Mosca soffre (ma non piange)


Anche nella capitale russa la guerra in Ucraina (già «operazione speciale») si fa sentire, ma il popolo russo è abituato alle privazioni. Che però pesano molto su istituzioni prestigiose come l’Accademia delle scienze.

Mosca è una città tranquilla. Passando per le sue vie affollate di gente, quasi non ci accorgiamo che è la capitale di una nazione in guerra. Di guerra, anzi, non se parla quasi più. Un segno che il conflitto ucraino è entrato nella vita quotidiana di molti cittadini; una delle molte scocciature a cui ormai sono abituati, come la corruzione, la burocrazia, le difficoltà economiche.

A differenza delle ultime visite*, però, ci accorgiamo della moltiplicazione di manifesti a sfondo bellico: soldati in assetto di guerra, inviti all’arruolamento volontario (e non), esortazioni a non abbandonare il proprio paese (e Putin) nell’ora del bisogno, a combattere i neonazisti (alias gli ucraini).

La stessa parola «guerra» è stata sdoganata, oltre che da molti politici, anche tra la gente di strada dopo che per mesi era stata abolita dal vocabolario a favore di una indefinita e più neutra «operazione speciale».

Mosca non è alle strette, come spesso si vuole far intendere nei talk show televisivi nostrani: l’economia del paese, dopo aver subito il colpo delle sanzioni con stime di una preoccupante recessione, ha reagito con una contrazione inferiore alle prime aspettative. Di fronte a una diminuzione del Prodotto interno lordo (Pil) pari al 7-12% stimata dal ministero dell’Economia, oggi le cifre dello stesso dicastero parlano di un calo del 4,2%. Probabilmente la verità sta nel mezzo e gli stessi organismi internazionali (Oecd, Fmi, Banca mondiale) assestano la contrazione tra il 6 e il 9%. Male, ma non malissimo. La Russia può aggirare parte delle sanzioni avvalendosi delle sue relazioni con i paesi che non vi hanno aderito (Cina, Iran, Pakistan, Kazakhstan, Armenia, Serbia, Turchia).

Cartelloni di propaganda dell’esercito russo per le strade della capitale. Foto Yuri Kadobnov – AFP.

Prodotti e ricambi

Sugli scaffali dei supermercati mancano i prodotti stranieri di cui i russi si rifornivano con piacere e abbondanza. Non c’è più il whiskey, le birre ceche e irlandesi, i vini francesi, la pasta italiana, i formaggi. Mancano anche gli abiti firmati e, cosa ben più impattante, i pezzi di ricambio delle auto. Ma questi sono gli effetti secondari delle sanzioni, quelli che meno interessano ai paesi che le hanno imposte. Già, perché, a parte i proclami propagandistici e trionfanti lanciati dai media italiani (quelli europei sono sempre stati meno «ottimisti»), l’embargo non è tanto diretto a colpire l’economia «spicciola» della Russia. Nessuno si era illuso che gli oligarchi subissero danni così ingenti da convincere, con le buone o con le cattive, Putin a fermare la sua pazza impresa in Ucraina. Del resto, la stragrande maggioranza della popolazione vive di sussistenza, dei prodotti del loro lavoro nei campi, di pastorizia, di servizi. È un popolo, quello russo, abituato alle privazioni, alla durezza della vita che la stessa geografia del territorio aggrava. E Putin lo sa bene, visto che proprio da questa fetta di popolazione riceve la più assoluta abnegazione e fedeltà. Le sanzioni sono invece dirette a danneggiare la produzione bellica. E su questo hanno fatto centro.

L’arresto dell’avanzata russa e, anzi, l’arretramento delle proprie forze dai territori già conquistati, è in gran parte dovuto a una mancanza di ricambi che hanno costretto l’esercito a cannibalizzare i propri mezzi. Carri armati, camion, velivoli, artiglieria che necessitano di riparazioni devono ottenere i pezzi necessari da altri mezzi funzionanti che, arrivati in Ucraina per essere utilizzati sul campo, ora fungono da magazzino di ricambi. Le industrie militari, prive di scorte, lavorano a singhiozzo utilizzando materiali scadenti. La Cina, a cui Putin guardava sperando fungesse da arsenale militare, a parte le dichiarazioni formali in appoggio a Mosca, non ha mai trasformato le parole in fatti. Xi Jinping sa di non aver bisogno di Putin e, anzi, di lui proprio non si fida, continuando la consuetudine di amore-odio iniziata sin dai tempi di Mao e Stalin.

La polizia moscovita ferma una donna che protesta contro la mobilitazione parziale decretata da Putin lo scorso 21 settembre. Foto AFP.

La minaccia nucleare

Più volte è stato detto che un Putin messo alle strette è molto più pericoloso di un Putin libero di agire, anche impunemente, nel campo d’azione che storicamente è legato alla vecchia Rus’ (l’entità politica sviluppatasi nel X-XI secolo e da cui sono nati Ucraina, Bielorussia e Russia, ndr). Molti temono che il leader del Cremlino, vistosi braccato e senza via d’uscita, non esisterebbe a lanciare l’ultimo suo messaggio al mondo: una testata nucleare.

Ma nell’universo politico non tutto è lineare: vi sono richieste che vengono espresse in forma fittizia, così come vi sono azioni già da tempo decise (come, ad esempio, l’invasione dell’Ucraina), che vengono celate da frasi concilianti fino a pochi minuti dalla loro attuazione. Sono in molti, quindi, a credere che sotto le minacce nucleari vi sia invece una disperata ricerca di dialogo da parte del governo russo che permetta di raggiungere un accordo (o un armistizio) che possa salvare la faccia a Mosca.

Putin sa molto bene che le sue armi sono tecnologicamente poco affidabili e che molti dei vettori che dovrebbero lanciare le bombe atomiche custodite nei suoi arsenali sono inutilizzabili. I sistemi di sorveglianza degli Stati Uniti e della Nato sono sufficientemente sofisticati da poter individuare ogni singolo movimento sospetto e allertare il sistema di difesa. Naturalmente nessuna rete potrebbe garantire la copertura totale, ma lo scoppio anche di una singola bomba nucleare, tattica o strategica che sia, segnerebbe la fine di Putin e del suo governo.

Inoltre, i codici di lancio sono conservati nelle valigette di tre diverse persone: oltre allo stesso presidente della Russia, le chiavi sono in mano al ministro della Difesa (Sergei Shoigu) e al capo di Stato maggiore, il generale Valery Gerasimov. Quest’ultimo è ben conosciuto dai comandi Nato che ne stimano la volontà di dialogo. È stato Gerasimov, proprio nei giorni più travagliati della minaccia nucleare (ottobre 2022), a chiedere un colloquio telefonico con la controparte britannica per cercare di evitare un’escalation del conflitto.

Un eventuale coinvolgimento di armi nucleari nella contrapposizione Est Ovest (termini che si pensava ormai desueti, ma che l’invasione ucraina ha rispolverato) rischierebbe di coinvolgere anche la Cina, assolutamente restia a una destabilizzazione che stravolgerebbe i suoi piani di sviluppo economico.

Cupole ortodosse a Mosca; la Chiesa guidata dal patriarca Kirill è schierata con Putin e per la guerra. Foto Vadim Danilov – Unsplash.

Putin e gli scienzati

Gennady Krasnikov, uomo di Putin, nuovo presidente dell’Accademia delle scienze russa. Foto Wikimedia.

All’Accademia delle scienze incontriamo diversi scienziati, tecnici, ingegneri. La questione nucleare viene proposta regolarmente nelle discussioni informali, a pranzo, a cena, durante le pause di lavoro. Pochi sono coloro che credono a una reale volontà da parte di Mosca di innalzare la tensione del conflitto inviando su un territorio considerato ostile (dai politici) un ordigno atomico. Qui l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, sono visti con rispetto per il loro contributo alla scienza e la proficua collaborazione con la Russia avuta fino al 24 febbraio 2022. È proprio nelle stanze e nelle aule di questa prestigiosa istituzione (nel 2025 compirà 300 anni), che è nato il primo nucleo della resistenza alla guerra contro l’Ucraina. Pochi giorni dopo l’invasione, alcuni membri della dirigenza hanno compilato una lettera in cui si chiedeva a tutti gli scienziati di lasciare da parte «posizioni e azioni dettate non dagli interessi della scienza». Accanto a questa, un’altra lettera redatta da «studiosi, scienziati ed esponenti del giornalismo scientifico russi» e rivolta direttamente alla dirigenza nazionale, chiedeva a Putin di fermare un’azione priva di senso affermando che «la responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia».

Lo scontento nelle istituzioni scientifiche è emerso il 20 settembre 2022, quando il fisico Alexander Sergeev, fino ad allora presidente dell’Accademia delle scienze e dato per riconfermato, ha ritirato la sua candidatura alla nuova presidenza a causa di «pressioni amministrative», aggiungendo che la sua era stata una «decisione forzata». Al suo posto è subentrato Gennady Krasnikov, Ceo della Mikron, la più grande industria produttrice di microchip russa, che con 871 voti ha surclassato il diretto rivale, Dmitriy Markovich, direttore dell’Istituto di ricerca termofisica di Novisibirsk, a cui hanno dato fiducia 397 elettori.

Gennady Krasnikov ha la stima di Putin, in particolare dopo che nel 2014, a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia, ottenne dal leader l’incarico di priorità assoluta nella produzione di chip per l’industria nazionale. Nel suo primo discorso da presidente, Krasnikov ha introdotto il concetto, caro a Putin, di «sovranità tecnologica» collegando la crisi che sta gravando sulla scienza russa, non all’ingerenza del governo di Mosca, ma alle sanzioni internazionali. È stato ancora Putin, nel 2013, a legare ancora di più l’Accademia delle scienze al governo, privandola del controllo sugli istituti di ricerca a essa collegati.

familiari salutano gli uomini in partenza per il fronte ucraino (4 ottobre). Foto Sefa Karacan – Anadolu Agency – AFP.

