Torino. Il progetto Migrantour. «Oggi vi accompagniamo noi»


A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

«L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. Italiani.  Lì per lì, a dire il vero, mi è sembrato quasi normale, anche se appena una decina di anni fa la cosa sarebbe stata inimmaginabile. Così ho tirato dritto. Poi però, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa che mi ha fatto dapprima rallentare e infine fermare. Mi sono voltato. Ho guardato meglio. Sì, non c’erano dubbi. La guida che stava illustrando le meraviglie di Porta Palazzo alla comitiva di connazionali era una ragazza nordafricana con tanto di chador, che tra l’altro si esprimeva usando un italiano perfetto».

La «Tettoia dell’orologio», a Torino, passeggiata interculturale di Migrantour «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

Itinerari urbani: Torino e le altre

Quello che avete appena letto è un estratto di un articolo dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia che, forse inconsapevolmente, qualche anno fa poté osservare l’esito di un lungo lavoro iniziato a Torino nel 2009.

Gli itinerari urbani ideati dagli «accompagnatori interculturali» della rete Migrantour sono oggi una realtà quotidiana, non solo nel capoluogo piemontese, ma anche in moltissime altre città italiane ed europee, nonché da un paio d’anni in alcuni piccoli borghi e località rurali e montane.

Si tratta di passeggiate di un paio d’ore, in cui persone che hanno vissuto a livello personale o familiare l’esperienza della migrazione accompagnano concittadini, studenti e turisti alla scoperta dei quartieri mostrando come le migrazioni abbiano trasformato la città nel corso del tempo, arricchendone il patrimonio culturale tangibile e intangibile. Si cammina insieme per vie e piazze, si attraversano mercati, si entra in luoghi di culto, si osserva il tessuto urbanistico e architettonico da prospettive inusuali.

Al centro di tutto vi è la dimensione dell’incontro, del dialogo, del confronto capace di lasciare la traccia di un’esperienza significativa nei ricordi di chi partecipa alle passeggiate Migrantour.

Nascita ed espansione della rete

Il progetto Migrantour è stato ideato e sperimentato inizialmente dalla cooperativa Viaggi solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr) che, nel 2009-2010, a Torino, realizzò il primo corso per «accompagnatori interculturali», rivolto a venti migranti di prima e seconda generazione residenti in città.

A partire da quel progetto pilota, Fondazione Acra e Oxfam Italia diedero poi il loro fondamentale contributo ottenendo, nel 2013-2015, il primo finanziamento dalla Commissione europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo).

Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di realizzare le attività in ogni città. Una seconda, importante fase di sviluppo dell’iniziativa si ebbe poi nel 2018-2019, grazie a due nuove progettualità: l’Asylum migration and integration fund (Amif) della Commissione europea e l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) permisero in quegli anni l’ingresso nella rete di altre città italiane (Bologna, Napoli, Catania, Cagliari e Pavia) ed europee (Bruxelles in Belgio e Lubiana in Slovenia) e soprattutto di organizzare delle specifiche attività per coinvolgere nell’iniziativa richiedenti asilo e rifugiati.

Nel corso degli anni successivi, la rete Migrantour ha continuato ad ampliarsi (aggregando le città di Parma e Bergamo).  Anche nel terribile 2020, segnato dalla pandemia, la rete ha dato vita a due programmi di scambio «Erasmus+» che le hanno permesso di estendere il progetto ad altre città (Barcellona in Spagna, Copenaghen in Danimarca, Utrecht nei Paesi Bassi) e, per la prima volta, in una serie di aree non urbane: Borgata Paraloup in Piemonte, Camini in Calabria, e altre località rurali in Slovenia, Grecia e Bulgaria. Oggi Migrantour è, dunque, una rete molto ampia, coordinata da Fondazione Acra e Viaggi solidali, ma sempre aperta ad accogliere nuovi partner e avviare nuove collaborazioni.

Mirela (Romania), accompagnatrice interculturale, la «Tettoia dei contadini», passeggiata «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

La formazione

Come funziona concretamente l’ideazione degli itinerari interculturali di Migrantour? Tutto comincia con un percorso formativo partecipato, offerto – sempre gratuitamente – a un gruppo di cittadini con background migratorio in seguito all’apertura di una call pubblica.

Il gruppo in formazione si impegna, dunque, per alcuni mesi in un lavoro fatto di momenti di approfondimenti sulla storia delle migrazioni, sul patrimonio culturale, sul turismo responsabile. Soprattutto cerca di sviluppare, attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i partecipanti (cui i formatori forniscono strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti delle passeggiate): le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano.

Le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali divengono così, giorno dopo giorno, una «comunità di pratiche», che si fa gradualmente anche «comunità patrimoniale», nella misura in cui si impegna nel salvaguardare e trasmettere un patrimonio interculturale ritenuto rilevante per promuovere la coesione sociale, la valorizzazione del pluralismo culturale e del dialogo interreligioso.

I risultati

Considerata l’ormai lunga durata di questa iniziativa e l’ampiezza della rete delle città coinvolte, può essere interessante domandarsi quali siano i risultati tangibili ottenuti finora dal progetto.

A tal proposito, negli anni 2018-2019, l’International research centre on global citizenship education dell’Università di Bologna ha realizzato uno studio per valutare l’impatto del progetto Migrantour prendendo a campione le città di Torino, Bologna, Napoli e Cagliari.

Dal report finale emergono due cambiamenti rilevanti: i partecipanti alle passeggiate interculturali Migrantour cambiano le proprie percezioni sul fenomeno migratorio in termini di sicurezza e di contributo allo sviluppo della società rivalutando i quartieri in cui si svolgono le passeggiate; le accompagnatrici e accompagnatori interculturali migliorano la percezione del sé, rafforzandosi e affrancandosi attraverso il lavoro e trovando una modalità di realizzazione personale.

Nel report si legge ancora: «Da un’iniziale motivazione personale, legata alla possibilità di trovare un impiego, di mettere in pratica alcuni temi studiati all’università, o di migliorare l’italiano, per molti partecipare a Migrantour diventa qualcosa di più importante di un semplice lavoro o dello studio. Può favorire una più effettiva integrazione e contribuire alla preparazione di una nuova generazione alla convivenza multiculturale».

In effetti l’impatto più significativo, ancora oggi nel 2023, riguarda – a nostro avviso – proprio le accompagnatrici e accompagnatori interculturali. Lasciamo, dunque, la parola alle protagoniste e ai protagonisti di Migrantour.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, San Salvario (Torino), passeggiata interculturale «United colors of San Salvario». Foto Ornella Orlandini.

