Maschere e campanacci


In Barbagia, Sardegna, antichi riti rivelano il legame tra sacro e profano, e svelano i retroscena della cristianizzazione dell’isola.

Nel 594 papa Gregorio Magno scriveva a un certo Ospitone, riconosciuto «dux barbaricinorum», capo dei barbaricini (abitanti della Barbagia). Un documento importante che ci racconta come, nel cuore della Sardegna, ai tempi si praticassero ancora antichi culti legati alla natura, probabilmente di origine nuragica. Il Papa chiedeva a Ospitone di usare la sua «posizione» per convertire il popolo al cattolicesimo.

La Barbagia prima di essere un luogo fisico è una forma mentis. Per questo i suoi confini geografici sono discutibili, tanto che al di fuori del territorio comunemente riconosciuto come barbaricino ci sono paesi che si considerano legati ai suoi usi e costumi.

La Barbagia occupa un vasto territorio che si estende sui versanti del Gennargentu, un massiccio montuoso che sorge proprio al centro dell’isola. Il nome Barbagia, derivante dalla stessa radice di «barbaro», è legato al fatto che in questi luoghi si rifugiarono i sardi che resistettero alle conquiste dei cartaginesi e dei romani.

Un paesaggio vario: dalle rocce di granito ai pascoli montani sino al mare, la Barbagia si divide a sua volta in diverse Barbagie, ciascuna con usanze proprie che la caratterizzano.

Il dux barbaricino Ospitone accettò dunque di operare la conversione al cristianesimo del suo popolo, ma in una modalità rispettosa degli usi e costumi già esistenti purché non fossero in contrasto con il messaggio cristiano.

I missionari seguivano al riguardo una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva dato già agli evangelizzatori dell’Inghilterra, ovvero quella di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiani, conciliando così la nuova fede con le vecchie tradizioni religiose, cui gli abitanti della Barbagia erano ancora legati. Si ebbe così un incontro tra  vecchio e nuovo, un’integrazione tra cristianesimo e paganesimo, che tutt’ora si rivela agli occhi di chi capita in questi luoghi nel periodo che va da gennaio a febbraio. Nei secoli, infatti, benché il processo di evangelizzazione abbia portato la Sardegna a diventare cattolica, non si sono spenti riti e credenze tradizionali.

I fuochi di Sant’Antonio

Tre giri intorno al fuoco, il santo portato in processione, i chierichetti, le donne devote che reggono le candele votive e il sacerdote ad aprire la fila.

La processione avanza lenta e solenne dalla piccola chiesa dedicata a Sant’Antonio, fino al grande fuoco che arde nel mezzo della piazza di Ottana, che la separa dalla cattedrale di San Nicola, maestosa e bellissima. È un momento di festa per tutto il paese, ma fino a quando il prete non raggiunge il fuoco per la benedizione, il silenzio e il rispetto per il rito sacro che si sta celebrando non viene interrotto.

I fedeli seguono attentamente questo rituale: l’acqua santa che lambisce il grande falò, un fuoco alto e potente, il cui calore colpisce i volti e, se non si presta attenzione, può diventare pericoloso, e colora di un arancio-rossastro le figure che gli si muovono attorno.

Dalle finestre delle case, grandi e piccini si affacciano per godersi lo spettacolo ancestrale. La processione torna verso la chiesa di Sant’Antonio dove il santo verrà deposto. La funzione terminerà con il dono a tutti i fedeli del pane votivo preparato dalle donne del paese nei giorni precedenti e benedetto dal prete.Già si sentono in lontananza i campanacci delle maschere. In Barbagia, infatti, con i fuochi di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) inizia ufficialmente il carnevale barbaricino.

Il rito del falò è legato al «Santo del fuoco» perché, secondo la leggenda, questi sarebbe sceso negli inferi per rubare un tizzone ardente con il quale diffondere il fuoco per riscaldare la Terra.

In questa occasione, in tutta la Sardegna, fanno la prima uscita le maschere del carnevale che ballano fra i grandi fuochi accesi nei rioni o sui sagrati delle chiese, bevendo un bicchiere di vino e assaggiando dolci tipici preparati in onore del santo.

Le maschere di Ottana

Ogni paese ha la propria maschera e qui a Ottana ci sono i boes (bue) e merdules (padrone): incarnazioni dell’eterna lotta fra istinto e ragione, fra essere umano e animale, il bue viene inseguito, frustato e catturato dal merdule. I boes indossano sul volto una maschera chiamata in sardo «caratza» che ha le fattezze di un bue, mentre i merdules indossano pelli di pecora e campanacci che possono arrivare a pesare sino a 30 o 40 kg e maschere dalle fattezze umane.

Durante la sfilata, i merdules – propriamente i guardiani dei buoi – cercano di comandare e ammansire i boes.

Un’altra figura segue queste maschere: è «sa filonzana», un personaggio femminile, seppur interpretato da un uomo perché  le donne non si mascherano. È un’anziana zoppa e gobba, indossa un fazzoletto nero sul capo e una maschera di legno di pero selvatico, albero considerato sacro.