Le conseguenze

Subito dopo l’invasione dell’Ucraina diversi stati hanno congelato le loro collaborazioni con le istituzioni di ricerca russe, isolando il mondo scientifico, un tempo vanto della nazione.

Le sanzioni hanno rallentato, se non addirittura fermato, alcuni studi ed esperimenti scientifici: molti macchinari sono ormai inutilizzabili perché privi di manutenzione o di pezzi sostitutivi di quelli guasti.

La spesa per la ricerca e sviluppo, già bassa nel 2020 (1,1% del Pil), nel 2022 si prevede crollerà sotto l’1%. Il colpo è stato duro e la ricerca russa ne subirà le conseguenze per diversi anni, se non per decenni.

La guerra non ha solo falcidiato vite umane e distrutto infrastrutture, ma ha congelato i programmi di sviluppo scientifico di un intero paese scavando una formidabile trincea che rischia di separare la Russia dallo sviluppo in atto nelle nazioni mondiali, Cina e India in primis.

Piergiorgio Pescali*

 * L’autore, storica firma di MC, frequenta Mosca e l’Accademia delle scienze russe in qualità di collaboratore scientifico per alcuni suoi istituti.

 




Chi gioca alla guerra, chi crede nella pace


Incontro con uno dei promotori di Stop #Stopthewarnow

Una rete di 175 enti italiani porta in Ucraina aiuti contro fame e freddo, mette in salvo i più fragili, realizza progetti per l’acqua potabile, ma soprattutto stabilisce relazioni con persone e società civile locale per far crescere la pratica della pace. In Ucraina come in Italia ed Europa.

«Le armi non sono mai state la soluzione», recita un post dell’11 ottobre scorso sul profilo Facebook di «#Stopthewarnow» («ferma la guerra ora»), rete di 175 enti italiani impegnati in azioni nonviolente e umanitarie in Ucraina. Il giorno prima c’era stata la rappresaglia russa per l’attentato ucraino al ponte di Crimea, simbolo del potere del Cremlino: «In poche ore, 83 razzi e 17 droni colpiscono 14 regioni ucraine», prosegue il post. Solo una settimana prima, gli attivisti della rete erano stati a Kiev, nei luoghi che poi sarebbero stati bombardati. «Dopo mesi di terrore […] la guerra continua senza sosta […] – conclude il post -. Chiediamo con forza ai governi e a tutti noi cittadini di mobilitarsi, con ogni azione possibile, a favore di un immediato cessate il fuoco. Ora, prima che sia troppo tardi».

Un rete per la pace

La rete #Stopthewarnow, dal marzo scorso, ha organizzato quattro carovane della pace nei territori ucraini coinvolgendo in totale più di 500 volontari. Ha portato decine di tonnellate di beni alla popolazione; aiutato profughi a fuggire, soprattutto poveri che non ne avrebbero avuto i mezzi; ha portato in salvo decine di orfani e persone con disabilità; ha stabilito una presenza permanente a poca distanza dal fronte per dare aiuto, ad esempio con l’attivazione di dissalatori per fornire acqua potabile a Mykolaïv; ha avviato relazioni con realtà locali impegnate nell’assistenza alle vittime, nella resistenza nonviolenta e nel sostegno agli obiettori di coscienza, sia ucraini che russi.

Fin dai primi giorni della guerra, la rete ha proposto una lettura del conflitto diversa rispetto a quella dominante che vede nelle armi (sempre più potenti) l’unica modalità di difesa, e considera la resistenza nonviolenta una resa.

«La rete è nata per lanciare un messaggio di solidarietà e di opposizione al conflitto in Ucraina e per costruire un’alternativa alla follia della guerra – si legge nella home di stopthewarnow.eu -. È coordinata da una cabina di regia composta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, Pro civitate christiana e dalle reti nazionali Focsiv, Aoi, Rete Italiana Pace e Disarmo, Libera contro le mafie, in rappresentanza delle associazioni aderenti».

Sentiamo Gianpiero Cofano, uno dei promotori della rete, per farci dire com’è nata, cosa fa e con quali obiettivi.

In prima persona

StopTheWarNow, carovana Mykolaiv

«Io sono il segretario generale dell’Associazione comunità papa Giovanni XXIII (in sigla, Apg23, ndr.), nata nel 1968 da don Oreste Benzi e presente oggi in cinquanta paesi del mondo», si presenta Cofano, classe 1975.

«Ho iniziato la mia esperienza come obiettore di coscienza 28 anni fa. Ho vissuto per sei anni in zone di guerra: sono stato nei Balcani, in Kosovo, in Chiapas e altrove. L’Apg23, infatti, ha un corpo specializzato, l’Operazione Colomba, che interviene in situazioni di conflitto».

Quando è iniziata la guerra in Ucraina il 24 febbraio, l’Apg23 aveva una sua famiglia in missione a Leopoli. «Mi chiedevano di evacuare. Allora mi sono mosso per aiutarli, e quella è stata l’occasione per decidere di andare direttamente in Ucraina.

Da lì a una settimana, ci siamo messi in macchina per Leopoli. Era uno dei momenti più drammatici: scappavano dal paese in centinaia di migliaia. Tant’è che quando abbiamo tentato di entrare, le autorità polacche non ce lo consentivano: “Dove volete andare? Questa è una guerra”; e noi: “Sì, ma noi lo facciamo per lavoro”, e dopo il primo giorno di trattative, siamo riusciti a passare.

Si può dire che quello è stato il primo atto di #Stopthewarnow. E vedendo tutte quelle persone scappare, ho pensato: “In centomila scappano, sarebbe bello che in centomila venissero qui a implorare la pace”».

Parlamentari in Ucraina

Dopo i primi giorni concitati, Cofano e il gruppo di Apg23 hanno iniziato a prendere contatti e incontrare i vescovi, la Caritas, le Ong locali e, soprattutto, la gente: «Abbiamo passato diverse notti nei rifugi con la popolazione quando scattavano gli allarmi antiaereo – ci dice -, e così abbiamo sentito i primi racconti della gente che scappava dal fronte dove c’erano state già le prime uccisioni e distruzioni».

Nel frattempo, l’idea di portare 100mila persone in Ucraina, accompagnata dal ricordo delle marce per la pace di Sarajevo, si rafforzava. Ma far arrivare anche solo 10mila persone in quel contesto era impossibile: «Allora ho pensato: “Chiamo i rappresentanti dei cittadini, i parlamentari, per invitarli a venire con noi in Ucraina, e al ritorno portiamo alcuni bambini orfani sfollati dal fronte”. Hanno aderito più di quaranta parlamentari di ogni schieramento: un fatto straordinario! Poi, però, il ministero degli Affari esteri, e l’allora ministro Di Maio, ci hanno bloccati. L’unità di crisi mi convoca per dirmi che “no, voi siete matti, rischiate di far esplodere una guerra mondiale. Se qualcuno dovesse bombardare una delegazione di politici, saremmo costretti a entrare in guerra. È troppo pericoloso, non giocate alla guerra”, io ho risposto che, al massimo, noi crediamo nella pace, non giochiamo alla guerra».

«Toccare la carne viva»

#Stopthewarnow è una rete, a oggi, tra le più grandi in Europa. «Sono 175 enti di qualsiasi tipo – precisa Cofano -. Hanno aderito anche aziende, cooperative, sindacati, fino a tanti movimenti, anche della Chiesa cattolica, associazioni, e così via. Il fattore comune è quello di voler fare azioni di pace, di guardare questo conflitto da un altro punto di vista che non sia soltanto quello dell’invio delle armi, e quindi di sognare una pace nella quale siano protagonisti anche i civili».

Dopo un mese dall’inizio della guerra, #Stopthewarnow ha organizzato una prima carovana: «Ci siamo detti: “Ci sono organizzazioni umanitarie molto più strutturate di noi, però in questo momento non se ne vedono, e gli ucraini hanno bisogno».

Trentadue tonnellate di aiuti, 221 volontari, 67 automezzi, sono partiti il primo aprile da Gorizia per raggiungere Leopoli. «C’erano lunghissime code alla frontiera con la Polonia per uscire dall’Ucraina. Quasi nessuno in ingresso. E gli ucraini dicevano: “Ma cosa fate?”. E noi: “Veniamo a capire cosa state vivendo, a portare un messaggio di pace, stringere, abbracciare, toccare la carne viva”, come dice il papa nel suo ultimo libro sulla pace».

Non lasciamoli soli

All’inizio della guerra, chi aveva i mezzi economici è potuto scappare. Chi, invece, non li aveva, è dovuto rimanere sotto le bombe.

#Stopthewarnow, dopo aver consegnato gli aiuti, ha portato in Italia circa 300 tra bambini, anziani, persone con disabilità, poveri evacuati dalle regioni bombardate di Kramators’k e Mariupol. «Nei mesi successivi abbiamo fatto evacuare altre mille persone, sempre andando a scegliere quelli che non avrebbero avuto nessuna chance», continua Cofano. «La popolazione locale si domanda perché rischiamo la nostra vita per loro. Ma io penso che noi non possiamo preoccuparci di questa guerra solo perché si alza la bolletta energetica. Noi abbiamo il dovere di non lasciarli da soli».

Presenza

Tra le iniziative della rete in Ucraina, c’è anche quella di una presenza permanente a Mykolaïv. «La città si trova a cinque chilometri dal fronte. Durante il giorno passi più tempo nei rifugi antiaereo che fuori. Per noi l’obiettivo più grande è non lasciare nessuno da solo in questo momento in cui la sofferenza e la solitudine possono ammazzare più delle bombe».

Nel mondo, le presenze stabili di operatori nonviolenti sono diverse. L’Operazione Colomba, ad esempio, è presente in Palestina (cfr MC, gennaio 2021, p. 21), in Colombia e altrove.

