L’economia dei respingimenti


Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.

Le strategie dei governi

Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.

Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.

In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.

Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare  italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.

Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della  guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.

Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.

Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.

Migranti su un barchino. Foto Geralt – Pixabay.

L’accordo con la Libia

Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.

Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.

Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.

In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.

Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.

Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica  e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.

In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».

L’accordo con la Tunisia

Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.

Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.

L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.

Soldati indiani lungo la barriera che divide il confine tra India e Bangladesh. Foto IANS.

Stati Uniti (ma anche India)

Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.

Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.

Intanto, in Europa

A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.

Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.

Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.

Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.

A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.

In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.

Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».

Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)




Tunisia: di nuovo in strada (ma non è primavera)

Testo di Angela Lano |


Dopo le rivolte del 2011, a gennaio 2018 i tunisini sono tornati in piazza per una rivolta eminentemente economica. Il partito (laico) al potere sta deludendo le aspettative e tutti i problemi sono rimasti insoluti. Il partito islamico (Ennahda), accusato di essere filoterrorista dai suoi detrattori, rimane in attesa.

I tunisini sono scesi nuovamente per strada, a manifestare la loro rabbia contro le ingiustizie sociali ed economiche, e la mancanza di prospettive e di futuro. La «primavera» del 2011 sembra un lontano ricordo o forse, soprattutto, una grande delusione.

Il bilancio della sommossa popolare di gennaio 2018 è di oltre 800 persone arrestate, centinaia di altre ferite, e negozi saccheggiati, veicoli danneggiati, caserme di polizia incendiate.

Le misure finanziarie dettate al governo dal Fondo monetario internazionale per il prestito di 2,8 miliardi di dollari, hanno scatenato la rivolta: aumento del costo della vita, licenziamenti nel settore pubblico, tagli alle pensioni, inflazione che supera il 6%, disoccupazione giovanile al 30%. La corruzione è dilagante e investe ogni settore, sia pubblico sia privato. La «casta» Ben Ali non è stata estromessa con la rivoluzione del 2010-2011: sono state allontanate le figure più in vista, ma l’estesa rete di «famigli» e «clientes» è rimasta e continua a gestire, in pretto stile mafioso, gran parte degli affari politici ed economici del paese.

Da Ennahda a Nida’a Tunis

Attualmente alla guida del paese c’è un governo del movimento Nida’a Tunis1. Si tratta di un partito laico, ma composto da personaggi dubbi coinvolti nel regime di Ben Ali e riciclati in funzione anti Ennahda, che accusano di appoggio al terrorismo.

«Tuttavia – ci hanno spiegato Kais e Debora, le nostre due interlocutrici -, i dirigenti di Ennahda sono persone colte e con progetti intelligenti. Si sono occupati anche di questioni sociali ed economiche, di diritti individuali, che altri non hanno avuto il coraggio di affrontare: interruzione del digiuno in pubblico, omosessualità, diritti personali. È dalla fine del 2012 che l’opposizione, anche di sinistra, delegittima questo partito. In Tunisia, come era avvenuto anche in Egitto, la sinistra aveva chiesto, paradossalmente, l’intervento dell’esercito per destituire Ennahda. La situazione si era risolta grazie al “Quartetto per il Dialogo nazionale”2». Il sindacato Ugtt si era offerto come mediatore politico per far uscire il paese dalla crisi.

Era stato dunque nominato un nuovo governo provvisorio, con un rimpasto di ministri, e si era evitata la guerra civile, come invece era accaduto in Egitto e in Libia. Nel 2014 Ennahda ha perso le elezioni, e anche il consenso interno. Le decisioni successive sono andate contro «lo spirito rivoluzionario», di cambiamento, richiesto dal popolo, soprattutto dagli strati sociali più giovani: è stata messa in atto una strategia di auto conservazione dei vecchi partiti filo Ben Ali che si sono infiltrati nel processo di cambiamento in corso, dando vita a una contro rivoluzione. E gli effetti si sono visti: disoccupazione, crisi economica, disperazione, fino alle sommosse di gennaio 2018.

In realtà questa fase di «restaurazione» era scattata già subito dopo la fuga di Ben Ali: il vecchio establishment si era subito messo in moto per rimanere all’opera nonostante la rivoluzione.