Intenta a filare la lana come le tre Parche della mitologia greca, coloro che tessevano il filo della vita di ogni persona.

Sa filonzana rappresenta una figura che se non rispettata e temuta per evitare sventura. In un mondo legato al capriccio delle stagioni e a forze naturali, la benevolenza delle divinità gioca un ruolo fondamentale.

La donna regge tra le mani un fuso e, attorno a esso, un filo che continua a girare e a filare e una forbice, con la quale mima il gesto del taglio.

Essa chiude la processione, restando dietro ai boes e ai merdules. Quando taglia il filo, i boes cadono a terra rialzandosi dopo pochi minuti, a simboleggiare il ciclo della vita.

Mamoiada

Se a Ottana troviamo buoi e guardiani, spostandoci a Mamoiada osserviamo intorno ai fuochi in onore di Sant’Antonio, delle maschere molto diverse: quelle dei mamuthones, forse le più note della Sardegna.

I fuochi, qui, sono sparsi per tutto il paese. Ogni rione ha il proprio e i mamuthones, insieme agli issohadores, dovranno raggiungerli tutti per danzare intorno a essi.

Le origini di queste maschere e del rito a esse connesso si mescolano alla leggenda. Secondo l’archeologo dell’Accademia delle belle arti di Sassari, Marcello Madau, i mamuthones sfilavano già dal XIX secolo. Secondo altri studiosi, però, l’origine di queste maschere risalirebbe all’epoca nuragica (prima del 238 a.C.), quando rappresentavano un rito propiziatorio per favorire il raccolto nei campi, e di protezione e venerazione della natura.

Potrebbe però esserci addirittura un’origine legata ai riti dionisiaci per l’avvicendarsi delle stagioni, o una processione arcaica in onore di un dio dalle sembianze di un bue.

Altri ancora invece ipotizzano che possano rappresentare la vittoria dei pastori sardi sugli invasori saraceni fatti prigionieri e condotti in corteo per le strade.

In ogni caso, per un mondo dedito alla pastorizia e attento ai ritmi naturali, celebrare la nuova stagione con danze e riti propiziatori è qualcosa che ha a che fare con la vita e la sopravvivenza. Si danza, si prega, si canta, si accendono fuochi perché, dopo i mesi di gelo, i campi possano tornare a nuova vita.

Maschere parlanti

Se le maschere hanno origini antiche, bisogna pure che qualcuno si occupi di continuare a realizzarle per portarne avanti la tradizione.

Incontriamo Gian Paolo Marras che con il suo laboratorio «Animas de Sardinia» mescola tradizione e innovazione.

Mentre lavora con mani sapienti il legno di pero che formerà le maschere dei boes e dei merdules, racconta di come – imparando il mestiere dal padre – abbia presto capito che tutto ciò che serve sta nelle mani.

Le proporzioni fra naso, occhi e bocca, infatti, si misurano così, utilizzando il palmo.

Gian Paolo, oltre a essere un artigiano esperto, è un innovatore: ha escogitato un sistema con Qr code che, riportato sul cartellino di ogni maschera, contiene la narrazione vocale del significato della maschera stessa e dell’antico rituale del carnevale: «È necessario che le persone, acquistando una maschera, ne comprendano il valore profondo, la ritualità a essa collegata. Non si tratta solo di oggetti belli da possedere ma di veri e propri simboli di ciò che per noi sardi è la nostra cultura, da sempre legata, connessa e attenta alla natura».

Campanacci d’artista

Restiamo in Barbagia, ma arriviamo a Tonara (Nuoro), uno dei borghi più alti dell’isola, a Sud Ovest del parco del Gennargentu. Qui incontriamo Ignazio Floris e i suoi due figli, Marco e Salvatore.  La loro azienda produce i meravigliosi campanacci che adornano le maschere. Pur essendo a gestione familiare, oggi si avvale di un apprendista che, diversamente dalla tradizione, non fa parte della famiglia, Luca.

Qui si fanno campane dalla mattina alla sera. I Floris, infatti, sono iscritti alla camera di commercio come «forgiatori di campane».

Marco ci spiega che, in Italia, sono forse gli ultimi a dedicarsi interamente a questa arte. In molte altre fucine, infatti, vengono realizzate non solo campane, ma anche altri oggetti.

Nella forgia di Ignazio Floris, il fuoco è dedicato esclusivamente ai campanacci, in sardo tonarese «sonaggios»: ce n’è di tutte le dimensioni e ciò che conta, ciò che davvero è impressionante, è che ognuno di essi è unico. Ignazio ci racconta di aver imparato il mestiere dal padre e che per diventare forgiatori di campane è necessario soprattutto un buon orecchio.

Sì, perché se per realizzare le maschere «si ha tutto nelle mani», come dice Gian Paolo Marras, forgiare i campanacci dipende dalla capacità di ascolto.

Ogni campanaccio ha un suo suono, e deve essere così perché il pastore, grazie a quel suono unico e particolare, potrà riconoscere i propri animali al pascolo e rintracciarli in caso di difficoltà, pericolo, o più semplicemente per comprendere dove il gregge si stia muovendo.