Dall’inizio di questa guerra, #Stopthewarnow ha deciso di crearne una anche in Ucraina, persone che stanno lì per alcuni mesi, alternandosi, in modo da essere sempre almeno 5 o 6. «Sono piccoli gruppi di giovani selezionati e formati. A Mykolaïv, che è una città industriale sul mare, stiamo sviluppando dei progetti per affrontare il problema dell’acqua. Nei mesi scorsi sono scappate 250mila persone e ne sono rimaste 200mila, di cui l’80% anziani che vivono con i pasti offerti dalle mense di piccole organizzazioni locali. E non c’è acqua, perché l’acquedotto che arriva da Cherson è interrotto, e il sistema che filtrava l’acqua del mare è distrutto. L’acqua potabile arriva soltanto con le autobotti. Allora abbiamo iniziato a costruire dei dissalatori. Ce ne vorrebbero trenta per tutta la città. L’ultimo che abbiamo installato soddisfa circa 5mila persone al giorno».

Oltre all’aiuto materiale, lo scopo della presenza del gruppo a Mykolaïv è la vicinanza con la popolazione. «Andiamo anche nelle zone del fronte. Lì incontriamo anziani che non lasciano i villaggi nei quali hanno vissuto magari 70 anni. Quando andiamo, ci dicono: “State con noi, non fateci morire da soli, non dimenticateci. La vostra presenza ci dà speranza, coraggio”».

«Questa è la pace!»

Nei mesi, la rete ha portato in Ucraina più di 500 civili italiani. «Molti sono membri delle associazioni, ma altri no, come, ad esempio, un ex operaio di 74 anni che è già venuto due volte.

Alla prima carovana avevano aderito 1.250 persone. Poi, per ragioni logistiche e di sicurezza, anche perché in Ucraina c’è la legge marziale e sono vietati gli assembramenti, abbiamo scelto di portarne solo 220. Questo per dire che nel popolo, nella gente semplice, c’è una forte volontà di pace. Un altro esempio è quello di una famiglia: sono venuti a Mykolaïv due genitori e le loro due figlie di 18 e 19 anni. Su un pulmino stracarico, un papà e una mamma si sono assunti la responsabilità di portate sotto le bombe le loro figlie. È straordinario. Una famiglia per la pace che, quando è tornata indietro, ha portato con sé diversi ragazzi con disabilità che ora vivono con loro. Questa è la pace».

La carovana «politica»

L’ultima carovana ufficiale di #Stopthewarnow in ordine di tempo, tra il 26 settembre e il 3 ottobre, è stata quella più «politica»: accanto alla consegna di aiuti alla città di Chernivtsi, dove i volontari hanno constatato l’urgenza di far arrivare aiuti dall’estero a causa della riduzione del sostegno alla popolazione da parte del governo centrale, infatti, la carovana aveva lo scopo principale «di tessere rapporti di cooperazione con la locale società civile, a partire da due temi chiave – si legge in un articolo del 6 ottobre sul sito di Focsiv, la Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana che è tra i promotori della rete -: la necessità di tornare a pensare e costruire la pace in tempo di guerra, ed il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, messo in discussione tanto in Russia quanto in Ucraina».

Il programma della carovana si è snodato tra l’università di Chernivtsi e Kiev, tra incontri con studenti universitari, organizzazioni di volontariato, sindacati, resistenti nonviolenti provenienti dai territori occupati, obiettori, pacifisti, istituzioni diplomatiche, la nunziatura apostolica e professionisti del peace building.

Il tema dell’obiezione è stato uno di quelli trasversali. Quando è scattata la legge marziale con l’inizio della guerra, la legge per l’obiezione di coscienza è stata subito sospesa. I 5mila ragazzi che avevano fatto domanda prima del 24 febbraio ed erano in attesa di una risposta per il servizio civile si trovano oggi in una situazione incerta: sono tutti richiamabili, ma chiedono al governo di svolgere il loro servizio alla nazione in ambito civile.

«C’è chi vuole mettere in atto forme di resistenza nonviolenta in Ucraina – prosegue il nostro interlocutore -. Però in questo momento tu sei obbligato ad andare al fronte se non vuoi rischiare una condanna. Noi cerchiamo di aprire vie di dialogo per sostenere, attraverso atti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, soprattutto europea, coloro che non credono nelle armi, e vogliono percorrere, invece, altre strade. Sia in Ucraina che in Russia gli obiettori sono di più di quelli che si palesano, ma quando c’è la legge marziale da una parte e il controllo totale dell’informazione dall’altra, è difficile capire quanti sono davvero».

Tra le conseguenze concrete della quarta carovana, c’è l’attivazione di «gemellaggi» e supporti a distanza tra realtà affini in Italia e Ucraina. Ad esempio, tra il Movimento nonviolento italiano e il Movimento pacifista ucraino per il pagamento delle spese legali a favore degli obiettori incriminati, o l’avvio di partnership tra università ucraine e i dipartimenti universitari che in Italia ed Europa si occupano dello studio delle strategie della pace.

Operatori di pace

#Stopthewarnow, oltre a operare in Ucraina, cerca di costruire consenso sulla pace e le sue strategie nonviolente in Italia e in Europa. Uno dei segni di questo, sono le manifestazioni per la pace che hanno portato 30mila persone in più di 100 piazze italiane tra il 21 e il 23 ottobre, e la marcia di 100mila del 5 novembre a Roma, promossa dalla rete Pace e Disarmo tramite Europe for Peace, cartello di più di 600 realtà della società civile Europea, a cui anche i missionari italiani e le loro riviste hanno aderito. «Uno degli obiettivi delle carovane in Ucraina è quello di far sì che questa non diventi l’ennesima guerra dimenticata nel mondo – chiosa Cofano -. In uno degli ultimi viaggi fatti a Mykolaïv, ho detto ai volontari: “Voi pensate di essere venuti qui per scaricare i vostri pulmini, come per scaricare le vostre coscienze: ‘Ho portato gli aiuti ai bambini che soffrono e agli anziani’, e quindi di tornare belli leggeri a casa”. Ho detto: “No, mi dispiace, tornerete ancora più pesanti, perché portate a casa l’angoscia, la violenza, il pianto delle persone che avete incontrate. Il nostro vero lavoro comincia adesso, condividendo, testimoniando in Italia quello che abbiamo vissuto”. Io sogno che, quando organizzeremo altre carovane, ci saranno sempre più persone. Allora sì che avremo fatto politica, e che i politici ci terranno in considerazione. Qualcuno mi dice che bisognerebbe parlare con loro, ma io rispondo che dovrebbero venire loro a chiederci cosa abbiamo visto. Perché della guerra non sanno niente, non ci sono mai stati, e hanno votato cose senza conoscere la realtà del paese».

Prossime tappe

Mentre scriviamo queste righe, #Stopthewarnow continua a ideare iniziative per i prossimi tempi: «In questi giorni stiamo valutando una proposta con un’organizzazione americana di andare a fare gli scudi umani a Zaporižžja, attorno alla centrale nucleare. Scudi umani internazionali a protezione della centrale nucleare, in un territorio controllato dai russi, sperando di fare da deterrente al bombardamento. Stiamo cercando un accordo anche con l’Aiea, l’agenzia atomica internazionale, che sta monitorando il sito. Abbiamo poi già deciso di compiere una nuova carovana in Ucraina: vogliamo continuare sulla scia delle precedenti, anche perché creano un effetto moltiplicatore di sensibilizzazione in Italia.

Continuiamo, poi, la nostra presenza a Mykolaïv, nonostante stia diventando sempre più dura anche per noi. Con la campagna per l’acqua in quella città dobbiamo fare presto, perché non si può trivellare con il ghiaccio.

Il comune denominatore delle realtà che compongono #Stopthewarnow è di partire dai bisogni rilevati dal basso nei luoghi della guerra, e poi quello di abitare il conflitto. Quindi vivremo con loro anche questo duro inverno. Staremo con loro: questa è la scelta di fondo. Non faremo tanto? Faremo nulla? Però saremo lì con loro. Sarà utile o non utile? Non dimenticarli sarà già una cosa utile».

Luca Lorusso

Siti:

 




In Ucraina, dove Caritas è speranza


foto di padre Luca Bovio


Con l’avvicinarsi dell’inverno, con don Leszek e Rika, un gruppo ormai ben collaudato e affiatato, mi metto in viaggio per l’Ucraina per portare aiuti e raccogliere testimonianze. Con l’auto piena di aiuti umanitari e con i permessi della Caritas passiamo la frontiera senza grandi difficoltà. Appena entrati in Ucraina ci colpisce immediatamente la mancanza di luce, non solo di quella naturale per le giornate ormai molto corte, ma anche e soprattutto di luce elettrica. Le strade sono buie. Ci raccontano che il 40 % della produzione di energia in tutto il paese è fuori uso a seguito degli ultimi attacchi avvenuti alle centrali elettriche nel mese di ottobre. Il carburante e i generi alimentari, invece, si trovano senza difficoltà, soltanto a prezzi raddoppiati.

Trascorriamo la prima notte nella città di Lutsk, a meno di due ore dal confine con la Polonia. Siamo ospitati dal vescovo della diocesi, S.E. Vitalij Skomarovs’kyj. Durante la cena ci racconta circa la situazione attuale dalla sua diocesi. Lutsk, pur trovandosi lontano dai territori dei conflitti che avvengono ad Est e a Sud del paese, è stata colpita le scorse settimane per danneggiare la centrale elettrica causando così la perdita parziale di corrente. Oltre a questo, il problema più grande che qui si deve affrontare è l’accoglienza dei profughi arrivati dall’Est del paese. Ogni settimana presso il centro della Caritas della diocesi vengono distribuiti aiuti per oltre 300 nuclei familiari. Grazie alla generosità di diversi benefattori possiamo lasciare una somma che aiuterà l’acquisto di generi alimentari e di beni di prima necessità.