Cosa dicono

«L’impatto su di me – spiega Romina – è assolutamente positivo perché ho modo di confrontarmi, conoscere, capire, sentire altre storie di migrazioni. Lavorare a fianco di altri migranti mi dà un senso di appartenenza, mi sento capita, senza dovermi giustificare o spiegare, ma semplicemente raccontandomi in maniera naturale e spontanea direi».

Adriana: «Per me fare l’accompagnatrice interculturale è un privilegio perché è uno spazio in cui puoi autoraccontarti, autodefinirti, al di là di quello che le altre persone possono pensare di te semplicemente sapendo che sei nata in Colombia oppure che vivi a Barriera di Milano, come nel mio caso. Ti permette di raccontare come vedi e come vivi la città in uno spazio protetto e in generale di non giudizio».

Migrantour appare, dunque, come uno spazio in cui potersi confrontare liberamente e senza barriere. Un luogo in cui le storie personali o familiari di migrazione s’intrecciano e le narrazioni trovano spunti di riflessioni e linguaggi comuni. È significativa la consapevolezza del potere di rappresentazione tanto più in un contesto dove prevale nella comunicazione pubblica un punto di vista esterno (giornalisti, esperti, ricercatori, politici). Gli itinerari interculturali, al contrario, si fondano su uno sguardo interno, quello di chi ha vissuto personalmente l’esperienza della migrazione e sceglie di voler connettere la propria storia individuale con quella collettiva di altri migranti e della città.

Come abbiamo visto introducendo le modalità del percorso formativo, Migrantour è un luogo di scambio reciproco in cui costruire una comunità di pratiche. La costruzione degli itinerari è il risultato di un percorso partecipativo. Esso prevede uno scambio di competenze: si condivide, si insegna, si impara e si trasmette non solo quanto si sa personalmente ma anche i saperi degli altri partecipanti per costruire un dialogo autenticamente interculturale, capace di restituire la complessità degli scambi tra culture che, quotidianamente, avvengono nei quartieri dove si svolgono le passeggiate.

Come ricorda Mirela: «Essere accompagnatrice interculturale vuol dire anche essere parte di una grande famiglia dove ognuno di noi ha l’occasione sia di imparare sia di insegnare qualcosa agli altri. Questo senso di appartenenza fa bene a tutti, ci fa stare bene, ci fa voler portare avanti questo progetto».

Il sentirsi parte di una comunità rappresenta anche un’opportunità di emancipazione e di partecipazione alla società civile, nel rivendicare il proprio contributo nei processi di trasformazione della società.

«Diventare – spiega Monica –  un’accompagnatrice interculturale ha significato una grande svolta per la mia vita: quella dell’emancipazione come persona e come cittadina perché sono uscita da quella emarginazione nella quale mi ero lasciata collocare come immigrata. Avevo assunto su di me i pregiudizi sull’immigrazione e, soprattutto, i pregiudizi sulla mia comunità di appartenenza, quella rumena, vergognandomene purtroppo. Grazie a Migrantour ho capito e visto la ricchezza culturale che mi porto dentro e che posso condividere con gli altri. Ho cambiato prospettiva nel guardare me stessa, la mia comunità e le migrazioni in generale. Ora sono diventata consapevole delle mie molteplici identità, della bellezza del mondo che emigra e sento la necessità di ripagare Torino, questa bellissima città che mi ha accolta, diventando una cittadina attiva che si prende cura del proprio luogo del cuore».

Noi e la città

Un elemento che accomuna le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali è il rapporto che, man mano, si costruisce e rafforza con la città. Una città fatta di persone e storie con cui entrare in contatto, in cui si ha un ruolo per fare qualcosa per gli altri (Mirela), in cui sentirsi cittadine attive e sempre più torinesi (Adriana, Monica e Romina), in cui sentirsi a casa (Hassan).

Si sviluppa un senso di responsabilità, che sprona a formarsi di continuo, per inserire le proprie narrazioni nel quadro più ampio di una città in continua trasformazione grazie all’incontro tra culture e per restituire un discorso non stereotipato sulle migrazioni. In altre parole, un senso di responsabilità per aprire luoghi, relazioni, significati, possibilità, per rigenerare e costruire comunità.

Rosina (Italia-Perù), coordinatrice e accompagnatrice interculturale, passeggiata interculturale «Borgo San Paolo sin fronteras» per il progetto Detour, promosso da Fondazione Merz. Foto Matteo Montenegro.

«Città chiusa» versus «città aperta»

È proprio su questo impegno che, in conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione: aprire la città. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, l’orizzonte ideale del progetto Migrantour.

Come ha giustamente indicato il sociologo americano Richard Sennett, una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità è quella tra i fautori della «città chiusa», segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico, e coloro che, invece, sostengono la possibilità di una «città aperta», che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano.

Una città «storta e sbilenca», scrive Sennett nel suo libro Costruire e abitare. Etica per la città (2018), una città diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno «ineguaglianze accecanti».

Per «aprire la città» e renderla maggiormente «accessibile», ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato».

Rosina I. Chiurazzi Morales
e Francesco Vietti


Gli autori

  • Rosina Irene Chiurazzi Morales, torinese per nascita ma con origini peruviane. Ha sempre mantenuto un forte legame con la terra d’origine, anche in campo professionale partecipando a progetti di ricerche archeologiche in Perù. Dal 2014 al 2019 ha coordinato le attività sul campo della «Missione Etnologica» in Ecuador del Cesmap di Pinerolo e dell’Università di Torino. Dal 2009 collabora con Viaggi solidali al progetto Migrantour, come accompagnatrice interculturale e come coordinatrice per Torino e per la rete europea.
  • Francesco Vietti, antropologo, insegna all’Università di Torino. Ha svolto ricerche sul nesso tra mobilità e patrimonio culturale nell’Europa Orientale e nel Mediterraneo. In Italia, collabora da molti anni con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti per la coesione sociale e il dialogo interculturale. Dal 2009 collabora al coordinamento scientifico della rete europea Migrantour. Pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi 2010), Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci 2014).

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Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




Mongolia, verso il deserto del Gobi


Il deserto del Gobi è una vasta regione di terra desertica e semi desertica che si estende dalla Cina settentrionale alla Mongolia meridionale coprendo quasi un milione e 300mila km2 (almeno 4 volte l’Italia). Il suo nome evoca immagini di un paesaggio remoto, e di nomadi che cavalcano liberi attraverso la steppa.