I campanacci Floris hanno segnato la vita di generazioni e generazioni di pastori sardi: a fine Ottocento la bottega era già attiva. Campanacci indossati dalle pecore e, durante i giorni del carnevale, prestati alle maschere.

Se oggi è possibile acquistarne per adornare la propria maschera, in passato i pastori si limitavano a «spogliare» dei campanacci i propri animali e indossarli per celebrare Sant’Antonio e i riti connessi.

Dall’animale all’uomo e viceversa: in Sardegna il rapporto con la natura è davvero trascendente in ogni sua espressione.

Pane e «prioresse»

Durante i giorni dedicati al santo, è tradizione che nessuno resti digiuno. Nei giorni precedenti, le famiglie si prodigano nella preparazione di pane e dolci tipici che verranno poi offerti a tutti coloro i quali prenderanno parte ai festeggiamenti. Il pane che viene preparato è portato in chiesa proprio il 16 gennaio e qui viene benedetto dal prete. Alla fine della celebrazione, il pane verrà distribuito non solo fra coloro i quali hanno partecipato alla messa, ma a chiunque ne chieda, maschere comprese.

Si pensa che mangiarne nutra corpo e anima e possa esaudire una grazia.

Spezzare il pane insieme, dividere il pasto, condividere il poco fra molti: azioni che hanno a che fare con il cristianesimo, certo, ma anche e soprattutto con un profondo senso di umanità che qui, nel cuore della Sardegna, in Barbagia, si esprime in una grande ospitalità.

Lontano dal preconcetto che vuole la Barbagia come un luogo impenetrabile e forse anche pericoloso (basti pensare al periodo del banditismo e a tutto ciò che lo circonda storicamente), l’interno della Sardegna rapisce il cuore con un’ospitalità rara e preziosa, come quella della signora Maria Antonia, da oltre trent’anni «prioressa di S. Antonio Abate», insieme a Pina, Lidia e Anna.

Ogni giorno Maria Antonia e le altre prioresse, si occupano della chiesa e della cattedrale, aprendole per le celebrazioni, tenendole in ordine e prodigandosi perché il 16 gennaio tutto sia pronto per la grande festa.

Nonostante i tanti doveri, però, trovano il tempo di invitare chiunque passi dalla chiesa a bere un caffè e assaggiare un dolce, perché in Barbagia, che sia Sant’Antonio o un giorno qualunque, nessuno deve sentirsi abbandonato. Lontano dalle coste, lontano anche dal periodo estivo che vede un picco di turismo concentrato sulle meravigliose spiagge di questa isola, c’è un cuore antico vivo e pulsante, un territorio aperto e ospitale da conoscere in ogni momento dell’anno.

Valentina Tamborra

Nota. Questo reportage è stato reso possibile grazie, anche a:




Oltre il Circolo polare artico

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una storia che ha dell’incredibile. E affonda le sue radici in sei secoli fa.  Ma c’è qualcuno che la tiene viva, in un remoto e sconosciuto angolo del mondo. Una vicenda che crea legami tra due popoli. E pochi lo sanno.

Il 25 aprile del 1431 Pietro Querini, un nobiluomo veneziano, mercante ed esploratore, salpò da Candia (l’odierna Creta) alla volta delle Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, cotone, spezie e altre merci.

Non poteva immaginare che si sarebbe ritrovato sulle coste delle allora sconosciute isole Lofoten, precisamente sull’isola disabitata di Sandøy, vicino a Røst. Furono i venti e i mari a decidere la sorte del capitano e del suo equipaggio. Questa è la storia di un naufragio che da sventura diventò opportunità, che da tragedia si trasformò in un secolare rapporto di amicizia: ancora oggi infatti, l’isola nella quale Querini e i superstiti del suo equipaggio furono accolti e ospitati, serba intatto il ricordo di quell’avvenimento.

Di 68 uomini della «Cocca Querina», solo 11 si salvarono, toccando terra il 14 gennaio del 1432: decimati dal naufragio, dalle condizioni terribili del mare, dalla notte polare e dal freddo artico, affamati e ridotti allo stremo delle forze, vennero salvati da alcuni pescatori dell’isola di Røst, che li ospitarono per circa quattro mesi nelle loro case. Quando il capitano Querini e i suoi uomini ripartirono, portarono con sé, insieme al ricordo della bontà d’animo e della semplicità di vita dei pescatori, un carico di quello che era il bene primario per l’isola: lo stoccafisso.

Fu così che un pesce dell’artico, che appartiene alle gelide acque del Nord, arrivò in Italia, precisamente a Venezia, diventando la prelibatezza che tutti conosciamo.

Il racconto di questa vicenda è oggi custodito in due luoghi affascinanti e carichi anch’essi di storia: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Marciana di Venezia. Il capitano Querini, infatti, scrisse di proprio pugno un diario che oggi è custodito in Vaticano, mentre alla Marciana viene conservata la deposizione di due marinai: Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.