Con il vescovo di Lutsk, mons Vitalij Skomarovs’kyj

Il giorno successivo, di buon mattino, ci mettiamo in macchina per raggiungere la capitale Kiev, dove, negli ultimi giorni, il numero degli attacchi è diminuito. A differenza di luglio, quando arrivammo qui l’ultima volta, notiamo un minor numero di controlli stradali. La città mostra ancora le ferite degli attacchi precedenti ai palazzi e alle infrastrutture. Facendo una passeggiata alla sera vediamo nel centralissimo parco della città il nuovo ponte distrutto da un razzo poche settimane fa. Gli abitanti della città vivono normalmente, ci racconta il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, che gentilmente ci ospita. La corrente elettrica è collegata solo per poche ore al giorno e i grandi quartieri della città devono fare a turno per riceverla. Sono tantissimi i palazzi popolari molto alti, a volte di 30 piani, dove vivono migliaia di persone. La mancanza di energia interrompe l’uso degli ascensori obbligando a raggiungere a piedi il proprio appartamento. Il giorno successivo, prima di lasciare la città, visitiamo brevemente una parrocchia in costruzione dei padri Pallottini.

Dopo alcune ore di viaggio e dopo esserci assicurati sulla situazione raggiungiamo Charkiw, la seconda città per grandezza dell’Ucraina. La città è all’estremo Est del paese a soli 30 km dal confine con la Russia. Prima dello scoppio del conflitto, Charkiw contava più di 3 milioni di abitanti, oggi poco più di un milione. Qui gli attacchi sono quasi ininterrotti da febbraio e la città, così come la provincia, mostra tutte le sue ferite.

Arriviamo in serata avvolti da una nebbia molto fitta. La città è completamente al buio non solo a motivo del razionamento elettrico, ma anche e soprattutto per non dare riferimenti agli aggressori che sono stati respinti fino al loro confine a soli 30 km. A settembre erano arrivati a soli 10 km dal centro città per essere poi respinti di nuovo dietro al confine. Don Wojciech, sacerdote polacco che lavora qui da 6 anni, è il direttore diocesano della Caritas, attraverso la quale gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione.

Dopo l’arrivo siamo accompagnati da due volontari della Caritas in una zona popolare della città pesantemente colpita. In quei palazzi vivono centinaia di persone nelle cantine. Lì le incontriamo. Scendendo una scaletta illuminata dalla torcia del telefonino, incontriamo le prime famiglie che qui vivono da ormai otto mesi. Sono nuclei familiari grandi, composti dai nonni, dai genitori e da bambini, a volte anche molto piccoli. I locali sono scaldati o dai tubi del sistema principale di riscaldamento ancora intatto, oppure da alcune stufette a legna. I letti sono costruiti sopra dei bancali di legno usati per le merci e ammorbiditi da materassi o da coperte. Quello che colpisce è la semplicità con cui vivono queste persone che riescono a sorridere incontrandoci e ringraziano continuamente per tutto quello che facciamo. Una tra queste ci dice: «Padre ci sono persone che stanno peggio di noi». Siamo guidati per i corridoi delle cantine. Su ogni porta con un gessetto ci sono scritti i cognomi e il numero della famiglia che in quella cantina vive. Una cantina è attrezzata con un wc rialzato da dei bancali e serve per decine di famiglie.

Una famiglia ci spiega che nella propria cantina hanno l’accesso a internet grazie a un vicino che abita al pian terreno e che ha messo il router in una posizione favorevole affinché il segnale arrivi. Un’altra cantina è organizzata come spazio di incontro per i bambini. Chi vive in queste condizioni in varie parti della città sono coloro che hanno la casa completamente distrutta o gravemente danneggiata. Una signora ci spiega che il suo appartamento al sedicesimo piano è del tutto senza finestre distrutte dall’onda d’urto delle esplosioni. Se anche le finestre fossero intere o riparate, lei sceglierebbe comunque di stare in cantina perché i piani alti dei palazzi sono quelli più esposti alle esplosioni.

Dopo questa toccante visita, conclusasi con abbracci e con la promessa che non li avremmo dimenticati, andiamo a trovare un parroco in un quartiere periferico della città. Ci racconta che nella sua parrocchia c’erano circa mille cattolici. Ora solo 4 o 5 vengono ancora per la Messa domenicale, tutti gli altri sono scappati. Nelle sale della parrocchia vivono alcuni anziani che qui si sentono più al sicuro che nelle proprie case. Nel garage ci mostra i resti di alcuni razzi caduti nei pressi della chiesa che per fortuna non è stata seriamente danneggiata. Ci fa vedere un mucchio di schegge affilate come rasoi delle bombe a grappolo. Colpiscono tutto nei dintorni dell’esplosione.

La notte, nonostante le allerte che arrivano sui telefonini, trascorre tranquilla e finalmente il giorno successivo alla luce del giorno possiamo vedere la città coi nostri occhi. Siamo accompagnati dal giovane vescovo Pavlo Hončaruk. I grandi palazzi centrali della città sono quasi tutti senza finestre a motivo delle esplosioni. Alcune sono riparate con dei pannelli di legno, altre sono distrutte e senza vetri.

Scuola bombardata a Korobochkyne

Ci dirigiamo rapidamente nei villaggi fuori città in direzione Sud Est. Raggiungiamo un villaggio, Korobochkyne, accompagnati da una troupe televisiva polacca che avendo saputo della nostra presenza ci ha raggiunto per fare delle registrazioni. Andiamo in una scuola pesantemente colpita. La direttrice ci dà il benvenuto e ci mostra i danni dell’edifico. Ci racconta che i soldati russi hanno portato via anche le scarpe degli alunni più grandi lasciando solo quelle piccole. Alla domanda di che cosa più urgente ha bisogno, ci risponde che i suoi bambini possano ritornare al più presto nel paese e a scuola. Oltre alla distruzione degli edifici il problema più grande, ci spiegano due soldati, è quello delle mine. Nei campi attorno alla città sono state collocate molte mine che rendono impossibile e molto pericoloso ogni tentativo di coltivazione. Riceviamo un appello affinché l’esercito si possa occupare della messa in sicurezza del territorio. Ora capiamo inoltre perché nei campi tantissimo granoturco e frumento sono rimasti non raccolti.

Nel pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di vedere in città dove vengono distribuiti gli aiuti dalla Caritas. La fila di persone è impressionante. Ci raccontano che mediamente in un pomeriggio distribuiscono aiuti a più di 2000 persone, 30mila in due settimane. Per aiutare il numero più grande possibile di persone la distribuzione è regolarizzata con un sistema di tagliandi per cui i beneficiari possono ritirare i beni una volta ogni due settimane. Ognuno riceve 1 kg di pasta, latte, conserve di carne. I bambini in fila sono invitati a fare dei disegni e per questo ricevono cioccolata, caramelle e quaderni. Non solo gli anziani ricevono questi aiuti, ma anche adulti rimasti senza lavoro, una vera piaga lasciata dalla guerra. Tra questi un insegnante ci dice che con vergogna deve ricevere questo aiuto per sopravvivere, ma preferirebbe lavorare e pagare di tasca sua la spesa. Sono 4 i punti di questo tipo organizzati dalla Caritas nella città Charkiw.

Alla fine della giornata ritorniamo a Kiev prima delle 23.00 appena in tempo per evitare il coprifuoco che dura fino alle 5 del mattino.

Il penultimo giorno del nostro viaggio lo viviamo in una casa di bambini orfani gestita dalle suore Benedettine in un villaggio nel centro ovest del paese di Balyn. Per raggiungerli passiamo vicino alle città di Zytomyr e di Vinnica. Nella casa vivono 9 bambini dai 3 ai 12 anni senza genitori oppure con difficolta che non permettono loro di vivere in un normale clima familiare. L’attesa per il nostro arrivo è trepidante. Riceviamo durante il viaggio video e messaggi dai bambini che ci incoraggiano a raggiungerli al più presto. Alla sera siamo accolti con una grande festa. Una squisita cena preparata dalle suore, e il dono di bellissimi vestiti ricamati a mano secondo la cultura tipica di quelle regioni, fanno da contorno alla compagnia festosa e rumorosa dei bambini.

Il giorno dopo rientriamo in Polonia, per fortuna senza essere fermati a lungo alla frontiera (la volta scorsa furono ben dieci ore di attesa). Durante il viaggio abbiamo ricevuto tante altre richieste di aiuto tra queste alcune dalla città di Kherson liberata pochi giorni fa. L’inverno e solo all’inizio ma siamo sicuri che tanti di voi continueranno ad aiutare. Qualcuno ci ha detto: «Padri, avete degli ottimi angeli custodi che vi hanno sempre protetto durante questo viaggio». È vero lo abbiamo avvertito. Tuttavia, agli angeli custodi ci proteggono ancora di più quando qualcuno li prega e per questo ringraziamo anche per le tante preghiere che non sono mancate e che non mancheranno.

padre Luca Bovio imc

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Ucraina: la solidarietà sfida l’inverno

da https://www.ildialogodimonza.it/ucraina-la-solidarieta-sfida-linverno/

Campi minati attorno a Korobochkyne




Wagner e i suoi fratelli


Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.

Wagner in Centrafrica (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Le origini

Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.

Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.

Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».

La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.

Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».

Proteste in Mali (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Aree d’influenza

La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.

E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.

Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.

«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».

Former Russian mercenary of the Wagner group Marat Gabidullin poses during a photo session on May 11, 2022 in Paris. (Photo by STEPHANE DE SAKUTIN / AFP)

Chi sono

Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.

I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.

Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.

Bangui, Centrafrica. Manifestazione a sostegno della Russia (Photo by Carol VALADE / AFP)

Dove ha operato e opera

Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».

Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».

Che ruoli ha

Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.

Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.

Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.

«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».

Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.

Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).

Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».

Tripoli, Libia (Photo by Hazem Turkia / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

L’ultimo fronte

In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.

La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.

Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.

Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».

