attivita’ di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.
Una donna Dalit, ed ex manual scavenger, impegnata in un’attività di riabilitazione creata dall’organizzazione per i diritti umani Safai Karmachari Andolan (SKA) a Ghaziabad, a nord di Delhi. Qui le donne lavorano in una cornoperativa sociale che produce borse per ottenere un reddito.

Racconta di aver provato a ribellarsi, rifiutando di seguire le orme dei genitori, ma nella comunità cominciò a circolare la voce che praticasse la magia nera. Si avvicinò così a una chiesa evangelica, immaginando che abbracciare una nuova fede avrebbe cambiato la sua vita. E invece rimase una Valmiki anche tra i nuovi confratelli cristiani, incapace di scrollarsi di dosso la sua identità di casta e trovare un lavoro diverso.

Inoltre, essendosi convertita, perse anche il diritto ad accedere al sistema di quote previsto nell’amministrazione pubblica per i Dalit. Saroch, anche se cristiana, riprese in mano la cesta di vimini dei genitori.

Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Una mamma pulisce la sua bimba nella sua casa a Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Il sistema delle caste che plasma il presente e il futuro dei Valmiki va così oltre l’induismo: riguarda anche cristiani, musulmani e, in misura minore, buddisti. È stato addirittura rinvigorito dall’apertura del paese al libero mercato. Come spiega Ramesh Nathan, segretario generale del Movimento nazionale dalit per la giustizia, l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 ha creato un sistema di appalti che premia gli imprenditori capaci di tagliare al massimo i costi. Un caso esemplare è quello della rete ferroviaria indiana, un gigante di 65.000 km su cui 14.300 treni trasportano 25 milioni di passeggeri ogni giorno. Gli scarichi l’hanno resa la latrina a cielo aperto più grande del mondo. Per ripulire i binari, le società private impiegano la manodopera più economica sul mercato: gli uomini valmiki. La servitù di casta si sposa così con la logica neoliberista.

Difficile uscie

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Per le donne valmiki, impegnate soprattutto nella pulizia di latrine in case private, Ska ha avviato dei programmi di sostegno economico. A Ghaziabad, un villaggio a Nord di Delhi, una trentina di donne cuciono borse vendute nel circuito del commercio equo e solidale. L’età è varia, ma condividono esperienze simili. C’è chi ha praticato la raccolta manuale dall’adolescenza e chi ha cominciato dopo il matrimonio perché così faceva la famiglia del marito. Hanno abbandonato da poco l’attività ma molte continuano a soffrire l’umiliazione degli avanzi di cibo lanciati in una busta, o dell’acqua negata, o della loro stessa identità ridotta alle ceste che trasportano sul capo.

Nelle manifestazioni organizzate per richiamare l’attenzione del governo sul dramma delle donne valmiki, quelle ceste hanno alimentato dei falò, ma c’è chi non esclude la possibilità di tornare al lavoro di raccoglitrice manuale: anche chi si dice felice della nuova attività non riesce a liberarsi dal timore di essere prigioniera di un destino già tracciato.

Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.
Durga Kund, un sobborgo di Manual Scavangers di Varanasi.

Lo stesso fatalismo è espresso da Leela, che abita a pochi passi dalla casa in cui Meena vive con il marito e una figlia a Ramnagar. «Perché non sono riuscita a trovare un altro lavoro? Forse perché non era destino». Continua a pulire latrine nella zona, aiutata talvolta dalla figlia e dal figlio, mentre il marito lavora per una società che si occupa della manutenzione delle fogne. Un tempo si accompagnava a Meena, ma da un anno Meena ha preso un’altra strada: grazie all’aiuto di Ska ha ricevuto un risciò elettrico per il trasporto passeggeri. Leela nota che la vita di Meena è cambiata: sembra più sicura di sè e, anche se continua a subire discriminazioni, non ha più paura. «Dopo aver bruciato la sua cesta di Valmiki – dice Meena – non è certo il traffico di Nuova Delhi a spaventarmi».

Gianluca Iazzolino


Gianluca Iazzolino, africanista, è collaboratore di MC. | Eloisa d’Orsi, fotogiornalista freelance, collabora con diverse testate. I suoi ultimi lavori riguardano le frontiere in area Schengen (www.eloisadorsi.com).