Ma oltre ai due manoscritti, cosa resta oggi di questo incontro?

Røst, l’ultima

Røst è un’isola piatta. A spezzare la linea dell’orizzonte solo un picco che ricorda il cappello di un mago, la montagna di Stavøya.

L’ultima isola delle Lofoten, non raggiunta, o quasi, dal turismo, è dedita interamente alla pesca e essiccazione del merluzzo che viene spedito principalmente in Italia, Spagna, Portogallo e Nigeria. Sono le particolari condizioni climatiche dell’Artico, infatti, a permettere l’essiccazione perfetta di questo pesce.

Singolare è anche il nome del particolare tipo di merluzzo pescato qui: Skrei. Il termine Skrei deriva infatti da un vocabolo (å skrida) che in antica lingua vichinga significa «viaggiare, migrare, muoversi in avanti».
Lo Skrei, infatti, compie ogni anno una vera e propria migrazione dal mare di Barents verso le acque più calde della costa settentrionale norvegese al fine di riprodursi.

Già nell’epoca vichinga le qualità del merluzzo erano conosciute e apprezzate. Una volta essiccato, poteva durare mesi ed essendo altamente proteico, costituiva un importante elemento per la dieta piuttosto povera degli abitanti delle isole remote.

Ancora oggi lo stoccafisso viene prodotto usando gli stessi ingredienti e lo stesso metodo dell’epoca in cui il capitano Querini naufragò su sull’isola: tutto naturale.

Røst conta oggi circa 500 abitanti, fra questi un solo medico, un poliziotto e un prete. La comunità è completamente coinvolta nella vita di mare. Chi non è un pescatore, pur non uscendo in mare ogni giorno, si dedica in qualche modo all’industria della pesca, per lavoro o per diletto.

I bambini ad esempio, durante le vacanze scolastiche, aiutano genitori e nonni nella pulizia del pesce. In particolare, imparano a tagliare le lingue che, una volta impanate e fritte, sono considerate una vera prelibatezza.

L’Italia

La piccola isola di Røst ha una peculiarità: l’eredità del passaggio degli italiani è talmente forte, da aver ispirato ben due realtà davvero particolari.

Qui infatti ha sede il comitato più a Nord della Società Dante Alighieri: il suo presidente è  Kjell-Arne Helgebostad, l’unico medico dell’isola. Kjell-Arne parla perfettamente italiano ed è ben lieto di fare da guida a chiunque desideri approfondire la storia di questa dimenticata porzione di mondo.

Il medico ha fondato anche una piccola biblioteca dove è possibile trovare libri in italiano e norvegese dedicati alla storia dell’isola e di Pietro Querini.

C’è poi una donna, un’artista eclettica e sognatrice: Hildegunn Pettersen. Cantante lirica originaria dell’isola, padre pescatore, vive oggi a Oslo dove canta e insegna musica.

È lei ad aver dato vita a un’opera lirica interamente dedicata alla vicenda del Querini. Ogni anno in agosto, viene organizzato il Querini Festival, durante il quale l’opera viene rappresentata sull’isola di Røst e coinvolge buona parte della comunità. Dalle altre isole, in molti raggiungono Røst per assistere alla rappresentazione.

Sul palcoscenico insieme a Hildegunn si possono trovare pescatori e produttori, esportatori di pesce, insegnanti della scuola, il medico e chiunque, sull’isola, voglia far parte della tradizione e della memoria.

I ragazzi della scuola hanno aiutato a costruire le scenografie, e sul palcoscenico campeggia un leone di Venezia in polistirolo dipinto d’oro che è in tutto e per tutto «uguale» all’originale.

Parte dell’opera Querini è cantata in italiano. Il sogno di Hildegunn è portare lo spettacolo a Venezia, magari proprio accanto al mercato ittico di Rialto, sotto il quale si celano le rovine di quella che fu «Casa Querina».

Un ristorante e una stele

Per ricordare il naufragio, sull’isola di Sandøya, nel punto più alto, si erge la stele dedicata a Pietro Querini. Furono gli abitanti di Røst a porla qui nel 1932 in ricordo dell’evento che sancì l’antica amicizia.

Sono passati quasi 600 anni da quando un pescatore dell’isola e i suoi due figli si imbatterono in quel gruppo di sopravvissuti

che non appartenevano al loro mondo: «Dopo che a parole e a gesti gli facemmo comprendere che eravamo naufraghi bisognosi di aiuto, cominciarono a parlare, ci dissero il nome dell’isola e tante altre cose di cui non capimmo nulla», scriveva Pietro Querini nel suo diario, e ancora oggi quell’antica ospitalità viene tenuta in vita.

Oltra alla stele di Sandøya sull’isola di Røst esiste un piccolo ristorante che è anche il punto di ritrovo della comunità: è il Querini Pub.

Gestito da Anna Cecilie, propone ricette locali e rivisitazioni del piatto più importante di queste parti: lo stoccafisso.

Svolvaer, Henningsvaer e «le altre»

La tradizione della pesca al merluzzo però, non fa parte solo del retaggio culturale della piccola isola di Røst.