Enrico Casale

 




Aiuti alla gente di Zaporizia


E preparativi per l’inverno a Charkow

Carissimi tutti,
un caro saluto e un doveroso ringraziamento per il continuo sostegno che continuate a dimostrarci. Dopo il viaggio che ho fatto questa estate in Ucraina e di cui vi ho relazionato, continuiamo a organizzare i progetti di aiuto sia per profughi sia per le persone che vivono nelle zone in cui ancora si combatte. Se le temperature estive facilitavano relativamente le condizioni di vita, l’arrivo imminente dell’autunno e ancor piu dell’inverno, rendono più complicata una situazione che di per sé è già molto difficile. Come sapete dai mass media il conflitto in Ucraina continua senza pause e sconti da mesi, anzi in alcune zone da anni (dal 2014). Tutti purtroppo sono concordi con il fatto che durerà ancora a lungo.

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia

Aiuto ai frati francescani

In queste settimane siamo impegnati in diversi progetti di sostegno, molte infatti continuano ad essere le richieste di aiuto che riceviamo. Nei pressi di Zaporizia (o Zaporizhzhya), la località di cui molto si parla a motivo della presenza della piu grande centrale atomica europea messa a rischio dai continui attacchi, una comunità di frati francescani (Albertini) di origine polacca distribuisce quotidianamente più di mille pasti alla popolazione locale. Il loro sforzo è grande e la preoccupazione maggiore è quella di garantire le scorte alimentari per un lungo periodo e per un numero così grande di persone. Pochi giorni fa siamo riusciti a spedire loro un buon carico di scatolame a lunga conservazione aquistato in Polonia e già giunto sul luogo. Siamo già d’accordo di ripetere l’acquisto a ottobre.

Pannelli di legno per Charkow

Vetri rotti nelel case di Charkow a causa dei bombardamenti

Charkow, la seconda città per grandezza a poche decine di chilometri dal confine russo, è sotto bombardamento ininterrotto dallo scorso febbraio. Le notizie e le immagini che riceviamo dal direttore locale della Caritas, don Wojtech, sono eloquenti. Uno dei tanti progetti di aiuto specialmente con l’arrivo delle basse temperature, consiste nell’acquisto di pannelli di legno che possono sostiutire le finestre della case rotte per la deflagrazione delle esplosioni. Sono molto numerosi gli edifici colpiti. Spesso le onde durto dell’esplosioni distruggono i vetri delle finestre delle abitazioni. Per questo motivo viene messo del nastro adesivo sulle finestre ancora sane, per contenere dopo un eventuale esplosione le schegge che arriverebbero dappertutto. I pannelli di legno sono un’economica alternativa che proteggono minimamente dal vento e dalle precipitazioni di pioggia o di neve le abitazioni colpite. Sempre in questa città stiamo acquistando dei generatori di corrente elettrica indispensabili negli ospedali.

In questo contesto, i tentativi e gli sforzi di vivere e di ritornare a una certa normalità non mancano. Nella stessa città di Charkow, così come altrove, i bambini, con l’inizio del nuovo anno, ritornano nelle scuole o perlomeno in luoghi sicuri dove si possono tenere delle lezioni. Abbiamo ricevuto la richiesta per l’acquisto sul luogo di circa 300 zaini scolastici.

Grazie per l’aiuto

Questi sono solo alcuni esempi di progetti che attualmente stiamo organizzando, senza dimenticare l’aiuto costante dato alle famiglie che ormai da mesi risiedono vicino a noi qui in Polonia. Prevedo di recarmi in Ucraina all’inizio di novembre per poter portare ancora aiuti e per continuare a testimoniare una realtà che speriamo tutti, finisca al piu presto. Grazie di cuore a nome dei numerosi beneficiari per tutto quello che fate. Che il Signore vi benedica e ci renda suoi strumenti di pace. Perghiamo per la pace costruiamo la pace.

padre Luca Bovio IMC
Kiełpin 10.09.2022

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Messico. Un sogno che unisce o divide

Alla città di frontiera messicana arrivano migranti da ogni dove. Da tempo, anche ucraini e russi, che lasciano i loro paesi in guerra per tentare di entrare negli Stati Uniti. È un sogno di tanti, ma non per tutti. Con l’aiuto dei «Border Angels» di San Diego abbiamo cercato di capirne i motivi.

«Verso Nord» dice il cartello indicante le strade della California. Foto Ana Pietres – Unsplash.

Tijuana è una città dai molti record. È il centro urbano di frontiera più grande e dinamico del Messico. Accoglie la sede di centinaia di multinazionali del settore manifatturiero attratte da condizioni fiscali vantaggiose. Ha l’ambizione di diventare un vivace polo culturale del paese. Per contro, con circa cento omicidi al mese (sei al giorno, ottocento tra gennaio e giugno 2022), presenta uno dei tassi di violenza più alti al mondo. Tijuana raccoglie in se stessa le contraddizioni tipiche di una città in moto perpetuo, in una crescita scomposta e senza regole. Con i suoi 24 km di confine segnati da una lunga barriera, simile a un moderno muro di Berlino, condivisi con la città gemella di San Diego, in territorio statunitense, Tijuana è anche la città di frontiera più trafficata del mondo. Ogni giorno circa 80mila persone l’attraversano per svariati motivi, per raggiungere il posto di lavoro, fare un acquisto o abbracciare un amico che vive dall’altra parte.

A Tijuana il mondo si incontra, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Sullo stemma della città c’è scritto «Qui inizia la patria», ma per molti, in realtà, è proprio qui che finisce lo stato e, con esso, i diritti umani.

Tijuana è la città dove migliaia di migranti provenienti dall’America Latina si ammassano con la speranza, spesso delusa, di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, presentandosi in una delle dogane di cui è costellata la città. E non si tratta soltanto di latinoamericani. A Tijuana arriva gente anche dall’Africa, dall’Asia e dai confini dell’Europa. Qui si spinge chi ha un sogno, ma anche chi sta scappando, magari da un disastro ambientale, dalla violenza, da mancanza di opportunità lavorative o da un conflitto armato. Contro il muro della città messicana sbattono i rifugiati di ogni dove. Negli ultimi mesi, sono arrivati anche migliaia di russi e ucraini. Accomunati dallo stesso sogno: mettere piede negli Stati Uniti.

Anche dalla Russia e dall’Ucraina

Ben prima del 24 febbraio, data di inizio dell’offensiva militare russa in Ucraina, Tijuana ha assistito all’arrivo di un inizialmente invisibile, ma poi sempre più consistente, gruppo di cittadini russi che hanno cominciato a lasciare il proprio paese quando per loro erano già evidenti le avvisaglie del conflitto. A fuggire verso la frontiera Sud degli Stati Uniti sono stati proprio gli oppositori del regime di Putin che, a partire da ottobre 2021, si sono imbarcati, insieme alle proprie famiglie e grazie a un visto turistico, su voli intercontinentali con scalo in Turchia e arrivo a Città del Messico o, più spesso, a Cancún, centro dei Caraibi storicamente frequentato dal turismo russo. Da qui, affittando un’automobile è possibile arrivare a Tijuana in qualche giorno di viaggio.

L’aumento del numero di persone provenienti dalla Russia non è passato inosservato alle organizzazioni di volontari che a Tijuana si occupano di dare un sostegno umano ed economico ai migranti.

«Nell’autunno scorso centinaia di russi sono stati fermati e detenuti dalle autorità di frontiera statunitensi – spiega Dulce García, la presidente dei Border Angels, un’associazione che fornisce assistenza legale ai migranti tra San Diego e Tijuana -. Abbiamo aiutato alcuni di loro a pagare la cauzione necessaria per uscire dalle strutture detentive durante la fase di valutazione della loro richiesta di protezione internazionale. La maggior parte delle persone russe che arrivano a Tijuana cercano rifugio negli Stati Uniti, dove hanno familiari o amici».

E i dati parlano chiaro. Secondo le statistiche della U.S. Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, a ottobre 2021 sono stati registrati in frontiera 1.577 passaporti russi, mentre nello stesso mese del 2020 i fermi erano stati sette. Il numero di arrivi ha toccato il suo apice a dicembre 2021 con 2.105 russi in frontiera contro i 53 dell’anno precedente. Dallo scorso ottobre fino ad aprile 2022, la polizia degli Stati Uniti ha registrato la presenza di 10.089 cittadini russi, un numero che va ben oltre il doppio dell’intero anno precedente.

I cittadini ucraini hanno cominciato ad arrivare in massa a Tijuana a partire da marzo 2022. Con 20.118 persone registrate sulla frontiera sud dagli Stati Uniti solamente nel mese di aprile, il numero di ucraini è aumentato esponenzialmente, se si considera che allo stesso mese dell’anno precedente erano state registrate 31 persone. Per loro il viaggio passa attraverso la Moldavia e la Romania da dove è possibile imbarcarsi per Città del Messico e, da lì, verso Tijuana, via terrestre o aerea.

L’arrivo sulla frontiera di persone in fuga dall’Ucraina ha generato scompiglio e destrutturato in parte il sistema di accoglienza degli Stati Uniti che, negli ultimi due anni, era stato caratterizzato da una chiusura pressoché totale.

Il muro di Tijuana finisce sulla spiaggia del Pacifico, dividendo la città messicana da quella statunitense di San Diego. Foto Max Böhme – Unsplash.

Il diritto d’asilo cancellato

Nel 2021, il paese del Nord America ha registrato circa 1 milione e 700mila arresti di persone migranti, un milione delle quali è stato espulso direttamente dalla frontiera senza avere l’opportunità di chiedere asilo. Nonostante la Convenzione di Ginevra (1951) obblighi i paesi a garantire il diritto d’asilo e, di conseguenza, a dare a qualsiasi individuo la possibilità di richiedere protezione internazionale, gli Stati Uniti hanno scavalcato le normative internazionali appellandosi al Titolo 42, una vecchia legge di politica sanitaria di quarantena reintrodotta, con alcune modifiche, dall’ex presidente Donald Trump a marzo 2020. Dall’inizio della pandemia, la misura è stata utilizzata per espellere direttamente dalla frontiera i migranti, ufficialmente per motivi sanitari, anche in assenza di sintomi di Covid-19. Questo procedimento, travestito da politica di sanità pubblica, non ha fatto altro che rendere il confine più inespugnabile impedendo a più di un milione di persone di far richiesta di asilo.