Poche esperienze riuniscono l’insolito e l’epico come quella di attraversare il deserto della Mongolia. Si viaggia su strade sterrate e non segnate sulle mappe, sballottati sul sedile posteriore di un fuoristrada, e si spera che lungo il tragitto non capitino imprevisti che, nel mezzo del nulla, diventerebbero problemi di difficile soluzione.

Spesso immaginato come luogo di un caldo insopportabile e di dune di sabbia in movimento, il deserto del Gobi è tutto questo e molto di più.

Lungo il percorso verso le Khongoryn Els (le «dune cantanti»), attraversiamo vaste pianure, passando tra alte vette e catene montuose, dune di sabbia e valli rocciose. Un ambiente benedetto da un cielo eternamente limpido, sabbie dorate, miraggi blu e una distesa infinita di terre steppiche. Qui, le strette pareti della Yolyn Am («la valle degli avvoltoi», una profonda gola sempre ghiacciata nelle montagne del Gurvan Saikhan, ndr) sembrano fuori posto, così come i lastroni di ghiaccio che storicamente ne ricoprivano il fondovalle anche durante l’estate. Oggi purtroppo, a causa dei cambiamenti climatici, né il ghiaccio né gli omonimi avvoltoi Yol resistono al calore dei giorni più torridi di luglio.

Quando arriviamo a Bayanzag ci sorprende la bellezza selvaggia delle sue «Scogliere fiammeggianti» (The flaming cliff). In queste terre Roy Chapman Andrews scoprì nel 1923 i primi fossili scientificamente riconosciuti di uova di dinosauro. Al tramonto, le Scogliere fiammeggianti assumono un colore rosso profondo e un aspetto misterioso con le loro ombre viola tra i canyon, le grotte, le rovine di templi e villaggi un tempo abitati dai monaci.

Cavalli al pascolo sullo sfondo delle Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Verso le Khongoryn Els

Siamo sorpresi dalla presenza di molta vita rurale nel deserto. Ci imbattiamo in diverse famiglie di pastori nomadi che vivono nelle loro gher. Al nostro arrivo, le abitazioni si animano improvvisamente di bambini che escono di corsa dal loro rifugio. L’eccitazione poi si trasforma rapidamente in timidezza quando vedono che siamo stranieri.

Il Gobi è anche l’esperienza di dormire in una gher. Le notti trascorse nelle tipiche strutture mongole portano con sé anche indimenticabili momenti di contatto e di dialogo con persone del luogo sorseggiando tè e airag, il latte di cavallo leggermente fermentato.

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Il tramonto finale

L’ultima tappa è stata organizzata nei minimi dettagli per fare in modo di arrivare alla destinazione finale prima del calare del sole. Il tramonto sulle dune di Khongoryn Els è uno dei desideri più forti nel nostro immaginario.

Khongoryn Els è il deserto che abbiamo sempre sognato: arrampicarsi sulle sommità delle dune mentre i passi scivolano all’indietro lungo il pendio sabbioso, guardare il deserto più grande dell’Asia da «montagne» di sabbia alte fino a 300 metri. Osservare dune susseguirsi a perdita d’occhio e contemplare il calare del sole.

È un momento di totale e silenziosa simbiosi con l’ambiente, la sabbia e l’orizzonte che si fondono nel rosso intenso che lentamente lascia il posto al blu profondo dell’immenso cielo stellato.

I paesaggi sconfinati, la sabbia dorata, il rosso, il verde, il blu cobalto, ma soprattutto i sorrisi dei bambini, lo sguardo fiero dei nomadi, sono solo alcune delle molte istantanee che la Mongolia può regalare.

Le Singing Sands del Gobi Gurvansaikhan National Park

Deserto del Gobi

Il Festival del Naadam

Per ricordare le gesta e la potenza di Chinggis Khan, il guerriero che fondò l’impero più vasto nella storia dell’umanità, ogni estate i mongoli si riuniscono durante la festa del Naadam per gareggiare nei «tre sport virili»: equitazione, lotta e tiro con l’arco. Il più grande evento del Naadam si svolge a luglio presso lo Stadio nazionale di Ulaan Baatar, ma ogni regione ha poi il suo festival, e le gare delle zone rurali sono i veri baluardi della tradizione nomade e guerriera di questo popolo. Il festival è il punto di incontro più autentico con la cultura mongola: bambini a cavallo in gara lungo percorsi di 20 km, lottatori di ogni stazza, arcieri che perforano bersagli con precisione millimetrica.

Un’esperienza indimenticabile.

Dan Romeo | dan@dan.ph




Turismo e Covid-19, un’estate in salita

testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |


La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.

Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.

Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).

Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.

Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.

A Bagamoyo, Tanzania, sull’Oceano Indiano

La perdita di posti di lavoro

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.

Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.

A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:

  • nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
  • Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
  • Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.

La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.

Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.

Il traghetto a Likoni, Mombasa, Kenya

La situazione nei Paesi meno sviluppati

All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.

Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.

Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.

L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.

Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.

Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.

Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.

Vedutadel Monte Kenya

Prima adattarsi e poi ripartire

Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.

In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.

A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.

A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.

Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.

Competizione per fuoristrada nei dintorni di Nairobi, Kenya

Solo danneggiati o anche danneggiatori?

Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.

I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».

E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.

La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.

Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.

Veduta del Monte Kilimanjaro dal Kenya

Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.

In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».

Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.

La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.

Chiara Giovetti

Il Fort Jesus a Mombasa, Kenya




Camerun. Impresso nell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Ci sono viaggi che ti lasciano il segno nell’animo e che ti provano fisicamente. Viaggi che più di altri ti incidono emozioni e si fissano nella memoria. È quello che provo a raccontare con le foto scattate in Camerun nel febbraio 2019.

Per mesi e per una serie di conseguenze dovute al viaggio stesso, non ho avuto modo di visionare attentamente le tantissime immagini scattate attraversando il Camerun da Nord a Sud facendo la spola tra le due principali città del paese, Douala e Yaoundé, e decine di piccoli villaggi dell’interno.

L’obiettivo era quello di visitare e documentare gli ospedali, le comunità e i progetti umanitari gestiti dalle Ong con cui collaboro, per dare voce alle condizioni di vita e ai diritti violati di donne, bambini, anziani.

