Don Tonino Bello, il vescovo degli ultimi

Memoria di don Tonino di Rocco Marra |


Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.

Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.

So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).

Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.

Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.

Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino (© AfMC / Bellesi)

Esci dalla tua terra

Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.

Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.

Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.

Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.

Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.

Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino

Come il Buon Pastore

Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.

Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.

Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.

Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.

La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.

Contemplazione e azione

Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.

Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.

E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.

Rocco Marra

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino




GUARDANDO «LA CROCE DEL SUD»


È un bisogno del cuore quello di ricordare un grande vescovo e un amico indimenticabile. Sì, don Tonino Bello, il profeta dei piccoli grandi gesti, cantore degli umili, innamorato della pace.

Don Tonino Bello, scomparso dieci anni fa è ancora presente in me: quanti ricordi e rimpianti! L’ho sempre considerato uno strumento nelle mani di Dio, per cantare e «portare ai popoli l’annuncio della salvezza», come dice un testo a lui molto caro. Non ho paura di dire che mi è stato maestro e padre, soprattutto nei momenti di discernimento del mio cammino di vita, della vocazione missionaria.

Credo avesse sempre desiderato essere missionario e lo faceva intuire in certe occasioni; come quando una volta, al visitatore della Pontificia unione del clero faceva domande proprio come uno di noi; o le sue lacrime durante la proiezione del film «Molokai»; e ancora il suo entusiasmo travolgente e partecipe nel conferire il mandato missionario a padre Vincenzo Mura (suo alunno e, poi, missionario della Consolata). Ma quanti gesti di pace e missionarietà lo hanno reso… famoso! Basti pensare ai tanti messaggi scritti per la «prima» guerra del Golfo, dove difese a spada tratta la scelta della non-violenza; il suo incarico di presidente di «Pax Christi», succedendo all’amico mons. Luigi Bettazzi; i suoi viaggi all’estero (in Australia, Argentina, Venezuela, U.S.A. per visitare i molfettesi emigrati in quelle terre; o in Etiopia, per un ritiro ai missionari; o a San Salvador, nel luogo del martirio del vescovo Romero); la marcia per la pace a Sarajevo, durante i suoi ultimi giorni, con la malattia che l’aveva già consumato.

Quando decisi di farmi missionario e averne parlato in famiglia, i miei genitori avevano invitato a pranzo don Tonino, non solo perché era nostro grande amico, ma soprattutto con la segreta speranza che mi convincesse a rimanere in diocesi. Quella volta «fallì» nel suo intento (almeno apparentemente), perché le sue parole non mi fecero cambiare idea. Vistomi agitato e piuttosto contrariato, mi confidò l’apprezzamento che aveva per i miei genitori; mi chiese soltanto di non dimenticarmi mai di loro. Il motto del suo episcopato: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3), non sono state vuote parole, ma espressione concreta del suo cuore ardente e aperto a tutti, cominciando dagli ultimi e dai poveri.

Una sera dell’autunno 1984 ero andato a salutarlo a Molfetta, perché ero in partenza per la Colombia, dove avrei studiato teologia. Lo trovai impegnato a presiedere un incontro: con l’entusiasmo di sempre, raccoglieva consigli e dava suggerimenti per incrementare una pastorale d’insieme. Rimasti finalmente soli, mi offrì una «frisa» (pane tipico della gente del Salento), con olio e sale; poi, in casa e lungo il porto di Molfetta, parlammo a lungo. Mi accennò, tra l’altro, all’idea di prendersi un appartamento, lasciando il palazzo episcopale come dimora per i più poveri e centro culturale e teologico, a servizio della nuova evangelizzazione. Fu la più lunga chiacchierata con lui della mia vita (siamo arrivati alle ore piccole) e sembrava non sentisse la stanchezza della lunga e pesante giornata. Mi regalò anche il suo libro «Sotto la Croce del sud», frutto della sua visita pastorale agli emigrati in Australia, scrivendomi la dedica: «A Rocco, chiamato a essere testimone del Risorto».