«Negli ultimi anni la frontiera è stata chiusa per tutti, soprattutto per chi arrivava da Haiti, Venezuela e Centro America – spiega Dulce García -. Da marzo abbiamo assistito a un cambiamento della politica migratoria degli Stati Uniti, ma solo in favore di cittadini ucraini e, successivamente, anche di russi che, per lo meno, hanno potuto fare richiesta di asilo politico. Ma anche le persone di Haiti stanno scappando da una situazione terrificante, che potremmo considerare una guerra interna. Tutti dovrebbero avere il diritto di richiedere asilo politico, ma le persone afrodiscendenti, latine e indigene sono ancora sottoposte al Titolo 42 ed espulse in forma immediata».

A Tijuana, proprio vicino ai punti di ingresso negli Stati Uniti, ogni giorno si accampano migliaia di persone che provano a fare richiesta di asilo politico, vengono respinte dalla polizia di frontiera statunitense e successivamente riprovano, in un rituale circolare che pare non avere fine.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere aperto ad accogliere i profughi provenienti dal conflitto e nei mesi di marzo e aprile i cittadini ucraini hanno potuto beneficiare di programmi di accoglienza speciale, mentre le persone di nazionalità russa, nonostante alcune iniziali espulsioni, hanno avuto la possibilità di fare richiesta di asilo politico, risultando in grande parte esenti dall’applicazione del Titolo 42.

Dal 21 aprile, inoltre, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato il programma «Uniting for Ukraine», che permette ai cittadini ucraini con uno «sponsor» nel paese di arrivare sul suolo nazionale direttamente in aereo e ricevere un permesso di soggiorno di due anni. Questo procedimento punta ad azzerare gli arrivi dalla frontiera terrestre del Messico, ma genera un problema per chi si trova già a Tijuana. Secondo le regole del programma, le persone di nazionalità ucraina ferme sul confine Sud dovrebbero ritornare in Europa e da lì fare richiesta d’ammissione online, oppure rivolgersi all’ambasciata a Città del Messico. In attesa di uno sblocco della situazione sulla frontiera Sud, centinaia di ucraini sono stati ospitati presso la palestra comunale di Tijuana e la solidarietà è arrivata anche dalla popolazione locale messicana che ha aperto le proprie case fornendo un rifugio temporaneo a numerose famiglie.

«Da fine aprile abbiamo notato che pure i cittadini ucraini hanno cominciato ad avere problemi a entrare negli Stati Uniti. Tuttavia, anche se ci vuole del tempo, in qualche settimana le loro richieste di protezione internazionale vengono accolte – continua Dulce García -.  Siamo felici di vedere che il Titolo 42 non viene applicato alle persone ucraine o ai russi e ci auguriamo che questo sia il primo passo verso l’eliminazione completa di una legge che lede i diritti umani».

Border Angels, l’organizzazione di volontari di cui Dulce è presidente, da due anni lotta e manifesta per l’eliminazione del Titolo 42 che, in pratica, ha permesso agli Stati Uniti di smantellare quasi completamente il sistema di asilo vigente.

Scritte benauguranti su un tratto del muro di Tijuana. Foto Barbara Zandoval – Unsplash.

Joe Biden e il Titolo 42

«Ciascuno è benvenuto», ricorda la frase scritta sul muro. Foto Katie Moum – Unsplash.

Il presidente Joe Biden ha mantenuto il Titolo 42 fino a oggi, considerandolo essenziale per prevenire la diffusione del Covid-19, nonostante numerosi rappresentanti della comunità scientifica abbiano messo in evidenza che questa politica discriminatoria non ha un effetto diretto sulla diffusione della pandemia. Spinto dalle numerose critiche provenienti da organizzazioni dei diritti umani e dalla sua stessa parte politica, ad aprile 2022, il presidente degli Stati Uniti ha provato a mettere fine al programma entro il 23 maggio, ma un giudice federale della Louisana (Robert Summerhays) ha ordinato che la misura rimanesse in atto, dopo una causa mossa da alcuni stati repubblicani, per cui, al momento, la politica viene ancora attuata.

«Espellere i migranti dalla frontiera secondo il Titolo 42 significa obbligarli ad ammassarsi a Tijuana, una città pericolosa e dominata in parte dai narcos – continua Dulce García -. Molti migranti latinoamericani o africani respinti in Messico sono stati rapiti o uccisi proprio dopo il respingimento».

Secondo l’organizzazione Human rights first, si sono verificati 9.886 casi di rapimento, tortura, violenza sessuale, furti e altre violazioni ai danni delle persone migranti espulse secondo il Titolo 42 durante l’amministrazione Biden.

Questi respingimenti hanno reso Tijuana un grande campo profughi a cielo aperto, nel quale chiunque arrivi si accampa come riesce: all’angolo di una strada, a pochi metri dalle dogane, sotto qualche tettoia o nelle zone pedonali. In queste condizioni migliaia di migranti continuamente respinti assistono a un’applicazione sommaria e discriminatoria del Titolo 42 da parte della polizia di frontiera che decide chi ha diritto di chiedere protezione internazionale e chi no in base alla nazionalità delle persone.

«Non c’è violenza tra i migranti, perché nessuno si arrabbia con gli ucraini o i russi se loro passano e gli altri no – spiega Dulce García -. La frustrazione dei migranti a cui viene applicato il Titolo 42 si rivolge contro il governo degli Stati Uniti che non accetta le loro domande di asilo politico e contro quello del Messico che non garantisce standard di sicurezza sul suo territorio. Noi lottiamo per richiedere che vengano rispettati i diritti delle persone che stanno vivendo un percorso migratorio, indipendentemente dalla loro nazionalità».

Mentre gli arrivi dei cittadini russi e ucraini sulla frontiera terrestre sembrano diminuire, proprio nel mese di giugno è partita una nuova carovana di circa 15mila migranti centroamericani, provenienti in particolare dall’Honduras e dal Guatemala, che viaggiano verso gli Stati Uniti in fuga da contesti di povertà, corruzione e violenza.

Logo degli «Angeles de la frontera», associazione d’aiuto con sede a San Diego.

Migranti di «serie a» e migranti di «serie b»

Ad attenderli sul piede di guerra un fermo Joe Biden che, al IX Summit of the Americas dello scorso giugno, ha dichiarato che «la migrazione irregolare è inaccettabile» e il confine statunitense è chiuso per chi arriva senza un regolare visto. A dargli una mano ci sarà anche il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che ha deciso di schierare 30mila militari sulle sue frontiere proprio nei giorni in cui la carovana è partita.

«È appunto questo che lamentiamo: non esistono persone di serie A e di serie B. I richiedenti asilo non sono solamente coloro che fuggono da una guerra in Europa. Qui arrivano persone di diverse etnie e da diverse parti del mondo che si lasciano alle spalle conflitti militari, economici, sociali o politici e meritano di ricevere protezione così come qualsiasi essere umano», conclude Dulce García.

Simona Carnino

I capi di stato americani al IX «Summit of the Americas», tenutosi a Los Angeles lo scorso giugno.
Foto Alan Santos – PR.

Archivio MC

Gli ultimi articoli sulla frontiera Sud degli Stati Uniti:




Ucraina. Un balcone verde speranza a Borodjanka


Note di viaggio in Ucraina (18-22 luglio 2022)

Nella città di Borodjanka nella periferia di Kiev, c’è un piccolo balcone di un appartamento appena ristrutturato di colore verde all’ultimo piano di un edificio. Lo si nota perché il resto del palazzo che lo comprende è semidistrutto a causa dei pesanti bombardamenti avvenuti qui pochi mesi fa. Il balcone si fa notare come l’unica cosa normale attorno alla quale c’è solo distruzione. Questa immagine mi ha accompagnato durante il viaggio che ho compiuto nel centro dell’Ucraina per qualche giorno.

Balcone Borodjanka

Ho condiviso il viaggio con un sacerdote polacco, don Leszek Kryza, (profondo conoscitore del paese), con una sua giovane collaboratrice Rika, nata in Ucraina ma scappata anni fa a motivo della guerra, e con sr. Lucina, che lavora in Ucraina da più di 30 anni e che, trovandosi in Polonia, ha approfittato del nostro viaggio per tornare là dove lavora. Il nostro obiettivo era quello di portare degli aiuti economici oltre a tutto quello che potevano caricare nell’ampio bagaglio della macchina, cibo, medicine, ecc. e anche incontrare testimoni sul luogo e visitare luoghi colpiti dalla guerra.

Un viaggio di questo tipo richiede una grande elasticità nel fare i programmi, sempre pronti ai cambiamenti motivati dalle situazioni che possono improvvisamente presentarsi. In questi giorni di luglio il conflitto sta continuando in tutta la parte Est del paese e parte del Sud. Tuttavia, nel resto del paese dove si è combattuto prima, rimangono segni evidenti del conflitto, come edifici distrutti, macchine bruciate, mezzi militari abbandonati…

I check point sono un po’ dappertutto, soprattutto all’ingresso di ogni città dell’intero paese. Giovani militari osservano con attenzione ogni macchina che passa, talvolta chiedendo i documenti e controllando ciò che si trasporta.

Kiev

A Kiev

Ambasciatore italiano a Kiev, Pier Francesco Zazo

L’impressione a Kiev è che la gente provi a ritornare a una normalità di vita tanto desiderata. Incontrando l’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, e quello polacco nelle rispettive ambasciate ascoltiamo i loro racconti. La popolazione di Kiev, stimata attorno a quattro milioni di abitanti, si è dimezzata a causa della guerra. Tuttavia, c’è un continuo arrivo di profughi dai luoghi dove avvengono i bombardamenti. Grande è l’impegno della Polonia e dell’Italia nel portare aiuti e nell’accogliere i profughi. Quello che noi facciamo come missionari è una piccola parte di tutta questa grandissima macchina della solidarietà che non deve fermarsi.