In particolare, le foto di queste pagine documentano la difficile situazione di un orfanatrofio gestito con tanta buona volontà ma pochi mezzi da una Ong locale, dal nome che richiama la «vedova di Sahrepta» (cfr 1Re 17) che nella sua povertà accoglie il profeta Elia. Questa Ong ha chiesto aiuto a una controparte svizzera per poter continuare a servire i bambini orfani in un paese travagliato.

Insicurezza

In Camerun c’è grande insicurezza a causa di gruppi armati che saccheggiano e distruggono case e causano molte vittime civili, costringendo la popolazione a sfollare verso le grandi città (vedi MC 3/2020 p. 19).

Tale insicurezza ha contagiato anche me che, pertanto, ho viaggiato con l’ansia che qualcosa potesse accadermi da un momento all’altro in quel territorio a tratti fortemente militarizzato.

In molti si trasferiscono in città dalle aree rurali. Sono in cerca di lavoro e di una vita migliore. Tuttavia, tanti finiscono per vivere in baraccopoli sovraffollate dove il pericolo di malattie come la malaria e il tifo è altissimo.

Douala è la capitale della provincia del litorale. Si trova sulle rive del fiume Wouri, a 30 km dalla costa atlantica meridionale del paese. È la città più grande con circa tre milioni di abitanti.

Bambini, prime vittime

I bambini sono la parte più colpita da questa situazione e di conseguenza la più vulnerabile della società. In Camerun i loro diritti sono fortemente minacciati. Migliaia di bambini non frequentano la scuola e non hanno accesso ai servizi sanitari. Oltre il 97% dei bambini di Douala è iscritto alla scuola elementare e, sebbene questo dato sia superiore alla media nazionale, molti non completano l’istruzione primaria. I bambini delle famiglie povere l’abbandonano, spesso, a causa delle difficoltà nel raggiungere la scuola o dei costi non sostenibili per libri, divise scolastiche e altre spese.

Migliaia di bambini vagano per le strade abbandonati al loro destino per tante cause diverse: morte dei genitori, case distrutte, violenza famigliare, disturbi mentali, povertà.

Spesso sono gli stessi bambini che devono trovare il modo di sostenere la famiglia. A Douala se ne possono vedere molti che raccolgono rifiuti o vendono oggetti per strada. Alcuni cadono nella rete criminale dello sfruttamento sessuale.

Non ci si può abituare

Documentare le condizioni dei bambini abbandonati al loro destino è una costante nel mio lavoro. Nonostante questo, non mi ero mai trovato di fronte a condizioni di vita così estreme da farmi sentire in imbarazzo a fotografare e desideroso di conservare solo la memoria del cuore.

Però nessuna descrizione, nessun racconto può narrare meglio di un’immagine lo stato in cui migliaia di bambini vivono la loro quotidianità negli orfanotrofi. I loro occhi, i loro volti, i loro sorrisi segnati da un destino infausto. Solo pochi di loro riusciranno ad avere, un giorno, una vita diversa, lontana da violenze, povertà, fame, malattie.

Migliaia di bambini, da pochi mesi di vita fino all’adolescenza, vengono accolti in luoghi fatiscenti. O in comunità gestite da singole persone o piccoli gruppi di volontari locali con il supporto, a volte, di organizzazioni umanitarie o piccole associazioni internazionali.

Le immagini raccontano le loro storie e i luoghi in cui trascorrono le loro giornate, seguono un percorso scolastico precario regolato da una disciplina ferrea rafforzata da punizioni corporali, vivono in condizioni igieniche discutibili e vengono curati alla bell’e meglio. Luoghi però dove almeno una volta al giorno trovano un pasto.

Le loro stanze sono fatte di muri screpolati, letti a castello, ammassi di vestiti e oggetti di ogni tipo, scarpe, specchi, rifiuti, e odori acri e intensi. Impossibile negare loro un abbraccio, un sorriso, una carezza. Il loro desiderio di sperimentare relazioni nuove li porta a correre verso di te per accoglierti, abbracciarti, sorriderti. Tu rappresenti, putroppo solo per qualche ora, uno spiraglio a cui aggrapparsi per fuggire da un mondo, quello dell’orfanotrofio, fatto di affetti instabili e di privazioni relazionali.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it




A Benares, in riva al grande fiume

testo e foto di Daniele Romeowww.iviaggididan.it |


La città più santa e più antica dell’India ha molti nomi: Varanasi, Benares (Benaras), Kashi. Un viaggio nella città in riva al grande fiume Gange porta al cuore della religione e della cultura induista.

Sono le cinque del mattino, i vicoli della vecchia Varanasi brillano della pioggia della notte appena passata. Uno di essi, appena sufficiente a consentire il passaggio di due persone, conduce tra i negozi fino al sacro fiume Gange.

È appena l’alba ma l’intrico di vie della città vecchia è già immerso nel caos. Gli uomini spingono le donne, le donne spingono i grossi buoi, i buoi evitano di calpestare i bambini. Tutto è in vendita: piccole bottiglie di acqua «santa» del Gange, bottiglie di acqua minerale, amuleti, bracciali, anelli, immagini del dio Shiva.

I turisti camminano ancora addormentati. Molti, soprattutto le donne, indossando abiti tradizionali nel tentativo di confondersi con la folla e immedesimarsi nello spirito della città.

I negozianti osservano l’attività dei vicoli affollati con indifferenza, sorseggiando il tè del mattino. Se qualcuno si ferma a chiede loro indicazioni, riprendono vita descrivendo il percorso con gesti saldi ed energici.

Linee infinite di pellegrini indiani camminano scalzi per i vicoli tenendo costantemente il loro sguardo verso il fiume sacro. Alla fine, i vicoli si allargano e appare l’acqua di un colore marrone scuro, torbido. È il Gange, Ganga come lo chiamano gli indiani. Quest’anno le piogge monsoniche sono state particolarmente copiose e il fiume ha ricoperto gran parte dei ghat (scalinata che scende al fiume, ndr).

L’alba è l’ora più fortunata per un fotografo. Quasi non riesco a impugnare la macchina; sono incantato dalla folla che ignorando completamente tutto ciò che la circonda, ha come unico scopo quello di tuffarsi in quell’acqua torbida e dalla forte corrente.

Più vecchia della storia

Dopo aver camminato per alcuni giorni lungo le stradine di Varanasi, aver trascorso molte ore seduto sui gradini dei ghat del sacro Gange e aver assistito alle cremazioni al ghat Manikarnika, ho compreso perché Mark Twain, sconcertato visitatore occidentale nei primi del Novecento, abbia scritto: «Banares è più vecchia della storia».