Ora Ennahda è di nuovo il primo partito, dopo la spaccatura di Nida’a. Nonostante abbia apportato importanti cambiamenti politici e sociali, negli anni di governo, dal punto di vista economico rimane neoliberista, come il resto della Fratellanza musulmana da cui trae le proprie radici politico ideologiche. «Sul fronte del centrosinistra, invece – hanno aggiunto Kais e Debora -, c’è il vuoto: gli attivisti o sono andati all’estero o sono stati assorbiti dalle Ong internazionali. Una parte della popolazione giovanile rivoluzionaria, dopo il 2011, ha iniziato a dedicarsi ad altro, e non più alla politica, perché ne è stata delusa».

Un contadino vicino a Sejnane. (© Arne Hoel)

Tuttavia, ci hanno fatto notare gli attivisti incontrati, qualcosa di positivo è stato messo in atto, ed è la cosiddetta «Istanza della Giustizia di transizione»: un processo sociale, politico e giuridico per accertare le responsabilità del regime dittatoriale e dei suoi esponenti. La «riconciliazione nazionale» deve passare attraverso il riconoscimento dei crimini commessi durante la dittatura e l’ascolto delle storie delle vittime, per evitare che si ricreino le stesse dinamiche. Per questo motivo nel dicembre del 2013 è stata promulgata la legge sulla Giustizia di transizione che ha creato l’«Istanza Verità e Dignità», con mandato fino al 2019: vengono raccolte e valutate le denunce dei cittadini che hanno subito violazioni dei diritti umani dal 1956 in poi.

Sono 63.000 i dossier raccolti – hanno aggiunto Debora e Kais -, e sono relativi a vari tipi di violazione dei diritti – civili, economici, politici – e comprendono anche torture, stupri, sparizioni, decessi in carcere e altre morti sospette, impedimento dell’accesso all’istruzione, matrimoni forzati. I responsabili sono diversi: lo stato e i singoli individui. Nei casi di corruzione viene chiesto ai responsabili la restituzione delle somme rubate. Il processo serve più alle vittime: «è un flusso della coscienza», una rielaborazione della memoria. Le vittime hanno la libertà di nominare pubblicamente i torturatori, gli oppressori, di raccontare le loro storie, durante udienze mandate in onda anche in Tv e che durano diverse ore. Ci sono state anche le testimonianze di membri di Ennahda imprigionati per anni dal regime di Ben Ali.

La Tunisia ha dinamiche europee anche sul fronte della società civile c’è molto attivismo: radio comunitarie, organizzazioni femminili, alternative economiche e lavorative finanziate da Ong, cooperative e donatori internazionali. È molto attiva la cooperazione internazionale, che ha parecchia influenza sulla società: alcune Ong europee o statunitensi orientano determinate politiche, quindi, di fatto, rappresentano una forma di controllo esterno.

L’economia nazionale è improntata sugli investimenti esteri. L’establishment nazionale pone infatti molti ostacoli agli investimenti locali, in quanto, come accennato sopra, rimane dominato dalla corruzione. Se a tutto questo aggiungiamo anche il crollo del turismo, che costituiva una delle risorse economiche tunisine, a seguito degli attacchi terroristici, la situazione è tornata esplosiva, come dimostrano le proteste di gennaio. Le regioni interne del paese, dove la disoccupazione e la povertà sono più forti, sono in continua agitazione, con molte manifestazioni antigovernative.

Al museo del Bardo: da 500 a 10 visitatori giornalieri

Dal centro di Tunisi aspettiamo un taxi che ci porti al museo del Bardo, nell’omonimo quartiere periferico. Dopo più di mezz’ora di vana attesa, si ferma un’auto con due giovani donne a bordo, velate, e ci offrono un passaggio. Sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle. La ragazza è una studentessa universitaria di Scienze tecnologiche. L’apparente contrasto è forte: abiti islamici, radio sintonizzata su sure del Corano, e l’aria di due donne indipendenti, aperte al prossimo e molto cordiali, a dimostrazione che esistono tanti e variegati modi di vivere l’islam. Ci lasciano davanti al museo, quasi stupite che vogliamo visitarlo. Le guardie all’ingresso perquisiscono le borse, e blocchi di cemento impediscono l’accesso ad auto e moto. Sono le misure di sicurezza adottate dopo l’attentato terroristico del 18 marzo del 2015, che costò la vita a 25 persone, straniere e locali. Quel giorno i terroristi ebbero facile accesso, sembra. Ora ci sono controlli, ma non ci sono più turisti. In piena estate siamo in tre in tutto il museo. Una tragedia sia per il Bardo sia per lo stato tunisino.