Anche isole come Svolvaer, Henningsvaer, Leknes, seppure più conosciute come meta turistiche, hanno una fortissima storia legata al merluzzo.

L’economia di tutto l’arcipelago è strettamente legata alla pesca e ci sono luoghi come Ballstad, non lontano da Leknes, che sono essenzialmente villaggi di pescatori.

Le tipiche casette rosse costruite a ridosso della costa, chiamate rorbuer, sono nate come abitazioni dei pescatori norvegesi. Tradizionalmente spartane, ospitavano gli uomini che ormeggiavano la propria barca lungo i porti delle Lofoten. Oggi molti rorbuer accolgono turisti e sono diventate luoghi esclusivi, dai quali è possibile ammirare non solo la bellezza della natura, che pure in questi luoghi domina, ma anche l’andirivieni dei pescatori che ogni mattina, dalle quattro e mezza in avanti, salpano dal porto verso il mare aperto.

La vita e i ritmi della natura

Hemingway nel suo «Il vecchio e il mare» scriveva: «Chiunque sa fare il pescatore di maggio». E viene proprio da pensarlo qui, oltre il Circolo Polare Artico, dove la natura domina ed è l’uomo a doversi adattare a lei e non viceversa. Se è pur vero che i moderni sistemi di navigazione hanno ridotto di molto i rischi, è altrettanto vero che i mari del Nord sono particolarmente difficili da navigare. Capita talvolta, specialmente tra gennaio e aprile, i mesi durante i quali lentamente la luce fa capolino dopo la «blue season» (una stagione dell’anno dove la luce del sole è solo un tenue bagliore blu all’orizzonte), che in una giornata si arrivi a vivere quattro stagioni: il vento infatti, può cambiare nel giro di pochi secondi e un cielo azzurro e terso può trasformarsi in un «muro» di neve  che rende impossibile definire l’orizzonte. Se è vero che il gps aiuta a trovare la rotta, è anche vero che bisogna conoscere a menadito «le strade del mare», i fondali bassi, le rocce che con gli strani giochi di luce e le maree scompaiono alla vista e rischiano di far incagliare le barche.

Si esce in mare ogni giorno da queste parti, con qualsiasi condizione climatica: quello della pesca resta un mestiere pericoloso, e lo sa bene Håvard, un giovane pescatore la cui barca porta il nome del nonno, Åge Steinar.

Quando lo incontro, mi racconta dell’incidente di pesca che fu fatale per il nonno, esperto pescatore, nonché suo maestro.

La barca carica di pesce stava rientrando in porto quando all’improvviso una forte tempesta rese difficile la navigazione. La barca affondò portando con sé l’uomo. A nulla valsero gli sforzi di altri pescatori accorsi sul luogo della tragedia: solo Håvard riuscì a salvarsi. Eppure, nonostante tutto, come dicono da queste parti, nessuno vorrebbe cambiare mestiere perché: «Puoi togliere una barca al suo uomo, ma non un uomo dalla sua barca».

Storie di donne

Arrivando sul porto di Svolvaer, è facile scorgere, proprio poco distante dalla battigia, posta a picco su alcuni scogli, una statua dalla figura esile: è la moglie del pescatore. Una mano alzata a schermare gli occhi dalla luce Artica, scruta il mare in attesa del ritorno del suo uomo. È la rappresentazione tipica delle mogli dei pescatori. Donne che attendono e sembrano poco coinvolte nella vita di mare. Ma non è per nulla questo il ruolo di donne, come Lone e Line.

La prima, una trentenne con un tatuaggio sulla schiena che rappresenta tre stoccafissi e quello di un’ancora sul braccio destro, è una pescatrice. Fuggita dai ritmi della città, si è rifugiata a Røst dove oggi vive di pesca.

Lone ha dovuto farsi strada in un mondo ancora oggi prettamente maschile: inizialmente guardata con stupore, oggi è a tutti gli effetti «un lupo di mare». Nel tempo libero ama suonare il pianoforte e colleziona strumenti antichi, come un arpicordo che tiene appeso in salotto.

Line invece è una vraker, ovvero una selezionatrice. Figlia di pescatori, ha imparato il mestiere da un vero e proprio maestro: Ansgar Pedersen, dell’azienda Glea. Ogni giorno Line annusa migliaia di stoccafissi per stabilirne la qualità e il mercato di destinazione. Ha provato per un periodo a trasferirsi in città, abbandonando l’isola, ma non faceva per lei. Ha deciso di restare quindi a Røst dove oggi è sposata e ha due bimbi.

Line racconta che, fino a una ventina di anni fa, addirittura si diceva che «le donne in barca portassero sfortuna». Oggi invece il ruolo femminile all’interno del mercato della pesca è pienamente accettato.

Dove lavorare

Eppure non solo i norvegesi sono esperti pescatori: ogni anno infatti, durante la stagione della pesca al merluzzo da gennaio ad aprile,  sono in molti a raggiungere le Lofoten da zone come la Lituania, in cerca di lavoro.