Varanasi è una città dalle mille contraddizioni. Dall’Assi al Panchganga ghat, ho camminato alla ricerca di una fede inafferrabile per capire le ragioni di una condizione umana e sociale così diversa, lontana e incomprensibile ai miei occhi. Interrogativi sul valore dell’essere umano e della sua condizione di vita mi hanno accompagnato e tormentato durante tutta la mia permanenza in città.

Non è il mio primo viaggio fotografico in India. Ho trascorso molto tempo in questa terra dai mille volti. Avevo sempre rinviato il mio confronto con Varanasi fino a quando, al rientro dal Ladakh all’estremo Nord del paese, lo scorso ottobre, ho deciso finalmente di affrontarla.

Visitare questa città è un sogno per i fotografi. Ha un’attrattiva molto particolare. C’è di più dei ghat, dei templi e del caos cittadino.

Gli stretti vicoli sono colorati e impregnati di un fascino unico; i ghat portano mille aromi di incenso ed emanano odori che anche gli olfatti più abituati stentano a sopportare. C’è qualcosa di diverso da scoprire dietro ogni angolo.

La città e il fiume

Varanasi è conosciuta come la capitale religiosa dell’induismo. Sia gli indù che i non indù di tutto il mondo la visitano per motivi diversi: le sue tradizioni, la spiritualità, l’architettura, la storia. Altri ancora viaggiano in questa città alla ricerca del significato della vita. Altri vengono alla ricerca dell’anima gemella. Alcune donne danno alla luce bambini sui ghat, molti vi si sposano e tanti altri vengono qui a morire.

Tutti sono convinti che il fiume sacro li purificherà dalle loro sofferenze e laverà via i loro peccati. Ci sono cerimonie e rituali quotidiani che prendono vita sulle rive del Gange e migliaia di persone si riversano lungo le sue rive per il «santo tuffo».

Un amico fotografo indiano, esperto di Varanasi, mi ha raccontato che esiste un potere molto speciale nella città. Gli indù credono che il bagno nel Gange rimetta i peccati e che morire qui assicuri il rilascio dell’anima dal ciclo della sua trasmigrazione (reincarnazione). Molti indù vengono in città per morire, altri risparmiano per tutta la vita per assicurarsi di essere cremati e avere le ceneri gettate nel Gange.

Rupie miracolose

Ho avuto modo di assistere alle cerimonie di cremazione e documentare i vari rituali, tra difficoltà e anche intimidazioni. Già lungo i vicoli verso il ghat Manikarnika, dove avvengono queste cerimonie, ogni persona che incontravo mi lanciava dei moniti: «Nessuna foto! È proibito!». Le persone più ostinate mi seguivano chiedendomi insistentemente di mettere via la macchina fotografica elencandomi i rischi: l’arresto, la prigione, l’espulsione.

Successivamente ho scoperto che elargendo qualche rupia per ogni scatto avrei potuto addirittura accedere all’interno dell’edificio dove avvengono le cremazioni e fotografare senza alcun problema. Così è stato.

Quello a cui ho assistito è stato emotivamente e visivamente toccante. Per rispetto di quei corpi e del rituale hindu, mi sono limitato a pochi scatti. Le immagini raccolte non possono testimoniare gli odori, l’atmosfera, le sensazioni, la spiritualità che ho vissuto di persona. Il fumo acre e denso delle pire ha intriso i miei vestiti e le mie narici rimanendo con me per giorni. I corpi arrivano giorno e notte senza fermarsi. Manikarnika non dorme mai.

Intorno al ghat, la morte è una forma di sostentamento permolti: falegnami, barbieri, antyeshti (sacerdoti che eseguono riti e preghiere), venditori di fiori e gruppi di emarginati (intoccabili) che setacciano i resti sotto i forni crematori e il fango sul fondo del Gange, alla ricerca di anelli e gioielli rimasti tra le ceneri dei corpi.

Esplosione di colori

Varanasi è pura esplosione di colori, emozioni, espressioni. Le persone non sembrano notare mentre scatti, non provano a inserirsi nell’inquadratura e non posano. Eccezion fatta per i sadhu, gli asceti religiosi, mendicanti, persone sante, anche donne, che nell’induismo e nel giainismo hanno rinunciato alla vita mondana.

Un sadhu dedica la propria vita al raggiungimento della liberazione, il quarto e ultimo stadio dell’esistenza. La liberazione è raggiunta attraverso la meditazione e la contemplazione del Brahman. Ci sono circa 5 milioni di sadhu in India: Naga, Bandu, Yogi, Siwadas, Bakti e molti altri. Tutti cercano di ottenere l’illuminazione religiosa e la liberazione dal ciclo della reincarnazione.

Varanasi è una città di leggende. La sua stessa storia è un enigma come lo resteranno i quesiti su quello che ho visto. Nella città sacra le condizioni di vita, gli stenti, gli eccessi e i paradossi dell’India raggiungono i livelli più estremi.

Daniele Romeo




Kenya: In viaggio con il vescovo «selvaggio»

Foto e testi di Daniele Romeo


Sole. Polvere. Calore. Il suono delle campane delle mucche. Il belato delle capre. Il sottofondo costante, ritmico, quasi ipnotico del canto di guerrieri Samburu, che si preparano a festeggiare l’evento dell’iniziazione alla vita adulta di un gruppo di ragazzi. Accade ogni quindici anni circa. È una scena affascinante, antica, quasi biblica. Come biblica è la figura di Virgilio Pante, the wild bishop, il «vescovo selvaggio», come lo chiamano nella diocesi di Maralal e come lui stesso ama definirsi.

Pante, come preferisce essere chiamato, è la mia guida e il mio «autista» instancabile alla scoperta del territorio abitato dalle etnie Samburu, Turkana e Pokot, in un safari fotografico che mi permetterà di conoscerlo e apprezzarlo insieme a un altro grande missionario poco convenzionale in un territorio difficile, isolato, al centro di eterni conflitti e dominato dalla filosofia dell’«Io, adesso»: monsignor Virgilio Pante e padre Aldo Giuliani, missionari della Consolata.

Il viaggio

Mi trovo nel Kenya del Nord, la Samburu County, nella diocesi di Maralal, per un viaggio fotografico esplorativo in un’area nella quale da decenni, esattamente dal 1952, operano i missionari della Consolata. Partito da Nairobi, sono arrivato a Maralal, dove monsignor Pante ha la sua sede. E da Maralal partirò, accompagnato dal missionario, alla scoperta delle missioni più remote della sua diocesi.