I negozi della città sono aperti, i mezzi pubblici viaggiano regolarmente, da poche settimane anche il carburante si può trovare nei distributori, pur potendone comprare con dei limiti. Verso il tardo pomeriggio la città va come spegnendosi. Infatti, durante la notte è in vigore il coprifuoco con il divieto assoluto di circolazione e di uscita dalle abitazioni; tutti devono stare nelle proprie case. La disobbedienza a questo può essere pericolosa per i trasgressori. Solo una notte ha suonato la sirena di allarme senza tuttavia nessuna conseguenza.

Diversi sono stati gli incontri con persone impegnate sul posto nella distribuzione degli aiuti umanitari. Qui i padri Oblati di Maria che sono i responsabili della Caritas a Kiev, hanno organizzato tra le tante cose una distribuzione del pane cucinato da loro stessi per i poveri senza tetto. Anche noi ci rechiamo a distribuire, lasciando anche aiuti per l’acquisto di un forno un po’ più grande che dovrebbe aumentare la quantità del pane prodotto. Lo stesso pane è distribuito anche dalle suore di Madre Teresa di Calcutta che visitiamo nella loro casa.

Distribuzione Caritas Charchów

Incontri nel seminario

Nel seminario di Kiev incontriamo don Wojciech, direttore della Caritas a Charchów, la seconda città per grandezza a pochissimi chilometri dal confine con la Russia. La situazione là è ancora molto difficile. Da mesi si combatte senza sosta e ogni giorno si contano vittime anche e soprattutto tra i civili, tra questi anziani, giovani e bambini. Là beni come il cibo e i medicinali che arrivano con gli aiuti sono essenziali per la sopravvivenza di molte persone. Si guarda con preoccupazione al prossimo futuro, perché l’estate è breve e già con l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno la situazione, dal punto di vista umanitario, sarà ancora più difficile. A don Wojciech diamo una cospicua somma raccolta dai benefattori per provvedere alle emergenze sul posto.

Seminario di Kiev

Anche nel bel seminario diocesano di Kiev sono avvenuti a marzo esplosioni e saccheggi. L’edificio che si trova in una zona periferica della città è stato prima colpito da colpi di mortaio e poi occupato dai soldati russi che vi hanno qui abitato per una settimana, per poi abbandonarlo dopo averlo saccheggiato. I racconti che ascoltiamo dal padre spirituale Igor e dal vescovo Vitaliy Krivitskiy ci fanno capire bene cosa qui è successo. Durante lo scoppio del colpo di mortaio avvenuto nel cortile, le schegge hanno colpito l’edificio. Una di esse è passata dal vetro di una finestra e ha colpito una piccola statua della Madonna collocata su un tavolo. La testa della statua si è staccata. Tuttavia, esattamente una settimana dopo l’affidamento che tutta la chiesa ha fatto a Maria Santissima nel mese di marzo, tutti i soldati russi non solo hanno lasciato il seminario ma anche abbandonato il tentativo di invadere la città di Kiev, lì a due passi, ritirandosi a Nord. Da quel momento il seminario è diventato è un centro di distribuzione di aiuti per le famiglie locali.

Bucha, fosse comuni

Bucha

Dal seminario ci rechiamo lì vicino nella cittadina di Bucha tristemente famosa per il numero di civili uccisi, oltre 400. Incontriamo don Andrea un sacerdote ortodosso che vive nella chiesa dove sono state fatte le fosse comuni per seppellire inizialmente i defunti. Qui venne in visita a marzo anche il presidente dell’Unione europea Ursula Von der Leyer con il presidente Zelenski. Don Andrea ci spiega dettagliamene la cronaca di quei giorni mostrandoci anche filmati dal suo cellulare. Ha anche allestito una mostra fotografica all’interno della chiesa sulle atrocità qui commesse. L’esercito russo dopo aver per settimane provato a entrare a Kiev, non riuscendoci, aveva distrutto tutto quello che ha potuto, uccidendo in particolare i civili, per poi ritirarsi. Ci fermiamo a pregare in questo luogo.

Nella metropolitana di Kiev

Ancora a Kiev

La visita è stata anche un’occasione per conoscere la città di Kiev che mostra sia le decine di luccicanti cupole dorate delle chiese ortodosse che la famosa piazza di Maidan simbolo della resistenza ucraina nel cuore della città. Era il 2014 quando qui scoppio la rivolta arancione per protestare contro l’inizio del conflitto che ancora oggi continua. Lì vicino incontriamo il giovane Vescovo di Kiev, Vitaliy. Anche lui ci racconta quello che è avvenuto vicino alla cattedrale cattolica di san Alessandro, luogo di preghiera ma anche di rifugio per tantissime persone in cerca di riparo.

I mass media sono molto importanti non solo per l’informazione ma anche per raggiungere con la preghiera e la catechesi tante persone. Siamo stati invitati nella sede di Radio Maria Ucraina dove abbiamo commentato il Vangelo del giorno e poi celebrato la Messa. Qui lavora suor Lucina che ci ha anche ospitato nella sua comunità nel centro della città.

Cimitero nei pressi di Kiev

Rientro carico di memorie

Il viaggio di ritorno è stato impegnativo sia per la fatica sia per la pazienza che abbiamo dovuto dimostrare. Il viaggio ha richiesto più di 21 ore, di queste ben 10 trascorse alla frontiera. Le numerose macchine e i rigidi controlli ci hanno veramente sfiancato, ma tutto è andato bene e siamo tornati a Varsavia stanchi ma con una profonda consapevolezza di avere avuto il privilegio di ascoltare testimoni, di vedere luoghi e di portare in po’ di aiuto e di consolazione. Portiamo con noi non solo le immagini e i racconti della guerra, ma anche l’immagine degli sconfinati campi di girasole e di grano turco che ci hanno accompagnato durante il lungo viaggio. La bellissima giornata di sole ha fatto brillare gli sconfinati campi gialli di girasole e di frumento che con lo sfondo del cielo azzurro sono la base dei colori della bandiera ucraina.

Vorrei tornare qui a quel balcone della città di Borodjanka ristrutturato e di colore verde come la speranza: è il simbolo della ricostruzione che già inizia. In mezzo ai continui segnali di guerra e distruzioni che provocano sofferenza e ingiustizia, quel piccolo balcone verde è un segno visibile di una ricostruzione che già deve iniziare, simbolo di una ricostruzione ancora più profonda che deve avvenire nel cuore degli uomini, cuori feriti dall’orrore della guerra. Il balcone e all’ultimo piano dell’edificio, e per raggiungerlo occorre salire in alto… questa salita è un invito a salire e a rivolgere lo sguardo verso Colui che abita più alto ancora nei cieli, per invocare il dono della pace e chiedere umilmente perdono per la stupidità umana. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

padre Luca Bovio imc

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Noi e voi, dialogo lettori e missionari

Ucraina

Gentile redazione,
riguardo all’articolo a pag. 64 del numero di aprile 2022 vorrei sì ringraziare per aver affrontato l’argomento (non mi stupisce in realtà), ma anche far notare che l’argomentazione portata per spiegare il tentativo d’avvicinamento dell’Ucraina alla Ue sia in realtà tendenzioso. Capisco la ristrettezza degli spazi e non si può raccontare tutto in tre pagine, ma se non si dice che ai tempi del rifiuto di Janukovyc di sottoscrivere l’accordo di scambio in realtà si trattò di una scelta tra due proposte, una della Ue e Fmi (è fondamentale dirlo per capire correttamente) e l’altra della Russia, che poi lei dice non aver sborsato neanche un rublo per l’Ucraina. La scelta per la proposta russa fu spiegata dal governo ed era proprio dovuta alle richieste del Fmi… Mi stupirebbe se lei non sapesse di cosa si tratta. La proposta russa, la cui economia non è così potente come quella occidentale, puntava su un accordo con condizioni di favore. La Russia sapeva benissimo come era la situazione ucraina e non stupisce che il Fmi poi si lamentò dell’utilizzo dei fondi e credo anche che li sospese. Nell’articolo, oltre a dare per scontato il solito noiosissimo pregiudizio che la Russia sia sempre brutta e cattiva e dalla parte del torto, e che la Eu sia sempre e solo buona e il faro di ogni paese, sembra insinuare una sorta di disonestà congenita nella Russia.

Sarebbe auspicabile che nei prossimi articoli non si facesse come si fa su tutti i giornali e cioè, dicendo che c’è un aggressore e un aggredito (certo, se si guarda solo il 24 febbraio è cosi) si stabilisce a priori chi è il buono e chi è il cattivo, e ciò diventa un alibi per non analizzare tutte le vere cause di questo bruttissimo conflitto.

La Russia e la Gb-Usa (via Nato, perché la Eu purtroppo non conta nulla, soprattutto con una Von der Layen completamente supina al volere Usa), si contendono l’Ucraina da un bel po’, e se Putin ora non vuole più sentire ragioni e si siederà al tavolo di un negoziato solo quando lo riterrà conveniente, dall’altro lato abbiamo gli Usa con la Gb che vogliono solo prolungare più che si può questo conflitto. Degli interessi degli ucraini, quelli sfollati per intenderci, non interessa a nessuno, anzi forse un po’ più interessa alla Russia, non certamente agli Usa-Gb.

Cordiali saluti

Andrea Sari 
17/05/2022

Caro signor Andrea,
rispondo a nome della redazione che lei interpella.

Comincio sottolieando che l’articolo in questione è breve di sua natura e quindi non ha né la pretesa né lo spazio fisico per poter approfondire ogni aspetto della complicatissima situazione dell’Ucraina e neppure offrire un’analisi storica completa (fatta poi in MC 05/2022). Per questo, ad esempio, il prestito del Fmi è stato solo accennato in collegamento con l’accordo Ue del 2013, senza entrare in tutti i dettagli.