È il caso di Arturas che, nella sua terra natale, era fotografo e cameraman. Dopo la crisi economica che ha colpito il suo paese ha dovuto reinventarsi. Oggi da gennaio a maggio si sposta alle isole Lofoten dove ogni giorno prende il mare con il suo capitano, Odd Helge Isaksen, a caccia dei migliori skrei.

Tra leggenda, superstizione e tradizione

Ogni uomo di mare, si sa, ha una storia da raccontare. Un’avventura particolare, una tempesta cui è scampato fortunosamente o una pesca particolarmente disastrosa.

Ma c’è sempre una «storia» a cui ogni pescatore è particolarmente affezionato. E ad essa, un po’ per superstizione, un po’ per tradizione, si collegano alcuni piccoli riti di buon auspicio. È il caso ad esempio, del saluto alla montagna di Vågakallen, un picco che domina il porto di Svolvær.

Nelle prime ore del giorno, quando il buio ancora avvolge il villaggio, i pescatori preparano le barche e prendono il mare. Prima di partire, però, fanno un inchino e un saluto a questa montagna: che li protegga, che li accolga nuovamente nel porto sicuro, carichi di pesce, al ritorno.
Durante la stagione della pesca non è difficile imbattersi in quello che è forse uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo: l’aurora boreale.

In Norvegia queste scie colorate che accendono la notte artica, vengono chiamate Nordurljos: «Luci del Nord».

La leggenda narra che, ogni qualvolta il cielo si accende di questi colori brillanti, da qualche parte le Valchirie sono in battaglia: secondo il mito, i bagliori in cielo, dal verde al rosso al rosa, non sono altro che il riflesso del sole sulle armature delle guerriere.

Valentina Tamborra

Questo lavoro è diventato una mostra fotografica e un libro: «Skrei. Il viaggio», Valentina Tamborra, Silvana Editoriale, 2020.




Corea del Sud: L’ospite d’onore


Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.

Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.

Geoffrey con la signora Angela degli Amici dei Missionari della Consolata, vestita con l’hambok, l’abito tradizionale.

Ospite o straniero?

Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:

  1. a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
  2. b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.

Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».

E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.

L’ospite, il nuovo arrivato

«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.

Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.

Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».

I pomodorini sulla torta

«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».

Da qui in avanti le foto raccontano della festa della Consolata celebrata il 20 giugno 2017 nella comunità di Yeokgokdong.

Con le lacrime agli occhi

«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».

Il rito del Soju

«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».

Shiksa

«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.

Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.

Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».

 Gian Paolo Lamberto




Myanmar storia millenaria porti e caserme


Enormi complessi militari. Vaste zone disboscate per le piantagioni di caucciù. Pagode disseminate ovunque e molto frequentate. Turisti e lavoratori stranieri in cerca di spiritualità, storia e opportunità economiche. Il Myanmar si ricollega al mondo anche attraverso mega progetti di sviluppo (poco sostenibile). Mentre la gente locale si ingegna per uscire dalla miseria. Terza e ultima tappa del viaggio di Claudia in Birmania.

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Moulmein, Mon State. In due ore di navigazione sul fiume, da Hpa An raggiungo l’antica Moulmein, prima capitale della colonia britannica. Mi fermerò alcuni giorni, la città è piacevole, ricca di pagode e moschee. Qui la foce del fiume si confonde col mare, che rimane nascosto da un’isola molto grande, visitabile solo con una guida. Nei numerosi villaggi si mantengono vive attività di artigianato molto antico.

Il padrone della guest house di Moulmein, una volta lavorava in miniera, come geologo. Quando ha perso il lavoro è entrato in depressione, come i suoi colleghi che ho incontrato a Loikaw. Si è quindi rivolto alla pratica buddhista della meditazione, e, nel momento in cui ha ristrutturato la bella casa di famiglia sul lungomare, costruita da un commerciante inglese nei primi anni dello scorso secolo, ha creato al primo piano una piccola cappella.

A pochi chilometri dalla città, vi è un centro di meditazione che attira gente da tutto il mondo. Dedico una mezza giornata alla visita di questo complesso di padiglioni, sale con colonnati, ville per gli ospiti. Tutto è immerso in un grande parco. La strada per arrivarci costeggia grandi complessi dell’esercito, delimitati da mura e immersi nel verde. Caserme, scuole speciali, ospedale militare.

Sul viale alberato che conduce alla sala di meditazione femminile, incontro Vivien, califoiana, che mi dà i primi ragguagli: «Qui bisogna restare almeno dieci giorni. La vita è dura, sveglia alle 4,30, colazione alle sei, pranzo alle 10,30, poi nulla fino al mattino successivo. Sei sessioni di meditazione al giorno, si dorme e si mangia gratis, il luogo è finanziato dalle donazioni. Immagino siano cospicue, vista la cura con cui è mantenuto l’elegante complesso».

Ritoo in città e passo in cattedrale per salutare il vescovo Raymond Ray Po, che avevo conosciuto 20 anni fa. Anche lui ha i capelli grigi come me, ma il sorriso sul suo largo viso di Karen è sempre dolcissimo. Giustamente è stato coinvolto nelle trattative di pace con le tribù ribelli, che hanno portato al cessate il fuoco.