Lungo l’itinerario percepisco un’atmosfera fraterna, serena, fatta di amicizia e condivisione che solo il viaggiare in compagnia e col supporto di chi da sempre vive in simbiosi e sintonia con questa terra, può creare. Un senso di pace interiore mi fa sentire solidale con questi luoghi isolati. Siamo in una delle zone forse più difficili del Kenya, segnata dalla violenza causata dalla follia dell’uomo e dalla durezza e sobrietà di un ambiente naturale che pure è di sorprendente bellezza.

A decidere ogni singola tappa, villaggio e missione da visitare, per tutto il tempo al volante della sua Toyota 4×4, è il vescovo Pante, narratore instancabile e conoscitore di ogni angolo di quella che lui chiama la «sua sposa» (la sua diocesi) che ha attraversato in tutte le direzioni con la sua moto.

Monsignor Pante, la mitra, la Yamaha

Ordinato vescovo della diocesi di Maralal il 6 ottobre del 2001, è fiero di aver donato, un paio di anni fa, a papa Francesco la sua mitra in pelle di capra. Mitra che non rappresenta per lui solo un simbolo cristiano, ma uno stile di vita e la memoria della sua stessa esistenza in mezzo ai pastori samburu da quando nel 1972 iniziò la sua avventura missionaria in un territorio in bilico tra montagne e deserto e segnato dalla conflittualità delle tribù di pastori nomadi che lo abitano, sempre in competizione per le magre risorse.

Durante il nostro viaggio mi racconta che da quel lontano 1972, molte cose sono cambiate in meglio mentre molte sono peggiorate. Altre sono rimaste identiche, come la sua smisurata passione missionaria.

Allora quelle terre erano relativamente pacifiche, spazi infiniti e incantati tra gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati, come in un dipinto, dai pastori samburu al seguito delle loro greggi. A quel tempo era solo, lui e la sua motocicletta Yamaha, che ancora oggi custodisce gelosamente a Maralal e usa spesso e volentieri, non solo sulle strade e piste polverose del Nord.

Viaggiare nel Nord del Kenya non è agevole. Lontani solo poche ore da Nairobi, ci si addentra in zone con strade sterrate e prive di qualsiasi indicazione, sulle quali un fuoristrada non è certo un lusso. In questo ambiente, Pante si muove come nel giardino di casa, senza esitazioni, conoscendo a occhi chiusi il cammino che porta ai villaggi più isolati, alle manyatte (tipici insediamenti dei Samburu) immerse nel mezzo del nulla e alle missioni di Baragoi, Barsaloi, South Horr, Tuum e Sererit.

Veniamo accolti dai bambini. All’inizio ci fissano con i loro sguardi timidi e incuriositi, ma, dopo pochi attimi, ci circondano sorridenti festeggiando l’arrivo del vescovo. Grazie alla sua dimestichezza con le lingue samburu e swahili, il vescovo mi aiuta a godere di racconti, storie e leggende degli anziani dei villaggi.

La Suguta Valley e i conflitti etnici

«Cactus, alberi di acacia e polvere: sono le ultime cose che i militari della polizia keniota hanno visto quando sono stati uccisi in un’imboscata in uno dei luoghi più inospitali della terra». Queste le parole con cui Pante descrive la «valle della morte» quando l’osserviamo dall’alto andando verso Baragoi. Situato a Sud del lago Turkana e parte della Rift Valley, questo è uno dei luoghi più caldi e inospitali del mondo. La valle è stata ed è tuttora luogo di rifugio sicuro per razziatori di bestiame, sia Turkana che Samburu, che si rubano il bestiame a vicenda, un tempo solo per dare prova di coraggio contro il «nemico», oggi anche istigati da mestatori e trafficanti di bestiame.

Il conflitto tra Samburu, Turkana e Pokot è il tema dominante delle conversazioni con monsignor Pante. La riconciliazione è l’obiettivo della sua missione di vescovo. Sono decine gli episodi raccontati durante le lunghe ore trascorse in auto. Capisco così come la competizione per il bestiame e l’approvvigionamento di acqua e pascoli nella Samburu County sono oggi manifestazioni di contese e rivalità non solo di tipo etnico ma anche politico.

La cultura della razzia tra le comunità di Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Gabbra e Rendille è cambiata negli ultimi 40 anni. Mentre un tempo erano gli anziani i guardiani delle istituzioni tribali, oggi lo sono molto meno. Tra le fila delle comunità di pastori nomadi, sono emersi politici e astuti uomini d’affari pronti a sfruttare le rivalità tradizionali e l’oggettiva scarsità di risorse per scatenare le violenze e affermarsi. Queste lobby politiche e imprenditoriali giocano un ruolo determinante nel conflitto, pagando e armando i guerrieri. La competizione per la supremazia politica è strettamente intrecciata con quella per le scarse risorse idriche e dei pascoli tra Turkana, Samburu e Pokot. Le élite politiche armano le loro comunità non solo durante la stagione secca per prendere il sopravvento nella corsa alle risorse limitate, ma durante tutto l’anno, per sostenere politiche locali e contese tra leader delle diverse etnie.

A guadagnarci sono poi i trafficanti di bestiame che lo possono acquistare a prezzi irrisori e rivendere vantaggiosamente a Nairobi o addirittura in Medio Oriente.

Ma Pante è anche molto fiducioso nel cammino di riconciliazione da lui avviato. Il ruolo della Chiesa, la presenza dei missionari sempre più «neri» e la crescita del numero dei sacerdoti locali offrono a Samburu, Turkana, Pokot, strumenti che permettono di costruire una convivenza pacifica: il dialogo, la scuola, il mercato. Incontri di preghiera, condivisione e scambio tra anziani delle diverse etnie, bambini Samburu e Pokot che dormono, mangiano e giocano insieme nella stessa scuola-collegio, mercati intertribali, nuove scuole.

È un cammino lungo e difficile, ma lentamente sta portando risultati.

Dan Romeo


Scatti ed emozioni di un fotografo

U na serie di articoli fotografici, sotto il titolo «I viaggi di Dan», troveranno spazio su queste pagine per un po’ di tempo. Confesso che è emozionante per me avere l’opportunità di condividere con i lettori di Missioni Consolata la mia passione per la fotografia, i viaggi e le azioni umanitarie.