Poi vorrei far notare come non ci sia da parte nostra l’intenzione di demonizzare la Russia in quanto tale. Di fatto il testo condanna gli atteggiamenti di prepotenza da qualsiasi parte provengano e propone il superamento della logica dei blocchi, in modo da spezzare la spirale dell’inimicizia che porta inevitabilmente alla guerra. Da ultimo l’articolo reclama la pace per porre fine alle sofferenze di chi sta morendo sotto le bombe.

L’autore del testo, il nostro Francesco Gesualdi, se è partigiano, lo è dalla parte della pace, «che si prepara con la pace» non con il «para bellum».

Questa rivista, anche ospitando con libertà opinioni diverse, non intende essere spazio di scontro, ma luogo di incontro per persone che sono capaci di «piangere»    (cfr. Mt 5,4) con l’umanità che soffre, sia essa nell’Ucraina devastata dalla violenza che nelle famiglie di tanti giovani russi, specialmente provenienti dalle zone più povere e remote del paese, sacrificati al moloch della guerra. Vuole essere spazio per persone che, convinte che la guerra non costruisce la pace, diventano ogni giorno costruttori di pace, attenti alle persone concrete, a ogni persona, senza applicare etichette, senza dividere il mondo in buoni e cattivi, ispirati dall’esempio del buon samaritano (cfr. Lc 10,30-37).

Un cammino di libertà

Egr. Signori,
leggo con interesse e soddisfazione, anche se non sempre concordo o capisco, la rubrica «Un cammino di libertà» e chiedo a tal proposito se l’insieme delle puntate verrà raccolto in un unico documento leggibile nel futuro in Internet. Grazie per la risposta e buon cammino.

Saverio Compostella
17/05/2022

Caro signor Saverio,
sarà nostra cura raccogliere tutti i capitoli dedicati al cammino di libertà del popolo d’Israele e nostro. L’abbiamo già fatto con altri testi apparsi sulla nostra rivista, facilmente scaricabili dal nostro sito. Nel caso, se ce ne fosse richiesta, potremmo anche fare delle stampe cartacee delle stesse raccolte (costi da studiare) per chi preferisce leggere ancora su un buon vecchio libro.

Grazie, Annalisa Vandelli

Cara Annalisa,
io ti conosco solo un po’ per aver letto, tempo addietro, quanto hai scritto su padre Giuseppe Richetti (1933-1993), tuo zio e missionario della Consolata in Kenya.

Ora sei venuta alla ribalta con «Acqua in Bocca», un volume poderoso su fratel Peppino Argese (1932-2018), il missionario della Consolata che raccoglieva «le lacrime della foresta» del Nyambene (Meru, Kenya) e le incanalava in uno stupefacente acquedotto, portatore di vita per una marea di gente assetata.

Annalisa, hai composto un’opera con un protagonista «silenzioso», coadiuvato da altri personaggi di notevole spessore umano. L’ultimo è padre Daniele Giolitti, laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino proprio con una tesi sull’acquedotto del «silenzioso». Tuttavia, protagonista «ultimissima» sei tu, Annalisa, con la tua penna faconda.

A me «Acqua in Bocca» affascina perché è «un balcone spalancato sul mondo». Da tale balcone, puoi scorgere pure l’assassinio di Robert Kennedy, fratello del presidente statunitense John (anche lui ucciso), come anche il martirio della volontaria missionaria Annalena Tonelli (Somalia) e quello di padre Giuseppe Bertaina (Kenya). Inoltre, deplori la guerra americana in Vietnam. Non manca papa Francesco tra i profughi a Lampedusa.

E moltissimo altro. Per esempio, Regina, la domestica di fratel Peppino. Un giorno la donna apre la porta a tre individui che esigono dal «silenzioso» (prossimo alla morte) privilegi danarosi nella gestione dell’acquedotto nella foresta. Gli si sono presentati con il dono di alcune uova marce. Regina li caccia furiosa.

Che regina… quella Regina! Il «silenzioso» le sussurra: «Grazie, Regina. Però non avventarti contro le tenebre. Pensa piuttosto a tenere accesa la tua lampada».

«Acqua in Bocca» non è un racconto né una biografia. È una corale o un poema, un poema impregnato dalla sacralità della foresta del Nyambene. Il «silenzioso» vi «si inginocchia, perché lì c’è Dio. Questa è la sua chiesa». Ha concesso a fratel Peppino Argese di entrare, di ascoltare la sua parola appesa ai rami.

Cara Annalisa, ti ho scritto queste righe per dirti semplicemente: grazie.

padre Francesco Bernardi,
missionario della Consolata in Tanzania, 26/05/2022

Padre Francesco ricorda anche Regina, che ha servito fratel Mukiri con tanta dedizione (vedi la foto del 2012 con i figli e fratel Mukiri) . Regina ora è insieme lui nelle splendide foreste del Paradiso dove il Signore l’ha chiamata il 12 maggio 2022, dopo una breve e improvvisa malattia. Aveva cinquant’anni.

Ricordo che il «poderoso» libro «Acqua in bocca, storia di fratel Peppino Argese, il silenzioso che raccoglieva le lacrime della foresta» (368 pagine di cui 48 fotografiche) è disponibile su richiesta anche all’indirizzo della rivista con contributo minimo di 15€.

 

Monsignor Giorgio Marengo cardinale

«Il Papa ha annunciato la creazione dei nuovi porporati: tra di essi tre capi di dicastero della Curia. Sedici gli elettori, cinque ultraottantenni. Cinque italiani, tra cui il vescovo di Como Cantoni, l’emerito di Cagliari Miglio e il professor Ghirlanda. Il più giovane con i suoi 48 anni è Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia». (Vatican News 28/05/2022)

Missionari carissimi,
il Signore continua a benedire il nostro Istituto con il suo immenso amore.

Oggi il papa Francesco ha nominato il nostro caro monsignor Giorgio Marengo cardinale. È il primo cardinale dell’Istituto, è un dono di Dio e un riconoscimento per il nostro Istituto, è un dono del nostro amato Fondatore il beato Giuseppe Allamano.

Mi trovo a Boa Vista, precisamente all’aeroporto pronto per partire per San Paolo: ho letto la notizia nel mio cellulare che è stato riempito di messaggi e di auguri. Che bello sentire e vedere tanta vicinanza e affetto, tanta gente che ama la Consolata nei suoi figli e figlie.

Grazie a Dio non passano solo le notizie brutte di guerre e ingiustizie, ma vengono anche comunicate le notizie belle, buone e vere, quelle che riscaldano il cuore e fanno del bene.

La notizia della nomina di Giorgio è una buona notizia che fa bene a tutti: alla chiesa, al mondo, all’Istituto, all’Asia e a tutti noi. La nomina di Giorgio è per noi tutti un messaggio e un invito all’impegno, alla generosità, alla disponibilità alla volontà di Dio nella nostra vita.

È conferma che la missione non ci appartiene ma è opera di Dio e che noi siamo semplici strumenti nelle sue mani.

Che questa notizia, che questo nuovo servizio di Giorgio alla Chiesa sia per noi tutti benedizione, consolazione e ringraziamento. La Consolata benedica e accompagni Giorgio, sostenga e doni salute a sua madre e a sua sorella, doni a tutti noi più gioia nel servizio, più generosità nella missione e più speranza per il futuro.

Al caro Giorgio, nuovo cardinale, a tutti voi, coraggio e avanti in Domino!

padre Stefano Camerlengo
Boa Vista, 28/05/2022

Chi è il nuovo cardinale

Monsignor Giorgio Marengo è nato il 7 giugno 1974 a Cuneo. Dal 1993 al 1995 ha studiato filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e dal 1995 al 1998 teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Dal 2000 al 2006 ha compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo la licenza e il dottorato in Missionologia. Ha emesso la professione perpetua il 24 giugno 2000 come membro dell’Istituto Missioni Consolata ed è stato ordinato sacerdote il 26 maggio 2001.

Dopo l’ordinazione sacerdotale è stato scelto come membro del primo gruppo di due missionari e due missionarie della Consolata destinati alla Mongolia. Ricevuto il mandato missionario nel santuario della Consolata il 19 maggio 2002, i quattro sono finalmente partiti il 20 luglio 2003 per la nuova missione nella capitale mongola. Nel 2007 hanno aperto Arvaiheer dedicata a Maria Madre della Misericordia, di cui padre Giorgio è stato parroco fino alla nomina a vescovo. Nel 2016 è nata la «Regione Asia» dell’Imc (Mongolia, Corea del Sud e Taiwan), di cui è diventato consigliere e responsabile per la sua nazione. Il 2 aprile 2020 il Santo Padre Francesco lo ha nominato Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia), con carattere vescovile assegnandogli la sede titolare di Castra Severiana. È stato consacrato dal cardinal Luis Antonio Tagle l’8 agosto 2020 in quello stesso santuario della Consolata in Torino dove aveva ricevuto il suo mandato missionario.





Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Festa della Consolata da Kiełpin


Carissimi un caro saluto a tutti voi.
Vi invito domenica 19 giugno alla festa della Consolata, nostra patrona tenerissima.
La festa di quest’anno che terremo a Kiełpin avrà un significato speciale.

Alcuni gruppi di ucraini desiderano ringraziarvi per la solidarietà che avete dimostrato.

Per questo organizzeremo una diretta su youtube (qui sotto trovate il link), attraverso il quale potrete collegarvi e seguire la santa Messa dal nostro giardino presieduta dal Nunzio apostolico S.E. Salvatore Pennacchio il quale alla fine benedirà i nostri volontari che questa estate partiranno per il Tanzania.

Appena finita la Messa, il coro di musica sacra ucraino (gli Angeli) terrà un concerto di ringraziamento per tutti voi, per il bene che avete condiviso.

All’inizio del concerto proverò a leggere in italiano  una lista dei gruppi o dei volontari che in questi mesi hanno aiutato la causa ucraina attraverso la nostra comunità, sperando di non dimenticare nessuno di voi.
Un caro saluto a tutti. Buona festa con un ricordo.

padre Luca Bovio

Appuntamento alle ore 10.15 su YouTube

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