La cittadina di Ye

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti, anche il vescovo, mi avevano detto di evitare la cittadina di Ye, troppo calda e poco interessante. Però io devo sostarvi per interrompere il lungo viaggio verso Dawei (conosciuta anche come Tavoy). Lascio Moulmein attraverso un territorio completamente disboscato per fare spazio a vaste piantagioni di alberi di caucciù. Certo deve essere un privilegio appartenere alla casta che comanda e possiede queste proprietà, nonostante pare siano in crisi per il crollo dei prezzi.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Al mio arrivo scopro che Ye è una città vivace, con un bel lago, tante pagode dorate e alberi maestosi. Trovo alloggio da David, un americano della Florida, arrivato due anni fa dalla Thailandia dove viveva con Winnie, originaria di questa provincia, e la figlia di sei anni, Emma. Non desidera ritornare in patria. Ha comprato una casa con vista sul lago e la sta trasformando in guest house. Mi trovo bene, con la bambina che gioca e la moglie che cuce a macchina davanti alla mia stanza. Arrivano altri ospiti: Laura è una giovane americana che sta viaggiando da mesi in Oriente alla ricerca di luoghi di meditazione. Due settimane fa il padre l’ha raggiunta a Bangkok da una cittadina dello stato di Washington. Si fermeranno solo un giorno perché l’anziano padre ha problemi di salute ed è costretto a ritornare a Bangkok.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Mentre David taglia piastrelle per finire il bagno, scendo in paese e trovo piacevole anche il tessuto urbano, fatto di case di legno curate, botteghe, pagode e monasteri. Verso sera mi fermo sul marciapiede davanti al monastero delle monache dove una donna scodella mohinga (la zuppa tradizionale a base di pesce, cipolle e legumi) in ciotole e sacchetti per una fila di clienti che la porteranno a casa. Mi siedo al tavolo con altre dame e comunichiamo a gesti. Quando mi alzo per pagare, scopro che la mia vicina lo ha già fatto per me ed è sparita.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Hpa An e Ye sono due nomi insoliti di due città che ricorderò legate a momenti magici, con gente laboriosa e ospitale.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti sono al lavoro, nei cantieri stradali, nei campi, nelle piantagioni, e vedo un certo benessere, dovuto a queste attività.

La sera David insegna inglese ai giovani che ne hanno bisogno. Ha a disposizione un’aula del liceo, dove sono presenti anche due insegnanti locali, desiderosi di collaborare. Coinvolgono anche me, Laura e il padre, professore di inglese in un college. Siamo felici perché sentiamo interesse da parte di questa gente, da tanti anni chiusa al mondo.

I bambini ci stanno a guardare dalle porte aperte sulla via e alla fine della lezione ci travolgono con il loro entusiasmo.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Fisheries

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Stamattina, andando in stazione, ho incontrato Soe Soe, un farmacista molto gentile. Mi invita a casa sua, e conosco la moglie cinese e i tre ragazzi. Soe Soe ha studiato a Yangon e si è laureato nel 1988. Oggi è sabato e, non avendo impegni, mi propone di andare alle fisheries (le pescherie). Usciamo da Ye in moto e attraversiamo le risaie oramai secche, e file di palme da zucchero, con le scale di bambù che consentono agli uomini di arrampicarsi per raccogliere il succo. Ci avviciniamo alla costa dove vengono fatti seccare i gamberetti su grandi teli azzurri. Le donne li lavorano con un rastrello. I ragazzi riempiono sacchi e li caricano.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Entriamo nel villaggio dove Soe Soe è molto conosciuto perché lo rifornisce di paracetamolo. C’è un forte odore di pesce secco. In un capanno le donne fanno la prima selezione di gamberetti. Passiamo alla sala macchine dove si separa la polpa dal guscio, che viene poi tritato per fae mangime o concime. In un altro capanno buio rimbomba un suono di martelli. Le ragazze battono i filetti di pesce secco. Qui si usa far seccare anche le meduse, utili per una certa zuppa.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Quando mi vedono, le ragazze si aprono al sorriso, scompare l’aria mesta che avevano prima, ma continuano il lavoro.

Nel porto canale si sta lavorando per riparare le barche dei pescatori che trascorrono la stagione della pesca al largo, su grandi zattere di bambù, molto rudimentali. Come unico riparo, una piccola tenda. I pescatori vengono rifoiti di acqua e cibo dalle barche di appoggio.

A Dawei (© Claudia Caramanti)
A Dawei (© Claudia Caramanti)

Pasqua a Dawei

Lascio Ye la mattina di Pasqua (2015, ndr), insieme a Laura e Maury. La strada è in rifacimento. La stanno allargando, e il lavoro è intenso. Dobbiamo guadare i numerosi fiumi in secca perché i ponti in cemento devono essere ultimati. Per la prima volta vedo anche pale meccaniche al lavoro: fin’ora, per la costruzione di strade, avevo visto solo ragazzine che portano ceste di pietre.

A Dawei si dovrebbe realizzare il progetto di un porto profondo che consentirebbe alle navi container di evitare lo stretto di Malacca e Singapore. Una zona industriale sarà collegata alla Thailandia da un’autostrada, già in costruzione: Bangkok è molto vicina. La regione del Thanintharyi, in cui mi trovo, è strategica, molto ricca di risorse naturali, e la sua gente è attiva e laboriosa.

Aprile è uno dei mesi più caldi, e Dawei si prepara per il «water festival» (la festa delle acque), che tra una settimana avrà qui la sua celebrazione più festosa.

Prima di lasciare questa città giardino dalle belle case coloniali, in cui palazzi e alberghi ne stanno già cambiando l’aspetto, vorrei trovare la chiesa cattolica, e non è facile. Seguendo musica e canti, trovo il tempio indù dove è in corso una processione. Alcuni carri decorati sono trascinati da uomini che hanno uncini agganciati al dorso e alle guance. Non vedo segni di ferite, ma è impressionante. Proseguo verso la moschea, incontro musulmani biancovestiti e chiedo loro indicazioni. Loro sanno dove si trova la chiesa di Nostra Signora del Soccorso, dietro il mercato coperto, nascosta da alberi frondosi.

Padre Matthew sta preparando nel cortile la cena di Pasqua per i donatori che sostengono il convitto per 120 studenti provenienti da villaggi remoti, abitati da Karen che, anche qui, hanno sofferto le violenze dell’esercito governativo. Ho chiesto se fosse possibile trovare una bici in affitto, e una donna mi ha ceduto la sua per mezza giornata. Non ha voluto denaro, poi ho saputo che ha il marito malato in casa, lavora di giorno, e la sera apre una cucina sul marciapiede accanto alla sua abitazione. Ho cenato da lei: un piatto di noodles per pochi centesimi.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Maung Ma Kan

Impossibile costeggiare il mar delle Andamane: gli estuari dei fiumi lo impediscono. Con un moto taxi dobbiamo superare le colline per arrivare a Maung Ma Kan, il villaggio di pescatori dove trovo alloggio da Julien e sua moglie Zema, una giovane, intraprendente signora di Dawei. Julien è francese di stirpe contadina, nato in un villaggio del dipartimento della Lot. Sin da piccolo il nonno lo aveva portato a pescare nei torrenti. Il mare era lontano, allora, ma la tecnica appresa e la passione per la natura gli sono serviti quando ha deciso di trasferirsi in Thailandia.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Appena è stato possibile, la coppia ha lasciato Phuket, dove si erano conosciuti, e da otto mesi hanno aperto un piccolo ristorante con qualche capanno ombreggiato da palme e circondato da uno spazio verde vicino al mare. La lunga spiaggia grigia è bordata da una fila di casuarine (piante tipiche della zona, ndr) e tettornie di bambù per le merende delle famiglie.

Mare basso, acqua calda, riesco a fare nuotare le due bambine che vivono con Zema e Julien. Hanno perso la mamma, forse è andata in Thailandia a lavorare, non ho capito. Chiamano Zema zia, e me nonna. Pyiu Pyiu ha dieci anni, Elisa ne ha appena compiuti tre.

Il villaggio di Maung Ma Kan ha un grande mercato dove la mattina robuste dame preparano cibi squisiti per la colazione. Il settore del pesce è interessante, con grossi molluschi che fuoriescono dalle conchiglie, le nere aquile di mare, i barracuda, i pesci seccati. Tutto è esposto per terra.

Da noi arrivano alcuni giovani francesi e due ragazze di Monaco, gente simpatica con cui parlare la sera. Si fermano pochi giorni e con le moto vanno a cercare le spiagge remote, di sabbia bianca con le rocce. Vanno verso Sud e anche verso Nord dove, a dieci km da qui, dovrebbero iniziare i lavori per il porto di Dawei.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Julien dubita che sia possibile realizzare un porto profondo in questo mare sottile.

Sono arrivati i russi. La sera li vedo scaricare grosse sacche nere da un pullmino, poi cenano al tavolo sotto la pergola, separati da noi. Due di loro mi sembrano guardie del corpo, sono giganteschi, muscolari. Uno ha uno sfregio sul viso: inquietante. Gli altri due sono normali ma ben solidi, tipo Putin. Rimangono qui quattro giorni per la pesca d’altura, fatta col fucile in apnea. Julien li porta alle isole in barca e ritorna la sera sfinito, con le prede e il filmato. L’ultima sera riesco a parlare con loro: lo sfregiato non è quasi mai uscito dal bungalow. Vengono da Irkutzk, in Siberia, abitano in Cambogia, sono stanchi di Sihanouk-ville, e stanno cercando un mare ricco e un posto tranquillo.

Ingenuamente, parlando di Siberia, cito un libro di Dostoevskij che sto leggendo, non ne sanno nulla e neppure conoscono Tolstoj.

Claudia Caramanti
(terza puntata – fine)

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)