Mi auguro di riuscire a farvi partecipi di cosa c’è dietro al lavoro di un fotografo e viaggiatore umanitario. Ho vissuto esperienze con Onlus e Ong come la stessa Missioni Consolata Onlus, Unicef, Save the children e molte altre in 55 nazioni diverse.

Vorrei soprattutto farvi entrare in contatto con le realtà che ho visitato, tutte molto diverse dalla nostra, e con le situazioni vissute, ben lontane dalla quotidianità, dal comfort e dal consumismo a cui siamo abituati. Sarò felice di poter condividere con voi una passione che ha aperto per me nuovi orizzonti.

Chi è il fotografo umanitario

Essere un fotografo umanitario e documentare le attività di una Ong, non rappresenta solo l’opportunità di viaggiare
e di vedere decine di posti diversi in tutto il mondo, ma di provare, e poi trasmettere,
emozioni che difficilmente altri tipi di lavori
o di fotografia possono offrire: paesaggi, sguardi, profumi, odori, gioie, dolori.

I viaggi e la fotografia umanitaria sono uno strumento potente che può generare consapevolezza e cambiamenti nelle nostre vite.

Le immagini catturate dalle fotografie possono far sognare le persone e proiettarle in territori remoti, far comprendere popoli, tradizioni, condizioni di vita lontani dai nostri.

Ci sono poi sempre alcune immagini che, per il fotografo, segnano i singoli viaggi e reportage perché sono legate a momenti nei quali si è creata una connessione umana e un’empatia particolare con i soggetti ripresi. Sono quelle che condividerò con voi.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

 




L’insostenibile leggerezza del turista

Testo di Chiara Giovetti – Foto di Ennio Massignan


Il turismo si conferma anche per il 2018 un settore in espansione nel mondo, con un miliardo e 400 milioni di viaggi internazionali e un giro d’affari di 1.700 miliardi di dollari. Ma, accanto a realtà e comunità che hanno saputo governare il fenomeno, ve ne sono altre che ne sono state travolte.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt), nel 2018 il settore del turismo a livello globale ha registrato un’ulteriore espansione raggiungendo con due anni di anticipo rispetto alle previsioni il tetto del miliardo e 400 milioni di movimenti internazionali che la stessa Omt aveva invece previsto per il 2020. Il dato 2018 consolida quello del 2017 – pari a un miliardo e 326 milioni – e rappresenta in termini percentuali un incremento di sei punti. Considerando che l’economia mondiale nel suo complesso è cresciuta al ritmo del 3,7%, si può dire che il settore turistico preso singolarmente «viaggia» a una velocità un terzo più elevata rispetto a tutti i settori economici aggregati.

L’Europa resta la meta preferita con 713 milioni di arrivi internazionali, seguita dall’Asia con 343 milioni e dalle Americhe con 217, mentre Africa e Medio Oriente si attestano rispettivamente sui 67 e 64 milioni di turisti internazionali@.

Quanto al dato economico, il giro d’affari è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, cioè il 7% delle esportazioni mondiali (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

Questa cifra è composta dagli introiti del settore più quelli relativi al trasporto passeggeri@.

Circa sei turisti su dieci hanno viaggiato in aereo e poco più della metà si sono spostati per svago e diporto, mentre uno su dieci ha viaggiato per motivi di lavoro. Sono i cinesi a guidare con ampio margine la classifica delle dieci nazionalità che nel 2018 hanno speso di più in turismo; ben 277 miliardi di dollari. I secondi classificati, gli statunitensi, hanno speso un po’ più della metà rispetto ai cinesi: 144 miliardi. Seguono poi tedeschi, britannici, francesi, australiani, russi, canadesi, sudcoreani. Decimi gli italiani, con 30 miliardi di dollari.

Il World Travel and Tourism Council (Wttc), forum dell’industria del turismo e dei viaggi, ha quantificato il Pil del settore del turismo, una grandezza che considera non solo il denaro generato dalle imprese che vendono prodotti e servizi direttamente ai turisti – alberghi, agenzie di viaggio, trasporti e souvenir – ma anche gli investimenti, la spesa pubblica per il turismo, gli effetti sulle filiere connesse (cibo, offerta culturale, eccetera) e sul reddito di coloro che lavorano direttamente nel turismo. Nel 2018 il turismo ha raggiunto un Pil di settore di 8,8 mila miliardi, pari a un decimo del Pil mondiale, e ha impiegato 319 milioni di persone. Oggi, nel mondo, un posto di lavoro ogni dieci esiste perché esiste il turismo e il Wttc prevede che nei prossimi dieci anni continuerà a crearne ulteriori 10 milioni l’anno, fino a un totale di 421 milioni nel 2029.@

I rischi ambientali

È chiaro che, con questi numeri, il settore del turismo ha un potenziale enorme che può contribuire parecchio a devastare o, viceversa, a salvaguardare il pianeta a seconda di come viene usato.

Uno degli aspetti che desta più preoccupazione rispetto alla sostenibilità del fenomeno turistico riguarda i danni da esso provocati all’ambiente. Secondo un rapporto del Wwf che si concentra sul bacino del Mediterraneo, «gli oltre 200 milioni di turisti che lo visitano annualmente generano un aumento del 40% dei rifiuti in mare ogni estate»@.

La mancanza di infrastrutture adeguate e lo sfruttamento massiccio del territorio ha costretto nell’aprile del 2018 il governo delle Filippine a chiudere al pubblico per mesi un’intera isola, la bellissima Boracay@, ridotta a «una cloaca» dai rifiuti e dagli scarichi abusivi che rovesciavano il proprio contenuto direttamente in mare, minacciando la barriera corallina. Situazioni simili si sono verificate in Thailandia, dove Maya Bay – spiaggia di una delle isole Phi Phi nota per il film The Beach – rimarrà chiusa fino al 2021 per permettere all’ecosistema e in particolare ai coralli di rigenerarsi dopo essere stati messi a dura prova da un’eccessiva presenza di turisti, che arrivavano fino a 5.000 al giorno@.

In Europa, fra i casi più discussi di turismo di massa vi è senza dubbio quello di Venezia, una città che riceve giornalmente un numero di turisti più alto della sua popolazione di 53 mila persone residenti nel centro storico. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari del 2018, Venezia può reggere 52mila turisti al giorno, mentre ad arrivare sono in 77mila@. Tale flusso di viaggiatori mette a dura prova una città per sua natura fragile e i motivi di maggior preoccupazione riguardano la gestione dei rifiuti, l’inquinamento causato dalle navi da crociera@, lo spopolamento della città, l’invecchiamento della popolazione e la conversione in bed & breakfast di molte case del centro.