Quella sera la ricordo come la celebrazione del mio primo mandato missionario, in un’atmosfera evangelica, presso le barche ormeggiate nel porto. Nel 1993, alla fine di luglio, ormai dopo la sua dipartita, arrivato in Sudafrica, riassaporai la gioia del porto di Molfetta, vedendo la costellazione della Croce del Sud: me lo sentii vicino, mentre mi incoraggiava a non aver paura e a saper «osare» nel mio nuovo lavoro apostolico.

A don Tonino piaceva ricordare i missionari con il versetto «Beati i piedi del messaggero che annuncia la pace», cioè che annuncia Gesù, la sua pasqua, il suo progetto, il suo amore, espressi in azione nella carità quotidiana. La sua parola era sostanziosa pregna di cultura umanistica, saggezza popolare e, soprattutto, imbevuta dello stesso Cristo, sapienza del Padre. Tutti comprendevano la sua parola; i dotti l’apprezzavano, riconoscendone lo spessore culturale; gli illetterati si affezionavano a lui, perché veniva loro offerto un messaggio evangelico di liberazione, capace di incoraggiarli e spingerli ad essere protagonisti nella storia. Soltanto in Colombia, studiando la teologia della liberazione, mi sono accorto di essere già stato introdotto a quel tipo di riflessione (che è anche metodologia missionaria), proprio da don Tonino.

L’unica volta che mi sono trovato a pranzo da lui, insieme a un missionario, ci aveva mostrato la sua piccola cappella; ricordo l’inginocchiatornio di fronte al tabernacolo, e un tavolo, su cui c’era la bibbia aperta, altri libri, la sua penna e manoscritti qua e là. Mi era sembrato di vedere simbolicamente la sapienza umana attenta ad attingere dalla sapienza divina. Don Tonino spendeva ore di adorazione durante le notti, pregando e scrivendo. In lui, la contemplazione diveniva azione e il suo dialogo col Signore era prototipo di nuove relazioni nella chiesa e nella società.

Dopo la visita in cappella, ci fece vedere gli oggetti esposti su un tavolo, parlandoci delle persone di diverse razze, culture e religioni a cui appartenevano. Ogni «pezzo» ricordava qualcuno, con nome e cognome, che lui aveva incontrato nel suo girovagare in diocesi, ma anche per l’Italia e all’estero. In quei segni c’erano persone che aveva aiutato e da cui era stato aiutato. Fu un animatore, un architetto, un poeta e cantore dell’annuncio ai lontani e credo di non esagerare venerandolo come uno dei padri della nuova evangelizzazione.

La scelta dei poveri non fu, per lui, solo una pia formula, ma uno stile di vita. Per questo ebbe a soffrire e, come Gesù, anch’egli non fu capito, ma invidiato e combattuto; eppure non ebbe mai sentimenti di rancore con nessuno. Neanche quando, in televisione, cercò di esprimere un’alternativa di pace alla guerra del Golfo, in una trasmissione condotta da Santoro. In quell’occasione, venne interrotto moltissime volte da interventi in diretta, tanto che non gli fu possibile presentare la sua posizione pacifista e non violenta.

Considerando queste difficoltà, così accentuate in certi momenti, è molto probabile che, se fosse stato missionario in America Latina, o in qualche paese dell’Africa, avrebbe senz’altro pagato con la vita la sua fedeltà al vangelo e la coerenza delle sue scelte, fondate su una fede semplice e filiale. Poche ore prima della sua dipartita, chiedeva di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna (chissà se non c’era anche quello della Consolata), per essere sicuro di morire, fissando lo sguardo su uno di essi. Don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo regno di giustizia e di pace attraverso Maria, sospirando le parole di tanta gente sofferente del Salento: «Mamma mia, Madonna mia!». E fidandosi fino in fondo di quel Dio a cui aveva dedicato, con amore appassionato, tutta la sua vita.

Rocco Marra