Al-Mat?af al-wa?an? bi-l-B?rd? è l’ampio, modernissimo, organizzato e famoso museo archeologico, situato nella residenza (secolo XIX) del bey (re), che raccoglie reperti di età preistorica, punica, romana, cristiana e arabo-islamica. Si possono ammirare opere come «Ulisse e le Sirene», «Il poeta Virgilio con le muse Calliope e Polimnia», «Il Trionfo di Nettuno» e altre meraviglie. Le sale di arte arabo-islamica sono altrettanto affascinanti.

Prima dell’attentato, i turisti erano almeno 500 al giorno, secondo quanto ci hanno raccontato gli operatori del museo. Dal 2015 in poi, se va bene, ne arrivano 10. Fuori dal complesso, i venditori di souvenir, disperati, svendono per pochi spiccioli le loro mercanzie. Nell’ingresso, una lapide accoglie i visitatori con i nomi delle vittime. Il piano terra è dedicato all’archeologia preislamica: cartaginese, pagano-berbera, ebraica e cristiana. Dal primo piano si accede alle belle sale dell’ex residenza del bey e poi all’ala che ne ospitava il fratello e l’harem.

Ala’ Eddine Hamdi, giovane guida del Bardo e studente di lingua e letteratura russa, ci accompagna nelle sale dove avevano cercato riparo, invano, un gruppo di turisti inseguiti dai terroristi. Quel luogo è carico di contrasti, tra la magnifica estetica degli intarsi, degli azulejos e delle ambientazioni, e la morte di cui sono stati palcoscenico. Ne rimaniamo profondamente colpiti: alcune colonne e pareti portano ancora i segni dei fori, degli sfregi e dei vetri rotti provocati dai proiettili. Due «islam», qui, sono a confronto: quello portatore di civiltà, arte, cultura, scienza, e quello dell’estremismo politico-religioso-ideologico seminatore di morte. Ma questo paradosso è retaggio di tutte le religioni, purtroppo.

Ala’ Eddine ci dice che la presenza del Daesh in Tunisia è iniziata con Ennahda al potere, nel 2011. «Non intendo dire che siano loro i terroristi, ma che hanno fatto entrare predicatori, reclutatori di combattenti, e hanno permesso a molte ragazze di diventare delle prostitute dei jihadisti. Migliaia di giovani si sono uniti al Daesh per andare ad addestrarsi in Libia e poi a combattere in Siria, passando dalla Turchia. C’era una rete ben organizzata, quella della Fratellanza musulmana, che ha funzionato come “distributore di terroristi”. Da qui sono partiti 3.000 combattenti, dai 18 ai 30 anni». Dichiarazioni forti, che noi non possiamo verificare, ma che fanno parte di una diffusa vulgata.

Per questo e altri giovani, la rivoluzione tunisina è stata un disastro, in quanto ha eliminato un tiranno corrotto per sostituirlo con tanti altri. È uno dei tanti delusi che ha perso la speranza di vedere cambiamenti politico-sociali del paese, e come altri, è un forte oppositore dei gruppi islamisti, che vengono percepiti, nella secolare Tunisia, come portatori di arretratezza sociale, in particolare verso le donne.

Piazza del 14 gennaio 2011, a Tunisi. (© Arne Hoel)

Attentati e terrorismo

Dalla rivoluzione del 2011, la Tunisia è stata oggetto di attentati da parte del Daesh: oltre al già citato attacco al Bardo, ricordiamo quello dentro a un resort turistico a Marsa al-Qantawi, nei pressi di Sousse, il 26 giugno del 2015, e rivendicato sempre dal Daesh, nel quale 39 persone vennero uccise a colpi di kalashnikov e altre 39 ferite; quello del 24 novembre 2015, contro un autobus con a bordo guardie presidenziali, che percorreva una strada di Tunisi, sempre rivendicato dal Daesh. A seguito di quella strage, il governo tunisino impose un severo controllo sulle moschee, chiudendo quelle che non risultavano rispettare una normativa che impone agli imam di essere autorizzati dal ministero per il Culto. L’11 maggio 2016, alcuni sospetti terroristi furono uccisi e altri arrestati durante scontri armati con le forze di sicurezza tunisine nel distretto di Mnihla, nella grande Tunisi. Quattro guardie nazionali furono uccise in un attacco suicida durante un’operazione di sicurezza a Tataouine, nel Sud del paese. Infine, quella nota come la «Battaglia di Ben Guerdane», al confine con la Libia, il 7 marzo 2016: forze del Daesh tentarono di mettere sotto assedio la cittadina tunisina, ma furono respinti dai militari. Gli scontri proseguirono anche nei giorni successivi. L’attacco jihadista causò la morte di 52 persone, tra cui 35 aggressori che erano entrati dalla Libia, quattro dei quali erano cittadini tunisini.

La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da «al-Qa’ida nel Maghreb Islamico» (Aqmi) e da estremisti libici collegati allo Stato islamico (Daesh).

La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile e densa di conflitti, e con una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici.

Le forze di sicurezza tunisine sono state ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.

Va ricordato che i tunisini costituiscono il gruppo più numeroso del multietnico e globalizzato Daesh: dalla Tunisia, negli ultimi anni, si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico migliaia di giovani. Secondo dati ufficiali rilasciati dal governo tunisino nel 2013, circa 3.000 giovani si sono uniti ai gruppi takfiri dello Stato islamico, mentre i rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni parlano di 5.000 – 7.000 combattenti.

Inoltre, è balzata tristemente alle cronache la vicenda del Jihad al-Nikah, il «jihad sessuale» chiesto dal Daesh alle giovani donne arabe. Dalla Tunisia ne sono partite diverse decine, destinate alla prostituzione tra i combattenti in Siria. A sostenere l’esistenza di questa tratta ci sono anche le dichiarazioni di politici tunisini, tra cui il ministro dell’Interno Lofti Bin Jeddo.

Il ritorno dei jihadisti tunisini

A settembre 2017, secondo quanto riportato da vari giornali arabi, il governo di Tunisi ha avviato un piano di deradicalizzazione delle diverse migliaia di «jihadisti di ritorno», cioè giovani tunisini che hanno combattuto a fianco di formazioni del Daesh in Libia, Siria, Iraq e in altri paesi. Si tratterebbe di un progetto che prevede la «riabilitazione» dei foreign fighters, o combattenti stranieri. In Tunisia, come in Marocco, la gente non vuole che questi soggetti radicalizzati ritornino a casa, poiché sono un pericolo, una fonte di destabilizzazione e di potenziale terrorismo. Infatti, in occasione degli attacchi sopracitati sono state organizzate diverse marce di protesta. La Tunisia, diversamente dalla Libia postregime di Gheddafi, e dall’Egitto (con una storia notevole di islamismo politico, dal quietista al violento, e formazioni attualmente molto attive nel Sinai), non permette lo sviluppo interno del jihadismo. Dunque, chi si sente attratto da questa visione politica violenta sceglie di andare a combattere fuori dal paese. Ecco perché i jihadisti tunisini del Daesh sono il gruppo nazionale più numeroso, seguito da libici e algerini.

Come abbiamo spiegato su questa rivista in precedenti articoli , a spingere verso la radicalizzazione è, in genere, un insieme di cause. Nel contesto tunisino agiscono l’emarginazione sociale, politica ed economica, la mancanza di prospettive; la delusione provocata in certi strati sociali dalla decisione di Ennahda di limitare i propri riferimenti all’ambito politico: questo ha portato alcuni a rifugiarsi in altre realtà dell’islamismo ideologico per trovare punti di riferimento e motivazioni. Inoltre, non va dimenticato che molti islamici radicali tunisini arrivano dalle aree di confine con Algeria e Libia.

Angela Lano
(sesta puntata – continua)

Note

(1) ?araka Nid?? T?nus, Movimento dell’appello della Tunisia, è stato fondato nel 2012 dal premier di allora, Beji Caid Essebsi. Alle elezioni presidenziali del 2014 diede vita a una coalizione elettorale con il Partito repubblicano: l’Unione per la Tunisia. Le elezioni parlamentari del 2014 furono vinte da Nid?? T?nus (85 seggi su 217). Ennahda ne ottenne 69.

(2) Al-?iw?r al-Wa?an? al-T?nus? è composto da quattro organizzazioni della società tunisina: l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt); la Confederazione tunisina dell’industria (Utica); la Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo (Ltdh); l’Ordine nazionale degli avvocati (Onat). Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011».

La signora Bargua Mechergui, artista vasaia di Senjane. (© Arne Hoel)