Altra notizia che di recente ha portato l’attenzione sul cosiddetto overtourism riguarda il numero di escursionisti morti sull’Everest e la quantità di rifiuti da loro lasciata. Lo scorso maggio, in una sola settimana sono decedute sette persone per il sovraffollamento del sentiero che porta alla cima@ e per l’impreparazione fisica di molti scalatori che per il fatto di pagare pensano di avere il diritto di arrivare in cima a tutti i costi.

Nel documentario Gringo Trails@,  uscito nel 2013, si racconta di diverse di queste situazioni finite ormai fuori controllo, ma anche di luoghi dove il governo e le comunità sono riusciti a imbrigliare e regolare i flussi turistici. Uno di questi è il regno del Bhutan, stato dell’Himalaya incapsulato fra Cina e India: chi vuole visitarlo deve prevedere una sorta di tassa, obbligatoria e ufficiale, di 250 dollari al giorno che comprendono vitto, alloggio, trasporti via terra e il servizio di guide autorizzate. I risultati del provvedimento, sinora, sono stati soddisfacenti nel demotivare il turismo di massa e nel contempo rendere gratificante il soggiorno di chi sceglie di accollarsi la spesa.

Un fenomeno da governare

Un altro aspetto ancora poco misurato, ma di cruciale importanza, è quello del cosiddetto leakage, la dispersione (o perdita, come quella dei tubi idraulici bucati) degli introiti derivanti dal turismo e può prendere la forma di profitti e ricavi pagati agli operatori turistici internazionali, di costi per beni e servizi importati, o di pagamenti di interessi sul debito. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) stima che il leakage medio per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo è tra il 40% e il 50% dei proventi lordi e tra il 10% e 20% per i paesi sviluppati o in via di sviluppo ma con economie più diversificate e quindi in grado di rispondere almeno in parte alla domanda di beni e servizi che il settore turistico rivolge ai vari comparti produttivi del paese@.

Il Wttc fornisce del leakage una stima al rialzo, segnalando fughe di introiti che vanno dal 40% dell’India all’80% dei Caraibi, con punte dell’85% in posti come le Bahamas@.

Tenendo in considerazione entrambe le ipotesi si può in sintesi dire che su 100 dollari spesi da un turista in un paese in via di sviluppo, dieci, bene che vada, o addirittura 85, nella peggiore delle ipotesi, escono dal paese e vanno a incrementare i profitti di intermediari turistici, oppure di aziende alimentari o tessili che producono cibo, tovaglie o lenzuola a migliaia di chilometri di distanza e li esportano perché siano utilizzati in un resort tanzaniano o in un mega albergo thailandese.

Chiunque si sia trovato a viaggiare nei paesi del Sud del mondo per vacanza o per lavoro si è probabilmente trovato almeno una volta nella sala da pranzo di una struttura turistica africana, asiatica o sudamericana e si è sentito disorientato nel constatare come questa fosse identica al ristorante di un centro congressi all’uscita di un’autostrada francese, inglese o italiana, l’unica differenza sta nella variante esotica rappresentata dal tetto in paglia e dalle finestre senza vetri.

Spesso l’importazione di beni è legata all’assenza di collegamento fra le filiere produttive locali e le strutture turistiche: la mancanza di una catena del freddo affidabile per la conservazione dei cibi nel tragitto dagli agricoltori e allevatori locali al turista consumatore, le condizioni precarie delle vie di comunicazione che rendono troppo costoso il trasporto e altre simili interruzioni del processo che connette il produttore interno all’utente sono fra i principali ostacoli. Lucie Servoz, esperta di turismo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, indica come primo passaggio verso un turismo sostenibile proprio il «rafforzamento dei collegamenti del settore turistico con i settori connessi nella sua filiera (ad esempio l’agricoltura, l’artigianato, i trasporti, le infrastrutture, le costruzioni) e la contestuale promozione di un approccio integrato e dell’approvvigionamento locale»@.

Altro aspetto da tenere in considerazione quando si parla di turismo sostenibile è quello delle ricadute occupazionali che potrebbe avere, ad esempio, in un continente come l’Africa, che secondo le proiezioni raggiungerà nel 2030 il miliardo e settecentomila abitanti e dove i bambini di età compresa fra 0 e 14 anni rappresentano oggi il 43% della popolazione nei paesi subsahariani, tre volte tanto rispetto ai coetanei che abitano nell’Unione europea@.

Sempre secondo le stime del Wttc, se i Paesi africani faranno riforme in materia di visti per facilitare gli spostamenti, si impegneranno per aumentare la connettività nel trasporto aereo e realizzeranno programmi efficaci di crescita, entro il 2028 il settore del turismo e dei viaggi potrebbe arrivare a generare fra i 30 e i 45 milioni di posti di lavoro.

Che cosa può fare il turista?

L’Organizzazione mondiale del turismo ha diverse raccomandazioni anche per i viaggiatori che vogliano contribuire a rendere il turismo sostenibile. Fra queste: non sprecare il cibo, dare visibilità alle iniziative interessanti – sulla promozione delle donne, o sulle risposte al cambiamento climatico – che si incontrano nel corso del soggiorno, informarsi prima di partire in modo da soggiornare in strutture che applichino pratiche sostenibili e non dannose per l’ambiente, imparare qualche parola della lingua locale per entrare in contatto con le comunità.

In aiuto del viaggiatore vengono anche i sistemi di certificazione bio e fair trade applicati alle strutture turistiche; di solito queste certificazioni sono accompagnate da un simbolo che viene esposto sia nelle strutture che nei loro siti web. Le «etichette» sono tante perché tanti sono gli enti e i metodi di certificazione e in effetti tutti questi simboli – spesso verdi e contenenti una fogliolina o qualcosa che richiama la natura – rischiano di assomigliare a una giungla. A tentare di mettere ordine sono state alcune organizzazioni tedesche, austriache e svizzere, che hanno prodotto una guida dal titolo Sostenibilità nel turismo. Una guida nella giungla di etichette@.

Per chi parla solo italiano, un buon punto di partenza anche solo per farsi un’idea di quali caratteristiche ha un viaggio improntato a principi opposti a quelli del turismo di massa, è il sito dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr), che raccoglie fra l’altro le proposte di viaggio dei soci, in Italia e all’estero@.

Chiara Giovetti




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti